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Autore Discussione: PRODI  (Letto 83349 volte)
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« inserito:: Agosto 08, 2007, 07:59:01 pm »

Il presidente del Consiglio apre dopo la mozione di maggioranza

"Che se ne discuta è un fatto positivo. Altri hanno fatto scelte diverse"

Riserve auree, Prodi: "Sì al dibattito"

La Cdl: "E' come capitan Uncino"
 

CASTIGLIONE DELLA PESCAIA - "Il fatto che sia iniziato un dibattito serio sul tema dell' utilizzo delle riserve auree è certamente positivo". Romano Prodi commenta così il dibattito che si è aperto sull'uso delle riserve custodite dalla Banca d'Italia. Che, secondo alcuni, dovrebbero essere vendute sul mercato come hanno già fatto molti altri paesi. Secondo i dati forniti da Palazzo Koch, nei forzieri della Banca d'Italia ci sono riserve di valuta estera e oro per un valore di mercato di 59,821 miliardi di euro.

Un intervento, quello del premier, che fa riferimento alla risoluzione di maggioranza presentata al Dpef alla Camera che impegna il governo a utilizzarne una parte per la riduzione del debito pubblico.

"E' bene - dice il premier - che il dibattito vada avanti. In molti paesi ci sono state scelte diverse. Alcuni hanno venduto una parte dell'oro, altri non l'hanno fatto. Ma è comunque un dibattito positivo".

Ma da Forza Italia arriva un secco altolà. "Prima il tesoretto, ora l'assalto ai Bot, ai cct e alle riserve d'oro. Prodi vuol fare il primo ministro oppure capitan Uncino? - attacca il portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Banaiuti - Il governo ora vuole aumentare le aliquote su Bot e Cct e, se non dovesse bastare, utilizzare anche le riserve auree".

(8 agosto 2007)
 
da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 12, 2007, 06:54:59 pm »

12/8/2007 (15:6)

Prodi: "Hamas esiste, bisogna aiutarlo ad evolversi"
 
Il premier: "Stiamo aiutando fortemente, lealmente e con energia lo sforzo di Abu Mazen e Olmert per fare gesti di pace"


CASTIGLIONE DELLA PESCAIA
Il presidente del Consiglio Romano Prodi è convinto che per affrontare il problema mediorientale è importante che ci sia un dialogo «trasparente» con tutti, tenendo presente che «Hamas esiste» ma bisogna «aiutarlo ad evolversi». Il premier, che appena ieri aveva annunciato ai giornalisti la sua intenzione di mantenere a lungo il silenzio stampa, ha deciso di parlare, ma di parlare di questioni internazionali. In mattinata, infatti, è stato ospite di un incontro organizzato dalla« Opera per la gioventù Giorgio La Pira» che sta tenendo un campo scuola a Castiglione della Pescaia al quale partecipano un centinaio di ragazzi italiani, israeliani, palestinesi e russi sia cattolici che ortodossi.

Romano Prodi parla, in parte in italiano e in parte in inglese, autotraducendosi, e risponde alle domande dei ragazzi. Tra tutte, ovviamente vista la composizione della platea, spicca la questione mediorientale. E a chi gli chiede come vada gestito il rapporto con Hamas, il presidente del Consiglio risponde: «Stiamo aiutando fortemente, lealmente e con energia lo sforzo di Abu Mazen e Olmert per fare gesti di pace, che sono difficilissimi. Ma sono convinto che non possiamo avere la pace se i palestinesi sono divisi, lo capiscono benissimo anche loro. C’è la chiara consapevolezza che non possiamo avere una pace di lungo periodo con due Palestine».

Ed è a questo punto che il premier ha aggiunto: «Hamas esiste, ed è una struttura molto complessa, dobbiamo aiutarla ad evolversi. Ma questo deve essere fatto apertamente, con trasparenza, discutendone, come ho fatto, con Abu Mazen e Olmert nel mio ultimo viaggio». Prodi ha spiegato che l’obiettivo della politica italiana in questa zona è quello di avere «due popoli e due nazioni che vivono in pace come due paesi europei». «Ma chiaramente - ha osservato - bisogna spingere al dialogo perché questo avvenga. Non bisogna chiudersi al dialogo con nessuno».

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:01:20 pm »

Può la Cina salvare davvero il mondo?
 
 
di Romano Prodi


ROMA (30 novembre) - La crisi economica fa paura anche in Cina. Il ritmo di crescita cala più del previsto, pur restando intorno a cifre che gli altri grandi paesi sognano di raggiungere anche nei periodi di vacche grasse. E che noi non abbiamo raggiunto nemmeno negli anni del miracolo economico. Il passaggio da una crescita del 12% ad una crescita del 7-8%, pone infatti problemi enormi ad un Paese in cui ogni anno decine di milioni di persone si presentano a cercare una occupazione. Il fiume di giovani che arrivano all'età del lavoro o di contadini che dalle campagne vanno verso le città non sembra infatti aver alcun limite.

