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« inserito:: Agosto 28, 2009, 05:52:09 pm » |
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Classici
Così Gramsci disobbedì a Marx
Contro le sue indicazioni, applicò il «cesarismo» a Napoleone III, Mussolini e forse anche Stalin
È un bel regalo per i filologi l’edizione anastatica dei 29 Quaderni del carcere (e tre di traduzioni) di Antonio Gramsci. L’iniziativa è realizzata congiuntamente da «L’Unione Sarda», quotidiano che quest’anno compie 120 anni, e dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, che ha già dato avvio — coi Quaderni di traduzioni — alla finalmente critica «edizione nazionale» dell’intera opera gramsciana. L’ideale sarebbe stata l’edizione fac-simile dei Quaderni , che invece sono raggruppati, nell’edizione anastatica, in diciotto tomi, il quattordicesimo dei quali rispecchia — opportunamente — il formato grande (da registro) dei Quaderni 10, 12, 13 e 18. L’edizione fac-simile avrebbe permesso di poter studiare anche quei dettagli paleografici (colore dell’inchiostro, struttura fisica del manoscritto etc.) che sono fondamentali per qualunque analisi filologica seria.
L’edizione anastatica dei «Quaderni» gramsciani è stata realizzata dal quotidiano «L’Unione Sarda» insieme all’Enciclopedia Italiana. Il curatore è Gianni Francioni, docente dell’Università di Pavia, che si occupa dei «Quaderni» per l’Edizione nazionale delle opere di Gramsci, di cui è uscito un volume (in due tomi) con i «Quaderni di traduzioni» L’edizione anastatica dei «Quaderni» gramsciani è stata realizzata dal quotidiano «L’Unione Sarda» insieme all’Enciclopedia Italiana. Il curatore è Gianni Francioni, docente dell’Università di Pavia, che si occupa dei «Quaderni» per l’Edizione nazionale delle opere di Gramsci, di cui è uscito un volume (in due tomi) con i «Quaderni di traduzioni» Il cammino percorso, da quando Togliatti al San Carlo di Napoli (29 aprile 1944) annunciò l’esistenza dei Quaderni , è stato lungo e accidentato. In principio ci fu l’edizione cosiddetta «tematica », pilotata da Togliatti (e Giulio Einaudi) politicamente fondamentale ma filologicamente pazzesca. Poi, dopo un quarto di secolo (1975), la cosiddetta «edizione critica» di Valentino Gerratana, che per lo meno restituiva l’integrità del testo ma non comprendeva né metteva a frutto il dato primario del modo di scrivere, e quindi di comporre, cui Gramsci era costretto dalla situazione pratica in cui si trovò. Poi vennero gli studi di Gianni Francioni: L’officina gramsciana (Bibliopolis) è del 1984. Francioni mise al centro della ricerca sui Quaderni il dato fondamentale: «Il problema cruciale dei Quaderni del carcere — come egli scrive — è quello della loro cronologia». (La cosiddetta «edizione critica» suggeriva, a torto, l’idea che la successione numerica dei Quaderni da 1 a 29 fosse anche cronologica. Invece quella numerazione non è d’autore ed è almeno in parte casuale). Francioni, guardando direttamente gli autografi, mise alla base della ricostruzione la dinamica compositiva di Gramsci, determinata dalla regola carceraria di non poter disporre in cella di più di due quaderni contemporaneamente. Egli «incominciava » il medesimo quaderno in più punti diversi; e inoltre stabiliva raccordi tra di essi. E, soprattutto, aveva creato un gruppo a parte di Quaderni «speciali» in cui far confluire la rielaborazione più matura di parti — anche ampie — già scritte.
Questi Quaderni speciali sono importanti non solo perché racchiudono, sistematicamente, seconde redazioni d’autore le quali, raffrontate con le prime stesure, fanno comprendere lo sviluppo di un pensiero (e spesso si tratta di tematiche capitali), ma perché sono più vicine alla forma-libro verso cui la miriade di riflessioni avviate da Gramsci soprattutto nei «Miscellanei» doveva convogliarsi. Beninteso, anche queste per Gramsci erano stesure provvisorie, ma è evidente a noi lettori che rappresentano uno stadio avanzato. Severamente egli avverte al principio del Quaderno 11 ( Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura ), «il maggiormente elaborato e organizzato tra tutti i monografici » (così Francioni): «Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che, dopo il controllo, debbano essere radicalmente corrette proprio perché il contrario di ciò che è scritto risulta vero». (Anche nella trascrizione di questa avvertenza si nota l’utilità dell’anastatica. L’autografo rivela infatti che è scritto «risulta» e non l’insensato «risulti», come trascrisse Gerratana.
