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Autore Discussione: GIAN CARLO CASELLI. -  (Letto 5280 volte)
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« inserito:: Agosto 08, 2007, 08:04:04 pm »

Mani Pulite e l’Antimafia. Così ritornò la giustizia

Gian Carlo Caselli


Alcuni vocaboli andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate. Questa riflessione di Barbara Spinelli ben si attaglia allo scempio che in Italia deve spesso subire il termine «garantismo». Uno scempio che negli ultimi tempi sta facendo evaporare la realtà di ieri e di oggi. Ad impartire supponenti lezioni di garantismo, infatti, sono soprattutto i corifei di coloro che hanno sempre praticato strategie finalizzate al rifiuto del processo, alla sua gestione come momento di rottura e di scontro. Mentre è del tutto evidente che queste strategie di contestazione del processo in sé, indipendentemente dal suo esito (quel che conta è la difesa «dal» processo, non «nel» processo) nulla hanno a che vedere con un sistema di stretta legalità.

Anzi, questo «neogarantismo» strumentale, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico), e il parallelo garantismo «selettivo» (che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato) costituiscono la negazione del garantismo «classico», secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio degli inquisiti eccellenti.

L’uso spregiudicato, lo sciupio della parola «garantismo» facilita la perdita di memoria, l’occultamento o travisamento del passato, di ciò che è davvero successo dai primi anni 90 ad oggi. «Mani pulite» fu - secondo la sintesi tacitiana dell’ex presidente del Consiglio - «un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri, i quali hanno costituito una corrente che ha fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze». Fu invece , secondo la trionfalistica definizione di altri (anche tra i magistrati), una rivoluzione per via giudiziaria, che determinò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa. Più semplicemente, fu l’emergere in sede giudiziaria dell’intreccio - diffuso e all’apparenza inarrestabile - tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica, diretto prevalentemente (ma non soltanto) al finanziamento di quest’ultima. Certamente fu un terremoto: molti uomini politici (fra cui tutti i segretari dei partiti di governo e del principale partito di opposizione) sottoposti a procedimento penale; molti enti pubblici decapitati di presidenti e amministratori... Ma il problema è: fu un terremoto fondato su fatti, oppure su sospetti infondati, forzature, impropri teoremi? La risposta sta negli esiti processuali, oggi agevolmente controllabili. Limitandoci ad alcuni dati della situazione milanese (epicentro del fenomeno) quali risultanti nel 2005, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 3.200 persone: di esse 1.322 sono state rinviate a dibattimento, 620 sono state condannate con riti alternativi nell’udienza preliminare, 635 sono state prosciolte dal Gup (in 353 casi per estinzione del reato e solo in 282 per ragioni di merito), mentre i restanti casi sono stati trasmessi ad altri uffici per competenza.

Quanto ai 1.322 rinviati a giudizio già definiti, risultano 661 condanne e 476 proscioglimenti (in 299 casi per estinzione del reato e solo in 177 per ragioni di merito). I fatti - e i numeri - hanno la testa dura: «Mani pulite» non è stata, sul versante giudiziario, una stagione di persecuzioni (o l’anticamera di una stagione siffatta) ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