E le preoccupazioni crescono nelle regioni, come il Guandong, in cui si concentrano le imprese che producono i beni a più basso valore aggiunto per i mercati internazionali. Decine di migliaia di piccole imprese stanno infatti chiudendo i battenti e le stazioni ferroviarie sono piene di operai che, rimasti senza lavoro, tornano nei loro villaggi sperduti. I mercati internazionali in crisi assorbono infatti con crescente difficoltà i prodotti cinesi. I costi della mano d'opera sono inoltre aumentati anche in Cina, e passo per passo, la moneta nazionale si è rivalutata. Negli ultimi tre anni il suo valore è cresciuto di quasi il venti per centro nei confronti dell'euro e del dollaro. L'economia cinese sente quindi la crisi e ne ha paura, anche perché è la prima flessione dopo molti anni di crescita spettacolosa. Eppure il 2008 è stato l'anno della Cina. Prima la grande organizzazione delle olimpiadi ne ha esaltato l'immagine a livelli popolari, poi la riunione del G20 l'ha vista leader silenzioso, attorno al tavolo dei potenti del mondo.

Da oggi la Cina non sarà perciò solo un protagonista nel campo della produzione e dei commerci, ma sarà uno dei grandi interpreti del nuovo ordine politico mondiale. Proprio la crisi economica globale, che genera tante paure al suo interno, ha consacrato la Cina come elemento determinante degli equilibri mondiali. Questa affermazione si basa su alcuni dati di fatto molto semplici e comprensibili. Il primo è che la Cina è il maggiore creditore degli Stati Uniti. Nell'ultimo mese ha superato il Giappone e possiede ora l'incredibile somma di quasi 600 miliardi di buoni del tesoro americani. Non userà mai questo punto di forza come arma di ricatto. Anzi, dai dati che possediamo, ha contribuito anche nelle ultime settimane a far fronte con i suoi risparmi ai consumi in eccesso dei cittadini americani. Tuttavia gli Stati Uniti non potranno non tener conto che questo squilibrio non può durare all'infinito, anche se in questi casi la debolezza non è tutta dalla parte del debitore.

Accanto a questo credito la Cina ha silenziosamente messo sul tavolo dei G 20 le risorse valutarie che detiene nei suoi forzieri. Si tratta di riserve complessive dell'ordine di 2.000 miliardi di dollari, una cifra della cui grandezza è addirittura difficile rendersi conto. In terzo luogo, pur tenendo conto della difficoltà di valutare con precisione i dati della contabilità nazionale, il bilancio statale cinese appare sostanzialmente in ordine. Per mettere un argine alla crisi mondiale che sempre più si sta aggravando e per riequilibrare il sistema economico e finanziario internazionale bisogna quindi necessariamente passare per Pechino. Questi punti di forza, che si sono in questi mesi evidenziati, non sono il frutto di una casualità della storia. Essi sono il risultato di una politica di riforma del sistema economico cinese che risale esattamente a trent'anni fa. Si tratta quindi di una posizione di forza costruita con pazienza nel tempo, attraverso risparmi, sacrifici e decisioni che davvero non hanno precedenti.

Adesso arrivano i risultati. Solo chi in passato ha osservato la Cina con superficialità, ne può oggi rimanere sorpreso. Come ha acutamente osservato l'Economist qualche settimana fa, nel 1978 il Presidente Deng fu costretto alle riforme perché "solo il capitalismo poteva salvare la Cina". Sono passati trent'anni e, dopo lo scoppio della crisi, il discorso si è rovesciato arrivando ad affermare che "solo la Cina può salvare il capitalismo".

Quest'affermazione costituisce forse un paradosso, ma mette evidenza con efficacia come siano mutati i rapporti di forza nel mondo. Perché questi risultati raggiunti non vengano vanificati, il governo cinese deve però agire con misure di politica economica interna radicali ed urgenti. Se vuole evitare la caduta del suo ritmo di sviluppo deve infatti compiere una operazione paragonabile alla riforma di trent'anni fa. Un'operazione gigantesca per trasferire una parte della domanda dei suoi prodotti dai mercati internazionali al mercato interno. Un'operazione indispensabile per la Cina e, altrettanto, per gli altri Paesi del mondo. Due sono state le decisioni già prese. La prima, in fondo abbastanza scontata, è un deciso abbassamento dei tassi di interesse. La seconda ha invece una dimensione e una caratteristica tale da cambiare in modo profondo le caratteristiche e le dimensioni dello sviluppo cinese. Si tratta di un piano straordinario di 4.000 miliardi di Yuan (più di 580 miliardi di dollari) per sostenere lo sviluppo interno della Cina.

Per dare una idea concreta della dimensione e dell'importanza di questa decisione basti dire che questo equivale a circa il 15% del Prodotto interno lordo di tutto il Paese. Queste enormi risorse saranno destinate per un terzo ad un gigantesco piano di infrastrutture e per due terzi alla riorganizzazione del sistema sanitario e scolastico e al sostegno dei redditi delle campagne e delle fasce più deboli della popolazione. Riguardo alle infrastrutture, si tratta soprattutto di un'estensione e di una accelerazione dei piani già in corso, con accento particolare sul sistema ferroviario che, nello spazio di tre anni, dovrebbe vedere la costruzione di oltre ventimila chilometri di linee completamente nuove.

L'aspetto politicamente ed economicamente più interessante riguarda tuttavia i due terzi destinati al settore della protezione sociale. Questa ingente somma servirà prima di tutto a costruire ed estendere a tutto il Paese le reti di protezione che non erano mai nate o che si erano smagliate negli anni dello sviluppo tumultuoso. Negli ultimi anni i problemi sociali erano divenuti sempre più gravi e prioritari in un Paese in cui lo sviluppo economico non ha ancora portato le sue conseguenze positive ad una parte enorme del miliardo e trecento milioni di cittadini. Si potrà anche pensare che tutto ciò riguarda solo i problemi interni della Cina. Le cose non stanno affatto così. Uno spostamento così massiccio di risorse verso la domanda interna e una maggiore sicurezza per i cittadini non potranno che fare aumentare i consumi ed abbassare il tasso di risparmio che ora raggiunge quasi la metà del reddito cinese.