L’autografo mostra chiaramente che Gramsci scrive normalmente la «t» come una «l» tagliata donde l’illusione che sulla piccolissima lettera finale della parola ci sia un puntino!). L’anastatica è corredata da eccellenti prefazioni paleografiche e critiche, quaderno per quaderno, redatte da Francioni. Il quale, in certo senso, ci dà oggi — grazie a questa edizione — un’idea concreta del grande lavoro che sta preparando per l’edizione nazionale dei Quaderni. Ma veniamo ai vantaggi filologici dell’anastatica. Gramsci, come abbiamo visto, dice di aver scritto «a penna corrente» ( currenti calamo ) « per segnare un rapido promemoria». La sua grafia non solo è estremamente posata e regolare, ma quasi sempre priva di correzioni e ripensamenti stilistici. Poiché siamo certi che non v’è «alle spalle » di questi quaderni una «brutta copia» andata persa, è di immediata evidenza — ora che abbiamo davanti l’autografo — che Gramsci componeva direttamente in forma stilisticamente già compiuta le sue pagine. Solo l’autografo poteva consentirci questa considerazione, che è rilevante rispetto al quesito (che invero è d’obbligo di fronte ad ogni significativo autore): come componeva, e quindi come scriveva, Gramsci? Il suo costante addestramento linguistico (traduzioni dai fratelli Grimm, da Goethe, dal saggio di Finck sui ceppi linguistici, da numerosi narratori russi, esercizi di lingua inglese: tutto questo è nei Quaderni A, B, C, ma traduzioni appaiono anche in altri quaderni), l’interesse suo costante per la «questione della lingua in Italia», sono tra i fattori che aiutano a comprendere lo straordinario fenomeno di una scrittura così spontaneamente matura.
Ma c’è anche il lunghissimo suo tirocinio giornalistico, palestra straordinariamente efficace al fine di imporre allo scrivente il costume di dire direttamente, e senza contorsioni stilistiche o ornamenti professorali, ciò che intende dire. Per valutare la sua prosa l’autografo è dunque la base primaria. C’è poi l’altro aspetto: la rielaborazione e l’ampliamento di parti già scritte. Anche qui regna l’essenzialità: e la scarsa disponibilità di carta dovuta alle stupide restrizioni carcerarie ha avuto la sua parte. Ma bisognerebbe avviare un’indagine sistematica sulle sue varianti d’autore. Si capirebbe molto di più in profondità quello che avvenne nel suo instancabile laboratorio mentale. Vorrei fare solo qualche esempio. Un tema di straordinaria importanza, teorica e politica, è per lui il fenomeno del «cesarismo ». È già di per sé significativo che egli lo assuma e gli dia quel rilievo di categoria sommamente utile alla comprensione della storia otto-novecentesca. Marx, nella prefazione alla seconda edizione del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ( giugno 1869) aveva perentoriamente «vietato» l’uso di cesarismo fuori dello studio della storia antica. Gramsci «disobbedisce» senza alcun problema, anzi ingigantisce, giustamente, quella categoria, divenuta — con la guerra e le rivoluzioni del dopoguerra — uno strumento ermeneutico prezioso. La prima stesura del paragrafo cesarismo è nel «miscellaneo» Quaderno 9, la seconda, quasi raddoppiata, è nello «speciale» Quaderno 13.
Il fenomeno che si coglie raffrontando le varianti è l’attenuazione della polarità tra il cesarismo «progressivo » e «regressivo»: polarità che, pure, costituisce il punto di partenza della riflessione. Nel secondo capoverso della stesura A (Quaderno 9) Napoleone III, in opposizione al I, costituisce il prototipo del «cesarismo regressivo». Invece nel lunghissimo nuovo capoverso aggiunto nella stesura B (Quaderno 13) si dice di Napoleone III che «il suo Cesarismo (…) è obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e Napoleone I», perché «la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo etc.». La riflessione non è oziosamente classificatoria né meramente storiografica. Basti pensare che con l’esemplificazione Gramsci si spinge fino al presente: fino al governo Mac Donald (un laburista che guida un ministero di conservatori) ed al governo di Mussolini: «Così in Italia nell’ottobre ’22, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio ’25 e ancora fino all’8 novembre ’26 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica». Il grande assente, il non detto, di questa pagina è Stalin (siamo nel 1934), anch’egli emerso vincente da un aspro conflitto di classi (operai, contadini, «nep-men»). Orbene, se si considera che la premessa da cui Gramsci parte è che il cesarismo «esprime sempre la soluzione arbitrale, affidata ad una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica» (di forze cioè che «si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca») la riflessione ha delle implicazioni molto attuali. In queste pagine — nella prima e soprattutto nella seconda stesura — è racchiuso un giudizio meditato sia sull’esperienza del fascismo che — probabilmente — su quella dello stalinismo, considerati non già con l’occhio e il tono agitatorio di chi è immerso nella lotta e ne è parte, ma assunti in una razionalità della storia di cui la categoria del «cesarismo» è la chiave. Ed è forse una chiave primaria per intendere l’intero corpus gramsciano carcerario, cioè successivo alla sconfitta ed al progressivo affermarsi del «Cesare».
Luciano Canfora 28 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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