Quanto ai processi di mafia, la stagione di grande tensione seguita alle feroci stragi del 1992 ha determinato, a partire dalla magistratura palermitana, una crescita di attenzione alla complessità del fenomeno mafioso e alla sua non riducibilità alla cosiddetta «ala militare». Di qui l’apertura e lo svilupparsi (anche) di procedimenti a carico di imputati «eccellenti» appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre, secondo le analisi più accreditate, hanno avuto e hanno un ruolo centrale nella storia della mafia): ovviamente non in base a teoremi politico-sociologici ma a fatti ed emergenze probatorie precisi. Le cosiddette «relazioni esterne» sono, invero, lo specifico della mafia rispetto alle altre organizzazioni criminali. Se si indagasse soltanto sulla faccia «illuminata» del pianeta mafia, e non anche sulla sua parte «in ombra», si garantirebbe l’impunità al vero perno della potenza mafiosa. Ma la doverosa scelta di indagare a 360° non è stata indolore: ed è accaduto che, pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra, si sia spesso preferito inscenare un processo non alla mafia quanto piuttosto... alla stagione giudiziaria antimafia che ha seguito le stragi del ’92. Così rendendo più difficile una guerra che si sarebbe potuto vincere. E vari commentatori, deliberatamente ignorando i risultati investigativi e processuali ottenuti (un livello senza precedenti, per numero e caratura criminale, di latitanti arrestati; un numero impressionante di condanne all’ergastolo - quasi 650 nel 2000/2004 - inflitte o confermate nel distretto della Corte d’appello di Palermo, oltre a moltissime dure condanne a pene temporanee; beni sequestrati ai mafiosi - dal ’93 al ’99 - per un valore di 10.000 miliardi di vecchie lire; numerose e significative pronunzie anche nei confronti di imputati «eccellenti») hanno preferito, con sovrana indifferenza per la verità, parlare di fallimento di un’intera stagione.

In questo contesto si è interessatamente praticato lo sterminio del significato delle parole, al punto da confondere «assoluzione» con «prescrizione» e da presentare come liberato da ogni accusa un autorevole uomo politico riconosciuto - con sentenza definitiva della Suprema Corte - responsabile del delitto di associazione a delinquere (con Cosa Nostra), delitto commesso, ancorché prescritto, fino al 1980. E tutto ciò con il supporto di prove su prove su cui si fonda la conclusione che gli elementi concretamente ravvisabili a carico dell’imputato «non possono interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo».

Dunque, negli anni Novanta del secolo scorso vi è stato uno sviluppo assolutamente inedito di processi per corruzione e per reati di mafia. Le ragioni di questa «esplosione» sono molteplici e ne parleremo in una successiva «puntata». Fin d’ora va detto che si può - si deve - discutere di ogni stagione giudiziaria e delle sue caratteristiche. Se ne deve discutere a maggior ragione quando il passar del tempo consente maggior lucidità e distacco emotivo, anche sapendo cogliere eventuali forzature inquisitorie od emulative. Si tratterebbe comunque - per gli anni Novanta - di sporadici ed isolati episodi. Una valutazione serena, che sappia guardare alla sostanza delle vicende, considerate nel loro complesso, non consente di rinvenire fatti che giustifichino il polverone sollevato da certi commentatori. Le accuse di metodi di lavoro «giustizialisti», di persecuzioni giudiziarie, di complotti orditi da «toghe rosse» per servire una fazione politica a danno di un’altra tradiscono in realtà una forte insofferenza per il controllo di legalità e per la rigorosa applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
(1 - segue)

Pubblicato il: 08.08.07
Modificato il: 08.08.07 alle ore 9.59  
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« Ultima modifica: Giugno 04, 2013, 06:03:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 27, 2008, 10:58:55 am »

27/7/2008
 
Il paradosso della giustizia
 
 
 
 
 
GIAN CARLO CASELLI
 
La giustizia italiana è un malato grave, ma invece di mettere in campo robuste azioni positive si preferisce parlar d’altro. Si dovrebbe spendere di più e meglio. Le risorse dovrebbero esser distribuite più razionalmente. Sistemi processuali farraginosi e complessi, al limite dell’incredibile, dovrebbero essere finalmente snelliti. Le impugnazioni dovrebbero essere decisamente ridotte, come in tutti i Paesi europei. Ma di azioni positive non se ne vedono. Domina invece il paradosso dell’inefficienza efficiente. Se la giustizia non funziona non si faccia un bel niente per farla funzionare meglio. La si lasci soffrire: che le cose peggiorino sempre più, fino alla catastrofe. Perché sempre più inefficienza significa sempre meno credibilità della magistratura. E quando - alla fine della storia - se ne aggredirà l’indipendenza, i magistrati (questo cancro!) si ritroveranno assolutamente soli. Nessun cittadino che non sia pazzo si mobiliterà per chi non sa rendere il servizio per cui è pagato coi soldi pubblici (non a caso l’indice di gradimento della magistratura registra crescenti flessioni… e c’è qualcuno che si stupisce). Ecco dunque l’inefficienza efficiente. Funzionale cioè a un disegno che mira (mortificando la magistratura) a ridurre se non impedire i controlli che si indirizzino verso determinati interessi. Spietati verso gli altri (tolleranza zero…), ma indulgenti verso se stessi: è la regola di chi, in Italia, va cercando in ogni modo impunità.

