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Autore Discussione: PRODI  (Letto 78973 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 02, 2010, 11:52:19 am »

Prodi, la crisi e le riforme: «Non basta la pazienza, vincere la rassegnazione»                     
 
 di Romano Prodi


Pur cercando di accumulare elementi di speranza e segni positivi per il futuro, quando analizziamo i dati dell’economia di oggi, diventa difficile peccare di ottimismo. La crisi si nutre ancora di crude cifre, mentre la ripresa vive di indizi e di ipotesi. L’ultimo dato ci viene fornito dalla Banca d’Italia che, in uno studio sull’industria manifatturiera, scrive che la produzione del secondo trimestre di quest’anno è ritornata al livello di cento trimestri fa, cioè al livello del 1984. E nemmeno possiamo consolarci con il “mal comune mezzo gaudio”, perché il calo corrispondente della Germania è di 13 trimestri e quello della Francia di 12.

Questo dato stupefacente trova la sua spiegazione in una minore crescita precedente della nostra industria ma, soprattutto, in un più forte crollo della produzione nella presente crisi. E trova un’ulteriore ragione nelle difficoltà dei mercati internazionali verso i quali siamo forti esportatori. È tuttavia difficile trovare spiegazioni esaurienti senza fare riferimento a una caduta del tasso di innovazione e della capacità di generare nuovi prodotti da parte delle nostre imprese. Se dalla manifattura passiamo agli altri campi dell’economia, gli elementi di preoccupazione e di disagio non sono minori. I precariati vari e i contratti a termine non riassorbono alla loro scadenza i lavoratori, che sono così tranquillamente espulsi dal mondo del lavoro. E si tratta di cifre davvero cospicue se solo nella scuola la diminuzione netta è di oltre centomila dipendenti.

Questo cumulo di dati negativi avrebbe in altri tempi scatenato tensioni e rivolte. Oggi invece, con maggiore maturità e realismo, nessuno pensa che ribellioni violente possano porre rimedio alla presente pessima situazione. Questo è forse un segno di maturità, ma certo un grande segno di pazienza degli italiani. La pazienza è una virtù positiva ma è una virtù individuale, mentre questa crisi esige soluzioni capaci di cambiare e innovare l’intera società. Esige un disegno collettivo. Credo che questo sia l’unico motivo per cui si debba parlare di riforme. Riforme che soprattutto possano rompere la frammentazione della nostra società. Una frammentazione per cui né i sindacati, né le associazioni dei produttori, né il governo hanno più la capacità di affrontare gli interessi collettivi.

Se andiamo in cerca di una pazienza finalizzata alle riforme , non possiamo più partire da problemi che interessano singole categorie o singole persone. Dobbiamo partire dalle grandi riforme di cui il Paese ha bisogno. E cioè dal mercato del lavoro ( e quindi ritornando sul grande problema della differenza fra il costo del lavoro e quanto il lavoratore percepisce). E poi dalla scuola, dall’università e dalla ricerca (riguardo alle quali le riforme in corso sembrano un oggettivo passo indietro) e, infine, dall’ambiente e dalla drammatica qualità della vita di molte delle nostre città, soprattutto nel Mezzogiorno. Il dibattito sulle riforme si sta dirigendo invece verso altre direzioni, verso cambiamenti istituzionali rivolti soprattutto a garantire un futuro ai partiti politici, anch’essi, come i sindacati, fortemente indeboliti dalla propria incapacità di affrontare i problemi collettivi della crisi.

In una fase così delicata della nostra vita politica, se vogliamo passare da una pazienza rassegnata dei singoli ad una pazienza finalizzata a riforme utili a tutti, bisogna ridare al cittadino la capacità di contare non soltanto nella vita quotidiana dei partiti (che di vita quotidiana ne hanno sempre meno) quanto nel momento in cui più si esprime la sua forza e cioè il momento del voto.

Ed è certo che la massima influenza si esprime con il sistema uninominale di collegio, in cui ognuno sa per chi vota, lo fa in modo diretto e senza mediazioni e obbliga i partiti che non vogliono perdere, a scegliere candidati che aggiungano forza alla loro debolezza. Uscire dalla lunga crisi dei cento trimestri significa quindi proporre ed approfondire il dibattito sulle riforme che interessano noi tutti, che sono capaci di dare ai giovani un nuova speranza e che sono in grado di rimettere l’Italia al passo di chi sta correndo. E, infine, di dare al cittadino la possibilità di scegliere i rappresentanti politici in grado di accettare e vincere questa sfida. Questa è il grande compito di fronte a cui si trova l’Italia all’inizio del 2010. Se lo si affronta in modo aperto e chiaro si può anche risalire la china. Se si continua a fare finta di vivere nel migliore dei mondi possibili la discesa non potrà che trasformarsi in un precipizio.

Come dice un proverbio popolare anche la pazienza ha un limite. Fortunatamente al di là di questo limite non vi è oggi un rischio di ribellione violenta, ma solo la certezza di una rassegnazione collettiva. Dedichiamo quindi il prossimo anno ad evitare che la sempre più diffusa rassegnazione ci renda incapaci di produrre nella nostra società i cambiamenti di cui abbiamo bisogno.
 
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 09, 2010, 10:49:32 pm »

Rosarno, Romano Prodi: il ghetto che l'Italia non si può permettere
 
               
ROMA (9 gennaio) - In un Paese in cui il tasso di natalità è tra i più bassi del mondo ed in cui nello spazio di una generazione un terzo degli italiani avrà più di 65 anni, il problema dell’immigrazione si presenta come prioritario e dominante. Un crescente numero di immigrati sarà infatti indispensabile per fare avanzare il sistema economico e per garantire i servizi essenziali e le necessarie cure agli anziani e agli ammalati. Già oggi senza il contributo degli oltre quattro milioni di immigrati che risiedono in Italia, il nostro Paese non sarebbe più in grado di funzionare.

Sono infatti sempre meno gli italiani disposti a lavorare nel turno di notte delle fabbriche, a portare assistenza agli anziani o a servire nei i ristoranti o negli alberghi. E ben pochi sono disposti a fare questi mestieri anche in presenza dell’attuale difficile crisi occupazionale. Eppure di fronte a questa riconosciuta realtà e di fronte all’altrettanto riconosciuta evidenza che il problema sarà ancora più serio nel futuro, gli italiani reagiscono con crescente diffidenza, attribuendo agli immigrati la responsabilità di ogni disagio e insicurezza delle nostre città, anche se tutte le statistiche disponibili dimostrano che i livelli di criminalità degli immigrati regolarmente residenti nel nostro Paese non sono differenti da quelli dei cittadini italiani.

Nessuno può naturalmente nascondere o sottovalutare le difficoltà e i problemi dell’integrazione, sia che si tratti di integrazione nel mondo del lavoro, nella scuola o nel quartiere, soprattutto quando il problema coinvolge un numero così grande di persone e origini ed etnie così diverse. Una difficoltà enorme anche senza tener conto delle tragiche patologie della Calabria di ieri. Eppure proprio questa grande varietà di origini ed etnie rende il processo di integrazione relativamente meno difficile rispetto a paesi come la Germania o la Francia dove la provenienza dominante degli immigrati da un solo paese (la Turchia) o da una sola area (il Magreb) rende più probabile la formazione di veri e propri ghetti che rendono più difficile il contatto coi cittadini del paese e più complesso il processo di avvicinamento e di assimilazione dei modelli e degli stili di vita dei cittadini.

Eppure, invece di prepararsi concretamente al futuro di una inevitabile società multiculturale, si descrivono gli immigranti come una realtà impossibile da integrare nelle regole moderne della convivenza e della democrazia. Allo scopo di raggiungere quest’obiettivo si compie una doppia forzatura, prima di tutto facendo credere che la maggioranza dei nostri immigrati sia mussulmana e, in secondo luogo che, in quanto tali, essi non siano assimilabili alla vita democratica. Vorrei che si riflettesse sul fatto che oltre la metà di coloro che vengono a cercare lavoro in Italia sono cristiani, meno di un terzo mussulmani e il resto di altre religioni.

E vorrei anche ricordare che le stesse presunte incompatibilità nei confronti della democrazia sono state usate in Italia contro i cattolici nel 1882 per bloccare la proposta l’introduzione del suffragio universale. E ancora negli anni trenta si insisteva sull’incompatibilità fra cattolicesimo e democrazia, data la presenza di dittature in paesi cattolici come la Spagna, il Portogallo e l’Italia. Perseguendo obiettivi politici di corto periodo si alimenta la paura e, data la riconosciuta impossibilità di fare senza immigrati, si tende a imporre un modello di immigrato che sta qui pochi mesi o pochi anni e ritorna poi al proprio Paese d’origine. E, per perseguire questo obiettivo, si pongono gli ostacoli più elevati possibili all’ottenimento del diritto di voto e della cittadinanza italiana.

La cittadinanza è una cosa seria e bisogna davvero che essa sia meritata da un periodo sufficientemente prolungato di obbedienza alle nostre leggi e dalla dimostrazione di conoscere e rispettare le regole della nostra convivenza civile. Tuttavia quando si scrive , come nel recente progetto di legge approvato in Commissione Parlamentare nello scorso 18 dicembre, che è condizione per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero nato in Italia che “abbia frequentato con profitto scuole riconosciute dallo stato italiano almeno sino all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione”, bisogna ricordare che oltre il 20% dei ragazzi italiani non raggiunge quest’obiettivo. E quando si aggiunge che l’acquisizione della cittadinanza italiana è subordinata ad un “effettivo” e non definito “grado di integrazione sociale e al rispetto degli obblighi fiscali”, viene immediato pensare a quanti nostri cittadini dovrebbe essere tolta la cittadinanza stessa. La decisione definitiva sul tema della cittadinanza è stata prudentemente rinviata a dopo le elezioni regionali.

