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Autore Discussione: PRODI  (Letto 84034 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 26, 2014, 10:53:44 am »

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Romano Prodi: “D’Alema mente. Siamo in una gabbia di matti, e la chiave è persa”

In una lettera al Corriere della Sera l'ex dirigente Pci nega di essere stato lui il regista del complotto. Il professore al Fatto: "Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”

di Emiliano Liuzzi
13 febbraio 2014

Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Democratici di sinistra prese il posto a Palazzo Chigi dell’unico esponente del centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.

Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.

Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.


In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.

Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari.

A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.

Da Il Fatto Quotidiano del 13 febbraio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/13/romano-prodi-dalema-mente-siamo-in-una-gabbia-di-matti-e-la-chiave-e-persa/879869/
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:25:19 pm »

Romano Prodi: "Nuova corsa al Quirinale? È game over.
Ho fiducia in Renzi, ma deve fare presto"

L'Huffington Post  |  Pubblicato: 31/03/2014 08:26 CEST  |  Aggiornato: 31/03/2014 08:27 CEST


È una promozione in piena regola dell'operato del governo Renzi, quella che l'ex premier Romano Prodi affida in una lunga intervista a Repubblica. "Il nuovo governo - spiega Prodi - ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci [...] Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti". Non che la fiducia sia senza condizioni "il problema - aggiunge Prodi - è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Renzi deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene [...]. Se c'è tutto questo, siamo sulla strada giusta. Io sono in fiduciosa attesa".

Riguardo alla vicenda dell'impallinamento nella corsa al Quirinale, l'ex premier giura che è acqua passata. "Con molta sincerità - dice - della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente [...]. Non sono affatto amareggiato. Semmai, mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse "al Quirinale chiunque, ma non Prodi". Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replicò nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo".

Sarà anche per questo che di pensare a una nuova scalata al Quirinale, per ora, non ne ha minima voglia. "Sono un uomo felice", spiega. "In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un tweet".

Con il partito non ci sono rancori, assicura ancora Prodi. "Può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l'unico partito vivo che c'è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza".

È sull'Europa che il professore ha voglia - eccome - di parlare. Si dice "preoccupato per il virus francese", che tuttavia non lo sorprende: "solo la Germania è immune - spiega - perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona dell'Europa". Secondo Prodi, "è chiaro che se oggi, per rispettare il "tetto magico" del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere i deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. Ed è proprio questo che l'Europa non fa".

Ciò non significa - procede Prodi - che non dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Il punto è che "dobbiamo pretendere dall'Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l'economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/03/31/romano-prodi-corsa-al-quirinale_n_5060975.html?1396247225&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #92 inserito:: Aprile 03, 2014, 06:36:43 pm »

Romano Prodi: "Il Pd di Renzi è l'unico partito vivo, giusta la battaglia contro i no tedeschi"

L'ex premier: "Positiva la scelta del governo di concentrare benefici sui lavoratori. Lavori troppo precari non giovano e il tema non è l'articolo 18. Le riforme istituzionali vanno fatte cercando il massimo consenso"

di MASSIMO GIANNINI
   
L'ex premier dice di sentirsi "un uomo felice", si chiama fuori dalla futura corsa per il Quirinale e promuove Matteo Renzi. "È la grande aspettativa di rinnovamento, ma non deve deluderla, de- ve fare in fretta ma deve soprattutto fare bene". A partire dalla battaglia che sta conducendo in Europa: "Noi dobbiamo onorare il fiscal compact, ma non possiamo accettare che ci leghino le gambe e poi ci chiedano di correre.

Se oggi, per rispettare il tetto magico del 3 per cento, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo". Le colpe sono un po' di tutti: "Chi ha sentito più parlare della Commissione Ue?". Il virus antieuropeista però preoccupa: "Solo la Germania ne è immune perché la Merkel ha difeso gli interessi nazionali ed è diventata la padrona d'Europa"

Presidente Prodi, in Europa i popoli voltano le spalle ai governi. Come dice Bauman, i palazzi della politica sono vuoti, perché il vero potere è altrove, dai mercati alle banche. Cosa sta succedendo?
"Con una diagnosi semplicistica, si potrebbe dire che la ripresa mondiale è lenta, e in Europa è ancora più lenta. In realtà il male europeo è molto più complesso. Non c'è un solo cambiamento nella storia dell'umanità che veda l'Europa protagonista. Prenda la crisi ucraina: Putin chiama Obama, anche se gli Usa non c'entrano nulla. Ma vale la famosa domanda di Kissinger: qual è il numero di telefono dell'Europa? Nessuno lo sa. Nel frattempo, l'Europa è dominata dalla paura, dagli egoismi nazionali. Ogni leader europeo guarda alle prossime elezioni, non alle prossime generazioni".

Risultato: vincono gli anti-europeisti, come nella Francia di Marine Le Pen.
"Il virus francese mi preoccupa, ma non mi sorprende. Solo la Germania è immune, perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona d'Europa. Ma è assurdo che un Paese con un surplus commerciale di 280 miliardi, un'inflazione zero e un modesto tasso di crescita, si rifiuti di reflazionare la sua economia, e di consentire che l'Europa faccia altrettanto, solo perché questo verrebbe vissuto dai tedeschi come una 'elemosina a favore dei pigri meridionali".

E non è così?
"Ovviamente no. Ma qui sta anche la responsabilità di noi "latinos". Non siamo in grado di esprimere un progetto politico unitario e condiviso non "contro" la Germania, ma a favore dello sviluppo e del lavoro. Su questo non vedo proposte concrete, né in Italia né altrove. Il modello sono gli Usa, che hanno iniettato nel sistema 800 miliardi di dollari in un colpo solo. Ci vorrebbe un po' di sano keynesismo...".

Dovremmo riscrivere i Trattati europei, smontando i famosi parametri che proprio lei una volta definì "stupidi"?
"Non ho mai pensato che si debbano rivedere i parametri. Li ho definiti 'stupidi', nel senso che vanno sempre tarati sui cicli dell'economia. E' chiaro che se oggi, per rispettare il 'tetto magico del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. E' questo che l'Europa non fa. Dovrebbe mutualizzare i debiti pubblici e lanciare gli eurobond, ristabilire lo spirito solidaristico che a fine anni '90 ci consentì di azzerare gli spread, rafforzare le sue istituzioni rappresentative. La Bce, per quanto faccia, non potrà mai sostituirsi al Consiglio europeo. E mi dica, ha più sentito parlare della Commissione Ue?".

Grillo urla: usciamo dall'euro. Che effetto le fa, da "padre fondatore" della moneta unica?
"Questo è un Paese senza memoria. Usciamo dall'euro, facciamo come l'Argentina: follie. Dal giorno dopo avremmo Btp svalutati del 40%, tassi di interesse al 30%, Stato al collasso, banche fallite, dazi contro le nostre merci anche da parte dei paesi europei. Qualche anima bella obietta: avremmo le svalutazioni competitive! Altra follia. Una bilancia commerciale in attivo dello 0,6% del Pil è la prova che ai nostri imprenditori, non certo tutti pigri e poco competitivi, quello che oggi serve non sono le svalutazioni competitive, ma un rilancio della domanda e dei consumi interni, accompagnato da una drastica semplificazione delle regole e dalla ripresa della lotta all'evasione fiscale".

Renzi e Padoan hanno ragione a chiedere all'Europa di "cambiare verso"?
"Noi dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Ma dobbiamo pretendere dall'Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l'economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner".

Crescita e lavoro ormai sono un mantra. Ma precariato e disoccupazione sono la malattia mortale dell'Occidente.
"Sono i temi che mi angosciano di più. A differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell'informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto. A pagare il prezzo più alto è il ceto medio. Qualche giorno fa il Financial Times scriveva che l'Information Technology tra pochi anni farà sparire anche migliaia di analisti finanziari".

In Italia serve davvero più flessibilità in entrata (come prevede il decreto del governo) e in uscita (con la fine dell'articolo 18)?
"Posso dirle che lavori troppo precari non giovano all'economia, e che nelle aziende si assume e si licenzia come si vuole. Quando parli a tu per tu, gli imprenditori te lo dicono: il problema per loro non è l'articolo 18, ma semmai una contrattazione più legata alle aziende e ai territori, e una maggiore disponibilità su orari, turni, mansioni, gestione dei magazzini. Queste sono le vere riforme".

Dal Jobs Act al Fisco e alla PA, Renzi ne sta promettendo persino troppe. Non c'è da temere un effetto boomerang?
"Il nuovo governo ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci. Renzi ha un vantaggio: è la grande aspettativa di rinnovamento che c'è nella società italiana. Non deve deluderla. Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti. Il problema è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Se c'è tutto questo, va bene. Io sono in fiduciosa attesa".