In questo quadro, anche l’incredibile diventa possibile: rovistando nelle pieghe della manovra finanziaria si scoprono tagli consistenti alle spese di giustizia e ulteriori riduzioni negli organici (già pesantemente sofferenti) di segretari e cancellieri. Colpi da ko, letteralmente, per una giustizia che già barcolla. Con buona pace per la tutela dei diritti dei cittadini (a partire dalla sicurezza). Ma con la prospettiva di ripartire dalle macerie - se non proprio volute, quanto meno «volentieri» non impedite - per edificare una casa nuova: riformando il Csm, cancellando l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendo quella separazione delle carriere che avrà come interfaccia - inevitabilmente - la dipendenza dei pm dal governo. Così i giochi (con la ciliegina della riesumazione dell’immunità parlamentare dopo il lodo) saranno fatti: e quei rompiscatole di magistrati se ne staranno finalmente buoni nel recinto tracciato dalla politica. Una politica al riparo dai controlli e quindi non più costretta a proclamare rispetto per la legalità, laddove è l’orticaria per le regole che la fa (in verità trasversalmente) da padrona.

Strutturali - rispetto alla strategia della inefficienza efficiente - sono le martellanti campagne tese ad avvalorare l’esistenza di atteggiamenti giustizialisti o peggio di una persecuzione giudiziaria nei confronti di questo o quel personaggio «eccellente». Tali campagne hanno l’effetto di erodere in radice la credibilità della giustizia. Se lo dicono «loro», con il peso che deriva dalle prestigiose cariche ricoperte, ogni cittadino soccombente in una causa civile o condannato in un processo penale la penserà allo stesso modo. Un momentaccio, per la magistratura. Alessandro Galante Garrone ha scritto che «a volte non basta, per un giudice, essere onesto e professionalmente preparato; in certe situazioni storiche, per poter ricercare e affermare la verità, con onestà intellettuale, bisogna essere combattivi e coraggiosi». Che oggi vi sia una situazione di questo tipo lo teme Federico Orlando, quando scrive (Europa - 16.7.08) che per la «casta» dei magistrati non c’è «bisogno di suggerimenti, perché la casta si autosuggerisce», magari vedendo che certi difensori sono «diventati nuovamente ministri o addirittura alte cariche protette da scudi». Per cui in certi casi «(la casta) si autolimita».

Ho ancora sincera fiducia nella forte tenuta della magistratura, ma sarebbe sbagliato nascondere la rilevanza del tema posto da Orlando. Che gira e rigira è il problema della linea di confine fra attacco e intimidazione. Con il corollario di alcuni interrogativi ineludibili. È giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato sol perché indaga o eventualmente condanna - per fatti specifici, non certo per il suo «status» - un personaggio pubblico? Giustizia giusta è solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità dei giudizi?

La posta in gioco è evidente. Riguarda la Costituzione repubblicana, il rischio che essa stia subendo - nelle prassi se non nelle forme - curvature negative sul piano di alcuni principi fondamentali. Un pessimo viatico per le preannunziate riforme d’autunno, nel senso che se il buon giorno si vede dal mattino saranno riforme non della giustizia ma dei giudici, la cui «efficienza» sempre più sarà misurata sulla capacità di conformarsi agli orientamenti del governo.