Tra gli osservatori internazionali si discute molto se tutte le risorse dedicate a questo grande progetto siano risorse davvero aggiuntive. E si discute soprattutto se esso potrà essere messo in atto nel breve spazio di tempo previsto dai governanti cinesi. Questo lo vedremo nei prossimi mesi. È comunque certo che, se vedrà l'esecuzione nei tempi previsti, esso darà, attraverso l'enorme aumento della domanda cinese, un sostanziale contributo al riequilibrio dell'economia mondiale. Sarà quindi opportuno che gli imprenditori italiani osservino con molta attenzione quanto sta accadendo in Cina. 

da ilmessaggero.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:26:20 pm »

"LA CRISI FINANZIARIA E LE CONSEGUENZE POLITICHE GLOBALI"

Intervento del Presidente Romano Prodi presso il dipartimento Internazionale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese.

(Avvertenza per il lettore: durante il suo intervento il presidente Prodi non ha seguito questo testo).


Pechino, 26 novembre 2008, ore 09.00


-       Siamo quasi certamente di fronte alla più grave crisi economica del
dopoguerra. Spesso si paragona ciò che sta succedendo oggi con quello
che accadde in altri momenti di crisi e in particolare con la crisi
del 1929 che causò un impoverimento globale che durò diversi anni.
Ogni crisi in realtà ha caratteristiche proprie (così come le
politiche per reagire ad essa) e questa non fa eccezione. Tuttavia, se
non si analizzano profondamente le cause e le dimensioni specifiche di
questa crisi, non si può trovare una soluzione.

-       La crisi del 1929 partì dal crollo azionario di Wall Street del mese
di ottobre ma le cause reali scatenate da diversi fattori sia
finanziari (un sistema bancario inefficiente, un eccessivo ricorso a
prestiti "speculativi" e un corso delle azioni che non corrispondeva
più ai valori reali e prospettici delle imprese) sia reali (eccesso di
investimenti e di produzione in alcuni settori). Il crollo azionario
fece diminuire il potere di acquisto della popolazione e spinse le
banche a chiedere il rientro dei prestiti effettuati. Tutto questo
acuì la crisi e la rese globale. La crisi durò molti anni anche perché
le autorità nazionali ci misero molto tempo per capirne la portata,
perché vi erano fortissime resistenze ad ogni forma d'intervento
pubblico e perché non vi erano istituzioni internazionali in grado di
gestire un fenomeno che forse per la prima volta era realmente globale.

-       Ma fu proprio dall'intervento pubblico che economie cominciarono a
riprendersi. Le politiche che portarono le economie mondiali fuori
dalla recessione furono improntate ad un forte intervento statale che
si sostanziava in spesa in deficit (e crescita del debito pubblico),
come accadde negli US sotto il presidente Roosevelt, ma anche nel
sostegno all'industria pesante nazionale e militare come fece Hitler
in Germania. Insomma in alcune delle politiche per uscire dalla crisi
del '29 vi era sia lo strumento di uscita dalle crisi economiche sia
il germe che porterà alla seconda guerra mondiale.

-       In sostanza la crisi del 1929 nasce sui mercati ed è una crisi
prettamente "privata" nelle sue cause dove il pubblico ha un ruolo
marginale ed il ruolo pubblico è importante non nell'entrata ma
nell'uscita dalla crisi.

-       Oggi la situazione è almeno in parte diversa. Tutti i governi sono
pienamente consapevoli di trovarsi in un momento di crisi anche se
ancora oggi non sanno quanto la crisi dei mercati "costi" all'economia
globale sia finanziaria sia reale legata ai mutui sub prime. E non
sanno nemmeno se e quando entreranno in crisi altri "pezzi" del
sistema finanziario, come ad esempio le Carte di credito e, più in
generale, gli strumenti del credito al consumo.

-       La caratteristica di questa crisi non è infatti l'esistenza di
differenti interpretazioni sulle sue cause, ma l'incertezza assoluto
sulle sue dimensioni quantitative. Nessuno sa fin dove questa crisi si
estende. Nessuno ne conosce gli aspetti quantitativi.

-       I mercati finanziari globalizzati hanno fatto si che la propagazione
della crisi sia stata molto più veloce che nel 1929. Tuttavia la
presenza di istituzioni internazionali (anche se meno forti di quanto
sarebbe auspicabile) e di un maggiore coordinamento tra i diversi
paesi rende meno automatica la messa in atto di quelle politiche
nazionali di protezione che causarono l'aggravamento della crisi del
1929.

-       Ulteriori riflessioni sul passato e sul presente.

-       La crisi attuale ha paradossalmente una origine molto più
"pubblica", legata alle scelte di politica economica del Governo degli
Stati Uniti e della Federal Reserve che ha mantenuto i tassi
d'interesse artificialmente troppo bassi per lungo tempo, al fine di
sostenere l'economia dopo lo scoppio della bolla legata ad Internet, e
dopo gli eventi dell'11 settembre 2001. In alcuni periodi di tempo i
tassi reali sono stati addirittura negativi. Ad essi si è aggiunta la
diminuzione dei controlli sul funzionamento dei mercati finanziari.
Particolare importanza hanno avuto a questo proposito le nuove regole,
tra cui segnaliamo quelle che hanno abbattuto il muro che
opportunamente divideva le banche d'affari dalle banche di credito
ordinario.