Lei magari sì, ma le parti sociali no. Non passa giorno che Confindustria e sindacati non facciano a sportellate col governo o con Bankitalia. Come lo spiega?
"Un po' di dialettica è fisiologica. Ma nel complesso mi pare che nel Paese, se non altro perché siamo davvero all'ultima spiaggia, c'è un forte desiderio di ritrovare l'ottimismo e di cavalcare il cambiamento. Questa per Renzi è una grande fortuna. Può sfruttare quel misto di angosce e di speranze che attraversano l'Italia. Deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene. Quanto alla concertazione, è una bella cosa. Ma richiede unità nei sindacati e negli imprenditori. E invece l'Italia è sempre più frammentata. Da ex premier, mi ricordo riunioni fiume con decine di sigle sedute al tavolo. All'una la prima sigla diceva una cosa, alle due una seconda sigla la scavalcava, alle tre ne spuntava un'altra che andava oltre, alle quattro si chiudeva con un comunicato generico. Questo tipo di concertazione, onestamente, non funziona più".

Renzi taglia di 10 miliardi Il cuneo fiscale per i lavoratori. Lei lo fece già nel 2008, ma lo spartì anche alle imprese. E' giusto oggi privilegiare l'Irpef?
"Noi distribuimmo, 60 alle imprese e 40 ai lavoratori. Nonostante questo, a sorpresa, il giorno dopo fu proprio Confindustria ad attaccarci. Stranezze della storia... Oggi, di fronte alla deflazione salariale, Renzi fa bene a concentrare tutti i benefici sui lavoratori. Un po' più di potere d'acquisto per le famiglie, alla fine, sarà un vantaggio anche per le imprese".

La nuova legge elettorale e la riforma del Senato la convincono?
"Non entro nel merito. In generale, più ci si avvicina al modello dei collegi uninominali e del doppio turno, più si va verso una democrazia efficiente e funzionante".

Peccato che l'Italicum vada nella direzione opposta, per pagare un prezzo a Berlusconi. Lei che è l'unico ad averlo battuto due volte, come giudica questo patto col diavolo?
"Le riforme di sistema, elettorali e istituzionali, vanno fatte cercando il massimo dei consensi tra gli schieramenti politici. Ma diciamo che non bisogna esagerare nei modi. Di mediazioni se ne possono fare, ma la priorità resta sempre il bene del Paese".

E del Pd renziano cosa mi dice?
"Le dico solo questo: può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l'unico partito vivo che c'è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza".

Quanto ancora le brucia, la vicenda dei 101 che l'hanno impallinata nella corsa al Quirinale?
"Con molta sincerità, della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente. Ero in Mali, con gli africani che mi facevano il pollice alzato, mentre io facevo 'pollice versò perché già prevedevo come sarebbe finita. Feci le mie telefonate, a Marini, D'Alema, Monti e Napolitano. Alla fine chiamai mia moglie e le dissi "vedrai, non succederà niente". E così è andata. Ma davvero, non sono affatto amareggiato. Semmai mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse "al Quirinale chiunque, ma non Prodi". Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replicò nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo".

Napolitano potrebbe lasciare dopo la riforma elettorale. E di lei si sussurra: "Prodi si sta dando da fare per ritentare la scalata al Colle". Vero o falso?
"Vorrei proprio sapere in cosa consisterebbe questo mio "darmi da fare"... Mi occupo di questioni internazionali, studio l'economia globale, giro il mondo. Sono un uomo felice. In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita. Mi creda: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un twitter".

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/romano_prodi_il_pd_di_renzi_l_unico_partito_vivo_giusta_la_battaglia_contro_i_no_tedeschi-82347739/?ref=HREC1-11
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« Risposta #93 inserito:: Maggio 02, 2014, 11:22:45 am »

Politica
01/05/2014

Prodi, conclusa l’esperienza di inviato speciale per il Sahel
Ban Ki-Moon ha nominato Hiroute Guebre Sellassie come successore

Francesco Semprini

Ban Ki-Moon ha nominato Hiroute Guebre Sellassie successore di Romano Prodi alla carica di inviato speciale per il Sahel, per conto del Segretario generale delle Nazioni Unite. Ban ha espresso forte gratitudine nei confronti di Prodi per la sua capacità di centrare l’obiettivo di realizzare una “strategia integrata per il Sahel” per conto dell’Onu, e ancor di più nel sensibilizzare e mobilitare la comunità internazionale a sostegno della regione. 

Romano Prodi, politico con al suo attivo esperienze molteplici sul piano internazionale, era stato scelto da Ban per l’incarico il 9 ottobre 2012, e ha svolto il suo ruolo in un momento assai complesso per la regione, specie nei primi mesi del 2013 con il ritorno di fiamma delle formazioni qaediste e jihadiste in quell’area, e la complicata guerra in Mali con la successiva missione Onu. “Non possiamo lasciare il Mali e il Sahel nelle mani di terroristi e trafficanti”, ha ribadito con forza più volte, anche nel corso di un’intervista a La Stampa nella quale non risparmiò una critica all’Italia per essere “troppo assente nella regione”. 

Sempre in ambito Onu, Prodi è stato nominato da Ban nel settembre 2008 per presiedere il comitato “African Union-Un peacekeeping”. Il suo mandato quale inviato per il Sahel terminava di fatto il 31 gennaio 2014, come spiega una nota del Palazzo di Vetro, ma di fatto la sostituzione al vertice è giunta solo oggi. 

Il successore, Guebre Sellassie, è una cittadina di nazionalità etiope, ed è stata direttore della divisione affari politici dell’ufficio Onu di Goma, nella Repubblica democratica del Congo, dal 2007 al 2014. Laureata in legge alla Sorbonne di Parigi, ha maturato esperienze come avvocato e politico nel governo di Addis Abeba, prima di dedicarsi alle attività internazionale, in particolare nell’ambito dell’Unione africana. E’ sposata ed ha tre figli. A lei l’onere e l’onore di proseguire il percorso iniziato da Prodi, che ha come obiettivo di “offrire un’occasione affinché il Sahel si agganci al resto del Continente”. Un progetto definito dallo stesso inviato uscente “basato sul realismo e non solo sul sogno”.

Da - http://lastampa.it/2014/05/01/italia/politica/prodi-conclusa-lesperienza-di-inviato-speciale-per-il-sahel-650sUvasJR5RVrlmAfi0MM/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 02, 2014, 11:23:46 am »

Stiamo progettando un piano di ricostruzione rivoluzionario per rilanciare il Sahel
Il miracolo-Mali dimostra che l’Africa può decollare”
Prodi: modello di ricostruzione rivoluzionario per rilanciare tutto il Sahel

Intervista di Francesco Semprini a romano Prodi su La Stampa del 14 agosto 2013

«Non possiamo lasciare il Mali e il Sahel nelle mani di terroristi e trafficanti. L’Africa ha cominciato un cammino di sviluppo e il mio obiettivo è di permettere alla regione di agganciarsi al resto del continente». Parte con questo appello il colloquio con Romano Prodi, iniziato al forum dei Nobel di Astana, e proseguito sino ai recenti sviluppi in Mali. L’Inviato speciale per il Sahel spiega che, con Ban Ki-moon, hanno modulato un approccio rivoluzionario per la regione, sistemico e snello, che responsabilizza in solido i Paesi donatori. Mentre all’Italia chiede di farsi maggiormente carico dei propri doveri.

Presidente Prodi, come nasce il suo mandato Onu per il Sahel?
«Nasce dalla necessità di strutturare un progetto di sviluppo integrato per la zona più povera dell’Africa. Il ruolo che mi è stato affidato da Ban Ki-moon non è per un singolo Paese, ma per un’area intera, per affrontare i grandi aspetti dello sviluppo».

Qual è l’obiettivo?
«Fare in modo di avviare una fase di crescita sostenibile e integrata per i cinque Paesi centrali: Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad. Paesi enormi territorialmente ma fragili dal punto di vista economico e finora separati in ogni strategia di sviluppo. Ban Ki-Moon ha voluto provare a lanciare un progetto di coordinamento per delle realtà poverissime e incapaci, da sole, a inserirsi nelle nuove speranze di sviluppo del continente».

Quale approccio prevede il piano che ha messo a punto?
«Abbiamo mobilitato le università e gli esperti della regione, trovando risorse umane eccellenti e con una conoscenza molto più elevata di quella dei centri di ricerca collocati a migliaia di km di distanza e ai quali si faceva prima riferimento».

Quali sono i punti fondamentali della nuova strategia?
«Il primo è l’agricoltura, ovvero il nutrimento, l’irrigazione, le tecniche agricole e le vaccinazioni degli animali. Quindi le infrastrutture, visto che i Paesi non sono collegati fra loro da ferrovie o altro. Innovativo è il progetto di energia decentrata per portare l’elettricità in tutte le case, soprattutto con il solare, una rivoluzione come quella avvenuta con i cellulari. Infine, istruzione e salute, con scuole e ospedali».