PS. Agli ipocriti che bollano l’indipendenza della magistratura come privilegio di una casta irresponsabile, è facile replicare che senza indipendenza della magistratura non si può neppur concepire una giustizia giusta, almeno tendenzialmente uguale per tutti. Se non c’è indipendenza, inevitabilmente qualcuno potrà indicare ai magistrati chi favorire e chi invece maltrattare. Ecco perché l’indipendenza della magistratura è un privilegio, sì: ma dei cittadini che vogliano continuare ad essere uguali.

Procuratore Generale di Torino

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 30, 2008, 09:22:03 am »

30/7/2008
 
Quando le toghe non andavano in tv
 
 
 
SANDRO DELMASTRO DELLE VEDOVE
 
Gentile direttore,
sono avvocato ed ho letto il pensiero del dott. Gian Carlo Caselli su La Stampa di domenica 27 luglio alla pagina 35.
Spero sia lecito, pur di fronte alla sacralità del personaggio, esprimere il più profondo dissenso.

Trasuda dalle quattro colonne di piombo offerte da La Stampa al Procuratore Generale di Torino non solo l’ansia doverosa per il buon funzionamento della giustizia, ma anche la critica aperta, inaccettabile, nei confronti del governo; affiora nettamente l’impegno politico che dovrebbe essere distante, secondo la mia personale opinione, anni luce dalla figura del magistrato.

Confesso allora di essere uno di quegli «ipocriti che bollano l’indipendenza della magistratura come privilegio di una casta irresponsabile» (come Caselli, con grande rispetto per le altrui opinioni, descrive coloro che la pensano diversamente da lui). Da trentatré anni faccio l’avvocato e, caro dottore, se vogliamo eliminare «l’inefficienza efficiente» (come Lei suggestivamente scrive), cominciamo a far sì che i magistrati in servizio girino meno le scuole della Repubblica per insegnare la retorica della giustizia, e cominciamo a timbrare, tutti quanti, la cartolina all’ingresso ed all’uscita dai Tribunali.

Ho a mie mani, per combinazione, una edizione del 1880 dell’allora vigente codice di procedura civile (non esiste, dr. Caselli, soltanto il processo penale, ma esiste anche il processo civile!). L’art. 147 (Del termine per comparire) prevedeva il termine di giorni dieci (!!) se il luogo in cui si eseguiva la citazione coincideva con quello in cui si doveva comparire; di giorni dodici (!!) se i luoghi erano diversi ma nello stesso mandamento; di giorni quindici (!!) se i luoghi erano nella giurisdizione della corte d’appello. Erano, storicamente, i tempi in cui i magistrati non potevano ancora comparire in televisione (non essendo ancora stata inventata), non facevano conferenze e non si facevano fotografare.

Il povero avvocato Fulvio Croce, barbaramente assassinato, a me giovanissimo praticante, parlando dei magistrati, diceva che i problemi erano cominciati quando i giornali avevano iniziato a pubblicare il nome ed il cognome dei giudici e non più ad indicare anonimamente l’ufficio. E non erano, quelli, i tempi in cui le toghe facevano le rivoluzioni per ipotesi di provvedimenti del governo - come di recente accaduto - ricalcanti, fra l’altro, una «circolare Maddalena». È legittimo ed anzi positivo che il dott. Caselli faccia conoscere il suo pensiero: se, peraltro, è legittimo, in questa Repubblica ... "magistratocratica", che anch’io possa esprimere il mio, spero, a maggior ragione dopo aver letto il Caselli-pensiero, che venga presto il mese di settembre per quella riforma della giustizia che restituisca il purtroppo violato principio della divisione dei poteri e che sancisca finalmente tutto ciò che al dr. Caselli non piace. Questa è la mia personale opinione, condivisa da moltissimi avvocati che peraltro preferiscono, spesso (anche se, per fortuna, non sempre), tenerla per sé.

avv. Sandro Delmastro Delle Vedove, Biella
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:58:05 pm »