Approfittiamo di questo tempo per riflettere a fondo su come vogliamo sia l’Italia del futuro. Se vogliamo cioè vivere in un paese in cui tutti debbano rispettare le stesse regole e avere gli stessi diritti per se stessi e per i propri figli o se invece preferiamo un Italia in cui gli stranieri rimangano tali, separati da tutti, che vivano magari fuori dalle nostre regole ma che possano essere sempre cacciati fuori dai nostri confini. Una scelta non solo impossibile e insostenibile sul piano etico, ma disastrosa per la nostra economia che ha bisogno di nuove braccia e di nuove menti che considerino il futuro del nostro paese come il futuro proprio e delle proprie famiglie.

 
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 25, 2010, 11:03:03 pm »

Il sindaco in Consiglio: "Mi dimetto"

Prodi: "Gesto di grande sensibilità"


L'annuncio dopo l'attesa della mattina. "Ma tempi e modi saranno stabiliti con responsabilità": c'è il nodo bilancio. Il centrodestra paventa mesi di commissariamento, Delbono replica: "Se l'Esecutivo firma un decreto legge si va al voto già in autunno"
di Micol Lavinia Lundari
Alla fine si rimangia la parola e cede. Incontri in mattinata a Palazzo D'Accursio poi l'annuncio ufficiale: Delbono si dimette. Il primo a dirlo è il capogruppo del Pd in Consiglio comunale Sergio Lo Giudice (appena uscito dalla riunione), poi è lo stesso primo cittadino a dare le proprie dimissioni di fronte ai consiglieri comunali: "Mi dimetto, ma i tempi e i modi saranno stabiliti con responsabilità".

Il sindaco di Bologna fa dietrofront rispetto a quanto dichiarato solo due giorni fa, all'uscita dalla Procura di piazza Trento e Trieste: "Non mi dimetterò - disse allora dopo cinque ore a colloquio con i pm - nemmeno se sarò rinviato a giudizio". Il fascicolo in questione è quello sul cosiddetto Cinzia-gate, sul presunto utilizzo di denaro della Regione a uso privato: viaggi e spese con l'allora compagna e segretaria Cinzia Cracchi. Le accuse formulate sono di peculato, abuso d'ufficio e in seguito si è aggiunta anche la truffa aggravata.

Passano due giorni da quel lungo interrogatorio e il sindaco Delbono annuncia di aver preso la decisione di dimettersi "senza consultare Errani o Prodi". Il primo, presidente della Regione Emilia-Romagna, lo giudica "un gesto di rispetto verso la città". Per Romano Prodi, che di Delbono fu sponsor durante la campagna elettorale, "il suo è un gesto di grande sensibilità nei confronti di Bologna. Esse (le sue dimissioni, ndr) dimostrano un senso di responsabilità verso la comunità che va al di là dei propri obblighi e delle proprie convenienze. Delbono ha confermato, a differenza di altri, di saper mettere al primo posto il bene comune e non le sue ragioni personali". Per il presidente della Regione Vasco Errani è stato "un gesto di rispetto verso la città"; il segretario del Pd Andrea De Maria commenta: "Un atto di serietà e responsabilità".

"Per me Bologna viene prima di tutto - ha spiegato Delbono in Consiglio comunale. E' per questo che siccome i tempi e i modi richiesti per difendermi eventualmente in sede giudiziaria rischiano di avere ripercussioni negative con la mia attività di sindaco, ho già deciso in piena coscienza che rassegnerò le dimissioni dalla mia carica". "Per senso di responsabilità - ha aggiunto Delbono- seguirò modi e tempi che dovranno tenere presenti il bene prioritario per la città, a partire dal fatto che nei prossimi giorni inizierà in aula l'esame per l'approvazione del bilancio 2010 di cui rivendico la bontà, così come sono orgoglioso delle cose fatte in questi mesi".

Molti esponenti del centrodestra paventano il rischio di lunghi mesi di commissariamento amministrativo per la città di Bologna. Durante l'incontro con la stampa, a seguito del Consiglio comunale, Flavio Delbono ha risposto così: "Se il Governo vuole si può andare a votare già in autunno". Per fare ciò è necessario che l'Esecutivo firmi un decreto legge ad hoc.

Nel frattempo Cinzia Cracchi, la donna al centro della bufera giudiziaria che coinvolge anche il sindaco (la donna è indagata per peculato e abuso d'ufficio) parla in esclusiva ai microfoni di Repubblica Tv: ""Penso che Delbono abbia fatto il meglio per la città dimettendosi. Questo non era un mio obiettivo, la mia intenzione era quella di riavere il mio lavoro. Delbono prova odio per me? Io non lo odio".

(25 gennaio 2010)
da bologna.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:47:46 am »

Il colloquio. Il padre nobile del Partito democratico osserva da lontano i tormenti della sua "creatura"

Prodi: "La gente mi chiede chi comanda nel Pd"

di MASSIMO GIANNINI


Bastonato in Puglia. Umiliato a Bologna. Spiazzato nel Lazio. Confuso ovunque. Romano Prodi, padre nobile del Partito democratico, osserva da lontano i tormenti della sua "creatura". "Tre settimane fa ero a Campolongo, a sciare. In fila per lo skilift la gente mi fermava e mi chiedeva solo questo: ma chi comanda, nel Pd?".  Bella domanda. Il Professore non ha la risposta. E per la verità neanche la cerca: "Ormai sono fuori, e quando si è fuori si è fuori...", dice l'ex premier. Non si sogna nemmeno di "sparare sul quartier generale", una delle abitudini preferite della sinistra italiana di ieri e di oggi. Proprio lui, poi, l'unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte, anche se poi non è riuscito a governare come avrebbe voluto. Ma la domanda resta, in tutta la sua drammatica semplicità. Chi comanda, nel Pd? Il buon Bersani, fresco segretario pragmatico e onesto, ieri ha messo la sua faccia sulla sconfitta pugliese e sul pasticcio bolognese. Ma il suo limite, in questa prima fase di gestione del partito, è stato un esercizio timido e intermittente della leadership. Quello che nella campagna elettorale delle primarie nazionali era stato il suo miglior pregio (la sana realpolitik emiliana, la forza operosa e tranquilla, la capacità di rassicurare gli elettori) nella campagna elettorale per le primarie è diventato il suo peggior difetto. Molte parole di buon senso, ma pochi messaggi che trascinano. Molte iniziative diffuse sul territorio, ma poca "gestione" delle partite locali complesse. Così, a tratti, ha alimentato il sospetto di lasciarsi "etero-dirigere": dalla "volpe del tavoliere" in Puglia, dalla Bonino nel Lazio, da Casini un po' ovunque.

Ieri, in direzione, nessuno l'ha processato per questo. La minoranza veltroniana e franceschiniana non ha infierito, ed ha evitato di ricadere nel vizio tafazziano preferito dal centrosinistra: il regolamento dei conti. Ma in conferenza stampa Bersani era solo, a fronteggiare le domande dei cronisti. Dov'era Massimo D'Alema, che in Puglia ha tentato con l'Udc l'ennesimo esperimento di laboratorio, spazzato via con le provette neo-centriste e gli alambicchi neo-proporzionalisti dai 200 mila elettori che hanno tributato un plebiscito a Nichi Vendola? E dov'era Enrico Letta, che il 4 gennaio in un Largo del Nazareno ancora deserto per le vacanze di Capodanno annunciò il no alle primarie e la candidatura unica di Francesco Boccia? Non pervenuti. E così l'impressione, che è di Prodi ma non certo solo di Prodi, è che alla fine il partito sia in realtà "sgovernato", e un po' in balia di se stesso. Il Professore non lo dice, e "per correttezza" (come ripete in continuazione) si guarda bene dal dare giudizi sulle strategie politiche di questi ultimi mesi e sulle scelte del segretario. Lui, tra l'altro, Bersani l'ha anche sostenuto e votato alle primarie. Ma il Pd è pur sempre il "suo" partito. Lo ha sognato e alla fine fondato. Vederlo ridotto così, oggi, gli fa male. "Sa cosa mi dispiace, soprattutto? È vedere che ormai sembra sempre più debole la ragione dello stare insieme...". Come dire: quello che manca è il vecchio "spirito dell'Ulivo", quel mantra evocato ossessivamente fino a due anni fa, a volte quasi come un esorcismo, che spinse e convinse i vertici di Ds e Margherita ad uscire dalla casa dei padri, e a fondere i due riformismi, quello di matrice laico-socialista e quello di matrice democratico-cristiana.

Non che nelle stagioni passate quello "spirito" abbia soffiato così impetuoso. Ma è vero che oggi appare impalpabile. Quasi svanito, come dimostrano le piccole e ingrate diaspore di queste settimane, dalla api rutelliane e agli altri "centrini" cattolici. Dov'è finito il progetto? Dov'è finita "l'unità" che gli elettori invocano da anni? Di nuovo: Prodi non ha la risposta. Si limita a riproporre le domande. E con lui se le ripropone l'eroico "popolo del centrosinistra", che si mette diligente in fila, con un euro in mano, in ogni fredda domenica in cui la pur esecrata "nomenklatura" chiama: quale autodafè deve ancora accadere, prima che le magnifiche sorti e progressive del grande "partito riformista di massa" si riducano in rovine fumanti?

