LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 09:58:59 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: LA SVIZZERA E IL SEGRETO BANCARIO  (Letto 3005 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Agosto 14, 2009, 11:31:23 am »

LA SVIZZERA E IL SEGRETO BANCARIO

Un successo americano


Gli Stati Uniti fan­no sul serio. Nel momento in cui la cittadinanza soffre, colpita dalla reces­sione, il governo persegue l’evasione fiscale con un’energia sconosciuta al­l’Italia e all’Europa. Non si limita alla retorica contro i paradisi fiscali, ma attac­ca una grande banca inter­nazionale perché, come ogni buon fiscalista sa, non c’è paradiso fiscale senza la collusione dell’ari­stocrazia bancaria globa­le.

Il Dipartimento della Giustizia vuole i nomi de­gli americani che hanno depositato i loro denari — si parla di attività per 15 miliardi di dollari — in 52 mila conti correnti aperti presso la Ubs, gesti­ti in paradisi fiscali e co­perti dal segreto bancario svizzero. L’amministrazio­ne finanziaria di Washing­ton sospetta che quelle ric­chezze siano state ottenu­te anche evadendo le tas­se. Ma la legge svizzera au­torizza le banche residenti nella Confederazione a ri­velare identità e interessi dei clienti solo a fronte di richieste che indichino il nome dell’indagato e un reato che, come il riciclag­gio o la falsificazione dei documenti contabili, sia compreso tra quelli per i quali va prestata tale colla­borazione. L’evasione fi­scale ai danni di un erario straniero non fa parte del­la lista. Ma certi segreti bi­sogna poterseli permette­re. E la Svizzera oggi se li può permettere meno di ieri.

Quando favorisci la cre­scita di una enorme pio­vra bancaria con tentacoli estesi in tutto il mondo e attività pari a 4 volte il pro­dotto interno lordo del Pa­ese, poi capita che la crisi di una Ubs rischi di man­dare a picco la Svizzera. E allora i soccorsi costano potere. Per salvare Ubs dal­l’indigestione di titoli tos­sici denominati in dollari, ha avuto bisogno della Fe­deral Reserve. La Banca centrale svizzera ha dato alla Fed franchi in cambio dei 60 miliardi di dollari con i quali ha comprato dalla Ubs i titoli spazzatu­ra che la stavano soffocan­do. E ora l’America di Oba­ma, che non è più quella deregolata dei Bush e di Clinton, chiede il conto. Di più, se Berna non aves­se liberato gli gnomi di Zu­rigo dalle dorate catene dei loro segreti, il governo americano avrebbe potu­to togliere a Ubs la licenza per operare a Wall Street.

La Svizzera, dunque, sembra piegarsi. Di quan­to ancora non si sa. La ban­ca e il governo elvetico ri­schiano cause da parte dei clienti. Si parla di alcune migliaia di nomi svelati. Non tutti quelli richiesti, dunque. Ma forse abba­stanza per incrinare davve­ro il segreto bancario sul­l’evasione fiscale. La Sviz­zera rinuncia così a una quota di sovranità. Ma di questa rinuncia aveva po­sto le basi lasciando cre­scere un colosso non più governabile da un piccolo Paese.

Il successo americano potrebbe incoraggiare l’Italia dello scudo fiscale a chiedere all’Europa una politica coerente con tutte le Ubs del mondo. E intan­to pretendere dalle ban­che che hanno sedi nelle varie Cayman Islands i no­mi dei beneficiari dei con­ti sospettabili da parte del­l’Agenzia delle entrate, pe­na il ritiro della licenza bancaria nel Belpaese.

mmucchetti@corriere.it

Massimo Mucchetti
13 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Agosto 14, 2009, 11:37:46 am »

Il caveau del mondo

La legge del ’34 che ha introdotto le regole per i depositi

Dal no ai nazisti alla privacy sui divorzi

I banchieri elvetici che rivelano dettagli sui clienti rischiano il carcere


MILANO—La situazione era giunta a un punto tale che la Gestapo aveva una procedura fissa. Un ufficiale in borghese si presentava in una banca svizzera, metteva sul tavolo una somma, pronunciava un nome sospetto. Ordinava un versamento sul conto della persona in questione. Se l’impiegato allo sportello accettava il denaro, il conto esisteva, dunque in Germania c’era un uomo con quel nome che aveva nascosto i suoi risparmi in Svizzera.