-       I tassi di interesse troppo bassi hanno creato un eccesso di
liquidità che negli anni si è spostato la dove vi erano le possibilità
di guadagno di breve periodo creando una serie continuativa di bolle
speculative in vari settori (immobiliare, azionariato, materie prime,
internet, ecc.).

-       Tassi d'interesse già molto bassi, deregolamentazione ed innovazione
finanziaria rendono oggi particolarmente deboli gli strumenti di
politica economica "classici" utilizzati nel passato.

-       In particolare alla prova dei fatti l'innovazione finanziaria che
doveva servire a diminuire il rischio degli investimenti e quindi
favorire la crescita ha causato la più grande crisi di fiducia degli
ultimi decenni e ha fortemente aumentato la rischiosità dell'intera
economia mondiale.

-       L'innovazione finanziaria ha infatti distribuito grande parte del
rischio sulle masse degli investitori ignari.


Come intervenire?

-       C'è bisogno d'interventi sia a livello del singolo paese sia a
livello internazionale. C'è bisogno di politiche ma anche di più
profonde riforme istituzionali. C'è in sostanza bisogno di interventi
che modifichino le strutture e interventi che modifichino i
comportamenti. C'è bisogno di interventi di breve periodo per evitare
che la crisi peggiori e si diffonda sempre più il panico ma c'è
soprattutto bisogno di visione di lungo periodo.

-       Bisogna resistere alle tentazioni di chiusura e protezionismo.
Quest'aspetto sarà di grandissima importanza nei prossimi mesi, perché
sempre di più i politici dei diversi paesi saranno spinti ad
attribuire all'apertura dei mercati internazionali tutte le cause
della crisi economica e finanziaria. A questa tendenza generale si
aggiunge il fatto che Obama si era presentato di fronte agli elettori
con una piattaforma sostanzialmente protezionista. È vero che, in
questo campo anche i Presidenti precedenti si erano impegnati a
proteggere l'industria nazionale, ma avevano poi operato in modo
diverso, ma è anche vero che la crisi ha cambiato e sta cambiando
l'opinione pubblica in modo profondo e generale.

-       La Globalizzazione è per me un valore, ma bisogna saperne contenere
gli eccessi e proteggere chi si trova nelle posizioni più deboli,
altrimenti sarà politicamente insostenibile.


Le istituzioni internazionali

-       un mondo globalizzato ha bisogno di istituzioni internazionali forti
sia per gli aspetti più legati alla politica sia per gli aspetti
legati all'economia. In passato si è spinto più sull'economia e meno
sulla politica ma questo squilibrio ha mostrato limiti evidenti.
Mercati globali hanno bisogno di regole globali. Ovviamente i singoli
paesi possono adottare provvedimenti specifici ma ci vuole una base
comune.

-       In primo luogo è necessario regolare fortemente l'utilizzo di
derivati. Essi non solo hanno prodotto l'alterazione dei mercati che
ci ha portato alla crisi, ma hanno anche esaltato le dimensioni della
speculazione sul petrolio e sulle materie prime. Non è possibile che i
derivati sulle materie prime siano stati in alcuni giorni di cento
volte superiori rispetto al valore reale del bene trattato. È chiaro
che questo discorso non riguarda la Cina ma è anche chiaro che la Cina
deve avere un ruolo attivo nella gestione dell'economia mondiale e
deve quindi avere la consapevolezza di agire in un contesto fortemente
deteriorato da questi comportamenti.

-       È ovvio che ogni economia ha bisogno di ricette specifiche (ad
esempio è diverso il caso italiano dove è lo stato ad essere
indebitato e quello spagnolo dove sono le famiglie) ma ci debbono
essere alcuni progetti comuni.

-       Ma quali politiche comuni di lungo periodo?

-       In primo luogo l'energia e l'ambiente avranno una crescente
importanza nel processo di riconversione e di ripresa dell'economia.
Se si deve intervenire sostenendo l'offerta è necessario indirizzare
la produzione verso prodotti maggiormente eco compatibili. C'è forse
bisogno di simboli (auto elettrica, cellule fotovoltaiche, Biodiesel
da colture che sfruttano terreni marginali) sapendo anche che questa
riconversione può anche essere un'importante occasione di business.

-       Questo settore è comunque capace di mobilitare una quantità di
risorse enorme e diffusa non solo in tutti i continenti ma in tutte le
aree, anche le più sperdute del mondo.

-       In secondo luogo grandi progetti di ricerca e sviluppo soprattutto
nei settori legati alla salute ed alla scienza della vita. Anche
questi possono e debbono coinvolgere nel lungo periodo le energie
diffuse non solo di alcuni grandi paesi, ma di tutto il mondo.

-       Come abbiamo già specificato in precedenza, i modi e gli aspetti
particolari delle politiche debbono essere decise dai diversi paesi,
ma vi sono alcune grandi direzioni che debbono guidare l'azione di
tutti noi.

-       Non voglio tuttavia entrare negli aspetti particolare della politica
di lungo periodo anche se questo è l'aspetto che più personalmente mi
interessa, essendo io di professione Professore di Economia
Industriale. Spero che troveremo in futuro qualche altra occasione per
parlare di come agire nel lungo termine sull'economia reale per fare
riprendere al mondo la via dello sviluppo.

