"La mia Europa non c'è più"
Eugenio Scalfari intervista Romano Prodi
L’emergenza profughi. Gli egoismi nazionali.
La crisi dell’Unione. E poi il terrorismo, la Libia,
lo sviluppo dell’Africa, la Cina. La storia,
il presente e le prospettive future nell’intervista all'ex presidente del Consiglio
Di Eugenio Scalfari
17 giugno 2015
Romano Prodi. Una famiglia cattolica nella quale però ciascuno pensa come gli pare, una quantità di fratelli nati tra Bologna e Reggio, adesso tra figli, mogli, nipoti, cugini, famiglie delle mogli, pronipoti, sono diventati centinaia. Un giorno all’anno, Natale o Capodanno non me lo ricordo più, si riuniscono tutti insieme. Festeggiano. Che cosa? La fratellanza credo. Sì, festeggiamo la fratellanza (mi dice Romano) forse il più bello dei sentimenti perché quelli buoni li contiene tutti, l’amore, l’amicizia, la parità dei generi, l’amore del prossimo, l’alleanza, la pace, la gentilezza, la bontà.
Tutto ciò detto, non si creda che i Prodi siano stinchi di santi. Romano in particolare. Ha i suoi avversari, i suoi concorrenti, i suoi nemici. I torti che subisce li perdona ma non li dimentica e prima o poi pareggia il conto. Insomma è un uomo con le virtù e i difetti degli uomini, ma averlo come amico è una fortuna e io l’ho avuta.
Ci fu un periodo in cui ci vedevamo e ci telefonavamo almeno una volta alla settimana, poi il passare degli anni e degli affanni ha diradato gli incontri ma io ho sempre letto i suoi scritti e seguito le sue azioni nella vita pubblica italiana ed europea e lui ha fatto altrettanto con me. Abbiamo pochi ma fedeli amici comuni e parecchi comuni nemici. Soprattutto detestiamo gli ipocriti, i vanitosi, gli egoisti e i voltagabbana.
Un paio di mesi fa c’eravamo incontrati a pranzo in casa di Fabiano Fabiani e io avevo espresso il desiderio di intervistarlo. Gliene ho fatte molte di interviste nel corso degli anni, ma ora è gran tempo che non ne facciamo più: chiacchierate, incontri, analisi di problemi. Ed anche ora, per fare il punto in una fase dove fare il punto è la cosa più difficile.
Sono le undici e mezza del 12 giugno. Ci abbracciamo in una saletta dell’“Espresso”. Ci sono con noi il direttore Luigi Vicinanza, Marco Damilano, Gigi Riva, Marco Pratellesi e Leopoldo Fabiani, anch’essi dirigenti del settimanale che compirà il 2 ottobre prossimo sessant’anni di storia.
Prodi si è svegliato alle 5 e mezzo di questa mattina e ha corso per due ore. Lo fa sempre, ovunque si trovi. Una volta alla settimana percorre un centinaio di chilometri in bicicletta: un ragazzo, anche se non ha affatto l’aspetto di un atleta. Però è fatto così.
Cominciamo e la prima domanda è questa: «Dimmi per favore qual è il problema che ti tocca e ti colpisce più di tutti».
Risponde: «Ci sono nel mondo 250 milioni di persone che vivono in Paesi ed anzi in continenti diversi da quelli dove sono nati. Duecentocinquanta milioni di emigrati. Questo è il problema. Non è affatto detto che sia un male, anzi, il fatto che gli abitanti del pianeta si mescolino tra loro è un bene, biologico, economico, sociale, culturale. Ma suscita problemi a volte gravi e addirittura gravissimi: rivolte, guerre, terrorismo, mafia. Insomma il peggio del peggio invece del meglio del meglio come potrebbe e dovrebbe accadere».
Da qui siamo partiti per discutere insieme nientemeno che i problemi del mondo. Chiedo scusa ai lettori ma Romano ed io, quando ci incontriamo, facciamo così.
***
Tu sei uno che ha fatto carriera. Spero non ti dispiaccia se te lo dico.
«Perché dovrebbe dispiacermi? Sì, ho fatto carriera nel senso che ho ricoperto molti incarichi ma assai diversi uno dall’altro, quindi non è una carriera vera e propria. Molti incarichi».
Vuoi dirli, possibilmente in ordine cronologico?
«Il primo fu quello di ministro dell’Industria, ma durò solo pochi mesi. Quando non ci fu più bisogno di alcune mie competenze mi scaricarono».
Eri iscritto a qualche partito? Eri democristiano?
