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Autore Discussione: FERNANDA PIVANO  (Letto 3643 volte)
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« inserito:: Agosto 19, 2009, 11:51:20 am »

L'ultimo testo scritto per il corriere nel giorno del suo 92esimo compleanno

La mia giovane vecchiaia e il dono di Gore Vidal

di  Fernanda Pivano


Questo è l'ultimo intervento di Fernanda Pivano scritto per il Corriere della Sera. E' stato pubblicato il 18 luglio di quest'anno, giorno del suo 92esimo compleanno. E' un testo dedicato agli interrogativi posti dalla vecchiaia, ai ricordi e alla nostalgia degli anni della gioventù, nei quali si innamorò della nuova letteratura americana, i cui autori proprio lei contribuì a far scoprire con le sue traduzioni.



Ah, la vecchiaia. Gli anni che pesano. Le parole cariche di amara rassegnazione di Guido Ceronetti, alle quali ha risposto con affettuoso ottimismo Arrigo Levi, mi hanno costretto a pensare, ancora una volta, alla mia di vecchiaia. A interrogarmi. E a scavare un po' nella memoria.
 
Mi è tornata in mente Alice B. Toklas che a quasi ottant'anni aveva uno strano modo di giggling, di fare una risatina silenziosa stringendosi nelle spalle, come una ragazzina. Regale e tenerissima, era molto premurosa nei miei confronti, forse a causa dell' ammirazione che avevo dimostrato per Gertrude Stein con cui aveva condiviso molti anni della sua vita. Nell' aprile 1954 Alice era venuta a trovarmi nella mia casa di via Cappuccio a Milano, città a lei piuttosto sconosciuta, per «vedere» dove e come abitavo. Si era molto rassicurata quando aveva visto la terrazza deliziosa che dava sul parco di non ricordo che cardinale con la deliziosa vista sulle montagne lontane, illuminate dal tramonto rosato.
 
Allora ero giovane, con il sangue che scorreva veloce nelle mie vene. Solo molti anni dopo ho capito il coraggio che i ragazzi possono dare a chi è già vecchio. Ho molta nostalgia di quegli anni. Ma mi consola chi viene a farmi autografare i libri di Ernest Hemingway, di Jack Kerouac, di Gregory Corso, di Allen Ginsberg, di tutti gli autori che hanno permesso loro di sognare e che io sono orgogliosa di poter dire di aver contribuito a far conoscere. A questi sognatori ricordo sempre che devono ringraziare la follia di Gregory, la visioni di Ti Jean, le preghiere di Allen e tutti i miei amici che se ne sono andati. E che rimpiango. Tutti loro hanno raggiunto gli immensi spazi profumati dell' eternità quando al massimo avevano compiuto settant' anni. Troppo presto.

Ma se penso ad Henry Miller, penso che anche un genio come lui se n' è andato troppo presto. E di anni ne aveva 88. Non ho mai voluto accettare le malattie dell' età e ne ho le scatole piene di dover prendere tutte queste pastiglie che i medici mi prescrivono. Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo mi riporta solo alla disperazione dei miei 92 anni, con le vene che non reggono la pressione di una semplice iniezione. Ma grazie a Dio ci sono questi ragazzi di 18 anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti su come fare a superare le tragedie della vita. Ahimè. A 92 anni ancora non so cosa rispondere. Dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre volute solo da capitani ansiosi di medaglie. Di sorridere senza il rimorso di non aver aiutato nessuno. E proprio questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa di ciò che hai fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme.

Posso confidarvi che l' ultima volta che ho incontrato Gore Vidal per la presentazione di un suo libro, nel gennaio 2007, io ero appena uscita da un ricovero in ospedale e lui camminava aiutandosi con un bastone. Ma a cena, quando gli ho chiesto cosa potremmo fare insieme, lui mi ha risposto: «Let' s make a baby - facciamo un bambino». Forse è questo il segreto per riuscire a sopravvivere anche a questa età. Forse è questo il segreto del vecchio Suonatore Jones dello Spoon River caro alla mia giovinezza «che giocò con la vita per tutti i novant'anni»

Fernanda Pivano
18 agosto 2009
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da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 19, 2009, 11:52:50 am »

1917-2009: addio a Fernanda Pivano

Quel modo di raccontare i grandi per esperienza diretta

Il viaggio alla scoperta degli Stati Uniti fu prima di tutto un’avventura del cuore e degli affetti


Quando a metà degli anni Cinquan­ta scrivevo la mia tesi di laurea su Francis Scott Fitzgerald, mi venne naturale per prima cosa andare a parlare con Nanda Pivano a Milano. Le feci, da laureando, delle domande piuttosto sciocche: se conosceva Cesare Pavese; co­me aveva imparato l'inglese; cosa l'attrae­va in Fitzgerald, lei che amava tanto Er­nest Hemingway.