Per il Professore, stavolta, c'è un dolore nel dolore. La spina nel cuore si chiama Bologna. Nelle dimissioni di Delbono c'è anche un po' di debacle prodiana. Era stato l'ex premier, a lanciare "l'amico Flavio" verso la candidatura a sindaco. Per forza, oggi, la sua uscita di scena brucia due volte. Prodi prova a girarla in positivo: "Prima di tutto, analizziamo la dimensione del problema. Di cosa si sta parlando? Non si distrugge la vita di un uomo, come è accaduto in questi giorni, per una storia come quella, per una manciata di euro...". E se gli fai notare lo "scandaletto", i due bancomat e il "cha-cha-cha della segretaria", il Professore non arretra. "Certo, doveva essere più accorto. Ma in questi giorni nessuno si è limitato a dire questo: gli hanno dato del delinquente, invece. Hanno parlato di limite etico travolto. Eppure altrove, per altri amministratori locali di centrodestra che ne hanno combinate di tutti i colori, nessuno ha gridato allo scandalo, e si a' mai sognato di chiedere le dimissioni. Allora queste cose le vogliamo dire sì o no?". Appunto, le dimissioni. Proprio a Bologna, che già era uscita un po' malconcia dall'era Cofferati. "Ma anche le dimissioni, vede, confermano la differenza di stile di Delbono: ha compiuto un atto di responsabilità verso la città. Ora sarà più libero di dimostrare la sua innocenza, della quale sono non sicuro, ma sicurissimo. Non era obbligato a dimettersi, ma l'ha fatto. Ha messo il bene comune sopra a tutto, prima delle convenienze personali. Chi altri l'avrebbe fatto? La Moratti, forse?".

E ora? Che ne sarà di Palazzo Accursio? Nei boatos, che riecheggiano sotto i portici del centro storico e nei conciliaboli del Bar Ciccio, c'è solo un nome che rimbalza, per la successione a Delbono. Ed è proprio il suo: Romano Prodi. Possibile? Il Professore ridacchia, e quasi sibila in uno slang emiliano che si fa più stretto: "Ma non ci pensi neanche un momento... Gliel'ho già detto: in politica o si sta dentro, o si sta fuori. E io dentro ci sono già stato anche troppo. Mi riposo, leggo, studio molto, faccio le mie lezioni qui in Italia e in Cina. E sono sereno così". Ma il Pd, Professore: che ne sarà del Pd? "Non lo so, speriamo bene...". Di più non gli si estorce, all'uomo che tuttora molti continuano a considerare un possibile "salvatore della patria", per Bologna e non solo. "Eh no - conclude lui - salvatore della patria no! Va bene una volta, va bene due volte, ma tre volte proprio non si può. Grazie tante, ma abbiamo già dato...".
m.gianninirepubblica.it

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da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 06, 2010, 11:54:22 am »

Prodi:"Io candidato? Avrebbero fatto a pezzi la mia città"

di Ninni Andriolo

Qualcuno a Roma potrebbe aver voglia di mettere nel tritacarne Bologna...». Non ha ceduto alle pressioni di chi lo avrebbe voluto sindaco. Romano Prodi, però, anche in queste ore è tutt’altro che indifferente alle vicende politiche che riguardano la sua città. «Se fossi sceso in campo si rischiava di fare del male a Bologna...», ripete ai suoi, spiegando che con lui a Palazzo D’Accursio «la destra si sarebbe accanita ancora di più contro la città». Più di quanto sta accadendo con il rischio di un commissariamento fino al 2011? «Quello», secondo Prodi, «è un segnale che la dice lunga...».

Lontano dall’Italia e dall’Europa, insieme alla moglie, nel giorno in cui il governo rinvia a data da destinarsi il voto bolognese, il Professore ieri, ha avuto conferma di ciò che «annusavo già nei giorni scorsi». Aveva espresso «dubbi», Prodi, sulla «linearità del percorso» che avrebbe dovuto portare in tempi rapidi all’elezione del nuovo sindaco di Bologna. In via Gerusalemme, in sostanza, si ipotizzava «una trappola», con la quasi certezza che le mosse del centrodestra sarebbero state guidate più dalle convenienze elettorali del Pdl che dagli interessi di Bologna. Non che a far decidere il Professore siano stati i sospetti che si stesse armando un gioco al «logoramento» nei suoi confronti. Quel tarlo, tuttavia, ha fatto più di una volta capolino nei suoi ragionamenti. Sul «no» alla candidatura – e su quel brusco «non cambio parere» opposto alle indiscrezioni di stampa - non è stata estranea la preoccupazione che, per colpire lui, la destra potesse «mettere in naftalina la città», facendole scontare un lungo periodo di galleggiamento. La disponibilità del centrodestra a concordare, con l’opposizione, la data del 28 marzo? Un annuncio facile da fare, ma il Professore temeva già che i fatti sarebbero stati ben diversi. E la decisione del Consiglio dei ministri di ieri non smentisce quelle previsioni.

Anche il «chiarimento avvenuto dentro il Partito democratico sul percorso da compiere ha influito sulle decisioni del governo», spiegano dall’entourage prodiano. La speranza, chiariscono, era quella «di coglierci impreparati e, magari, divisi». Ma «in questi giorni» simili speranze «sono state deluse». Un calcolato «accanimento» ai danni di Bologna, quindi. «Romano, non bisogna dimenticarlo, ha battuto Berlusconi per due volte – aggiungono i collaboratori del “Prof” - Loro, a destra, non lo dimenticano e si impegnano sempre al massimo per depotenziarlo. Ricordate i dossier che fioccavano all’improvviso prima del 2006 e durante la fase del governo? Ricordate Telecom Serbia?». Nemmeno questa volta, in poche parole, gli avversari fanno sconti e se «il Prof è coriaceo e capace di combattere, non può permettere d’altra parte che si metta nel mirino la sua Bologna». Il centrodestra che tenta «il colpaccio» per riconquistare la città delle Due Torri? «Non le sarà facile, i bolognesi non cadono nei trabocchetti, comprendono che si gioca sulla loro pelle». Con il Professore in campo non ci sarebbe partita, sostengono molti. Lucio Dalla spera ancora che «Romano» possa cambiare idea e don Giovanni Nicolini, già compagno di scuola di Prodi, rimarca che la città «vive una grande povertà di pensieri e progetti» e avrebbe bisogno, quindi, di un uomo «sopra le parti e la modesta dialettica locale». Il Professore potrebbe tornare sui suoi passi? «Non credo proprio», taglia corto la sua portavoce, la deputata Pd, Sandra Zampa.

05 febbraio 2010
da unita.it
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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 21, 2010, 10:07:04 pm »


 L'Italia e i deficit di Inghilterra e Spagna: nessuno può guardarci dall'alto in basso
di Romano Prodi


ROMA (21 febbraio) - Da quando è cominciata questa lunga crisi economica sono entrati in crisi anche coloro che per professione commentano, analizzano e fanno previsioni sull’economia. In primo luogo perché il crollo è giunto quasi totalmente imprevisto, anche se molti si sono affrettati a dire che già l’avevano messo in conto, semplicemente perché avevano scritto che gli squilibri esistenti non potevano durare all’infinito. E non era certo difficile dirlo. Le contraddizioni e le divergenze nel dibattito di oggi trovano tuttavia origine soprattutto nel fatto che la lunghezza e la profondità della crisi si accompagnano a cambiamenti del tutto imprevisti.

Qualsiasi siano le caratteristiche, i tempi e le modalità della ripresa emerge infatti una perdita di peso e una netta diminuzione della libertà di movimento degli Stati Uniti. Il costo dello sforzo militare che da ormai molti anni è crescente in ogni parte del mondo sommato al costo del salvataggio del sistema finanziario e delle riforme promesse dal presidente Obama, hanno portato il deficit americano verso dimensioni insostenibili (superiori al 10%) anche da parte di un paese che possiede la moneta che è ancora il punto di riferimento dell’economia mondiale.

Attraversando l’Atlantico si incontra un’Europa che complessivamente ha le carte più in ordine, con un deficit medio poco più della metà di quello degli Stati Uniti, ma con differenze enormi tra paese e paese.
Si passa da un -3,6% della Germania, al -5,2% dell’Italia al -12,3 della Grecia e della Gran Bretagna, fino a oltre il -13% dell’Irlanda.

Queste disparità hanno naturalmente attirato l’attenzione sul paese che unisce un deficit pesantissimo ad un debito pregresso altrettanto pesante, cioè la Grecia.

Come succede in questi casi è partita la speculazione, sono partite le previsioni negative rispetto al futuro e, in modo assolutamente immotivato, si è arrivati a prevedere perfino una prematura fine dell’Euro. Nulla di tutto questo accadrà perché, nonostante la critica situazione delle istituzioni europee, alla fine si è trovato un principio di accordo per venire incontro alle emergenze della Grecia.

L’Euro è infatti uno strumento troppo prezioso per abbandonarlo di fronte ai pur esecrabili errori dei governi dei paesi che ne fanno parte.

Questa altalena di eventi ha tuttavia portato a variazioni nei cambi anch’esse impreviste e, apparentemente, del tutto irrazionali. Fino a pochissimi mesi fa non solo l’Euro quotava attorno a 1,50 dollari ma le analisi più raffinate concordavano nel prevederne un ulteriore ascesa. C’era perfino chi riteneva inevitabile arrivare al livello di due dollari per euro. A causa della diversità delle situazioni tra paese e paese e , soprattutto, a causa della debolezza dei poteri di intervento delle istituzioni europee, l’Euro ha invece perduto il 10% del suo valore nei confronti del dollaro.

E la situazione è così incerta e confusa che, personalmente mi rifiuto di fare qualsiasi previsione sul futuro dei cambi, proprio perché manca ogni linea comune sulle grandi decisioni riguardo alla politica economica mondiale.

In tale confusione l’unico punto fermo è che certamente non piango per l’indebolimento dell’Euro perché questo indebolimento costituisce oggi lo stimolo maggiore per le nostre esportazioni. Il che, per un paese come l’Italia, è l’aiuto più concreto ad una ripresa che ancora non si è seriamente materializzata.

Ritornando un attimo all’Europa, è doveroso notare come paesi come la Gran Bretagna e la Spagna, che si presentavano come virtuosi e si permettevano di guardare dall’alto in basso l’Italia, presentano ora un bilancio pubblico con deficit fino a pochi anni fa inimmaginabili.

