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« Risposta #1 inserito:: Agosto 07, 2009, 11:57:27 am » |
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7/8/2009 (7:29) - RETROSCENA
Agosto, e la Lega riscopre la voglia delle barricate Dietro gli strappi la necessità di smarcarsi: sparate estive non destinate ai giornali ma fatte per un eterno bisogno di riaffermarsi
MATTIA FELTRI ROMA
Più che i consueti furori agostani della Lega, stupiscono le reazioni meccaniche, comprese fra lo sdegno e lo sbuffo, dei corsivisti e dei politici. Da un ventennio le rivendicazioni sono identiche e da un ventennio sono identiche le repliche, con gran giovamento dei leghisti - dirigenti e popolo - che si sentono nel giusto solo quando sono isolati.
Alla proposta di accostare le bandiere e gli inni regionali a quello di Mameli e al Tricolore, hanno risposto ancora ieri dall’opposizione e dalla maggioranza, dai movimenti extraparlamentari, dalle massaie organizzate, sui giornali e con proteste sovrapponibili: il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha parlato di «folklore»; il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha parlato di «disegno secessionista» come il responsabile delle politiche meridionali del Pdci, Pino Sgobio. Dario Franceschini e la Federcasalinghe hanno invitato il governo a lasciar perdere le panzane e a occuparsi di crisi. Il Secolo d’Italia, quotidiano del Pdl di tendenza finiana, ci ha aperto la prima pagina («Ogni giorno ce n’è una») intravedendo scopi elettorali e di competizione interna: le amministrative torneranno a primavera.
Era difficile fare alla Lega un regalo migliore. E infatti, ieri, Umberto Bossi è andato all’Aquila per controllare lo stato della ricostruzione e ha commentato: «Han fatto un buon lavoro». Si noti: hanno, non abbiamo. La ciccia è tutta qui. La Lega è al governo, non ce l’ha col governo e non è organica al governo. I messaggi sono seriali, sono chiari. Chi sostiene che la Lega impegni agosto come un campo di battaglia, profittando della carenza di notizie e della sete di titoli buoni da stampare, non ha ancora colto in pieno il gioco di Bossi sin dai tempi dei trecentomila bergamaschi in armi. Non a caso dodici mesi fa la Lega si limitò a ridire sullo schiavismo incitato dall’inno di Mameli, e per il resto s’impegnò a dibattere di federalismo con Roberto Calderoli nei panni del saggio: «Non vogliamo spaccare il Paese».
Se la Lega affonda, insomma, non è soltanto per occupare i giornali. In genere ha bisogno di riaffermarsi, di smarcarsi, di riprendere la propria faccia, di scaldare i cuori dei prataioli di Pontida. Da qualche giorno si succedono suggerimenti classici: test di cultura locale per gli insegnanti, canzoni in dialetto a Sanremo, le gabbie salariali, smentite da Calderoli ma contenute nella titolazione della Padania. Sembra il modo per venire fuori da mesi di politica magari tosta, specie sull’immigrazione, ma dal sapore burocratico e romano; il modo di restituire ai commensali della Berghemfest vecchie palpitazioni e dimostrargli che la Lega non è cambiata: continua a proporre una politica che fa scandalo fra gli arnesi della partitocrazia. Tutto tornerà buono anche alle elezioni, ma sarebbe sciocco trascurare i riflessi della mignotteria barese, della crisi economica, soprattutto delle rivendicazioni meridionalistiche che al Nord hanno sempre il retrogusto dell’assistenzialismo. La Lega si è dovuta piegare alle dazioni, ma ha promesso che terrà aperti gli occhi e - guarda un po’ - all’Aquila «han fatto un buon lavoro».
Le insegne volano alte. Dal Carroccio lombardo rifiutano la logica della rifusione del danno al detenuto bosniaco: dovrebbe essere lui a risarcire noi, ché è venuto in Italia a delinquere. E tutto questo armamentario delle piccole patrie, sui palchi della canzone italiana, nell’araldica regionale da nobilitare in Costituzione, sulla pronuncia e sull’etimologia della «cadrega», ci si faccia caso, stavolta non possiede un risvolto antimeridionalista. Tanto è vero che Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, è quello che se l’è presa meno di tutti, e da dichiarato autonomista ha sottoscritto qualche idea. E dunque Bossi e i suoi lanciano razzi di posizione: siamo sempre i guardiani del Nord, non siamo in guerra col Sud ma verifichiamo che non ci siano sperperi, non abbandoniamo un governo di cui facciamo parte per raggiungere l’obiettivo che ci sta per essere consegnato: un compiuto federalismo. La baraonda sulle gabbie salariali - che Calderoli si riferisse proprio a quelle o a qualcosa di modernizzato - aveva un significato: il federalismo si fa contando i danée.
E questa infinita ansia di lotta e di governo dovrebbe ricordare a tutti che la Lega, alla terza esperienza di governo nel medesimo schieramento, continua ad avere alleati per impulsi esplicitamente strategici: la Lega non ha partiti amici, si considera per statuto diversa da chiunque. Semmai è amica di Giulio Tremonti. E semmai Bossi è amico di Berlusconi. Ma tutto finisce lì. E un domani, scossa, ribaltone, chiamatelo come volete, la Lega sarà di nuovo libera di andare per la sua strada.
da lastampa.it
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