«No. Avevo molti buoni amici tra i democristiani, ma non ero un Dc in cerca di prebende. Sono stato di rado iscritto ad un partito. Qualcuno l’ho fondato, per esempio il Pd, nato dall’unione tra i Ds e la Margherita. Comunque non era quello il mio genere».
Che cosa facesti al ministero dell’Industria?
«Dovevo risolvere due problemi: la crisi della siderurgia di altoforno che era ormai dislocata in Paesi dove il costo di produzione era molto più basso che in Italia e la crisi della chimica petrolifera dove operavano Nino Rovelli della Sir e Raffaele Ursini della Liquichimica, in rotta di collisione con l’Eni e con la Montedison. Non fu un’impresa facile ma qualche risultato lo ottenni».
Quella crisi veniva da una lunga storia: cominciata dopo la morte di Enrico Mattei. Il suo successore alla guida dell’Eni, Eugenio Cefis, aveva conquistato la Montedison.
«Quella conquista cambiò le cose. Tu scrivesti allora col tuo amico Peppino Turani il libro intitolato “Razza padrona”, fu un classico dell’epoca, un attacco in grande stile contro Cefis».
Sì. Un attacco che si risolse positivamente, sia pure a distanza di anni. Si era formato un fronte: Cefis con Fanfani da un lato e dall’altro Rovelli, l’Anic del gruppo Eni e il presidente dell’ente petrolifero Raffaele Girotti dall’altro, con l’appoggio dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
«Ricordo benissimo. Ci fu anche lo scontro per la conquista della Bastogi che fu bloccato da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia».
Qualche anno dopo tu diventasti presidente dell’Iri e ci restasti per parecchi anni. Ti ricordi come avvenne quell’incarico?
«Certo. Mi era stato offerto varie volte dalla Dc e anche da Craxi che era allora presidente del Consiglio, ma io avevo sempre rifiutato. Poi mi telefonasti tu, un amico giornalista ma non un politico. Fu una lunga telefonata e tu mi dicesti per quali ragioni solo io in quella fase potevo e anzi dovevo accettare quell’incarico nell’interesse del Paese. Ti risposi che ci avrei pensato e ci pensai. Infatti il giorno dopo accettai l’incarico. Il mio programma fu quello di trasformare l’Iri in un ente preposto agli investimenti pubblici capaci di rilanciare l’Italia industriale e soprattutto il Mezzogiorno, vendendo invece ai privati le aziende alimentari che non aveva nessun senso detenere in un ente pubblico. Infatti cominciai col vendere la Sme. Ma Craxi era contrario e così Berlusconi presentò un’offerta che ebbe l’effetto di bloccare quella vendita».
Però, dopo l’Iri, tu hai presieduto il governo dell’Ulivo dal 1996 al ’98 e fu uno dei migliori governi del dopoguerra.
«Ora esageri. Fu un buon governo, sì, buttato giù dagli stessi personaggi che ne avevano patrocinato la nascita».
In Italia capita spesso. Tu comunque, con Ciampi tuo ministro del Tesoro, hai portato l’Italia nell’euro. L’Italia, per merito di Ciampi e tuo, è stata tra i fondatori dell’euro. Ne parleremo tra poco. Tu facesti poi un secondo governo, ma prima fosti nominato presidente della Commissione europea.
«Sì. Ci rimasi sette anni e portai i membri dell’Ue da 15 a 25. E' stato molto discusso questo spostamento a Est delle frontiere europee. Io ho sempre pensato che fosse necessario e inevitabile».
Fu l’Italia a patrocinare la tua nomina a Bruxelles?
«Dicono che l’Italia ne fu soddisfatta ma chi volle realmente la mia nomina fu la Gran Bretagna di Tony Blair».
Questa è una notizia.
«Sì, ma è la verità anche perché il Paese di rilievo nell’Ue non era la Germania ma l’Inghilterra, punto di riferimento europeo degli Stati Uniti d’America».
***
Lo guardo fisso mentre ricorda la situazione di allora e penso quanto siano cambiate le cose: nuove alleanze, nuovi equilibri e nuove prospettive. A quell’epoca, che non è poi così remota, il modo corrente di chiamare quel paese era Inghilterra, adesso non sai più quale sia il suo vero nome: Regno Unito? Non è mai stato così diviso.
«A che cosa stai pensando?» domanda Romano. Glielo dico e lui sorride con quello sguardo e quel sorriso da parroco di campagna.
Ricordi il discorso di Winston Churchill a Zurigo nel 1946? Un anno prima aveva perso le elezioni dopo aver vinto la guerra. Sempre nel ’46 aveva pronunciato a Fulton il famoso discorso sulla “cortina di ferro” che divideva l’Europa in due. Quello di Zurigo fu una vera sorpresa.