Sul lato dei finanziamenti?
«Questa è l’altra novità. I fondi verranno ricercati a livello mondiale, facendo quasi una raccolta porta a porta. La vera innovazione è che il contributo può essere in denaro o in “natura”. Il donatore può versare fondi al Palazzo di vetro o agire direttamente, in coordinamento con l’Onu, senza strutture di passaggio che, per definizione, rendono tutto più macchinoso».

Questo cosa comporta?
«Se la Germania sceglie di realizzare un ospedale, lo costruisce direttamente ed è sua responsabilità di fronte al mondo se questo ospedale è ben fatto o no. È un modello di concorrenza virtuosa che evita le lentezze che oggi ritardano gli interventi internazionali a favore dello sviluppo».

Che tempi richiede la sua rivoluzione per il Sahel?
«Questo è il disegno generale su cui stiamo lavorando, poi il piano sarà portato in attuazione dalle istituzioni dell’Onu o a esse collegate come Banca Mondiale o Banca Africana di Sviluppo. L’incarico di Inviato speciale deve essere comunque a tempo determinato, non voglio che queste missioni straordinarie si procrastino all’infinito, si deve agire con rapidità».

Gli italiani si sono dimostrati virtuosi sino ad ora?
«Lo potrebbero essere di più dato che siamo piuttosto assenti in questa regione, nonostante l’attività di molte Ong. È ora di considerare maggiormente i nostri doveri ed i nostri interessi per un’area del mondo povera ma potenzialmente promettente e vicina. Non possiamo lasciare il Sahel nelle mani dei terroristi e dei trafficanti di droga. L’Africa ha realmente cominciato un cammino di sviluppo, e il mio obiettivo è di offrire un’occasione affinché il Sahel si agganci al resto del continente. C’è realismo non c’è solo sogno».

Da - http://www.romanoprodi.it/interviste/stiamo-progettando-un-piano-di-ricostruzione-rivoluzionario-per-rilanciare-tutto-il-sahel_7088.html
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:10:07 pm »

Prodi: crisi creata da politica tedesca sbagliata
Secondo l'ex presidente della Commissione Ue, il Cancelliere «se l'è cavata benissimo».

1 luglio 2014

«L'unico modo di uscire dall'attuale situazione, creata non per via dell'euro ma per una sbagliata politica tedesca, è quella di mettere assieme interessi di Francia, Spagna, Grecia e Portogallo per cambiare la politica europea»: lo ha dichiarato l'ex premier e presidente della Commissione Europea Romano Prodi, intervenuto al programma di Radiorai «Radio Anch'io» in occasione dell'inizio del semestre di presidenza italiana.

«La Germania è divenuto il Paese dominante, il cui interesse politico interno è stato ben interpretato» dal Cancelliere tedesco Angela Merkel, ha spiegato Prodi: «La Germania, per la sua storia, è dominata dall'ossessione dell'inflazione e qualsiasi spinta all'economia - necessaria e utilissima anche alla stessa Germania - viene interpretata come aiuto ai Paesi 'pigri' fra cui siamo anche noi».

Il Cancelliere «se l'è cavata benissimo in queste elezioni, e ha evitato la nascita dei partiti antieuropeisti in Germania, unico Paese in cui ciò è successo: dal punto di vista interno Merkel ha agito con grande coerenza, il problema è che ha danneggiato tutti gli altri», ha concluso Prodi.

Da - http://www.unita.it/politica/prodi-ue-crisi-euro-germania-merkel-colpa-rigore-austerity-1.578169
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 13, 2014, 10:46:29 am »

Ammazziamo il gattopardo
Prodi: regole chiare e una burocrazia che le faccia rispettare

«Ecco perché l’Italia non cresce» - di Alan Friedman
10 luglio 2014

«Hanno messo nella testa della nostra gente l’idea che in Italia non si può fare nulla». Così il Professore in un brano della lunga intervista concessa ad Alan Friedman che andrà in onda giovedì sera alle 23,20 nel corso della trasmissione “Ammazziamo il Gattopardo: Il Gioco del Potere”, lo show di La7 coprodotto da Corriere.it tratto dal libro best-seller del giornalista americano. Romano Prodi individua nella mancanza di regole chiare e di una burocrazia che le faccia rispettare uno dei problemi principali che impediscono all’Italia di crescere: «È molto più importante che non il costo del lavoro o altre cose che ci vengono imputate», afferma. Un altro grande limite, spiega il Professore, «è il costo dell’energia. Noi escludiamo dal nostro sistema tutti i settori produttivi che sono cosiddetti energivori». Ma cosa ha impedito una politica riformatrice seria in Italia? Prodi non ci pensa due volte: «Le divisioni del Paese».

Da - http://video.corriere.it/prodi-regole-chiare-burocrazia-che-faccia-rispettare/96401f56-0771-11e4-99f4-bbf372cd3a67
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« Risposta #97 inserito:: Luglio 16, 2014, 05:38:53 pm »

L’ex premier ha parlato per un’ora
Compravendita dei senatori, Prodi testimone
Il Professore in aula: «Non ne sapevo nulla»
Citato per l’«operazione libertà» contro il suo governo

NAPOLI - - L’ex premier Romano Prodi è giunto a Napoli per deporre come teste nel processo per la presunta compravendita di senatori che sarebbe stata all’origine della caduta del suo governo, nel 2008. L’udienza è in corso.

L’«Operazione Libertà», ovvero il piano attuato da Silvio Berlusconi tra il 2007 e il 2008 per portare dalla propria parte parlamentari dello schieramento avversario e determinare così la caduta del governo Prodi che si reggeva a Palazzo Madama su una maggioranza assai precaria, è il cuore del processo che è ripreso davanti alla prima sezione del Tribunale di Napoli e che vede imputati per corruzione l’ex Cavaliere e il giornalista Valter Lavitola.

L’ex premier Prodi viene indicato come la principale vittima di quella che i magistrati dell’accusa descrivono alla stregua di una macchinazione realizzata con metodi illeciti, come la compravendita al prezzo di milioni di euro di senatori che militavano nel centrosinistra.

INFORMATO SUI FATTI - Prodi fu già ascoltato come persona informata dei fatti l’8 marzo dello scorso anno dalla Procura partenopea nel corso delle indagini preliminari, poco prima della chiusura dell’inchiesta. Il Professore è stato inserito nella lista dei testimoni depositata in occasione dell’apertura del dibattimento dai pm Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock, Fabrizio Vanorio e Alessandro Milita. L’argomento principale su cui Prodi sarà chiamato a deporre è il passaggio nelle file del Pdl di Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 nelle liste dell’Italia dei Valori, e avvenuto, secondo le ammissioni dello stesso De Gregorio (che è uscito dal processo avendo deciso di patteggiare la pena) dietro compenso di tre milioni di euro, versati da Berlusconi attraverso l’intermediazione di Valter Lavitola. Soldi che sarebbero stati consegnati in buona parte sotto forma di finanziamento al movimento Italiani nel Mondo, che faceva capo al senatore napoletano. La corruzione di De Gregorio rappresenterebbe solo un episodio di un disegno più complessivo attuato attraverso analoghi tentativi nei confronti di altri parlamentari».

15 luglio 2014 (modifica il 16 luglio 2014)
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Redazione online

Da - http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2014/15-luglio-2014/compravendita-senatoriprodi-testimonia-aula-napoli--223576843705.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Novembre 11, 2014, 05:55:46 pm »

Il retroscena
Quegli incarichi mai arrivati a Prodi
Il premier e il distacco dal Professore
Palazzo Chigi non è andato avanti sull’ipotesi di farlo mediatore in Libia e Ucraina

Di Paolo Valentino

ROMA - Romano Prodi ha spiegato ieri alla nostra Monica Guerzoni di «non avere nessuna intenzione di fare il presidente della Repubblica» e di appassionarsi in questa fase soprattutto ai «cambiamenti di potere in Europa». Che si tratti di un rifiuto definitivo da parte dell’ex premier, è presto per dirlo. Ma che sul distacco vero o apparente di Prodi pesino i suoi attuali rapporti (o meglio, non rapporti) con Matteo Renzi, è un fatto che viene confermato da diverse fonti.

Un Grande Freddo è calato negli ultimi mesi tra il presidente del Consiglio e il Professore, che solo a un cerchio ristretto di persone confessa il proprio disappunto.

E a far abbassare la temperatura non è solo o tanto il sospetto, che uno dei corollari impliciti del patto del Nazareno sia proprio un virtuale segnale rosso a ogni eventuale ambizione collinare di Romano Prodi, osteggiato da Berlusconi e forse troppo ingombrante per Renzi.