Questi alti e bassi dovrebbero spingere a un maggiore equilibrio di giudizio ma, soprattutto, a collaborare maggiormente nella direzione di una più forte costruzione europea. Il quadro politico va tuttavia nella direzione opposta e gli attuali leader europei sono più spinti a seguire le paure dei propri cittadini che non a spiegare loro cosa ci aspetta nel futuro. E per vedere questo futuro materializzarsi ci dobbiamo perciò spostare ulteriormente verso est, dove la nuova Asia non solo ha già superato la crisi ma accumula le risorse materiali e umane per assumere un ruolo trainante nel futuro.

Ci tocca perciò concludere che l’unica cosa certa è che, quando usciremo da questa crisi, il mondo non sarà più lo stesso.
 
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 01, 2010, 07:54:02 am »

L'ex premier: "Ridare al cittadino la capacità di contare"

"Nei comuni, dove il rapporto è più diretto, teniamo"

Prodi preoccupato chiede facce nuove "A 71 anni il più giovane sembro io"

di MARCO MAROZZI


BOLOGNA - "E' stata dura". Un nubifragio. Poi l'arcobaleno. Bologna accoglie così il ritorno di Romano Prodi. Professore, si sente Noè, votato ancora a salvare l'arca del centrosinistra? "Per l'amor di Dio. Sono arrivato che pioveva da matti. La mia esperienza politica è finita. Servono giovani. Ho 71 anni e ogni tanto rischiano di farmi sentire un ragazzo. Io al massimo ho cercato di dare una mano, mica sono quello che se ne va sull'Aventino. Certo è stata dura e adesso c'è tanto lavoro da fare".

Non si riferisce alle durezze del cielo l'ex premier che due volte su due ha sconfitto Berlusconi alle urne. Guarda alle difficoltà terrene del centrosinistra, persino nella "sua" Emilia-Romagna, sempre meno rossa, meno di altre in Italia. Il Professore venerdì ha voluto chiudere la campagna elettorale a fianco di Vasco Errani, il governatore confermato per la terza volta, pur perdendo oltre il 10 per cento e che è riuscito a trascinare in Consiglio regionale un listino composto - escluso il bersaniano segretario del Pd - da funzionari di un centrosinistra sognato e ancor più pesantemente segnato. Quando a Bologna tutti gli uomini di partito sono stati bocciati. Ed è stata amarissima la festa di piazza di ieri sera con un pugno di fedelissimi travolti da un diluvio. Proprio mentre Prodi tornava in città dopo due giorni di vacanza a Roma con moglie, quattro nipoti, due figli, due nuore, una in attesa del Prodino n.5.

Turista non per caso, via da tutto, attento a tutto. Preoccupatissimo per le regioni del Nord più vicino al resto d'Europa andate in blocco al centrodestra. Fino all'ultimo Prodi ha sperato in Mercedes Bresso. E nel miracolo Emma Bonino "che ha fatto tutto quel che poteva" in una Roma, in un Lazio in cui la Chiesa ha inciso fino all'ultimo. Il Professore non vuole fare dichiarazioni, teme che "qualsiasi cosa" alimenti tensioni.

Sarà, come sempre, al fianco dell'amato Pierluigi Bersani. Rifiuta il ruolo che in strada continuano a chiudergli di presentarsi come il solito salvatore. Pensa a come muoversi, parteciperà con qualche uscita ponderata alla riflessione del Pd. "I partiti sono essenziali ma lo è anche il loro rinnovamento" è la sua linea. La preoccupazione è che il confronto continui tutto interno, senza coinvolgere un'opinione pubblica "che rifiuta sempre più i giochi chiusi dei partiti". "Anche se tirare sassi contro i partiti è diventato un esercizio largamente condiviso, non ho mai visto funzionare una democrazia senza un ruolo forte e attivo dei partiti politici".

Il ragionamento va ben oltre il semplice rinnovamento. Riguarda una società cambiata, anche nella vecchia Emilia-Romagna in cui sono esplose la Lega e Grillo. I giovani, i ceti nuovi non votano Pd. Una riflessione su cui si giocano il futuro Errani (e lui è il primo a riconoscerlo) e il partito. Attentissimo ad ogni rapporto, ha telefonato all'ex premier anche Maurizio Cevenini, recordman della Regione, oltre 19 mila preferenze, bolognese sopportato dal suo Pd e che va a cercare voti allo stadio, nelle strade, alle feste, ai matrimoni, onnipresente in ogni angolo.

"Bisogna ridare al cittadino la fiducia, la capacità di contare. Nella vita quotidiana di partiti che di vita quotidiana ne hanno sempre meno e nel momento del voto" dice Prodi. "Non è un caso che in ogni competizione elettorale si moltiplichino le lamentele sulle candidature a cui i cittadini sono chiamati a dare il proprio voto". "Dove il rapporto è più diretto, nei Comuni, teniamo, vinciamo" ragiona, guardando a Lecco, Lodi, Venezia. L'importante è capire che "le risposte non possono venire da questa destra". "La sfida è su riforme che interessano tutti, capaci di dare ai giovani una nuova speranza. La povertà che sta dilagando, la differenza fra il costo del lavoro e quanto il lavoratore prende davvero, la scuola, l'università, la ricerca, la drammatica qualità della vita di molte delle nostre città, soprattutto nel Sud".

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« Risposta #37 inserito:: Aprile 12, 2010, 11:33:44 pm »

L'ex premier rompe il silenzio, gelo fra i vertici del partito

"Va creato un esecutivo formato dai soli segretari regionali"

Prodi: "Serve un Pd federale" Chiamparino: "E' l'unica via"

di UMBERTO ROSSO


ROMA - Prodi a sorpresa rompe il silenzio e sferza il Pd. Spara sul quartier generale e invoca per recuperare le radici un partito a federalismo spinto: i democratici vanno organizzati regione per regione. Tutto il potere ai venti segretari locali, ai quali sia affidato anche il compito di eleggere il capo del partito. L'unica ricetta, secondo il Professore, per lasciarsi alle spalle i "deludenti risultati elettorali" e un Pd "troppo autoreferenziale". La proposta piace, e molto, a Sergio Chiamparino. "Solo così - spiega il sindaco di Torino - possiamo competere con la Lega, o magari anche allearci in certe situazioni". Gelo invece dagli stati maggiori del Pd, sia dal fronte della maggioranza che da quello dell'opposizione. Gira un sospetto: l'uscita, improvvisa e molto dura dell'ex premier, sarebbe un siluro lanciato dritto a Pier Luigi Bersani. Dubbi apertamente sollevati dal deputato di area popolare Giorgio Merlo, "Prodi vorrebbe defenestrare il segretario". Una lettura che Ricky Levi, ex sottosegretario e grande amico del Professore, smentisce: "Bersani era l'unico informato del suo articolo, e anzi le parole di Prodi sono in realtà una palla alzata proprio a lui". Il che però non basta a spegnere le illazioni dentro il Pd, le voci che riferiscono anche di rapporti molto tesi a Bologna fra il segretario e l'ex premier dopo la vicenda Delbono e in vista di nuove nomination per il sindaco e il segretario cittadino del partito.

In ogni caso, lo staff del segretario accoglie politicamente con freddezza il "ritorno" di Prodi, affidato ad un lungo intervento pubblicato ieri sul Messaggero. Un "utile contributo al radicamento del partito" lo definisce Maurizio Migliavacca, il capo dell'organizzazione, ma si tratta di "un disegno di lungo termine, in prospettiva". E il leader dei popolari del Pd, Beppe Fioroni, boccia tutto spiegando che "non possiamo oscillare dal partito del lavoro alla Lega di sinistra, fra chi vive di rimpianti e chi insegue Bossi".

L'analisi di Prodi sul Pd è impietosa. Un partito che ha rapporti "troppo deboli" con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani. In balia di una linea politica messa continuamente in discussione "dalle dichiarazioni o le interviste dei notabili".
Del tutto conseguente, in questo quadro, che il risultato delle regionali sia stato "inferiore alle aspettative". Per uscire dal guado, serve assolutamente un Pd delle regioni, federale. Recuperando una sua vecchia proposta lanciata ai tempi della crisi della Dc, come ricorda lo stesso Prodi, si tratterebbe ora di metter su un Pd lombardo, emiliano, laziale o siciliano. E il partito nazionale? Da consegnare nelle mani dei venti segretari regionali, eletti con le primarie, e chiamati a far parte di un esecutivo che dia la linea politica. L'unico e solo vertice centrale del Pd in salsa Prodi, "avendo il coraggio di cancellare organismi che si sono dimostrati inefficaci".

Ai venti "uomini forti", come li definisce il Professore, il compito di scegliere il leader nazionale, senza passare in questo caso dalle primarie (oggi previste invece per il segretario). La risposta di Bersani arriverà oggi. La struttura federale del partito, spiegherà il capo del Pd, è già inscritta nello statuto del partito e deve andare di pari passo con la più generale riforma istituzionale. E insisterà sull'operazione di rinnovamento della classe dirigente interna, già avviata. Parole che probabilmente risulteranno troppo tiepide per chi ha accolto con entusiasmo la frustata di Prodi, l'ala degli amministratori del nord, Chiamparino e Cacciari in testa. "Il Pd federale - avverte il sindaco di Torino - è l'unico sistema per scegliere un nostro candidato premier davvero forte per il 2013. Speriamo di costruirlo in tempo".

© Riproduzione riservata (12 aprile 2010)
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« Risposta #38 inserito:: Maggio 07, 2010, 10:59:18 am »

Prodi

Conferenza di alto livello: “Africa: 53 Nazioni, Una Unione”

PRESENTAZIONE

La mia esperienza di presidente del Panel internazionale delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana sul peacekeeping in Africa mi ha portato a conclusioni che vanno al di là delle questioni strettamente relative alle operazioni di pace.