-       Ora vorrei fare alcune riflessioni sul ruolo che la Cina può
svolgere in questa situazione così particolare.

-       Voglio partire con l'affermazione che questa è forse la più grande
occasione per l'Asia e la Cina in particolare per svolgere un ruolo
centrale e positivo nell'economia globale. La Cina è ad oggi il più
forte elemento di stabilità e crescita nell'economia mondiale anche
perché è l'unico paese, insieme ai produttori di petrolio, che ha una
importante liquidità disponibile per investimenti. Ma, a differenza di
questi paesi, ha anche un grandissimo mercato interno.

-       Ma ancora di più perché la Cina ha la possibilità di operare da sola
o in cooperazione con le istituzioni internazionali, nella maggior
parte dei paesi del mondo, sia nei paesi industrializzati che in
quelli più poveri come i paesi del continente africano.

-       Nell'intera storia economica mondiale la Cina di oggi è infatti
l'unico caso di un paese che esporta contemporaneamente capitali,
tecnologie e mano d'opera. Questa è una realtà senza precedenti, che
attribuisce al Vostro paese grande potere ma anche grande
responsabilità. In questo senso la responsabilità cinese è davvero
unica e deve essere esercitata con un crescente livello di
coinvolgimento in tutta la politica mondiale. Anche se l'autonomia
della politica interna è un sacro principio della convivenza fra i
popoli, i contatti sono ormai tali che diventa praticamente
inevitabile una reciproca "interferenza" fra i diversi paesi. Ed è
questa influenza che deve essere esercitata in modo consapevole.

-       È quindi necessario un ruolo attivo della Cina anche sui grandi temi
che saranno fondamentali per il futuro del mondo. Bisogna definire un
percorso che accompagni il protocollo di Kyoto , tenendo presente che
esso prevede linee di azione ancora imperfette.

-       Nel dibattito sull'economia nelle ultime settimane, si parla sempre
di più di "ritorno alla produzione" intendendo con questo un ritorno
di importanza sia della produzione agricola che di quella industriale.

-       Il "ritorno alla produzione" non sarà privo di conseguenze politiche
anche nei paesi occidentali, in primo luogo negli Stati Uniti, ma
anche in Europa e negli altri paesi ad elevato livello di sviluppo.

-       Parlo di "ritorno alla produzione" non solo per la diffidenza sempre
più diffusa nei confronti della finanza. Ma anche perché il crollo
della domanda sta spingendo i governi non solo in aiuto del sistema
bancario e finanziario, ma anche del sistema produttivo.

-       Il dibattito non è ancora concluso ma l'aumento della
disoccupazione, soprattutto in aree politicamente sensibili, sta
spingendo i governi a spostare risorse verso il sistema industriale. È
lecito pensare che queste forze si faranno sentire anche in una fase
più avanzata della crisi o dopo la crisi e si faranno sentire sia
negli Stati Uniti che in Europa.

-       In Europa questo sforzo di "ritorno all'industria" sarà diverso da
paese a paese, perché estremamente diverso è già oggi il ruolo
dell'industria nei differenti paesi europei.

-       Negli ultimi due decenni abbiamo infatti assistito ad una
concentrazione dell'industria soprattutto in una parte dell'Europa che
trova il suo centro nella Germania e nell'Italia del Nord, mentre la
parte che si è dedicata con assoluta prevalenza ai servizi vede il suo
centro in Gran Bretagna ed Irlanda.

-       Naturalmente sarà un'industria diversa molto attenta ai problemi
dell'energia e dell'inquinamento (quindi diversa anche nelle
automobili) e alla domanda in continuo aumento nei settori della
salute e delle scienze della vita.

-       Questa "grande correzione" dovrà essere accompagnata da un
sostanziale riequilibrio tra risparmi e consumi. La grande crisi
dimostra che lo squilibrio esistente oggi soprattutto negli Stati
Uniti, ma anche in molti paesi europei, non può prolungarsi nel futuro
perché è fonte di enormi squilibri.

-       Questo adattamento sarà perciò lungo e penoso e porterà conseguenza
non solo di breve ma anche di lungo periodo riguardo alle importazioni
di Stati Uniti ed Europa e quindi avrà notevole impatto anche
sull'economia cinese.

-       La crisi finanziaria in corso sta mettendo infatti in discussione la
sostenibilità di squilibri fra le grandi aree economiche come quelli
che si sono creati in questi anni.

-       Le tentazioni protezionistiche non potranno che crescere con il
ritorno di un ruolo centrale della produzione. Parlo di "tentazioni"
perché una notevole parte dell'opinione pubblica di questi paesi è
tuttora convinta che l'apertura dei mercati e il libero commercio
internazionale portino alla fine più vantaggi che danni.

-       È tuttavia molto probabile che su temi specifici, sui temi
soprattutto legati all'ambiente e alla protezione sociale "social
dumping") si venga a creare una situazione politica diversa.

-       Per essere più espliciti mentre non vedo probabile (anche se ancora
possibile) un'adozione diffusa e generale di dazi doganali, vedo più
probabile l'adozione di difese commerciali che traggono spunto
dall'esistenza di costi addizionali dovuti alla difesa dell'ambiente e
ad alcuni aspetti delle politiche del lavoro.

-       È quindi utile (e forse necessaria) un'iniziativa da parte cinese su
questi temi. Non tanto un impegno su obiettivi irraggiungibili, quanto
un programma che in qualche modo accompagni il protocollo di Kyoto o
le altre iniziative che verranno prese su questi temi.