Due episodi in particolare hanno segnato irreparabilmente quella che, all’inizio dell’avventura di Renzi a Palazzo Chigi, era apparsa come una relazione molto promettente: il giovane premier aveva infatti diverse volte chiesto aiuto e consiglio al più anziano statista, trovandolo sempre molto disponibile.

La prima increspatura, secondo le fonti, sarebbe venuta sulla crisi ucraina. Sarebbe stato il sottosegretario Graziano Delrio a contattare personalmente Romano Prodi, chiedendo la sua disponibilità di massima a tentare una mediazione nella difficile partita tra Mosca e Kiev. Ma dopo aver ricevuto il pieno accordo dell’ex presidente, Palazzo Chigi è sparito dal radar prodiano.

Cosa abbia determinato il dietro front non è chiaro. Forse è stata la posizione di Prodi, totalmente contrario alle sanzioni europee nei confronti della Russia, che ancora pochi giorni fa ha definito «un suicidio collettivo».

Un giudizio chiaramente non in linea con la posizione del governo italiano, che ha dovuto fugare l’iniziale sospetto tra i partner occidentali di essere troppo filo-russo. Qualunque sia stata la motivazione, a lasciar basito Prodi è stato il silenzio completo seguito alla prima richiesta, tanto più che le sue idee sulla questione ucraina erano ben note.

Ma forse ancora più scottato, il Professore è rimasto dalla vicenda della Libia, uno dei Paesi che conosce meglio.

Secondo la ricostruzione delle fonti, all’inizio dell’estate alcune delle fazioni libiche avrebbero contattato il governo di Roma, chiedendo esplicitamente che Prodi venisse indicato dall’Italia come eventuale mediatore delle Nazioni Unite nella crisi. Palazzo Chigi non avrebbe mai risposto, né in un senso né nell’altro, a questa sollecitazione.

Com’è noto, in agosto, il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha poi nominato a sorpresa il diplomatico spagnolo Bernardino León, scelta ineccepibile, ma che è stata vista come uno sgarbo nei confronti dell’Italia, l’unico Paese ad aver mantenuto aperta l’ambasciata a Tripoli in una situazione esplosiva e pericolosissima. Sgarbo o meno, anche qui la delusione di Prodi viene dall’essere stato completamente ignorato da Matteo Renzi, nonostante l’indicazione che veniva dai libici fosse una specie di investitura.

Del precipitare della crisi in Libia, ormai avvitata in una spirale di caos e violenza, si è parlato ancora ieri pomeriggio a Palazzo Chigi, in un vertice ad hoc, al quale hanno preso parte, con il presidente del Consiglio, i ministri degli Esteri e degli Interni, Paolo Gentiloni e Angelino Alfano, oltre al sottosegretario per i Servizi, Marco Minniti.

Sulle nostre ricostruzioni a proposito dei rapporti tra Prodi e Renzi, abbiamo cercato ieri di contattare il sottosegretario Delrio, per sentirlo e poter rendere conto della sua versione, ma non siamo riusciti a raggiungerlo.

11 novembre 2014 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_11/quegli-incarichi-mai-arrivati-prodi-premier-distacco-professore-ab88b0e8-696a-11e4-96be-d4ee9121ff4d.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:30:57 pm »

Intervista
Prodi: «Isis, un tragico fattore unificante nella politica mondiale»
L’ex Presidente della Commissione europea ed ex presidente del Consiglio italiano torna a parlare delle sanzioni alla Russia e della visita di Renzi a Mosca

Di Paolo Valentino, inviato a Bologna

«Spero che in Libia la forza della disperazione faccia il miracolo: se sono andati tutti a Rabat è perché sono disperati. L’Isis è diventato un tragico fattore unificante nella politica mondiale. E’ la prima volta che tutte le grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa politica, Cina, Russia, Europa, Stati Uniti. Mi auguro che a Rabat i grandi Paesi, quelli che hanno influenza, siano finalmente d’accordo nell’utilizzare ognuno le proprie leve e i propri canali. Certo molto dipende anche da Egitto e Algeria. E resta il punto interrogativo sulle politiche di Paesi come Qatar e Turchia, e le loro «politiche individualmente anomale». Ma se le grandi potenze agiscono in modo deciso e unito, le anomalie si possono ridurre e forse le tre stanze di Rabat potranno diventare una». L’ha vissuta sin dall’inizio, la crisi libica, Romano Prodi. Fu lui, da presidente della Commissione europea, a invitare a Bruxelles un Gheddafi «stanco di fare il trouble maker e di creare tensione nella regione sub-sahariana». Uno sdoganamento «all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone», che poi fu il primo a correre verso il colonnello, annusando buoni affari. «Da allora - spiega l’ex presidente del Consiglio, ricevendoci a Bologna, nella sede della sua “Fondazione per la collaborazione fra i popoli” – la Libia ha assunto un ruolo molto particolare. Gheddafi ha cercato di riparare, pagando, per le vittime dei suoi atti di terrorismo, in tal modo ammettendo le proprie responsabilità. E’ diventato punto di riferimento per i Paesi vicini, ha sostenuto il peso più forte del bilancio dell’Unione africana (quasi un quarto) rimanendo però un dittatore durissimo all’interno, perché solo col pugno di ferro teneva a freno le diverse tribù. Altra particolarità, aveva un esercito formato in buona parte da uomini del deserto, ben pagati, che contribuivano a mantenere un equilibrio economico nel sub-Sahara. La guerra ha frantumato questi equilibri. Gheddafi è morto, i mercenari privi di paga si sono presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro caotico, è caduto l’intervento militare della Nato, privo però di ogni strategia politica, di ogni idea sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora, ci sono state solo rotture progressive, fino ai due governi contrapposti di Tobruk e Tripoli, con la complicazione dell’Isis nell’ultimo anno, probabilmente non così forte numericamente, ma potentissimo quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora ci sono continui rivolgimenti di fronte, un incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per la natura frammentata dello scontro e per il semplice fatto che avrebbe l’effetto di unire tutti contro l’invasore».

In questo scenario, la scorsa estate è partita la mediazione dell’Onu. Perché si è rivelata debole e insufficiente? Cosa avremmo potuto fare di diverso?
«L’handicap della mediazione è stato in primo luogo il ritardo con cui è partita. Personalmente avevo detto da tempo ai vari ministri che si sono succeduti alla Farnesina che avremmo dovuto forzare le parti. Ci si è illusi che il governo legittimo, emerso dalle elezioni e che non voleva nessun altro interlocutore al tavolo, fosse sufficiente. Quando ci si è accorti che non era così, la situazione si era già troppo deteriorata».

E l’Europa?
«Non c’è stata. Non ha avuto una politica. Ma non solo rispetto alla Libia. E’ stata divisa, sempre. Sulla specifica vicenda libica hanno probabilmente pesato il ruolo particolare della Francia soprattutto di fronte all’opportuno smarcamento della Germania, che si è chiamata fuori dall’intervento. Le differenze erano evidenti. Devo aggiungere un’altra notazione: per esperienza personale, tutte le volte che era in ballo il Mediterraneo, era difficile attirare l’attenzione dei Paesi del Nord. Hanno sempre bocciato ogni mia proposta. Quando abbiamo fatto l’allargamento, l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, mi sono sentito rimproverare da algerini, marocchini, tunisini, egiziani, libici: voi guardate solo a Nord e mai a noi. La mia risposta era: c’è un’emergenza storica, è caduta la Cortina di Ferro e noi abbiamo il dovere di una risposta, ma c’è un impegno di volgerla anche a Sud. Bene, quell’impegno non è mai stato onorato. Proposi la Banca del Mediterraneo, con consiglio d’amministrazione paritario tra Nord e Sud, mi dissero che avevamo già la Bei. Così per le Università miste: pensavo a sedi doppie, Catania e Tunisi per esempio.Oggi ne paghiamo il prezzo».

L’ipotesi del suo ruolo come eventuale mediatore è ancora attuale? Se ne parla già dal 2011.
«Mi fece molto piacere, nel 2011, la lettera di 25 capi di Stato e di governo africani, che indicavano il mio nome per la Libia e la positiva risposta di Ban Ki Moon, il quale promise di consultare i Paesi rilevanti. Il fatto che poi non se ne fece nulla significa che qualcuno di questi Paesi diede parere contrario. Mi è dispiaciuto, ma non mi ha sorpreso. Ricordo che Berlusconi era premier e Sarkozy presidente. Nell’estate del 2014 ci sono state nuove richieste libiche, queste dirette al governo italiano, per una mia mediazione. Ma anche in questo caso non c’è stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo Chigi lo scorso 15 dicembre, ma non si è fatto cenno a un mio personale ruolo nella vicenda libica. L’unico discorso personale ha riguardato l’ipotesi avanzata da Renzi di una mia candidatura a segretario generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki Moon, non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte supporto politico di cui godono altri candidati».