10/6/2009
 
La sicurezza? Per qualcuno è un optional

 
GIAN CARLO CASELLI
 

Caro Direttore,
sicurezza. Sicurezza. Sicurezza... Un bene primario, non c’è dubbio. Da tempo lo si invoca, nel nostro Paese, con toni sempre più forti. In campagna elettorale spesso esagitati. Ma la propaganda e le strumentalizzazioni possono giocare brutti scherzi. Per esempio possono spingere a scelte illogiche, incoerenti al limite della schizofrenia. Penso a chi per tutelare la sicurezza ha previsto persino l’impiego dell’esercito nelle strade. Penso a chi ordina alla flotta di respingere in Libia dei disgraziati in cerca di sopravvivenza. Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre città con ronde di salute pubblica. Attenzione: non voglio discutere (in questa sede) il merito dei provvedimenti. Mi chiedo invece come si possa mettere in campo, su alcuni versanti, tutto e di più (esercito, flotta e ronde), quando quel che funziona su altri - ancor più decisivi - versanti viene disinvoltamente smantellato. Mi riferisco alla nuova disciplina delle intercettazioni, che della sicurezza sembra farsi carico poco o nulla, dal momento che si ostacolano o si condannano ad esiti infausti le indagini su delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e più solido baluardo. Con buona pace, appunto, della logica e della coerenza nelle scelte.

L’esperienza di una qualunque Procura offre ogni giorno un elenco interminabile di casi risolti grazie alle intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono individuati, e persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali. La nuova disciplina ne riduce drasticamente le potenzialità, di fatto lega le mani agli investigatori. Ciò significa (non c’è trucco che possa cancellare questa verità) garantire impunità o quasi a fior di delinquenti che non siano mafiosi o terroristi ma «soltanto» assassini, rapinatori, estortori, stupratori, pedofili, bancarottieri, corruttori, usurai, sfruttatori di prostitute, trafficanti di droga e via elencando. Semplicemente assurdo. Ancor più assurdo se a pretendere o a sostenere la riforma, accettando una sicura catastrofe per la loro e la nostra sicurezza, sono proprio coloro che continuamente strillano di «tolleranza zero».

Per cogliere meglio tale assurdità, supponiamo che un portavoce del Governo si presenti all’ordine dei medici per dire: «voi avete a disposizione radiografie, tac, risonanze magnetiche e altre cosucce del genere. Bene, da domani si cambia. Tornate alle sanguisughe e accontentatevi. Vuolsi così colà dove si puote...». Se mai questo paradosso (proposizione formulata in contraddizione con i principi elementari della logica) diventasse realtà, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, leghista o democratico di sinistra, berlusconiano o finiano, consentirebbe a chicchessia di giocare con la sua pelle. Ci sarebbero tumulti di piazza in ogni dove, per difendere il sacrosanto diritto alla salute.

Spostiamoci ora dal settore della sicurezza sanitaria a quello della sicurezza sociale. Le intercettazioni sono vere e proprie «radiografie giudiziarie» che consentono di vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Bene: la riforma delle intercettazioni su cui il Governo intende mettere la fiducia equivale al discorso ipotizzato per i medici. E come se ai magistrati e alle forze dell’ordine si dicesse: scordatevi le intercettazioni, rinunziate a questi strumenti di indagine; troppo moderni; tornate alle «soffiate» di qualche confidente. Difatti, consentire le intercettazioni soltanto quando vi sono indizi di colpevolezza «gravi» (la sostanza non cambia scrivendo «obiettivi» o «rilevanti») significa che in sostanza le intercettazioni potranno essere date soltanto in rari casi e che un bel numero di delinquenti (molti, molti più di oggi) riusciranno a farla franca. Forse che quando si tratta di intercettazioni ci si può consentire il lusso di ridurre la sicurezza ad un optional? Fino a che punto i cittadini si rendono conto che con una mano si alzano muri (magari di cartapesta) e con l’altra si smantellano i veri bastioni della sicurezza, cioè le intercettazioni? Sembrerebbe che i cittadini siano vittime di un qualche sortilegio, perché se ne stanno buoni, mentre se si trattasse di sicurezza sanitaria protesterebbero, eccome!