-       Questa è solo un esempio di come, soprattutto dopo la crisi
finanziaria, i temi di carattere ambientale e sociale avranno
crescente influenza in ambito economico.

-       Vorrei ora terminare queste mie brevi riflessioni con alcune
osservazioni specifiche nei rapporti fra la crisi economica e
finanziaria in atto e il particolare ruolo che la Cina svolge o può
svolgere. Prima di tutto occorre fare tesoro di un insegnamento
riguardo al passato. Io credo profondamente nell'economia di mercato
ma credo che il mercato funziona bene solo quando è oggetto di regole
e di controlli severi e precisi.

-       Se attualmente siamo caduti in una crisi di cui ancora non
conosciamo gli aspetti quantitativi né la durata, è proprio perché
negli ultimi dieci anni (soprattutto a partire dagli Stati Uniti) sono
state allentate le regole e i controlli. Si potrà obiettare che in
molti paesi le autorità di controllo si sono moltiplicate (controllo
sulle banche, sulle assicurazioni, sulle borse, sui mercati
finanziari, ecc.). ma proprio queste moltiplicazioni hanno reso i
controlli meno efficaci, isolando e dividendo i vari mercati.

-       Questi controlli, inoltre, hanno soprattutto mantenuto un carattere
nazionale, mentre i mercati finanziari sono diventati mondiali. È
quindi interesse di tutti operare per regole e sorveglianze più severe
a livello internazionale. Non sarà una battaglia facile ma utile a
tutta l'umanità.

-       Io conservo personalmente l'esperienza della difficoltà di questa
battaglia: quando ero Presidente della Commissione Europea e abbiamo
prospettato direttive severe in materia, queste sono state impedite
dall'opposizione di alcuni governi nazionali e dalle lobby di gruppi
finanziari e bancari. Una comune azione efficace non solo dovrà
aumentare il potere delle autorità di regolamentazione a livello
internazionale ma dovrà nello stesso tempo:

-       a) impostare un'azione comune di controllo e regolamentazione dei
mercati, ora sottratti ad ogni controllo.

-       b) Impedire comportamenti speculativi alle banche di deposito ordinario.

-       c) Limitare, con un'organica serie di strumenti di trasparenza e
fiscali, l'esplosione dei così detti "derivati".

-       d) Stabilire regole per il mercato delle ipoteche.

-       e) Imporre rigorosi criteri di comportamento alle agenzie di "rating"

-       Queste azioni si debbono aggiungere alle decisioni che la maggior
parte dei governi ha preso per immettere risorse pubbliche nel sistema
economico e vincere quindi la paura che ha colpito l'economia mondiale
nelle scorse settimane.

-       Insisto sul fatto che le misure prese vanno nella giusta direzione,
ma non sono certo sicuro che queste misure siano sufficienti perché
non abbiamo ancora un quadro quantitativo preciso e credibile della
dimensione della crisi.

-       Se sarà vinta la paura occorrerà molto tempo e molto spirito di
collaborazione per guarire un sistema economico internazionale fondato
sul debito cresciuto a dismisura e caratterizzato da un crollo del
risparmio sia pubblico che privato.

-       In questo quadro il ruolo dell'Asia e della Cina appaiono
determinanti e non solo perché l'Asia è uno dei pilastri della
produzione manifatturiera di cui abbiamo parlato in precedenza.

-       L'aspetto più importante è infatti quello che l'Asia è ora il
principale sottoscrittore del debito pubblico degli Stati Uniti.

-       Oltre il 40% dei 2600 Miliardi di debito degli Stati Uniti è stato
infatti sottoscritto dai paesi asiatici. E di questo una cifra di
circa 573 M$ da parte del Giappone e 585 M$ da parte della Cina.

-       E questo senza contare gli investimenti in altre società americane
(es. Freddie Mac e Fannie Mae). È importante sottolineare come gli
acquisti cinesi siano proseguiti anche nell'ultimo mese. Io interpreto
questo atteggiamento consapevole e responsabile come un corretto modo
del governo cinese per inserirsi tra i grandi decisori della
governance mondiale.

-       Il mondo (occidentale e non solo occidentale) non può fare a meno,
nell'attuale crisi economica della domanda cinese, degli investimenti
cinesi e delle risorse finanziarie cinesi.

-       Capacità  produttiva industriale e alto tasso di risparmio fanno
della Cina uno dei pilastri fondamentali per uscire dalla crisi con un
nuovo e duraturo equilibrio. Grande potere e grande responsabilità si
sommano quindi nel futuro delle Vostre decisioni politiche.

-       Alla luce di questi dati e della necessità di perseguire un nuovo
equilibrio mondiale, vanno valutate le recenti decisioni prese dal
Governo Cinese di rilanciare l'economia interna alla vigilia del
Vertice dei G20.

-       Di fronte alla diminuzione del tasso di sviluppo dell'economia (9%
di crescita del PIL di fronte al 10,4% del trimestre precedente) è
stato deciso un piano di rilancio di 580 Miliardi di dollari nei
settori dell'edilizia residenziale, dei lavori pubblici, dell'energia,
dei trasporti, della sanità, dell'istruzione e di rilancio delle
attività produttive sia tramite incentivi alla ricerca e
all'investimento che attraverso incentivi fiscali.

-       A questo si aggiungono gli aumenti ai sussidi agricoli, ai salari e
alle pensioni.