Si riferisce alla cancelliera Merkel? La voce corre molto in Germania. «L’ho raccolta anch’io negli stessi termini. Tornando alla sua domanda sulla mia mediazione, volevo concludere che mi sembra un’ipotesi superata dai fatti».

Ma in Libia sarà comunque necessaria una presenza militare di garanzia?
«Visto che lei usa il termine garanzia, cioè una presenza accettata da tutti, dico ovviamente di si. Come in Libano. Lo feci io, in due giorni. Ed è andata benissimo. Sono invece contrario all’azione militare, ma non perché sia pacifista. So benissimo che in certi momenti bisogna esser pronti anche a menare le mani. Ma in questo caso un’azione militare non avrebbe alcun senso. Rischieremmo un Iraq 2».

Parliamo dell’Ucraina. E’ ottimista che i nuovi accordi di Minsk possano essere rispettati?
«Mi sembra stia andando meglio del primo Minsk. Penso che siamo arrivati a un punto nel quale nessuno ha interesse a rompere il filo della diplomazia».

Lei si è detto rattristato dall’assenza dell’Ue a Minsk.
«Molto».

Di chi è la responsabilità?
«Dell’Europa, dei rapporti di forza esistenti nella Ue».

Ma se l’Alto Rappresentante della politica estera si fosse chiamato Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato escluso dal vertice di Minsk?
«E’ chiaro che qualcuno con forza politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk poteva avere più possibilità di sedere almeno su uno strapuntino. E’ ben noto che la politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha tempo e possibilità di costruirli».

Torniamo all’Ucraina, lei ha fatto alcune proposte interessanti sulla gestione comune del gas.
«Ne ho parlato con Putin, Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Quando esistono tensioni così gravi, occorre individuare interessi comuni che le diminuiscano. Qual è l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza delle forniture di gas. Ora che Mosca, per ovvie ragioni di convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una società con quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirà a gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è obbligata a starci».

Il gas come il carbone e l’acciaio della Ceca, che nel Dopoguerra chiuse la rivalità tra Francia e Germania?
«Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri obiettivi. Mi sembra che le prime reazioni siano positive».

Lei ha definito le sanzioni un «suicidio collettivo» dell’Europa. Ma c’era una strada diversa dalle sanzioni dopo l’annessione della Crimea?
«La Crimea è stata una decisione difficilmente digeribile, ma va inserita nella Storia. Dopo è stato tutto più difficile. La strada della pacificazione dipende dall’assoluta garanzia che la Russia rispetti integrità territoriale e sovranità dell’Ucraina. Io penso che la soluzione sia quella altoatesina, forte autonomia e decentramento per le regioni russofone».

Trova opportuna la visita di Renzi a Mosca?
«Certo. Quando qualcuno rimprovera all’Italia una posizione eccessivamente morbida sulle sanzioni alla Russia, occorre tener presente che ci vuole una regola generale sull’equa distribuzione dei sacrifici. Non è quanto sta succedendo. Le esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Certo, partono da parametri diversi, ma il danno subito dall’economia USA è pari a zero. Se un Paese agisce diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non possiamo chiamarla viltà».

Lei ha detto che dopo la fine della guerra fredda la Russia e l’Europa hanno sprecato la grande opportunità di costruire un ordine globale cooperativo. Di chi sono le responsabilità?
«La questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della Russia. Diversa era stata la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel 2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata un’ossessione per i russi. Tutto era cominciato con la guerra in Iraq. Me lo disse Putin, proprio nell’immediata vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la guerra in Iraq, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e l’Ucraina”. Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono il presidente della Commissione europea, non ho competenze di politica estera. Proprio per questo, mi rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Forse sarebbe bastato che lui, Schroeder, Chirac e il presidente cinese facessero una foto insieme e dicessero che non bisognava invadere l’Iraq. Non ho mai capito perché i cinesi non si siano mossi allora. Forse non si fidavano del tutto degli europei. O forse erano ben contenti che alla fine gli Stati Uniti si infilassero nel pantano iracheno. Ma sono solo ipotesi. Ricordo però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una ferita che non si è ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi comuni per provare a farlo».

Ma come trovare l’equilibrio tra la difesa degli interessi e la salvaguardia dei valori nei rapporti con Mosca? Possiamo sorvolare sull’autoritarismo e sulle violazioni del diritto internazionale da parte di Putin?
«Ho sempre pensato che una politica di apertura aiuti la democrazia. Mercato aperto e scambi culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e diritti umani. E’ la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti. Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le nostre paure. Ma credo che solo una democrazia dialogante possa contaminare positivamente i sistemi autoritari. Mentre una democrazia che si vuole maestra, con la bacchetta e magari con il fucile, rischia di essere controproducente. D’altra parte dialogare con San Francesco è facile. Il problema è parlare con il lupo».

Lei crede che nonostante l’ondata di nazionalismo interno che domina la conversazione nazionale in Russia, siamo ancora in grado di recuperare un forte rapporto con Mosca?
«I passi in avanti bisogna farli in due. Anche la Russia deve uscire dal buco, Per questo sono ottimista. Mosca è nell’angolo, l’Ucraina è nell’angolo, siamo tutti pieni di problemi. L’economia russa rischia di perdere 5 punti di Pil. Oggi il nazionalismo aiuta Putin, ma il digiuno colpisce nel lungo periodo».

Ma questo ci costringerebbe a una forzatura nel rapporto con gli Stati Uniti?
«Obama queste cose le capisce».

Qual è il pericolo più forte che incombe oggi sull’Europa?
«L’assenza di leadership che porta all’irrilevanza. Voglio dire, non è che i rapporti con Helmut Kohl fossero tutti rose e fiori. Non è che mi piacesse quando diceva continuamente che dovevamo fare i compiti a casa. Ma per fare quei compiti, mi lasciava almeno la penna e i fogli. Oggi non è così. Il problema europeo è che i rapporti di forza sono talmente cambiati, che si pensa sempre meno a mediazioni. Dieci anni fa, arrivai a Bruxelles convinto di trovare un mondo franco-tedesco. Certo erano potenti, ma mi accorsi subito che i funzionari più forti erano gli inglesi. Poi si è indebolita la Francia, anche per le liti interne. La Gran Bretagna ha avuto la stupida idea del referendum, condannandosi da sola all’irrilevanza. A quel punto tutti i Paesi si sono rifugiati sotto l’ombrello tedesco, quindi tutte le politiche economiche alternative hanno perso rilevanza. Arrivati qui o c’è una Germania in grado di capire che non c’è leadership senza responsabilità, oppure è difficile che l’Europa si possa alzare. Non è che gli americani nel dopoguerra abbiano fatto il piano Marshall perché fossero filantropi, ma perché avevano bisogno di alleati forti. Ci vuole un direttore d’orchestra che non abbiamo. Io ho paura che un domani i tedeschi pensino di potercela fare da soli, ma non è così. Certo oggi la loro economia va fortissima. Ma non ho cambiato idea: il mondo globalizzato ha bisogno di una forza più robusta».

8 marzo 2015 | 14:42
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_08/prodi-isis-tragico-fattore-unificante-politica-mondiale-e2e624a8-c595-11e4-a88d-7584e1199318.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:35:03 am »

IL FONDATORE DELL’ULIVO
Prodi critica Renzi: meglio metodo Letta. No al partito della nazione
«I poteri forti sono indeboliti e il leader Pd può costituire quello dominante. Ma preferisco il cacciavite di Enrico al trapano di Matteo. Franchi tiratori? Furono 120»

Di Aldo Cazzullo

Romano Prodi si definisce «un inguaribile ottimista». Ma è un quadro preoccupante quello che esce dal libro-intervista con Marco Damilano, intitolato non a caso «Missione incompiuta» (Laterza). «Le politiche europee del governo tedesco meritano oggi ogni biasimo e, probabilmente, produrranno danni irreparabili» sostiene Prodi. «L’Italia non sarà la prima ad affondare, ma è solo questione di tempo: se non si cambia integralmente politica su scala europea saremo travolti tutti». Il libro contiene molti giudizi severi su molti temi, da Mani Pulite al «partito della nazione» renziano, passando per i 101 franchi tiratori del Pd «che furono in realtà 120». Ed è ricco di aneddoti e ritratti sulla vita pubblica degli ultimi decenni.