«Infatti. Disse che il suo Paese non poteva più coltivare la sua indipendenza, la sua storia, considerarsi come l’ago della bilancia mondiale. Non c’era più quel ruolo, perciò doveva scegliere: diventare la cinquantesima stella della bandiera americana oppure partecipare alla costruzione di un’Europa unita di cui Londra sarebbe stata la vera capitale, la sterlina la sua moneta, l’inglese la sua lingua franca e l’America il partner che avrebbe tenuto unito tutto l’Occidente».
Allora la società globale non era ancora nata.
«Per certi aspetti sì: la Cina di Mao stava emergendo. L’Urss era addirittura a Berlino e aveva occupato mezza Germania, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, i Paesi Baltici, la Polonia. Insomma due imperi contrapposti e uno emergente. Questo Churchill l’aveva capito ma i suoi conservatori no e i laburisti nemmeno».
Però non l’aveva capito nessuna delle nazioni europee. Solo alcuni visionari in Italia e in Francia. Mosche bianche. Purtroppo siamo ancora allo stesso punto. Puoi dirmi perché?
«Tu l’hai scritto varie volte: l’Europa è un continente di Nazioni. Ai popoli non interessa l’Europa, ma quello che accade nei loro Comuni. La classe dirigente economica è ancora protezionista e non parliamo di quella politica: vuole sì un’Unione europea, confederata non federata. Ogni Stato ha un potere di veto e la sua voce autonoma, la sua lingua, la sua cultura. I partiti e i loro capi non vogliono essere declassati. Perciò gli Stati Uniti d’Europa, che tu e anche io vorremmo, non si faranno».
L’Italia però fu tra i fondatori della Comunità, tra i fondatori dell’euro, avrebbe tutto l’interesse alla federazione del continente.
«Invece è quella che non lo vuole, come e più degli altri».
Renzi?
«Non faccio nomi e non voglio personalizzare una così evidente assenza di visione politica. Del resto la Francia è ostile alla federazione come l’Italia e non parliamo della Gran Bretagna».
Ma la Germania?
«Qui il discorso è più complicato».
Hai ragione. Perciò direi di farlo.
***
«Abbiamo cominciato con l’immigrazione. Vorrei ripartire da lì. Un anno fa per un incarico avuto dall’Onu mi incontrai con il presidente del Niger, uno dei Paesi più popolati dell’Africa. Esordì con una cifra: il Niger, mi disse, raddoppia ogni dieci anni la sua popolazione ma la vita media scende drammaticamente. Era di 28 anni, adesso è di 15. Lei si rende conto di che cosa significa? Se continua così, tra dieci anni saremo un paese con milioni e milioni di abitanti bambini, un paese di bambini. Una catastrofe immensa. E temo che non sia solo il Niger in queste condizioni».
E' spaventoso quanto mi dici. Però da quello che risulta, negli altri Paesi africani le cose demograficamente non stanno così.
«E' vero, nel senso che l’età media non diminuisce ma la popolazione comunque aumenta in mezzo ad epidemie, guerre civili, terrorismo».
Insomma mi vuoi dire che l’Africa nel bene e nel male è il continente del futuro.
«Sì, ma del futuro povero non di quello emergente. Comunque, Africa e Asia: quella è la società globale e noi non possiamo affrontare quel bene e quel male con i nostri Stati nazionali. Saremo barconi affidati alle onde, come quelli che oggi affrontano il mare per venire da noi. C’è un trasferimento d’interi popoli in atto e noi dobbiamo essere uniti per affrontarli».
Dovremo imporre a tutti gli europei di ripassarsi la storia della guerra di secessione americana e di Abramo Lincoln. Seicentomila morti costò quella guerra e con la sconfitta della Confederazione nacque la vera Federazione. E fu soltanto il primo passo. L’Europa ha vissuto in mezzo alle guerre per un millennio, quindi abbiamo già dato. Ma non vogliamo essere uniti. Ne parliamo, sta scritto perfino nel Trattato di Lisbona, ma giace ineseguito. Forse la Germania, forse la Merkel. Tu la conosci. Conosci anche Putin e gli africani e i cinesi. Dovrebbero affidare a te di dipanare questa matassa aggrovigliata.
«A volte ti scordi di essere un osservatore e prevale l’amicizia, ma io non sono la persona adatta come tu pensi. Non sono un protagonista e neppure mi va di esserlo. Posso dare qualche consiglio ma niente di più».
Allora, la Germania. La vedo in continua oscillazione, eppure Kohl non era così, Schröder neppure e tantomeno, prima di lui, Adenauer e Schmidt. Democristiani e socialdemocratici. E la Merkel?