-       Dato il basso debito pubblico e i 2000 miliardi di riserve valutarie
questo piano di rafforzamento della domanda interna cinese appare
realistico e sostenibile e sarà di grande utilità all'economia
mondiale e all'economia cinese. Esso potrà infatti mantenere un
elevato tasso di sviluppo all'industria manifatturiera che ha visto
calare le proprie prospettive di esportazione per effetto della crisi
dei mercati mondiali.

-       Una crisi che probabilmente avrà anche sulla Cina un'influenza
maggiore rispetto a quanto fino ad ora ipotizzato.

-       Questo piano ha dimensioni davvero cospicue, è accompagnato da
politiche monetarie espansive e avrà conseguenze positive nel breve e
nel lungo periodo. Naturalmente come tutte le decisioni che segnano
cambiamenti radicali, il suo effetto sarà tanto più efficace quanto
più rapida sarà la sua realizzazione.

-       In ogni caso l'economia cinese sta cambiando gli equilibri mondiali
con la stessa forza con cui gli Stati Uniti ci hanno cambiato nel
secolo scorso.

-       Per questo motivo il mondo ha bisogno di una Cina stabile e cooperativa.

-       Un'ultima riflessione.

-       Noi ci incontriamo qui nel momento in cui la crisi ancora è in
espansione e, ancora, i suoi confini non sono ancora ben chiari.

-       Di fronte a questi sconvolgimenti non possiamo non farci la domanda
che i politici e gli economisti si facevano durante la grande crisi
del 1929.

-       E la mia risposta, non si discosta da quella che diede Keynes in una
conferenza tenuta a Madrid nel 1930 e che cioè, nonostante il
pessimismo dei conservatori (che pensano che la crisi sia il preludio
della fine) e il pessimismo dei rivoluzionari (che pensano che tutto
debba finire perché il mondo è profondamente ingiusto) la nostra
società abbia grandi risorse (scientifiche, tecnologiche e morali) per
riprendersi e ricominciare a camminare in avanti.

-       Ritengo cioè che il mondo abbia ancora tante energie sane, per cui
questa crisi (come diceva allora Keynes) non è una malattia di
vecchiaia dell'umanità, ma solo un disturbo di crescita.

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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 03, 2008, 12:10:40 pm »

Sky, Prodi spiega: era ovvio dire sì all'allineamento delle aliquote

di Fabrizio Rizzi


BOLOGNA (3 dicembe) - «Era ovvio che il governo dicesse sì all’allineamento delle aliquote, adempiere a questa obbligazione era ovvio». E dunque, era ovvio che dicesse sì a una richiesta della commissione Ue. Romano Prodi non intende entrare nella querelle su Sky, tantomeno rispondere a Giulio Tremonti secondo il quale non esistevano alternative all’aumento dell’Iva per gli abbonati della pay-tv.

Puntualizza, però, il concetto: una volta richiesto, conformarsi a questa richiesta era ovvio. Nel merito non vuole entrare. Oltretutto, spiega il Professore, «non ricordo niente». Non è un vuoto di memoria, aggiungono i collaboratori, perchè il governo cadde il 27 gennaio ed il presidente, in quei giorni, era alle prese con rivendicazioni varie, risse tra alleati. Poi l’esecutivo, da allora, marciò con toni sincopati, o meglio in amministrazione controllata fino alle elezioni di aprile. Non poteva assumere nulla di importante, se non badare agli affari correnti. Inoltre, viene ripetuto, l’impegno all’allineamento delle aliquote non significa per nulla che il governo volesse alzare l’Iva. Avrebbe potuto anche riallineare al ribasso. In ogni caso si rimanda a Visco, che aveva in mano la questione. E si precisa che il governo Prodi non era mai entrato nel merito delle cifre da ritoccare. «Come farlo», aggiunge ora il Professore, «è un problema loro».

Se il dossier Tremonti riporta la lettera con cui il direttore generale per il fisco, Robert Verrue, esprimeva «preoccupazioni per il diritto comunitario» dalla disparità di trattamenti sull’Iva, nel quartiere generale del Professore, a Bologna, non c’è né trambusto, né agitazione. Come se tutto fosse riconducibile a una polemica senza senso, né misura. Una delle tante sollevate per alzare un polverone che non lascerà alcuna traccia. D’altronde, l’ex premier appena rientrato da un viaggio in Cina, dove ha ricevuto tutti gli onori dal governo di Pechino, sembra essere pressato da ben altri problemi, come quelli dell’Africa, di cui,a giorni, dovrà redigere una relazione per il team dell’Onu di cui è a capo.

E’ Sandra Zampa, deputato del Pd, ora portavoce del Professore, a chiarire i contorni della vicenda. Premette: «Se non fosse grottesco, sarebbe semplicemente ridicolo. Accusare il governo Prodi è diventato lo sport preferito dell’esecutivo in carica». Quindi spiega: « I documenti distribuiti dal ministro Tremonti a Bruxelles testimoniano semplicemente l’impegno del governo Prodi a eliminare le asimmetrie denunciate dalla Commissione europea nelle aliquote Iva. Questo non significa che il governo Prodi abbia preso l’impegno ad aumentare le aliquote Iva per le pay-tv».

da ilmessaggero.it
« Ultima modifica: Giugno 09, 2009, 10:27:28 am da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 03, 2009, 12:03:17 am »

Per non passare da una crisi all’altra serve un leone non un gattino

Da Il Messaggero del 31 dicembre 2008

- Facendo un bilancio dell’economia mondiale del 2008, l’unica conclusione possibile è che prima finisce l’anno meglio è. Non c’è un indicatore che vada bene. Non la crescita, non il commercio internazionale, non l’occupazione. Solo il calo dell’inflazione è un elemento positivo, ma l’inflazione cala proprio perché tutto il resto va male. Si tratta di una crisi generalizzata e imprevista. Nessuno l’aveva immaginata così profonda e diffusa.