È ormai infatti chiaro che solo superando la presente frammentazione politico-economica del continente africano, si potrà avere più pace, sviluppo e prosperità.

Molti paesi sviluppati, avendo adottato politiche rigidamente bilaterali nei confronti dell’Africa, hanno una grande responsabilità delle condizioni attuali di questa regione del mondo. Da questo punto di vista i recenti sforzi delle Nazioni Unite di creare una partnership strategica con l’Unione Africana è un passo importante che merita di essere non solo continuato ma anche rafforzato.

È in questa prospettiva che la Conferenza “Africa: 53 Countries, One Union” intende promuovere un dibatto sulle possibilità di maggiore integrazione tra gli stati e le economie africane come prerequisito per lo sviluppo politico e sociale di questa regione.

In particolare, intendiamo discutere sulla possibile adozione di politiche comuni da parte di attori quali l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina e da parte di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio e la Banca mondiale. Al contempo ci pare fondamentale ascoltare le posizioni dell’Unione Africana stessa e dei leader degli stati di questo continente.

L’obiettivo finale è quello di proporre una Road Map intesa a promuovere lo sviluppo e la pace dell’Africa in previsione di due conferenze future che si terranno nei prossimi anni a Washington (2011) e a Addis Abeba (2012).

Romano Prodi

Presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli


Scarica la presentazione ed il programma


Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli

SAIS Johns Hopkins University Bologna

Bologna (Italy), 21 maggio 2010


Conferenza di Alto Livello:

“Africa: 53 Nazioni, Una Unione” (Programma preliminare del 23 aprile 2010)

Sotto l’Alto Patronato di: Nazioni Unite, Unione Africana e Commissione Europea


Partecipa alla Conferenza


Friday May 21 2010

09.30am Greetings :

* Italian Ministry of Foreign Affairs

* Local Authorities

10.00am Session 1. The Political Framework

* Secretary General UN: The prerequisite of Peace

* President AU: AU contribution to overcome Continental fragmentation

* African Leaders: The role of Leadership in Africa

General discussion

Coffee break

* President European Commission: EU and European States, is a common policy toward Africa possible?

* US Ass. Sec. of State for Africa: A new American Policy for Africa

* China Ministry Foreign Affairs: Meanings and Goals of Chinese engagement in Africa

General discussion

01.00pm Lunch

* Presentation and Trailer of AFRICA NEWS

02.30pm Videoconference

* US Secretary of State

Session 2. The Economic Dimension

* DG WTO: Free Trade as a key to African Development

* President WB: Steps toward a Continental African Market, a prerequisite to growth

* President ADB: A Continental Infrastructure Strategy for African Development

* Panel discussion: Economic and Geopolitical effects of a Multilateral approach to Africa

Chair: ‘Johns Hopkins’

* Conclusions

Romano Prodi: A Road Map for Africa towards further Peace and Development

Announcement of follow up conferences in Washington (2011) and Addis Abeba (2012)


La lingua ufficiale della conferenza e’ l’Inglese. Sarà disponibile la traduzione simultanea.

========
Link: http://www.romanoprodi.it/
http://www.fondazionepopoli.org/
http://www.mondogrande.it/forum/viewtopic.php?f=2&p=4334
http://www.perlulivo.it/forum/viewtopic.php?f=6&t=2542
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« Risposta #39 inserito:: Maggio 23, 2010, 05:19:59 pm »

Prodi: «Manovra, il coraggio di essere impopolari»
 
                 di Romano Prodi

ROMA (23 maggio) - Una manovra correttiva è sempre un esercizio difficile. Lo è ancora di più quando si è incessantemente ripetuto che non vi è niente da correggere. Comunque, visto che le correzioni sono necessarie, è bene farle in fretta, in modo da renderci più tranquillamente a riparo dalle tempeste che in questi giorni impazzano in Europa.

La fretta non può tuttavia esimerci dal tenere conto di alcuni principi fondamentali che riguardano le conseguenze della manovra stessa sulle condizioni di vita degli italiani, anche perché si parla di almeno 27 miliardi di euro, una somma cospicua, riguardo alla quale non è certo indifferente vedere dove questi soldi vengono presi.

Partiamo dalla constatazione che in quasi tutti i paesi sviluppati il lavoro ha perso progressivamente terreno nella distribuzione del reddito ma che in Italia questa perdita è stata superiore a quella degli altri. Negli ultimi quindici anni la quota di Pil che va a remunerare il fattore lavoro (pensioni comprese) è calata di otto punti percentuali. Essa è passata dal 77 al 69% : un calo enorme che, in cifra assoluta,si colloca intorno ai 130 miliardi di euro.

Questo calo ci ha portato in linea con gli altri Paesi avanzati ma con una grande differenza di fondo. La differenza sta nel fatto che, di fronte a una quota di Pil del 69%, il lavoro contribuisce all’insieme dell’entrate tributarie per oltre l’80%. Possiamo perciò ragionevolmente stimare che in Italia il lavoro paghi quasi 50 miliardi di tasse in più rispetto alla quota di reddito percepita. Si tratta di una redistribuzione rovesciata rispetto a paesi come la Francia e la Germania che, attraverso lo strumento fiscale, trasferiscono risorse nette al lavoro. Il tutto, naturalmente, senza tenere conto dell’evasione che, in via prudenziale, è stimata intorno ai 100 miliardi e che è generata dal lavoro per una quota nettamente inferiore al 69%. Anche in conseguenza dell’evasione la quota del lavoro si vede perciò sottrarre ulteriori margini di reddito.

È chiaro che non è compito della così detta manovra aggiuntiva sanare questi squilibri, che sono anche la conseguenza della globalizzazione e di nuovi rapporti di forza nell’ambito internazionale. Penso tuttavia che il ministro dell’Economia, invece di rincorrere disperatamente tanti diversi addendi per arrivare all’agognata somma di 27 miliardi, farebbe bene a meditare su queste peculiarità e, sensatamente, a considerare l’opportunità di utilizzare questa contingenza per iniziare a restringere una divaricazione ormai insostenibile. Capisco che questo non è un obiettivo facile, soprattutto in un momento storico in cui il lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, viene considerato come qualcosa di incidentale, da cui la storia si sta allontanando.

Dobbiamo inoltre convenire che molte regole del lavoro debbono essere cambiate in modo da rendere i lavoratori stessi più responsabili e più produttivi, ma questo non può avvenire attraverso un processo di marginalizzazione anche economica del lavoro stesso. E dobbiamo pure convenire che i lavoratori privilegiati e protetti debbono dare un doveroso contributo per farci uscire dalle difficoltà in cui siamo, ma non possiamo illuderci che il necessario sacrificio di ventimila pubblici dipendenti possa essere decisivo per il risanamento delle finanze pubbliche. L’esempio è importante in una società democratica ed è quindi giusto che anche la classe politica dia il suo contributo, come in analoghe circostanze avevo deciso diminuendo, rapidamente ed in silenzio, le remunerazioni dei ministri di ben il 30%. Questi passi nobili e necessari hanno effetti quantitativi assai scarsi di fronte ai grandi mutamenti a cui stiamo assistendo e di fronte alle necessità del Paese.

Non avendo oggi alcuna possibilità di sapere come questi 27 miliardi saranno raccolti ed avendo ragionati dubbi che la quasi totalità di essi possa venire da generici risparmi della spesa, mi sembra opportuno che il ministro dell’Economia si ponga almeno l’obiettivo di non squilibrare ulteriormente la distribuzione del reddito. Non è certo un compito facile soprattutto quando si è abolita l’Ici anche per le categorie di reddito più elevate e quando ogni suggerimento di usare le imposte a scopo almeno parzialmente redistributivo viene ritenuto un modo illegittimo di mettere le mani in tasca agli italiani. D’altra parte il mestiere del ministro dell’Economia non è mai stato un mestiere popolare. Tuttavia i peggiori ministri sono sempre stati quelli che hanno cercato la popolarità ad ogni costo.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA   
http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=29487&sez=HOME_ECONOMIA&npl=&desc_sez=
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« Risposta #40 inserito:: Maggio 28, 2010, 10:51:10 pm »

 Prodi: «La Tobin tax è un'idea giusta. Ma va applicata su scala planetaria»

di Vittorio Carlini 28 maggio 2010

   

«Da un lato i mercati finanziari sono di fatto globalizzati; dall'altro gli strumenti per regolarli hanno ancora una dimensione locale, nazionale. E' questa la contraddizione che ci ha portato alla crisi». Romano Prodi, raggiunto al telefono nella sua casa di Bologna, non fa troppi sconti. Il Professore non nasconde le sue preoccupazioni: il futuro, perlomeno nell'immediato, non è roseo. «Questa dicotomia – dice - non sarà risolta in tempi brevi. Non vedo uno slancio, uno scatto in avanti in favore di una regolamentazione a livello mondiale».

Il problema della finanza è una conseguenza del più ampio fenomeno della globalizzazione…
La globalizzazione, in generale, sta provocando il cambiamento della sovranità nazionale. I mercati finanziari sono una parte del discorso. Lo stato westfaliano, come noi lo conosciamo, è oggetto di profondi mutamenti: è perforato da continui vasi comunicanti, essenzialmente per una duplice causa.

Vale a dire?
In primis, c'è il forte aumento del peso di istituzioni sovranazionali, quali per esempio l'Unione europea. Poi ci sono strumenti non istituzionali, come appunto le Borse e i mercati finanziari. Questi ultimi, però, sono guidati da forze non regolate in maniera sufficiente. E qui sta il guaio: fino a quando non lo affrontiamo, assisteremo al succedersi di altre crisi, di altri periodi di difficoltà.