«Vuoi conoscere il mio pensiero? Eccolo. La Merkel, di fatto, rappresenta la potenza egemone dell’Europa e questa sua funzione la esercita quando si tratta di far fronte alle emergenze. Ma il popolo tedesco è molto autoreferenziale. Vuole il proprio benessere; il muro di Berlino è caduto, i tedeschi hanno fatto ammenda del nazismo, ma i giovani non sanno neppure che cosa è stato quell’orribile partito. La memoria è stata rimossa, ma dal popolo non dai capi. In alto c’è ancora un complesso di colpa, infatti non c’è riarmo in Germania e non si partecipa a guerre guerreggiate. Ma, lo ripeto, il popolo è autoreferenziale, pensa al suo Paese ed è convinto che anche in una società globale la Germania avrà un ruolo, tanto più che è ormai il vero punto di riferimento in Europa da parte degli americani».
Io non credo che la Germania abbia un suo ruolo nella società globale.
«Forse hai ragione, ma loro la pensano così».
I movimenti antieuropei in Germania sono di modesta entità.
«Proprio perché la Germania c’è, ma l’Europa no».
Insomma tu non credi che la federazione europea ci sarà.
«Io lo spero. Vedo che una delle teste più lucide in materia è Mario Draghi. Lui sta lavorando in quella direzione».
E la Merkel lo incoraggia.
«Diciamo che lo utilizza. Ma lui va oltre, per nostra fortuna. Però arriverà un momento in cui la Merkel dovrà varcare il suo Rubicone. Speriamo che avvenga».
E la Francia? C’è ancora il direttorio franco-tedesco che dovrebbe guidare l’Europa?
«Non c’è più da un pezzo. C’era ancora con Mitterrand, poi è svanito anche se la Merkel fa finta che ci sia per pura gentilezza».
Infine: Draghi prepara ma Merkel deve concludere.
«E' così. Del resto una Banca centrale deve sempre avere un interlocutore politico e sempre è stato così».
Concludiamo con il problema libico, se sei d’accordo, che comprende le questioni del Califfato e del terrorismo islamico.
«Bisogna distinguere tra l’emergenza e il problema africano, ma di quello abbiamo già parlato. Dunque resta l’emergenza».
Qualche tempo fa tu parlasti d’un intervento di alcune potenze musulmane che agendo insieme avrebbero potuto ricostruire moralità e legalità in Libia e affrontare e battere il Califfato. Pensavi alla Turchia, all’Egitto, al Qatar e all’Arabia Saudita. Pensi ancora così?
«No. In questi ultimi due anni e in particolare negli ultimi mesi tutto è cambiato. Queste potenze sono ormai contrapposte. Gli interessi sono cambiati. L’Iraq è in totale disfacimento, altrettanto la Siria; l’Iran torna ad affacciarsi sulla scena. La Cina compra petrolio e si inserisce nell’Africa mediterranea, sunniti e sciiti si combattono ovunque. Affidarsi ad un eventuale accordo di queste potenze è diventato impossibile».
E allora?
«L’emergenza richiede che dopo Gheddafi torni la legalità politica in Libia e il Califfato venga sconfitto militarmente. Il terrorismo resterà più a lungo ma non aspirerà più ad essere anche una potenza politica e militare. A questo punto ci vuole dunque un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, cioè dei suoi cinque membri permanenti: Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia. Gli ultimi due contano poco. I primi tre moltissimo. Un loro intervento, con l’appoggio locale di Tunisia, Algeria e Marocco, sarebbe decisivo. Se questo accordo ci sarà, un solo governo libico e la sua Banca centrale potrebbero ricostruire il Paese e predisporre un’accoglienza degli africani in cerca di imbarcarsi per l’Europa, via Italia. E spetterebbe all’Europa distribuire l’accoglienza con l’appoggio dell’Onu e delle Autorità europee. Naturalmente un coinvolgimento di Putin comporta una soluzione, che sia pacifica ed equa, della crisi ucraina».
Mi pare molto difficile che tutto questo avvenga.
«È difficile ma altra soluzione non c’è. Non ti sfugge che questo comporta anche un passo avanti dell’Europa verso una sua Federazione. Le cose si tengono».
Ci alziamo e ci stringiamo la mano. Abbiamo parlato per due ore e adesso sono un po’ stanco. Ma Prodi probabilmente si farà un altro giro in bicicletta.
© Riproduzione riservata
17 giugno 2015
Da -
http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/06/17/news/la-mia-europa-non-c-e-piu-eugenio-scalfari-intervista-romano-prodi-1.217523