Ruini
«Lo conosco da sempre... fin da quando sarebbe stato certamente d’accordo sull’espressione “cattolico adulto”», con cui Prodi spiegò il suo dissenso dall’allora capo dei vescovi a proposito del referendum sulla fecondazione assistita. «Lo conosco almeno dal 1964. Avevamo animato insieme un circolo chiamato Leonardo, un’associazione molto avanzata, aperta alla città. Chiamammo a Reggio tutti i teologi del Concilio. Tra me e don Ruini c’era un rapporto personale molto forte. Ha parlato al matrimonio con Flavia, ha battezzato i nostri figli e tutti gli anni a Natale passava a salutare l’intera tribù». E la rottura? «Non c’è mai stata una lite. Nel 1995 andai a trovarlo in Laterano. Parlammo per oltre due ore. Alla fine ci lasciammo con le stesse differenze di opinione. Da allora non abbiamo più avuto ulteriori conversazioni».

Maradona
Prodi è in Cina da presidente dell’Iri. Sta firmando un contratto dell’Ansaldo per una centrale elettrica. Il presidente della società cinese lo avverte che deve portargli un messaggio di Deng Xiaoping. «Ero piuttosto timoroso. Ma qui c’è il colpo di scena. In Cina, mi viene detto, Maradona è una specie di idolo e Deng è pazzo di lui. Ci tiene tanto a vederlo giocare di persona. Avrebbero voluto due partite, a Shanghai e a Pechino, e perfino Deng sarebbe stato presente allo stadio. Tornato in Italia, parlo subito con l’allenatore del Napoli Ottavio Bianchi. Lui è entusiasta, ma dopo tre giorni mi richiama mortificato: Maradona chiede per sé 300 milioni di lire, che moltiplicato per il resto della squadra fa un miliardo. Bianchi era un uomo serio, mi spiegò come funzionava la testa di Maradona: in modo assai diverso dai suoi piedi. Io risposi che un’azienda pubblica come l’Iri non si poteva accollare una simile spesa. Da allora sono molto arrabbiato con Maradona».

Craxi
«Non risparmiava certo i suoi sarcastici giudizi nei miei confronti. Una volta, durante una cerimonia, mentre stavo parlando sbottò ad alta voce, per farsi sentire da tutti: “Questo qui non sa neppure leggere!”. Però alla fine c’era un rapporto di rispetto. Mi è stato raccontato che una volta due deputati socialisti in visita a Hammamet ridevano di me, chiamandomi Mortadella. Craxi era distratto, ma ascoltò, li guardò e disse: “Guardate che a voi due il Mortadella vi fa un ... così”».

Cuccia
L’uomo era di grandissima classe. Con lui ho a vuto molti scontri, ma l’ho sempre rispettato. Discutere con lui arricchiva. Era un destriero. Aveva una grande capacità di comprendere la politica. Con un disinteresse personale totale, ma con un obiettivo per cui ha combattuto tutta la vita: mantenere inalterati gli equilibri del capitalismo italiano. L’idea era che fuori dal ristretto gruppo delle famiglie tradizionali non esistesse nulla. Non era un cinico, ma di un pessimismo totale. Una volta mi disse: “So che lei da presidente dell’Iri va a visitare le imprese. Non lo faccia, perché poi ci si affeziona”».

Bossi
«All’inizio degli Anni Novanta, forse su suggerimento di Gianfranco Miglio con cui avevo mantenuto rapporti dai tempi della Cattolica, mi fece chiamare e mi offrì di entrare in politica con lui. Io dissi di no, ma fu un incontro molto divertente e istruttivo. Nei corridoi della modesta sede milanese i volontari della Lega mi chiedevano cosa dovevano fare con i loro risparmi, cosa sarebbe successo al prezzo delle case, ai titoli del debito pubblico... Quel giorno capii che la Lega attecchiva a radici popolari molto profonde. Non l’ho mai sottovalutata né demonizzata».

Di Pietro
«Fui ascoltato come testimone e tutto finì lì. Ma quello era il periodo in cui Di Pietro saliva velocemente gli scalini della politica. E diede all’incontro la massima risonanza possibile, al di là di ogni regola. Ogni tanto si alzava in piedi, si avvicinava alla porta e urlava: “E i soldi alla Democrazia cristiana?”. E tutti i giornalisti, di là dalla porta, lo potevano ascoltare».

Mani Pulite
«Questi metodi, pur inserendosi in una doverosa e lungamente attesa campagna di pulizia, segnarono anche l’inizio della stagione di un populismo senza freni».

D’Alema
«Da Gargonza», dove l’allora segretario del Pds criticò l’Ulivo, «venimmo via sfilacciati, con un segno di desolazione. Avevo ancora la speranza che fosse solo un momento tattico. In seguito si è dimostrata una strategia precisa. Era nata la paura che il governo potesse durare a lungo e permettere perciò la nascita del partito dell’Ulivo. D’Alema ha pensato che il gruppo che faceva riferimento a lui potesse perdere influenza sul governo e, forse, che si allontanasse la possibilità di avere alla presidenza del Consiglio una personalità proveniente dalla radice comunista. Se ci avesse lasciato governare per cinque anni penso che sarebbe stato proprio D’Alema il naturale e duraturo successore».

Grillo
Il primo contatto risale all’inizio degli Anni Novanta. Grillo venne a trovarmi e mi chiese di esaminare alcuni suoi copioni. Faceva bellissimi spettacoli sugli sprechi sui trasporti dell’acqua, sui consumi energetici, e voleva essere certo dell’esattezza dei dati. Poi non ci siamo incontrati più fino al 2006. Venne a Palazzo Chigi per consegnarmi il testo dei programmi usciti dai sondaggi, e mi fece una lunga intervista. Forse perché questa intervista non conteneva argomenti che potesse utilizzare politicamente, o semplicemente perché non l’aveva soddisfatto, dichiarò alla stampa che mi ero addormentato. Un comportamento davvero sconcertante».

Renzi
«Nel mese di agosto 2014 sono state inviate al presidente Renzi precise richieste per una mia possibile mediazione da parte di una pluralità di centri decisionali libici, ma non ho avuto alcun riscontro». Il 15 dicembre scorso Prodi va a Palazzo Chigi, ma Renzi non gli parla della Libia, né del Quirinale: «Ha gentilmente fatto cenno a una mia possibile candidatura per la prossima segreteria delle Nazioni Unite»; Prodi ringrazia ma non lo ritiene un obiettivo possibile. In altre pagine, l’autore sostiene che «i poteri forti si sono profondamente indeboliti», e oggi Renzi «ha certamente più probabilità di costituire il potere dominante del Paese». Ma Prodi sostiene di preferire «il cacciavite», metafora usata da Enrico Letta, al trapano di Renzi. «Questo è un Paese scalabile, ma la scala la devono fornire gli elettori». «I sindacati vanno ascoltati». «Il partito della nazione è una contraddizione in termini. Nelle democrazie mature non vi può essere un partito della nazione. È incompatibile con il bipolarismo». E ancora, partendo da Berlusconi: «Ci sono momenti in cui l’Italia ha bisogno di un’auto-illusione ed è disposta a non guardare dentro a se stessa pur di continuare a illudersi. Attraversiamo spesso questi momenti nella nostra storia nazionale...».

Merkel
«Sono preoccupato per il futuro dell’Europa, governata da una leadership che è sempre più forte ma ha perso il senso della solidarietà collettiva...Tutti i Paesi fanno a gara a ripararsi sotto l’ombrello tedesco, dove siede l’intelligente e severa maestra che, con la matita rossa e blu, ha sostanzialmente sostituito il ruolo delle società di rating, tra loro formalmente concorrenti ma, in pratica, ormai inascoltate sorelle gemelle».

16 aprile 2015 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_16/prodi-critica-renzi-meglio-metodo-letta-no-partito-nazione-467ab5b2-e3fd-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:15:06 pm »

Prodi, i 101 e il premier Matteo Renzi: “Io non sarei stato controllabile”

Politica

Un'anticipazione dell'ultimo libro di Marco Damilano.
L’ex premier e il nuovo corso democratico: "Missione incompiuta"

Di F. Q. | 16 aprile 2015

Esce oggi l’ultimo libro di Marco Damilano “Romano Prodi Missione incompiuta. Intervista su politica e democrazia”. Eccone un’anticipazione.

Dal 2011 stiamo vivendo una situazione di vuoto politico: il fallimento del governo Berlusconi, il governo Monti, la vittoria di Grillo, la rielezione di Napolitano, le larghe intese e ora il governo Renzi.
Tre presidenti del Consiglio non eletti dal popolo sono certamente un intervallo troppo lungo del processo democratico. Ammetto che, a scuola, le cose più divertenti si facevano durante l’intervallo. Ma un sistema democratico è quello in cui la sera delle elezioni si sa chi ha vinto. Non è un problema da poco che questo in Italia non avvenga. Che non si avverta questo fatto come una grave anomalia di un sistema democratico, significa che il livello di instabilità dei governi è arrivato al di là del tollerabile.