Forse più imbarazzata lei di me — era­vamo entrambi molto giovani — mi ri­spose con quel sorriso dolce e aperto che le avrei sempre ritrovato sul volto, una difesa ma anche una sapiente sfida. E un modo per ricordare il suo primo ruolo, la sua prima conquista: era, e ri­mase per decenni, fino ad oggi, il nostro primo tramite per avvicinarci alla lettera­tura d'Oltreoceano, una via d'accesso per luoghi favoleggiati, che lei si era aperti da sola e conquistati con l'arrendevolez­za. Arrendersi con semplicità agli altri, e alla letteratura, non è da molti.

Accostarsi alla letteratura americana era stata per autori come Pavese ed Elio Vittorini un’avventura della mente, tutta culturale e politica (nessuno dei due in­fatti andò mai in America, anche quan­do divenne possibile, per scelta, timore o diffidenza). Per Nanda Pivano dev’es­ser stata prima di tutto un’avventura del cuore e degli affetti; e si basò su una co­noscenza diretta, dei luoghi e delle per­sone.

Ne fu un’interprete diretta, partecipe, coinvolta: sembra quasi di poter dire che prima doveva conoscere personalmente gli scrittori e l'ambiente, per poi poterne scrivere o tradurli, trasmetterne messag­gio e presenza al grande pubblico dei let­tori italiani. Il caso del suo rapporto con Hemingway è esemplare al riguardo: ne era «figlia», come lui era «papà», e in­dubbiamente senza quel tipo di rappor­to ravvicinato, molta della sua freschez­za e confidenza coi testi letterari sarebbe scomparsa.

Ha tradotto i grandi classici — Her­man Melville, Emily Dickinson e molti al­tri — e scritto su di loro con sensibilità estrema naturalmente, ma a me sembra che la sua grande lezione sia stata quella di indurci a trattare dello scrittore e del­la persona come di una cosa sola, di un amico: una lezione particolarmente im­portante, originale, svolta proprio nel momento in cui l’accademia si appro­priava «scientificamente» della letteratu­ra americana, e prevaleva la tendenza al­lo studio asettico e subliminale del testo in sé.

Sbarazzina e come finta ingenua, ma attenta alle particolarità e all’eleganza della scrittura di tanti e tanti testi poi di­venuti «classici», Nanda Pivano divenne conoscitrice e guida, per due o tre gene razioni di lettori, di due o tre generazio­ni di letterati americani, che scovava e conosceva personalmente; dai Beat, in­tuendo fin da allora la carica non solo eversiva e ribalda, ma umana e letteraria di scrittori come Allen Ginsberg, Jack Ke­rouac, Gregory Corso, ai «minimalisti», che fu lei a diffondere, se non quasi a in­ventare, in Italia come a New York, dove si recava sempre più spesso, accolta co­me una dei «loro». La attiravano, sì, i protestatari e gli «eversivi» — William Burroughs, Char­les Bukowski e altri — perché detestava i paludamenti in cui la letteratura «arri­vata» tende ad avvolgersi, i falsi o timoro­si moralismi dei più, ma anche perché capiva che il grido, la provocazione o lo sberleffo sono modi di esprimere l’ango­scia e lo strazio della coscienza contem­poranea. Nel bel mezzo di autori e testi «scandalosi», lei conservava un suo ac­cattivante lindore, una purezza d’animo e di cuore, una modestia di ragazzina, e la fedeltà alla prima decenza — quella della comprensione e dell’amore per le persone.

Al suo meglio, credo, per natura, di­sposizione e scelta, nel saggio, nella trat­tazione breve, nell’articolo compendio­so, ci insegnò soprattutto il valore della letteratura come esperienza di vita, la po­chezza dell’una se scissa dalla partecipa­zione all’altra. I suoi libri sono frutto di frequentazioni assidue e ripetute, di im­pressioni e valutazioni elaborate in pri­mo luogo nello sforzo di un’ampia com­prensione. Ha avuto tanti e meritati riconosci­menti per questo suo ruolo, per la sua presenza sempre più diffusa nella nostra cultura, da istituzioni e lettori. Non ha avuto — perché non lo cercava e le sareb­be andato stretto, non avendo granché da darle — il riconoscimento dell’accade­mia: ed è stato meglio così. Con la sua dolcezza che nascondeva forza di appro­priazione e tenacia nello scoprire, Nan­da Pivano ha segnato il momento in cui la critica militante ha affiancato con au­torità, e magari soppiantato, la critica to­gata, sussiegosa, «disinteressata» per scarsa vocazione al vivere. Non saprei darle attestato migliore: lei era tutto il contrario.