Eppure, almeno a livello di dichiarazioni, c'è chi continua a richiamare il tema della riforma sistemica…
Sì, ma manca la politica. Non vedo all'orizzonte un forte accordo per il cambiamento. Fino all'aprile dell'anno scorso, si spingeva per una regolamentazione di tipo globale. Pian piano, le ambizioni sono diminuite; si è preferito ripiegare su argomentazioni di carattere tecnico, sulla soluzione di singoli aspetti del problema. Per carità, proposte pur sempre importanti ma che non affrontano il "peccato originale", non risolvono alla radice la contraddizione. Basta vedere quello che è successo per la Tobin tax.

Cosa intende dire?
In sé è una buona idea. Ma se non viene condivisa da tutti, se non c'è uno scatto in avanti della politica che la impone a livello planetario non ha senso. Può essere aggirata sempre e comunque, passando per qualche isola del Caimano.

Ma le regole sono veramente sufficienti a riportare nei giusti limiti un capitalismo finanziario che ha messo in atto la fuga in avanti?
Le regole sono tutto. Io parlo di accordi tra istituzioni, governi, organi che devono farle rispettare. La speculazione è forte quando la politica è debole. Se nel caso della Grecia avessimo avuto una politica con legami precisi, accordi precisi, strumenti precisi gli speculatori avrebbero preso una bastonata tale da ricordarsela per molto tempo.

Rimanendo sulla scala mondiale, molti auspicano una maggiore collaborazione tra Europa e Stati Uniti…
Su questi temi sarebbe utile arrivare ad una grande alleanza tra le due sponde dell'oceano Atlantico. Tuttavia, non credo che il governo di Washington sia in grado di prendere una simile iniziativa e le capitali europee non mi sembrano unite tra loro.

Perché pensa che il presidente Barack Obama non sia in grado di farsi promotore di un simile disegno?
Il mondo politico americano è diviso. Nel recente passato, soprattutto sul tema della finanza, ci sono state molte grida ma non grandi passaggi concreti. Non vedo un'idea che possa portare, per esempio, a dar vita ad una nuova Bretton Woods: cioè ad un grande accordo a livello mondiale. La conferenza, avviata nel 1944, avvenne in un momento in cui gli Stati Uniti potevano esercitare una forte leadership. Fu preparata da due anni di dicussioni. E poi, allora, il mondo era più piccolo: adesso bisogna coinvolgere molti più stati. Oggi come oggi solo il G20 potrebbe convocare, per il medio termine, un simile consesso. Tuttavia non vedo una spinta reale in tal senso. Non vorrei sembrare troppo pessimista, ma bisogna leggere la realtà con molta serietà.

Insomma, la politica non c'è. Per quale motivo?
Perché siamo in una fase ancora arretrata di cooperazione internazionale. Ci sono troppi players che vogliono giocare le loro carte. Gli stati nazionali hanno le loro prerogative, le loro regole cui non vogliono rinunciare. A ben vedere, non esiste un colpevole preciso. E' la storia che va avanti: già nel passato abbiamo vissuto periodi di grande mutamento, e nel futuro ce ne saranno altri. Di certo, però, la soluzione non è tornare al protezionismo. I mercati dei beni e quelli finanziari devono restare aperti, collegati tra loro e permettere una vita economica dinamica. Chiuderli significherebbe solo peggiorare le cose: il mondo tornerebbe verso la miseria e la guerra.

Passando a un piano più limitato, quello dell'Unione europea, dopo lo scoppio della crisi greca abbiamo assistito ad accenni di maggiore integrazione: nell'ipotesi di riforma del patto di stabilità è ipotizzato, per esempio, che i bilanci statali possano sottostare a una valutazione ex ante del Consiglio europeo. Un passo che condivide?
Sì e mi auguro che, dopo la crisi, i provvedimenti adottati spingano ancora di più in questa direzione. La politica monetaria comune deve essere affiancata da una politica economica coordinata sui grandi temi. Altrimenti, la situazione non può più reggere a lungo.

Quest'impostazione, giocoforza, conduce alla limitazione della sovranità nazionale nella politica fiscale…
Credo che, sui grandi capitoli economici, sia un processo inevitabile. Poi, voglio essere chiaro. Se la domanda è: dev'esserci un sistema sanitario europeo? Bé, rispondo con forza di no. Il principio di sussidiarietà è una cosa seria e i servizi ospedalieri debbono rimanere vicino ai cittadini. Un discorso analogo può farsi, ad esempio, per lo stato sociale: seppure può immaginarsi un coordinamento tra gli stati, la sua organizzazione resta un tema di livello locale. E' compito della politica individuare e definire cosa è nazionale e cosa sovranazionale.

In tal senso è stata fatta la proposta di un'agenzia di rating europea, un progetto sensato?
Si tratta di un problema serio. Già parecchi anni fa non avevo una grande considerazione di queste società: vedevo come davano i voti. E, poi, se il loro giudizio dev'essere considerato oggettivo perché pubblicarlo a mercati aperti? Senza dimenticare, inoltre, il tema del conflitto d'interessi. Ciò detto, non sono favorevole ad un'agenzia europea che non potrebbe limitarsi a valutare non solo il debito sovrano ma anche i bond aziendali.

Una soluzione potrebbe essere quella di rafforzare la Bce, attribuendogli un potere di valutazione sul merito di credito…
E' un discorso serio. La Bce è indipendente e risponde, in definitiva, all'opininione pubblica europea. Il tema del rafforzamento degli organi comunitari è rilevante. Penso, per esempio, ad Eurostat: che senso ha poter verificare solamente la bottom line di un bilancio, quando non puoi analizzare se gli addendi da cui deriva sono falsi oppure no. Torniamo al tema della maggiore integrazione e coordinamento, sempre però su i grandi capitoli economici

Insomma… Lei è un glocal
Certo che sì. Da tutta una vita sono glocal; quando ero presidente della Commissione europea ho tenuto la mia famiglia e le mie radici ben salde a Bologna, la mia terra.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-05-28/prodi-speculazione-forte-quando-104100.shtml?uuid=AYWxMvtB
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« Risposta #41 inserito:: Giugno 12, 2010, 05:42:12 pm »

Prodi: «La politica, una corsa a tappe. In giro, solo velocisti»

di Andrea Satta


Quella che segue è la trascrizione fedele di una conversazione di bilancio sul Giro d’Italia tra Andrea Satta e Romano Prodi, ciclisti, con qualche cenno inevitabile alle rispettive altre passioni, occupazioni, mestieri, disillusioni e speranze.

Ore 19.45 Driiin!!!

Pronto presidente come stai?

Ci possiamo sentire tra mezz’ora perché sai, noi padani, stiamo già mangiando … noi della Lega...

Vedo che sei di buon umore, ti chiamo dopo

Fra mezz’ora…

Benissimo.

Ore 20.15 Ri-Driiin!!!!

Perché un padano va in bicicletta?

Perché la pianura è piatta.

E tu come l’hai visto questo Giro?

Bene, è stato meno veloce di altri, e spero dipenda dai meno additivi usati. Un Giro intelligente, con bei giochi di squadra, tranne la tappa de L’Aquila magari...

Basso che rinasce?

Interessante. Alla fine ha fatto quattro anni di purgatorio. Rinascere vuol dire avere grinta. Un buon presagio per il Giro di Francia.

Che effetto ti fa vedere in tv una corsa che passa sulle strade di casa?

È una delle cose che ti fa appartenere al Giro d’Italia.

Adesso Ivan deve confermarsi al Tour...

Sì, perché c’è una sola corsa al mondo che muove tutto, stampa e immagine più di ogni altra, il Tour de France.

Un lombardo e un siciliano che si aiutano e fanno squadra...

Sono stati bravi i manager e bravi loro due a capire che era interesse comune aiutarsi. Non succede spesso, una cosa così.

La salita della Raticosa, la tua salita, è una strada che attraversa la storia partigiana. Si può ancora dire?

Lo possiamo dire, guardando quei luoghi. Buttando un occhio, col senso della compassione, al cimitero tedesco della Futa, dove ovunque c’è scritto unbekannt (sconosciuto). Ma i giovani di tutto questo non sanno quasi niente.

Che ti viene in mente quando vedi un bambino in bicicletta?

Che ce ne sono pochi.

E uno che ha appena levato le rotelle?

Che è la parabola della vita.



E quando passa un vecchio col secchio della verdura ?

Di quelli se ne vedono di più.

E quando ci vedi su uno straniero nelle strade di campagna?

Eh, lì se ne vedon tanti. Mi ci ritrovo sai, in questo che mi chiedi, è una domanda che ho dentro. La bici come primo gancio...

Pensi davvero che Bartali abbia salvato l’Italia dalla guerra civile nel ’48? Credi che ora Nibali e Basso possano fare qualcosa di simile?

No, allora eravamo come gli emigranti e la bici era il primo passo.

Infatti la bici era così importante che c’era “Ladri di biciclette”. Veloce ora... La bicicletta è leggera e...?

Fortissima

È aria nei capelli e...?

Non c’è più, l’aria nei capelli. C’è il casco.

La bicicletta e l’Italia. Cominciamo da... Il telaio...?

Le relazioni fra la gente.

I pedali...?

Quelli che tirano, quelli che si alzano tutte le mattine alla stessa ora.

E la catena?

Sono le istituzioni, che spesso vengono deragliate apposta.

Il parafango italiano è...?

L’Europa.

Le luci?

I ragazzi.

La dinamo?

Un tempo erano le banche, ora non so.

I catarifrangenti?

Quelli che avvisano di un pericolo: beh, i carabinieri.

Le ruote?

Le ruote? In questo momento? Non so proprio.

Intravedi almeno un raggio?

Di raggi ce ne sono tanti, ma manca chi li tira, come si chiama quello che sa regolare i raggi delle ruote? Ecco, lui, quello che le tira a dovere, e le ruote, vedi, le ruote, restano storte.