Vari tedeschi, non solo ebrei, furono passati sotto le armi dopo quelle missioni. E se c’è qualcosa che ancora oggi colpisce nella sfida sul segreto bancario elvetico, è come ognuna delle parti reclami per sé la moralità e il senso di giustizia. Così l’amministrazione fiscale americana o l’Unione europea da anni incalzano gli svizzeri in nome della trasparenza e delle regole, non solo fiscali: persino le figlie di Than Shwe, il capo della giunta birmana, divennero «attaché» presso l’ambasciata del Myanmar a Berna per meglio seguire gli investimenti di famiglia, prima che gli americani forzassero gli svizzeri a espellere almeno quei fondi.

Ma provate un po’ ad andare ancora oggi alla banca Wegelin di San Gallo, dove certi conti sono aperti ininterrottamente dal 1780. Lì Konrad Hummler, socio- guida e presidente dei banchieri privati della Confederazione, per spiegare il culto del segreto risale sempre a quello che lì sembra il peccato originale del resto d’Europa.
Nel ’32 il governo francese spiava i conti dei transalpini a Ginevra; quindi le irruzioni della Gestapo, il rapimento di un ebreo tedesco che aveva seguito a Basilea il suo patrimonio, le continue infiltrazioni.

Da quando gli svizzeri hanno introdotto nel ’34 la legge sul segreto bancario, per loro è poco meno di una norma sui diritti umani. «Diversificazione di sistema », la chiama pudicamente Hummler di questi tempi. E c’è chi ne ha davvero bisogno: imprenditori russi che a Mosca pagano una ritenuta di appena 13% sui redditi da capitale, possono in effetti preferire un forziere nel cantone di San Gallo per tenere i propri patrimoni al riparo dai rischi di esproprio. Considerazioni simili possono valere per molti ricchi mediorientali o asiatici.

Ma le regole sulla privacy finanziaria di un italiano o di un americano appaiono davvero un po’ draconiane. Non solo per i giudici milanesi le cui rogatorie finiscono spesso in un vicolo cieco: a volte le norme sono quasi persecutorie anche per gli stessi guardiani svizzeri dei caveau. Un banchiere che dovesse rivelare il nome di un correntista, rischia fino a tre anni di carcere. Non potrà farlo neanche se voi come clienti glielo chiedete, poiché potreste trovarvi sotto minaccia del vostro governo come nella Germania hitleriana. Nel caso di una causa di divorzio, il banchiere ha poi in molti casi l’interdizione di testimoniare di fronte a un tribunale straniero.
In teoria sarebbe sempre possibile far sequestrare il conto del coniuge, ma non si conosce nessuna ex moglie o ex marito deluso che vi sia riuscito, tanto è cara, lenta e tortuosa la procedura.

Su quest’aspetto per la verità la tutela dei «diritti umani» appare selettiva, perché per i matrimoni celebrati in Svizzera gli stessi vincoli di discrezione del banchiere non si applicano. Ma, visto da Ginevra o Zurigo, il messaggio è sempre lo stesso: la tutela della privacy di chiunque è parte di una civiltà liberale che difende l’individuo dagli abusi potenziali del suo stesso Stato, soprattutto se estero.

Orson Welles diceva che queste virtù svizzere hanno prodotto «amore fraterno e cinquecento anni di pace e democrazia ». Fra gli effetti collaterali c’è però anche un’industria finanziaria, la più grande al mondo fra i centri «off shore», che raccoglie almeno duemila miliardi di dollari dall’estero. Alcuni banchieri di Ubs arrestati negli Stati Uniti hanno confessato di aver contrabbandato gli averi dei clienti in molti modi, inclusi i diamanti nascosti nel dentifricio. E gli istituti, le compagnie d’assicurazione e il sistema che ruota loro attorno sono arrivati a pesare quasi per un quinto dell’intera, prospera economia elvetica.

Eppure per l’Occidente in recessione accusare ora la Svizzera forse è anche troppo facile. Berna in realtà ha accettato da anni l’accordo con l’Unione europea che impone una ritenuta alla fonte del 35% (dal 2011) dei redditi da capitale per chi scelga l’anonimato. E già dal ’91, chi apre un tipico conto numerato deve comunque mostrare alla banca il passaporto, il certificato di nascita e le bollette elettriche o dell’acqua per dimostrare quale è la sua vera residenza. Niente del genere è richiesto a chi apre una posizione in Delaware, in Wyoming, in Nevada o in Somalia: soli casi al mondo, lì l’opacità è totale. Forse perché, come scrisse lo svizzero Friedrich Dürrenmatt in un romanzo sul mondo degli affari di Zurigo, «la giustizia può compiersi solo fra coloro che sono egualmente colpevoli».

Federico Fubini
13 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!