Sergio Perosa
19 agosto 2009
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 19, 2009, 11:54:49 am »

1917-2009: l'ADDIO A FERNANDA PIVANO

La ragazza che adottò la Beat Generation

Da Hemingway ai minimalisti, portò l’America in Italia Fu la «sorella maggiore» di Kerouac, Corso, Ginsberg

Si è spenta ieri, in una clinica privata di Milano, Fernanda Pi­vano.

Nata a Genova, aveva compiuto 92 anni il 18 luglio. Scrit­trice, traduttrice e giornalista per il «Corriere», fece conosce­re all’Italia la grande narrativa americana. «Sapevo che non ce l’avrebbe fatta e sono contenta di esserle stata vicina in que­sti ultimi giorni — ha detto Dori Ghezzi, che le era accanto insieme con Enrico Rotelli —. Solo poche settimane fa aveva­mo cantato ancora 'Bocca di rosa'».

Da un mese aveva conse­gnato a Bompiani la seconda parte dei «Diari». I funerali ver­ranno celebrati venerdì alle 11 a Genova, nella basilica di San­ta Maria Assunta di Carignano, da don Andrea Gallo. Ieri an­che il presidente Napolitano ha espresso il suo cordoglio.

 
La cartolina era arrivata da Cortina. Ernest Hemingway in persona la voleva conoscere e la invitava a rag­giungerlo. Era il 1948, Fernanda Pi­vano aveva già tradotto l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e in quei mesi stava lavorando su Addio alle armi di He­mingway. Lui, «Papa», come lo chiamavano quelli che lo conoscevano, era in Italia.

Arrivato con la moglie Mary Welsh, lo scrittore americano stava a Venezia, un po' per rivedere i luoghi dell'altra guerra, dove si era trovato come autista della Croce rossa nella primavera del 1918, un po' per andare a sparare alle anatre in laguna. Grandi bevute all'Harry's Bar dell'amico Cipriani, battute di caccia sui barchini, poi ogni tanto una fuga a Cortina d'Ampezzo. Fernanda Pivano, Nan­da per tutti, amava molto raccontare quell'in­contro. «Lì per lì non ci avevo creduto, poi mi convinsero che era vero quell'invito. Pre­si il treno, da Torino a Cortina fu un viaggio interminabile, arrivai la sera tardi. Mi presen­tai all’albergo, Papa era ancora a tavola con degli amici. Mi vide, si alzò, mi venne incon­tro e mi abbracciò. Mi chiese: 'Che cosa ti hanno fatto i nazi?' Aveva saputo che ero sta­ta fermata dai tedeschi. Mi tenne a lungo ab­bracciata. Forse mi faceva la corte. Ma io a queste cose non ci pensavo proprio. Certo, era alto, grande, bellissimo. Forse saremmo potuti finire a letto, e invece niente. Che stu­pida ero». E tutte le volte che ripeteva il rac­conto, Nanda si dava uno schiaffo in testa.

Dopo aver resistito al fascino di Hemin­gway, la Nanda sarebbe pure passata inden­ne attraverso la frequentazione dei poeti e scrittori della Beat Generation. Mai nemme­no uno spinello, diceva, niente alcol, funghi e peyote, Lsd e tutto il resto, nemmeno a pensarci. Quando era arrivata per la prima volta in America nel 1956, aveva subito capi­to la novità rappresentata da questi cercato­ri di nuovi stati di coscienza. Che sapevano modulare prose e versi sui battiti del be-bop, il jazz esistenzialista di Charlie Parker, si mettevano sulla strada per dilata­re i confini dell’immaginario, aiutati in que­sto dai pesanti sussidi degli allucinogeni. Per loro — Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti — Nanda fu una sorta di affettuosa sorella mag­giore, una vice-madre saggia e comprensi­va. Fu lei a tradurre i loro libri, a battersi per­ché opere come Sulla strada e Urlo fossero pubblicate da noi. Ai poeti, soprattutto, ave­va dedicato i suoi sforzi maggiori, compo­nendo l’antologia Poesia degli ultimi ameri­cani (Feltrinelli) con cui si offriva ai lettori italiani un tesoro di novità. Li ospitava nella sua casa a Milano quando passavano di qua (Nanda era ancora sposata con l'architetto Ettore Sottsass), li aiutava, si faceva spiega­re il senso e le allusioni della loro lingua da iniziati. Il tutto però senza mai passare al consumo della roba, serbandosi saggia e in ordine, senza pregiudizi. In una rara intervi­sta televisiva con Kerouac realizzata per la Rai, la vediamo chiedere allo scrittore: «Jack, dimmi, ma perché non sei felice?» E lui, gonfio di alcol, gli occhi opachi, ormai avviato alla fine, non sa darle nessuna rispo­sta.