Nell’ultimo raduno della stazione Leopolda Renzi ha detto di aver capito nel 2011 che l’Italia era un paese scalabile. Come una società per azioni su cui lanciare un’Opa.
Questo è un paese scalabile. Ma la scala la devono fornire gli elettori. (…)

Lei si sente coinvolto nella rottamazione generazionale di Renzi?
La rottamazione è un concetto che mi ha sempre affascinato fin da bambino perché molte delle nuove imprese del primo dopoguerra sono nate utilizzando la rottamazione dei residui militari americani. Per me, quindi, rottamare significa anche utilizzare vecchi e nuovi materiali per ricostruire. Si rottama se sai cosa costruire dopo. Ma qui forse denuncio la mia appartenenza a un’altra stagione. (…)

Si può dire che il Pd è figlio dell’Ulivo?
Senza l’Ulivo non ci sarebbe stato il Pd. In questo senso si può dire che il Pd ne è figlio. Un figlio che ne ha ereditato l’obiettivo di mettere insieme tutti i riformismi. Questa è l’eredità dell’Ulivo, ma il Pd la valorizza a giorni alterni.

Nei giorni feriali sì, in quelli di festa no, o viceversa?
Può essere un’interpretazione dell’Ulivo affermare che i sindacati non vanno ascoltati e che tutti i corpi intermedi, nessuno escluso, vadano distrutti o indeboliti? Spesso vanno doverosamente contrastati, ma ascoltati sempre. (…)

Non si sente un estraneo nel Pd?
Nessuna estraneità. È la fine di una missione. Missione incompiuta, potrei aggiungere in questo caso. (…)

Il momento più difficile è stata l’elezione del presidente della Repubblica nel 2013. La settimana decisiva si aprì con un comizio di Berlusconi a Bari. Dichiarò che avrebbe cambiato Paese se Prodi fosse stato eletto al Quirinale.
Per due giorni nessuno del Pd mi ha difeso ed è stato, per me, il momento di massima amarezza. Solo una dichiarazione personale da parte di Rosy Bindi.

Più del voto dei 101 franchi tiratori che le hanno fatto perdere il Quirinale?
Molto di più, perché l’esito del voto segreto lo avevo rigorosamente previsto, anche se con qualche voto negativo in meno. Inoltre il voto segreto è spesso uno scoppio di goliardia. Intervengono fattori personali, odi, rancori, delusioni, ambizioni insoddisfatte, paure per il futuro, come in un consiglio di facoltà. Non è una scelta razionale. Ma quando invece ho visto un capo-partito che faceva un comizio per dire “tutti meno che Prodi”, mi aspettavo che si alzasse un dirigente del mio partito per dire: “Decidiamo noi chi sono i nostri candidati”. Per il resto nessuno può notare alcun cambiamento nei miei comportamenti dopo il voto dei 101 che, in realtà, sono stati quasi 120.

Perché ne è così sicuro. Li ha contati?
Contati no, ma so di aver ricevuto un concreto numero di voti sparsi qua e là al di fuori del Pd, tra centristi, grillini e truppe sparse. (…)

Cosa c’era in quel voto, in quel no a Prodi?
Il non volere un presidente della Repubblica difficilmente controllabile. I 101 sarebbero perciò aumentati e non diminuiti nel caso in cui non mi fossi ritirato. E hanno mandato un messaggio per cui la mia elezione sarebbe impensabile anche in futuro. L’attuale situazione non permette al Pd di votarmi. Decida lei se questo è per le mie virtù o per le mie mancanze.

Di Marco Damilano

Da Il Fatto Quotidiano di giovedì 16 aprile
Di F. Q. | 16 aprile 2015
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« Risposta #102 inserito:: Giugno 08, 2015, 05:31:51 pm »

Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio disgregazione»
«Renzi? Non c’è una politica alternativa a quella tedesca. Un errore isolare Putin»

Di Aldo Cazzullo

«È un lunedì nero per l’Europa».
Romano Prodi, si riferisce al precipitare della crisi greca?
«Mi riferisco alla Grecia, e non solo. In Spagna crollano i partiti. Francia e Inghilterra si sono chiamate fuori dall’accordo sugli immigrati. Ma la notizia peggiore è il voto polacco» .
Ha vinto il candidato antieuropeo: Andrzej Duda.
«Un voto straordinario: in negativo, s’intende. Nei sondaggi Duda era testa a testa con il candidato di Tusk, Bronislaw Komorowsky. Invece ha vinto a valanga, grazie ai voti della Polonia rurale. E questo è un segno inquietante. La Polonia è il Paese che ha performato meglio in questi anni, che ha ricevuto più aiuti dall’Europa. È la sesta economia dell’Unione. Ne esprime il presidente, Donald Tusk. Ma l’uomo di Tusk ha perso. E ha vinto l’uomo di Kaczynski. Con una linea portatrice di tensioni, perché fortemente antieuropea. Antitedesca. E antirussa».
Lei è accusato di essere un po’ troppo morbido con i russi. In particolare con Putin.
«Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno. Il problema è avere chiara l’idea di dove devi arrivare. Se vuoi che l’Ucraina non sia membro della Nato e dell’Ue, ma sia un Paese amico dell’Europa e un ponte con la Russia, devi avere una politica coerente con questo obiettivo. Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili».
In Spagna invece vincono movimenti civici. Non è detto sia un segno negativo.
«È vero. Lì è in corso una rivoluzione politica, contro i vecchi partiti più che contro l’Europa. Il governo popolare è obbediente alla linea tedesca; e il popolo gli si rivolta contro, a cominciare dalla grandi metropoli, che danno il tono al Paese. Ma sono davvero troppi in Europa i segnali di disgregazione; non da ultimo il referendum britannico, lo spettro dell’uscita di Londra. E se si leva un vento di disgregazione, non lo ferma nessuno».
Il vento soffia da Atene.
«Tanto tuonò che piovve. È ormai chiaro che la Grecia tanti soldi da pagare non li ha. Lo sapevano tutti. Il 25% dei greci è disoccupato, il reddito è crollato molto più di quanto si attendessero i fautori dell’austerity. La Grecia non ha lo sfogo dell’export che ha l’Italia, la Grecia esporta meno della provincia di Reggio Emilia; vive di noli marittimi, un po’ di cemento, un po’ di turismo; se crolla il reddito interno, crolla tutto. È stato un braccio di ferro in cui ognuno ha pensato che l’altro cedesse; invece per salvarsi ognuno dovrebbe cedere qualcosa. Se la Germania fosse intervenuta all’inizio della crisi, ce la saremmo cavata con 30-40 miliardi; oggi i costi sono dieci volte di più».
Tsipras e Varoufakis non hanno colpe?
«I greci hanno mostrato una sbruffoneria che ha mal disposto i negoziatori. Ho notato un’irritazione progressiva nei loro confronti, man mano che usavano parole violente. Tirare fuori il nazismo non ha aiutato. Schaeuble non lo puoi prendere in giro. Purtroppo lui può prendere in giro te, perché è forte. Ma sentire i soliti pregiudizi sulla pigrizia mediterranea è un altro segno di disgregazione».
Alla fine la Grecia uscirà dall’euro?
«Siamo alla canna del gas. Ma c’è ancora lo spazio per un accordo. A due condizioni: che sia chiaro; e che sia subito. Non è più possibile un altro rinvio. Si può ancora arrivare a un mezzo default, con la Grecia che ottiene l’allungamento dei termini e la ristrutturazione del debito, che non potrà essere rimborsato per intero, ma in cambio accede ad alcune richieste: neppure le promesse elettorali di Tsipras potranno essere mantenute per intero» .
Se salta la Grecia, si sente dire, la prossima è l’Italia. C’è un rischio contagio, come paventa ad esempio Luigi Zingales?
«Non ci sono le condizioni oggettive per il contagio. Il bilancio italiano è sotto controllo, i tassi sono bassi, si intravede la ripresa, sia pure debole. Zingales ipotizza un panico, con i capitali che fuggono. E la miccia del panico è l’incertezza. La speculazione si nutre di incertezza. Nessuno specula su un Paese se sa già che non viene abbandonato dagli altri».
Rispetto al 2011, abbiamo Draghi e il quantitative easing.
«E’ vero: sul versante finanziario abbiamo eretto una difesa. Ma sul versante delle decisioni politiche siamo sguarniti come e peggio di prima».
Nel libro scritto per Laterza con Marco Damilano, “Missione incompiuta”, lei sostiene che proseguendo su questa strada l’Europa andrà a pezzi. Nel frattempo abbiamo fatto altri passi sulla strada sbagliata?
«Sì. L’Europa non ha più politica, né idee; ha solo regole, aritmetica. Quando definivo “stupido” il patto di stabilità, sapevo che si sarebbe arrivati a questo punto. Non si governa con l’aritmetica. Junker ha annunciato il suo piano di investimenti nove mesi fa. Il tempo in cui nasce un bambino. Ma non si è ancora visto nulla» .
La Mogherini come si muove?
«Conosce i dossier e si muove bene, ma può fare poco: perché il centro del potere si è spostato dalla Commissione agli Stati, in particolare alla Germania».
Allora l’Europa è davvero alla canna del gas?
«Ho fiducia in un fatto: ogni volta che l’Europa è arrivata sull’orlo del baratro, ha avuto un colpo di reni, uno scatto di nervi. Quando si capisce che è in gioco tutto, scatta un allarme collettivo».
La Merkel ha la statura per imporre la svolta?
«Questo lo vedremo. Di sicuro ne ha la forza. La Germania non può prendersi la responsabilità storica che l’Europa si slabbri».
Renzi come si sta muovendo?
«Di richiami alla solidarietà europea ne ha fatti, ma non si vede una politica alternativa a quella di Berlino. Eravamo un’Unione di minoranze; ora siamo un’Europa a una dimensione, quella tedesca. Ho sperato a lungo che Francia, Spagna e Italia trovassero una linea comune. Non ci sono riusciti, perché ogni Paese credeva di essere più bravo dell’altro; in particolare la Spagna e la Francia pensavano di essere più brave dell’Italia. Il voltafaccia di Parigi sugli immigrati è clamoroso: l’Europa ha annunciato un accordo, e l’ha disatteso sei giorni dopo. Almeno Cameron ci ha presi in giro fin da subito: ha offerto le sue navi per il salvataggio dei profughi, a patto che restassero tutti in Italia».
Dobbiamo prepararci a un intervento contro l’Isis?
«No, no, no. E’ proprio quello che l’Isis vuole: attirare soldati occidentali nella guerra civile islamica, per farne un bersaglio e rinfocolare la popolazione. Se poi sono soldati italiani, di un’ex potenza coloniale, meglio ancora per l’Isis, e peggio ancora per noi».
Allora dobbiamo abbandonare la Libia ai tagliagole?
«Il fatto che in Libia ci siano più governi dipende soprattutto dai governi stranieri che li appoggiano. Il governo di Tripoli si regge su Turchia e Qatar, quello di Tobruk su Arabia Saudita ed Egitto; che a loro volta dipendono dagli Stati Uniti, dalla Russia e indirettamente dalla Cina. Se le grandi potenze trovano un accordo, l’Isis finisce in un giorno. Se le grande potenze usano il Medio Oriente per il loro grande gioco, l’Isis prospererà» .