Ma ci sono anche i freni... cosa rallenta un paese come il nostro?

La mancanza di etica.

Potrei chiederti «Per chi suona il campanello» invece ti domando... Siamo all’ultimo giro?

Non c’è mai un ultimo giro, per fortuna. Vedi, dopo il Giro, c’è il Tour de France...

Aldo Moser una volta m’ha detto che aveva così tanta sete in una Cuneo- Pinerolo che chiese acqua a Jaques Anquetil, che era pur un avversario, questo gliela porse (gliela aveva passata sua moglie …) ma aggiunse “occhio che dentro c’è champagne …” Dobbiamo solo aver paura noi di questa generazione, o potremmo anche trovare champagne dentro una borraccia per l’acqua?

Eh, ma qui chi ce lo mette lo champagne nella borraccia?

Seduto In cima ad un paracarro ad aspettare... tu ci sei mai stato?

Mah... era il modo classico di... però, però, a proposito, che genio quello del Museo dei Paracarri di...

Pergine Valsugana, (un museo di centocinquanta paracarri, ognuno dedicato ad un ciclista ed estratto dalle strade delle sue imprese e delle sue fatiche, ndr).

Bravo sì, li della Valsugana, c’è la storia d’Italia là dentro!

Eh... sì sono amici miei, il Pegoretti e l’Osler. Lui era un gregario, ha fatto il ciclista, ha vinto anche una tappa al Giro, sai? Chi aspettavi sul paracarro allora?

Non aspettavo nessuno, mi sedevo perché ero morto, morto di fatica.

Un flash sul Tour. Credi che Armstrong possa ancora vincerlo?

Difficile, ma lui è un ragioniere, anzi uno scienziato del ragionare. Non mi sembra il favorito, ma se lo corre, vuol dire che ne ha le possibilità.

Dammi i primi tre...

Contador, Basso e Armstrong, non ci vuole mica un genio!

Però negli ultimi anni gli ordini d’arrivo sono stati stravolti dal doping che è diventato il nemico della passione per il ciclismo. Cosa c’è dietro?

Gli anni del doping sono stati una tragedia. Se questa è una fase chiusa, si riparte e si riparte in modo molto interessante. Le corse son diventate corse del mondo. Kazaki, australiani, americani. Il ciclismo ha delle potenzialità enormi. Se non è così, se non ne siamo usciti, è finita. Tu pensa che una squadra straniera, una delle più forti, si chiama Astana … Quanti italiani sanno che Astana è la capitale del Kazakistan? Ti rendi conto dove ci può portare il ciclismo? Che mondi può mettere in comunicazione?

Tu mi hai detto che le piste ciclabili sono un rilevatore di civiltà. Be’ ne sono state fatte poche anche nelle giunte di centro sinistra. Perché?

Perché le nostre città sono cresciute in modo incivile. O auto o bici, è difficile convivere. Le periferie dagli anni cinquanta alla metà degli anni settanta hanno vissuto una degenerazione continua che pagheremo per tantissimo tempo, dove il bulldozer ha sovrastato l’intelligenza. Ora è difficilissimo recuperare. Però si può inventare qualcosa. Lavorare sulle ferrovie dismesse, sugli argini dei fiumi...

Quanto è lunga questa curva?

È proprio molto lunga. È più un problema etico. C’è stato un cortocircuito fra etica e politica. La gente fa finta di volere politici migliori, invece è felice quando vede in un politico i propri difetti.

Eppure anche oggi, da qualche parte, un bambino ha imparato ad andare in bici, il primo equilibrio dopo quello del camminare. Sarà più libero, da oggi. Il mondo davanti. Digli una parola...

Attento! Anzi, attento, ma vai.

Sulla Raticosa, passeresti una borraccia piena a Berlusconi?

Perché no, certamente. Sulla Raticosa, in cima, lassù, qualche volta mi son detto... ecco ora vorrei vedere Berlusconi... però, dai... sono sicuro: il problema non si pone!

E la prenderesti da lui?

Certamente (e ride di gusto), anche se sono sicuro che … il problema non si pone!

Perché ridi? Ascolta, a chi farebbe bene la bicicletta tra i politici di oggi?

A tutti (e torna serio).

Un velocista?

Tutti troppo velocisti i politici.

Uno scalatore?

Andrea, ci vogliono i passisti in politica, quelli da corse a tappe. La politica è una corsa a tappe.

Uno che credevi un campione e invece si è rilevato un bluff?

Lascia perdere, è una lista molto lunga. Il problema più grave, la cosa più grave è che si pensa solo alla volata, alle elezioni, all’istante che brucia tutto in un momento e molto poco alle corse di domani, al divenire, a costruire un destino per le generazioni future. Ma ce la facciamo insieme questa “Raticosa”?

11 giugno 2010
http://www.unita.it/news/italia/99863/prodi_la_politica_una_corsa_a_tappe_in_giro_solo_velocisti
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« Risposta #42 inserito:: Luglio 29, 2010, 10:52:56 pm »

Prodi: mercato e stato, la sfida del rilancio della Fiat si gioca in due

           
di Romano Prodi

ROMA (29 luglio) - Anche negli ultimi giorni si continua a dibattere se siamo davvero usciti dalla crisi. E questa discussione andrà avanti ancora per un bel pezzo, perché quel poco di ripresa che c’è è ancora incerto, varia da settore a settore e non offre alcun segno di venire incontro alla caduta dell’occupazione, che è la conseguenza più seria e permanente della crisi economica.

Per questo motivo vorrei sottrarmi al difficile ma affascinante esercizio di fare previsioni per il futuro e riflettere sulle cose certe, sugli inevitabili cambiamenti della nostra economia e sulle decisioni da prendere, sperando che nelle prossime ore si materializzi finalmente un ministro dello Sviluppo in grado, per capacità tecniche e per indipendenza di giudizio, di accompagnare e guidare la necessaria trasformazione delle nostre strutture produttive.

La conseguenza (questa davvero indubitabile) della crisi è infatti la necessità di una trasformazione completa del nostro sistema produttivo, trasformazione che non può essere compiuta solo dal mercato o solo dallo Stato. Come è stato autorevolmente affermato in un recente dibattito, la crisi sta mettendo ancora più in rilievo che l’essenza dello sviluppo economico è la trasformazione strutturale, l’ascesa cioè di nuove industrie e di nuovi modi di produrre rispetto a quelli tradizionali e che questo non è un processo facile e non è un processo automatico. Esso richiede la convergenza di forze di mercato e di un robusto supporto governativo. Se il governo è troppo oppressivo, esso stronca l’imprenditorialità privata. Se esso è troppo distaccato, i mercati continuano a fare ciò che essi sanno fare al meglio, confinando il Paese alla sua specializzazione in prodotti tradizionali e settori a bassa produttività.

Il nuovo ministro dello Sviluppo ha sul suo tavolo proprio questo grande compito, di aiutare le trasformazioni strutturali del nostro Paese, mobilitando imprese e governo. Lo dovrà fare in fretta, sapendo che dobbiamo contare principalmente sull’industria non solo perché siamo ancora il quinto Paese del mondo per produzione industriale assoluta e il secondo del mondo (dopo la Germania) per produzione industriale pro-capite, ma anche perché la nostra presenza nel terziario è molto più debole ed esige trasformazioni ancora più difficili.

Il primo riferimento della politica industriale dovrà essere naturalmente il mondo delle Piccole e Medie Imprese, dominanti per importanza in Italia, sia all’interno che al di fuori dei distretti industriali. Le direzioni nelle quali agire e gettare ogni aiuto e ogni incentivo sono ormai molto chiare e cioè la Ricerca e lo Sviluppo, il trasferimento tecnologico, la presenza nei mercati esteri (soprattutto quelli nuovi) la crescita dimensionale e l’innalzamento della qualità del capitale umano. Le nostre imprese hanno infatti una percentuale di ricercatori e di laureati nettamente inferiore a quella dei Paesi direttamente a noi concorrenti e sono troppo piccole per innovare ed essere presenti nei mercati esteri.

Vorrei perciò che il primo colloquio del nuovo ministro fosse con il suo collega responsabile dell’Istruzione per capire e fare capire come la moltiplicazione della conoscenza tecnica a tutti i livelli sia il requisito primario del nostro futuro sviluppo. La scuola tecnica non può più essere considerata marginale o residuale come avviene oggi. Anche se è certo che noi viviamo e vivremo al livello della nostra competenza tecnica, non mi sembra che questa realtà sia oggi una priorità né nel mondo politico, né in quello imprenditoriale o sindacale.

Non mi sembra né giusto né utile che quando si parla di decisioni per il futuro delle nostre imprese il discorso si fermi sempre alle pur importantissime “condizioni di contesto”, come la Pubblica amministrazione, le infrastrutture e le banche. Una seria politica industriale deve lavorare non solo sul “contesto” ma sull’innalzamento delle risorse umane e del modo di operare delle imprese.

Nell’ufficio ancora deserto del ministro vi è tuttavia qualcosa che riguarda una grande impresa, cioè il dossier Fiat. Finora tale dossier è stato trattato solo nei suoi pur importantissimi aspetti sociali ma esso cade in pieno nel capitolo delle trasformazioni strutturali come obiettivo essenziale della nostra economia. È, cioè, compito del governo (come lo hanno fatto negli Stati Uniti, in Francia e in Germania) mettere attorno allo stesso tavolo sindacati e imprese per raggiungere gli obiettivi di flessibilità e innovazione che sono oggi indispensabili per operare nel mercato automobilistico internazionale. Come hanno dimostrato le esperienze degli altri Paesi, questo è un compito estremamente difficile ma se, come è avvenuto fino ad ora, ci si sottrae ad esso, la partita è certamente perduta. Mi auguro quindi che il nuovo ministro arrivi in fretta e si metta subito al lavoro. E, soprattutto, gli auguro buon lavoro.