Cresciuta nella Torino antifascista (nella sua decisione di studiare letteratura ameri­cana fu decisiva l’influenza di Cesare Pave­se), Nanda scopriva nei suoi amici america­ni una lezione di politica molto meno ideo­logica di quella che si usava da noi. profeti del pacifismo anni Sessanta, pa­dri della contestazione contro l'intervento militare americano nel Vietnam, Ginsberg e gli altri le regalarono un senso dell'impegno globale sconosciuto in Italia. Tanto da indur­la ad avvicinarsi sempre di più alle posizioni dei radicali.

Sognava, con loro, la rivoluzione dei fio­ri: nel 1993, ripubblicando l'antologia L’al­tra America (Arcana) uscita originariamen­te nel 1971 da Lerici, ricordava la fine del so­gno, il rapido cambiamento all’indomani del Sessantotto, e si chiedeva dov’erano fini­ti i fiori.

Sempre a fianco di Ginsberg nelle sue nu­merose tournée italiane (sul palco, con un triangolo battuto ritmicamente, sono in molti a ricordarla mentre salmodiava «Use dope, don’t smoke», lei che non sapeva nemmeno come si rolla uno spinello), Nan­da negli anni Settanta comincia a trovarsi spiazzata da un'industria culturale inguari­bilmente conformista. Le sue splendide traduzioni (Masters, He­mingway, Francis Scott Fitzgerald e i Beat naturalmente) erano dei long sellers. Ma per il resto veniva guardata con crescente in­differenza. Comincia da lì un nuovo viaggio, alla ricerca di nuovi pubblici, nuovi audito­ri. Vennero così i festival di poesia, la sala fumata del Macondo a Milano, il locale inti­tolato al luogo mitico di Gabriel García Már­quez. Dei dibattiti accademici, degli incari­chi universitari o editoriali, a lei non impor­tava nulla. Fra Milano e Roma, con frequen­ti viaggi in America sempre in cerca del nuo­vo, Nanda prova a scrivere romanzi. Ma so­prattutto si dedica al giornalismo, intervi­stando per il «Corriere della Sera» scrittori e protagonisti della cultura statunitense. È così che negli anni Ottanta conosce e fa co­noscere una nuova covata di scrittori, i Mini­malisti: David Leavitt, Brett Easton Ellis, Su­san Minot e soprattutto l'adorato Jay McIner­ney. E ancora una volta Nanda è per loro consigliera, amica, compagna di strada. Confidente pure: in mezzo a guai privati e sentimentali, McInerney ricorreva spesso a lei. Ma tutto questo non bastava più. Malattie e problemi economici non la fer­mano. Fra i giovanissimi ritorna la fascina­zione per la Beat Generation, e lei si ritrova in prima fila, testimone e protagonista dei bei momenti. Per questo, negli anni Novan­ta, diviene una figura di culto per le nuove generazioni, un oggetto di venerazione, un indispensabile riferimento. Nasce qui l’ulti­ma sorprendente metamorfosi della grande Nanda: adesso è la musa dei rockers italiani delle ultime generazioni, personaggi come Ligabue, Jovanotti e Morgan dei Bluvertigo (noto fra l'altro per una storia con l'attrice Asia Argento). Sul palco dei concerti rock o nei video, ecco dunque Nanda, felice e diver­tita, come una volta quando accompagnava Ginsberg.

L'entusiasmo era lo stesso, e no­nostante l’età e gli acciacchi la passione c’era ancora, intatta e fresca. Fra le tante cose che ci lascia, forse il be­ne più prezioso è l’immenso archivio, raccol­to in una Fondazione sponsorizzata da Be­netton. Ci sono lettere, cartoline, carte, testi­monianze di oltre cinquant’anni di storia e letteratura americana. Oggi quel patrimo­nio immenso è un oggetto di studio impre­scindibile per chi si occupa degli anni in cui Nanda fu protagonista. Ma tante volte, qual­che decennio fa, erano Ginsberg e gli altri che venivano a Milano per frugare tra quelle carte per ricostruire momenti ed episodi del passato di cui avevano perso traccia. Lei, Nanda, conservava tutto. Fra le poche cose perdute in un trasloco c’erano tante lettere di Paul Bowles. Quan­do il film di Bertolucci Il tè nel deserto lo riportò in auge, Nanda si mise a cercare le cose dello scrittore. Invano. L’unica cosa che trovò era una cartolina con un isolotto nel Pacifico: Bowles le scriveva per dire che voleva lasciare la sua residenza marocchina di Tangeri e comprarsi quel piccolo Paradi­so. E Nanda la mostrava felice.

Ranieri Polese
19 agosto 2009
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