26 maggio 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_26/prodi-europa-rischi-c572bc04-036d-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Luglio 12, 2015, 11:12:38 am »

PRODI: ''IL DEBITO GRECO NON E' PAGABILE, MA QUANDO IO VOLEVO CONTROLLI, FRANCIA E GERMANIA MI IMPOSERO DI TACERE''

L'ex presidente della Commissione europea Romano Prodi non esclude l'uscita della Grecia dall'eurozona.
In un'intervista al quotidiano tedesco "Tagesspiegel", l'ex Premier parla dei debiti di Atene e muove dure critiche alla Germania, poichè non prenderebbe sufficientemente sul serio la sua responsabilità all'interno dell'Unione Europea.


Alla domanda se la Grecia dovrebbe ricevere altro denaro dai creditori internazionali senza un programma e senza vincoli, Prodi risponde: "No, ci dev'essere un controllo, ma le condizioni devono essere poste in un quadro realistico. Tutti sanno che la Grecia non ripagherà mai i suoi debiti". Ad Atene dovrebbe dunque essere concesso il taglio del debito? "So che politicamente non e' possibile - replica Prodi - ma la storia ci insegna che non ha senso porsi obiettivi irraggiungibili nell'abbattimento del debito".

"E' più sensato concordare un obiettivo raggiungibile e controllare passo passo le varie tappe. Questo e' stato ad esempio il caso della Germania nel secondo dopoguerra. E' vero che non si può fare un paragone così diretto tra Germania e Grecia", ammette l'ex premier italiano, "ma in ogni caso, allora è stato saggio esentare la Germania dalla gran parte dei suoi debiti alla Conferenza di Londra del 1953: in questo modo la Germania è potuta tornare a crescere".

Quindi anche per la Grecia dovrebbe tenersi un vertice internazionale per la liquidazione dei debiti come quello di Londra?

"Quella volta la conferenza sui debiti tedeschi si è tenuto nell'interesse generale. Ora, nel caso della Grecia, dobbiamo stabilire dove si trova il nostro interesse collettivo: suppongo che la Grecia e i creditori riusciranno a trovare un compromesso che preveda ad esempio una proroga delle scadenze per i crediti o interessi ancora più bassi per i pagamenti. Ma questo non sarà altro che un piccolo cerotto su una grande ferita. Il mio più grande timore è che fra tre anni la Grecia si ritrovi nella stessa situazione di adesso: sarebbe meglio prendere una decisione definitiva", afferma l'ex presidente del Consiglio italiano.

Prodi rifiuta anche di definire l'ingresso della Grecia nell'eurozona un errore: "Non parlerei di un errore: solamente e' stato fatale non avere alcun controllo sul budget, c'era prima ma non c’è stato dopo l'entrata nell'euro. Italia, Germania e Francia hanno voluto così quella volta. A quel tempo - quando ero presidente della Commissione nel 2003 - ho fatto di tutto per imporre severi controlli dei bilanci negli Stati membri subito dopo l'introduzione dell'euro. E non dimenticherò mai il momento in cui Schroeder e Chirac - e' stato durante la presidenza italiana del Consiglio Ue - hanno detto che dovevo tacere", conclude l'ex premier.

Ci sarebbe stata una domanda, che l'intervistatore del quotidiano tedesco non ha posto a Prodi: se è vero quel che dice, signor Prodi, per quale motivo lei di fronte all'imposizione "di tacere" rivolta a Prodi Presidente della Commissione Ue, massimo organo decisionale dell'Unione Europea, dai capi dei governi di Francia e Germania, non si è ribellato in nome dell'Europa, della libertà, dell'onestà, della parità di trattamenti tra gli stati?

Le hanno imposto di tacere? E perchè lei ha taciuto?
L'ennesima dimostrazione di democrazia dell'UE... e l'ennesima dimostrazione di incapacità dei politici (servi) italiani...

Da - http://www.nuovoilluminismo.com/2015/02/prodi-il-debito-greco-non-e-pagabile-ma.html
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« Risposta #104 inserito:: Luglio 20, 2015, 11:40:59 pm »

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· 16 luglio 2015

Prodi: “Tagliare il debito greco, come per la Germania nel ’53”

L’Ex premier Romano Prodi all’East Forum 2015: “Abbiamo evitato il peggio, ma Europa rischia di finire male”

Romano Prodi torna a parlare di Europa, intervenendo all’East Forum 2015. L’ex premier si sofferma sulla Grecia e in particolare sul suo debito pubblico affermando che l’Europa, e in particolar modo la Germania, dovrebbe mostrare “magnanimità e tagliare il debito del paese ellenico, come fu fatto nel 1953 per la Germania”. “Ho sempre pensato che la Grecia non sarebbe mai stata in grado di ripagare il debito” aggiunge l’ex presidente della Commissione Ue.

“Nel 1953 fu un atto di saggezza tagliare il debito della Germania, che non era in grado di pagarlo, e tagliandolo abbiamo dato respiro alla Germania. Oggi ci vuole la stessa magnanimità”. “Per ora abbiamo evitato il peggio, ma non il male – continua Prodi – il peggio era che si rompesse tutto, il male è che si sono create tensioni e incomprensioni in Europa. O l’Europa è un luogo di coesione di interessi, oppure quello che abbiamo fatto in passato finisce male”

L’ex premier boccia anche l’idea di coinvolgere il Fondo monetario: “Doveva essere lasciato fuori fin dall’inizio, perché se parliamo di grande Europa, di iniziative di grande portata, non possiamo aver bisogno del Fondo monetario su un problema del 2 per cento del Pil europeo. Questo vuol dire non aver fiducia nella forza dell’Europa”.

Nel suo intervento, Romano Prodi si concentra anche sul ruolo dell’Europa, “nata come unione di minoranze dove ogni cittadino si sentiva a casa sua e diventata, oggi, un’Europa diversa, a leadership tedesca. La Germania si deve rendere conto della situazione”.

Da - http://www.unita.tv/focus/prodi-tagliare-il-debito-greco-come-per-la-germania-nel-53/
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