Nessuno nega che vi sia il problema di impedire l’uso processuale e più ancora la divulgazione delle intercettazioni relative a soggetti, fatti o circostanze che sono estranei all’oggetto del processo. Al riguardo il progetto di riforma fissa dei paletti rigorosi e merita approvazione. Ma al di là di questo perimetro le potenzialità investigative delle intercettazioni vanno garantite, nell’interesse dei cittadini comuni. Anche se qualche «potente» la pensa diversamente. Perché da sempre gli «arcana imperii» segnano le barriere con cui il potere cerca di proteggere le sue deviazioni. Le intercettazioni violano queste barriere, mettono a nudo il potere. Per cui ben si spiega l’ostilità di certa politica per gli incisivi controlli che le intercettazioni consentono. Ma questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare un siluro sotto la linea di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri italiani.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:52:47 pm »

Politica
26/03/2013 - il caso

Caselli scrive al Csm: “Chiedo tutela dalle accuse di Grasso”

Il procuratore di Torino: «Accuse e allusioni suggestive dal presidente del Senato, distorti fatti riguardanti la mia attività di magistrato»


Il nome “Pietro Grasso” non lo ha fatto. Ma il procuratore Gian Carlo Caselli si è riconosciuto come il bersaglio delle parole che il presidente del Senato, durante la trasmissione tv “Piazza Pulita”, ha pronunciato contro le inchieste condotte come una «gogna pubblica». E il magistrato, oggi, ha scritto al Csm, nella persona del vicepresidente Michele Vietti, chiedendo di «essere adeguatamente tutelato» da quelle che ritiene «accuse e allusioni suggestive».

«Ci sono stati dei processi che hanno certamente portato all’arresto di imputati che poi sono finiti con assoluzioni», aveva detto Grasso davanti alle telecamere, spiegando di essere contrario a certe inchieste «spettacolari» che «distruggono carriere politiche» ma finiscono in un nulla di fatto e, tra l’altro, portano alle «ritorsioni» contro i magistrati e alle «controriforme» che danneggiano il sistema. E Caselli non ci sta. Anche perché, come non manca di osservare nella lettera, il presidente del Senato ha tenuto il suo «lunghissimo monologo» in tv proprio nello stesso giorno in cui Marcello Dell’Utri è stato condannato per mafia a 7 anni, una «sentenza - mette nero su bianco - relativa a procedimento avviato dalla procura di Palermo quando il sottoscritto ne era a capo».

L’intervento della seconda carica dello Stato, secondo Caselli, oltre a non essere «rispettoso» del principio della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura, «insinua che nel mio operato sarebbe stato caratterizzato dalla tendenza a promuovere e gestire processi che diventano gogne pubbliche ma restano senza esiti, mentre tutta la mia esperienza professionale si è sempre e soltanto ispirata all’osservanza della legge, al rispetto dei presupposti in fatto e diritto necessari per poter intervenire e alla rigorosa valutazione della prova».

Caselli, nella puntata di “Piazza Pulita”, non è stato solo un convitato di pietra: il nome del procuratore torinese è stato menzionato a proposito del concorso, nel 2005, per la guida della Direzione nazionale antimafia. Da quella partita Caselli venne escluso da una norma, da lui sempre definita «contra personam», varata dalla maggioranza di centrodestra e che, in effetti, all’epoca veniva rivendicata «con piacere» dal senatore Luigi Bobbio (An). Al posto di Caselli venne scelto Grasso. Il quale, in tv, ha spiegato che «c’è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare» prima che il codicillo anti-Caselli entrasse in vigore, e non lo fece. La Consulta decreto’ l’illegittimità costituzionale della norma nel 2007, a giochi ormai fatti. 

da - http://lastampa.it/2013/03/26/italia/politica/caselli-scrive-al-csm-chiedo-tutela-dalle-accuse-di-grasso-aAd7cYXNL80HBoCjPly6qN/pagina.html
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