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« Risposta #43 inserito:: Agosto 27, 2010, 09:05:47 pm »

IL COLLOQUIO

Prodi esulta per il Nuovo Ulivo

"Ma il Pd sia al centro del progetto"

Il professore plaude alla proposta di Bersani, ma chiede ai democratici di non fare solo "gesti tattici": "Prima il partito era troppo autoreferenziale"

di MARCO MAROZZI


BOLOGNA - "Bravo Pierluigi. Ci voleva proprio. Ma adesso bisogna passare subito ai fatti. Nei rapporti con la nostra gente, con le altre forze politiche e soprattutto nella capacità di contrastare il declino dell'Italia. Il confronto è su chi sul serio sa rivitalizzare il sistema Paese. Non è solo il problema Berlusconi. Il futuro è di chi sa dipingere e subito dopo costruire un futuro per l'Italia". Romano Prodi ha molto apprezzato le parole scritte da Pierluigi Bersani su Repubblica 1. Soprattutto ha sospirato di fronte a quella "parola" che gli è tanto cara: "Ulivo".

Ma l'ex premier non ha sottolineato solo le frasi del documento "bersaniano", anche il clima che è riuscito a creare. "Quanto tempo era che non succedeva", ha detto con una punta di amarezza il Professore. La lettura, racconta lo staff di Bersani, ha confermato un messaggio già mandato a Prodi prima della pubblicazione. "Gli abbiamo detto che gli sarebbe piaciuto".

 L'effetto, di fatti, si è subito sentito. Prodi nella sua vacanza in provincia di Reggio Emilia, in casa della suocera, è andato a prendere i giornali di prima mattina. Conferma di quello anticipato da Roma. I commenti con i suoi amici sono stati subito positivi. Commenti privati. "Io non esisto" ripete lui che si diverte a fare il Vecchio della Campagna, il Saggio della Bassa. L'ex premier, infatti, ripete come un mantra di non pensare a un ritorno "pubblico" di qualsiasi tipo. "Non sono Cincinnato. Un'epoca è comunque chiusa. Largo ai giovani. Io insegno". "Negli Usa e in Cina" aggiunge con vezzo critico verso l'Italia. Ma gode come un pazzo al fatto che la gente normale lo fermi per strada. "Professore, torna?". Lo rincuora che illustri sconosciuti gli chiedano di Flavia, la moglie operata. "Come sta la sua signora?".

 L'uscita di Bersani lo ha colto in questo momento, fra pubblico e privato, felici e preoccupati. Anche Prodi temeva un appannamento del segretario del Pd, l'amico ventennale su cui ha sempre puntato. Ha sempre vissuto malissimo la marginalizzazione di cui ha accusato il Pd di Walter Veltroni dopo il "corriamo da soli" che, ancora accusa, "ha messo in crisi" il suo governo. Con Dario Franceschini ci sono stati gli strascichi post-veltroniani, poi la discesa in campo dell'amato Bersani. Da cui però non è mai arrivato lo scatto che anche il Professore si aspettava. Mentre seguiva con attenzione preoccupata il grande attivismo di Giulio Tremonti, battezzato "Visc/onti" da qualche amico di Prodi per la nuova linea non più così contraria rispetto a quella del predecessore, Visco.

 Adesso Prodi è tornato al centro del campo, ultimo, antico vincitore di uno scudetto. Da cui imparare. Non parla, ma tanti lo cercano. Lui sta a guardare. Persino le possibili aperture di Bersani a Casini, Fini e Montezemolo. Gli ultimi due li conosce come pochi, ne sa le astuzie tattiche e strategiche. Non gli era piaciuto il "patto repubblicano" abbozzato mesi fa da Bersani e finito in nulla. "Non per l'idea in sé, ma per il rischio che venga preso per un gesto tattico. Serve sempre e ancora un grande progetto. Con il Pd al centro del confronto". Ha apprezzato le mosse dell'ex segretario di An, ma lo dipingeva come "un generale con attorno sergenti e non si sa se davvero ci sono delle truppe".

 Adesso la possibilità che Bersani abbia preso in mano il pallino rincuora molto il Professore. Come l'asse che pare crearsi con Dario Franceschini, allontanatosi da Veltroni. "Alla trasmissione tv di Fazio era stato bravissimo" era un ricordo-impianto ricorrente. E sul Pd: "L'interpretazione comune rischiava di essere quella di un partito diventato autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti e dai rapporti di vertice con le altre forze".

 Se è svolta, Prodi ci spera. Lui pubblicamente tace, le sue voci pubbliche sono entrate in funzione. "Il Pd deve essere il centro del centrosinistra. - dice l'ex ministro di un defunto Programma, Giulio Santagata - Su questa credibilità, su questa capacità si gioca la costruzione di qualsiasi coalizione e di qualsiasi possibilità di mandar via Berlusconi". Con una stoccata a Veltroni: "La nuova stagione ulivista può aprire le porte ai tanti delusi, lasciati per strada in questi anni".

(27 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 25, 2010, 05:21:50 pm »

Prodi: «Crescita, guardiamo la realtà: siamo i più lenti tra i grandi Paesi»

       
di Romano Prodi

ROMA (24 ottobre) - Nelle settimane che avevano preceduto le ferie estive si era creato un clima di crescente fiducia riguardo all’andamento dell’economia mondiale. Alcuni fragili segnali di ripresa erano stati ingranditi a dismisura fino a spingere non pochi affrettati (e forse interessati) osservatori ad affermare che ormai eravamo fuori dalla crisi. Tutte le ultime analisi, da quella del Fondo Monetario Internazionale alla Commissione europea, da Prometeia al Centro studi della Confindustria ci dicono invece che le cose si stanno aggiustando così lentamente che dovranno passare ancora molti anni prima che i nostri redditi ritornino ai livelli precedenti la crisi.

Gli errori finanziari e monetari che hanno prodotto il crollo economico non sono ancora stati aggiustati nella quasi totalità dei Paesi avanzati, mentre le economie dei Paesi in via di sviluppo, anche se crescono bene, non hanno ancora il peso sufficiente per ridare vigore a tutta l’economia mondiale. Questo è il quadro generale, reso ancora più precario dalla mancanza di accordi a livello internazionale sia nei confronti delle politiche di bilancio, sia riguardo alle politiche monetarie. A questo proposito, infatti, se non siamo ancora arrivati ad aperte svalutazioni competitive, ci siamo molto vicini, La politica della moneta “facile” adottata dagli Stati Uniti è stata infatti così efficace da produrre in pochi mesi una svalutazione del dollaro nei confronti dell’Euro di quasi il 20%.

Esportare per noi sarà più difficile, mentre proprio sulle esportazioni avevamo riposto le speranze più concrete per una ripresa della produzione. L’ottimismo che si era diffuso prima dell’estate era da attribuirsi in parte alla ricostruzione delle scorte delle imprese, che erano state ovviamente portate a zero dopo lo scoppio della crisi, ma soprattutto ad un breve sussulto delle esportazioni, aiutate dalla caduta del cambio dell’Euro nei confronti del dollaro. La convalescenza sarà quindi lunga per tutta l’Europa, ma la navigazione italiana, nonostante i messaggi che vengono continuamente forniti, è stata più tempestosa rispetto agli altri grandi Paesi europei nel momento della caduta e rimane la più lenta anche oggi in questo periodo di faticosissima ripresa. Messa a confronto con gli altri grandi Paesi europei l’Italia è arretrata più di Germania, Francia e Gran Bretagna nel 2009 e concluderà il 2010 rimanendo il fanalino di coda.

Tutte le previsioni elencate in precedenza ci mettono infatti in ultima posizione anche per il prossimo anno, in cui non toccheremo nemmeno l’uno per cento di crescita. A partire dall’inizio della crisi il Pil italiano è caduto del 6,8%, a confronto di un calo del 5,3% della media della zona Euro. La produzione industriale (che è il punto di forza della nostra economia) è ancora oggi del 16% inferiore al livello massimo precedente. I consumi sono stagnanti per effetto della caduta del potere d’acquisto delle famiglie dovuto soprattutto alla crisi del mercato del lavoro. Come scrive il rapporto Confindustria, gli occupati nei mesi di luglio e agosto sono scesi di ben 31mila unità rispetto al secondo trimestre e, se il tasso di disoccupazione migliora leggermente, è solo perché diminuisce la domanda di lavoro. In parole più semplici perché le persone hanno perso ogni fiducia sulla possibilità di trovare un’occupazione e hanno perciò smesso di cercarla. Non ci dobbiamo perciò stupire che la disoccupazione di lungo periodo (cioè quella che dura oltre l’anno) sia al livello massimo tra i Paesi europei e la disoccupazione giovanile continui a crescere.

Un certo stupore nasce invece dal fatto che, nonostante questi dati, si continui a ripetere che la situazione italiana è relativamente migliore di quella degli altri Paesi. Quest’ipotesi purtroppo irrealistica forse nasce dal fatto che, a differenza di altri, non abbiamo avuto rumorose crisi bancarie o, ancora più semplicemente, dal fatto che, finché la gente ci crede, è meglio distribuire ottimismo che pessimismo. È però doveroso ricordare che, senza un quadro realistico della situazione, è ben difficile adottare le misure di politica economica capaci di portarci almeno verso la crescita media dei nostri maggiori competitori europei. Dato però che anche nelle situazioni più compromesse conviene sempre trovare ragioni di consolazione, non ci resta che guardare alla Spagna che per oltre dieci anni ha costruito il suo sviluppo su una crescita sconsiderata dell’attività edilizia e che, su queste fragili basi, pensava di potere stabilmente superare l’economia italiana, mentre ora, pur procedendo a passo di lumaca, la possiamo guardare con lo specchio retrovisore.

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