Qualcuno aveva previsto tensioni nei mercati finanziari, altri lo scoppio della bolla immobiliare, ma nessuno pensava che l’intreccio di tutti questi fatti potesse portare ad una caduta così rapida e diffusa dell’economia mondiale.
Non potendo quindi considerare buone le previsioni fatte in passato, non mi sento di avere un maggior grado di fiducia nemmeno nei confronti di coloro che oggi ci presentano raffinati e complicati grafici rispetto al futuro.
Previsioni su quando comincerà la ripresa è meglio non farne. I ragionamenti sulla politica più opportuna da adottare sono invece d’obbligo.
Per costruire questi ragionamenti partiamo naturalmente dalla constatazione (non è più una previsione) che, globalmente preso, il 2009 sarà un anno di recessione tanto per l’Europa che per gli Stati Uniti.
L’Oriente (pur con una sensibile diminuzione dei precedenti tassi di crescita) conoscerà uno sviluppo positivo, ma non a sufficienza per bilanciare la crisi del resto del mondo. Se non conosciamo i tempi di uscita dalla crisi, conosciamo almeno gli errori da evitare e le decisioni da prendere perché se ne possa al più presto venir fuori più forti e soprattutto più puliti.

Il primo errore è quello di sperare che una soluzione nazionale (di qualsiasi paese) posa risolvere una crisi che ha cause mondiali.
Chi pensa di poterlo fare con il protezionismo, con i sussidi all’esportazione o con estemporanei aiuti alle imprese si sbaglia, perché gli altri Paesi non potranno che reagire con analoghe misure. La recessione si trasformerebbe fatalmente in grande depressione.
Diverso è il caso del salvataggio delle banche (anche se non sono certo esenti da colpe) perché la certezza che il proprio denaro sia al sicuro è condizione del funzionamento stesso di ogni economia.
Se si fosse intervenuti a salvare la Lehman Brothers, avremmo certamente evitato momenti di panico in tutto il mondo.
Nell’anno che sta iniziando non vi sono solo errori da evitare, ma anche azioni da compiere. Tra queste non basta iniettare capacità di acquisto nei sistemi economici (come è stato già positivamente compiuto da moltissimi paesi negli ultimi mesi), ma soprattutto occorre stabilire nuove regole per i mercati e gli operatori finanziari.

Regole valide per tutto il mondo.

Mi limito a parlare di regole finanziarie perché stiamo riflettendo sull’economia, ma il mondo è ormai globale in tutti i sensi. Certo non si può vincere la sfida del terrorismo, dell’energia e dell’ambiente senza regole che coinvolgano tutti i grandi attori che agiscono sulla scena mondiale. Tornando all’economia, bisogna partire dalla constatazione che l’economia globale non è la somma delle economie di tutti i paesi, ma è qualche cosa di diverso, perché le diverse nazioni, se non agiscono in armonia, si distruggono reciprocamente. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la sostituzione del G8 con il G20, un’assise in cu,i accanto all’Europa, all’America e al Giappone, sono presenti i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, a partire dalla Cina e dall’India.
Bisogna però che il G20 non sia solo una riunione di emergenza, ma il luogo in cui si propongano e si impongano le riforme dei mercati finanziari e monetari di cui il mondo ha urgente bisogno.

Ci vorrà tempo, perché anche la riforma di Bretton Woods era stata preceduta da due anni di intenso lavoro tecnico e politico, ma non vi è altra strada per mettere lo sviluppo del mondo su un binario virtuoso.
Se infatti rimarranno regole nebulose e frammentate, mercati grigi in cui tutto si ricicla, istituzioni finanziarie che non rendono conto a nessuno della propria attività, non potremo che passare da una crisi a un’ altra crisi.
Non bisogna nascondere il fatto che questa riforma è un compito difficilissimo. Così difficile che, quando si è cercato di promuoverla nell’ambito dell’Unione Europea, gli interessi e i veti dei diversi Paesi hanno trasformato il progetto di un leone in un disegno di un gattino.

Se questo avviene nell’ambito europeo, figuriamoci come sarà difficile riscrivere queste regole di comportamento e di trasparenza a livello mondiale!

Concludendo con alcune telegrafiche riflessioni possiamo dire che i governi stanno generalmente agendo nella direzione giusta per uscire alla crisi, ma non sappiamo quando queste azioni daranno frutto, perché nessuno conosce ancora le dimensioni della crisi.
Ma soprattutto dobbiamo riconoscere che, se non si riscrivono nuove regole comuni per il funzionamento dei mercati, la ripresa sarà soltanto la preparazione della prossima crisi.

Romano Prodi

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« Ultima modifica: Febbraio 16, 2009, 10:59:21 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 25, 2009, 10:59:01 am »

 "Quando la crisi si estende a tutta l'economia, il primo obiettivo e'
evitare il panico diffuso. Ci vogliono regole e l'autorità per farle
rispettare. I debiti vanno pagati; e vanno pagati nel tempo dovuto."


Intervento su Il Messaggero del 25 gennaio 2009

di Romano Prodi

E’ opinione ormai scontata che i comportamenti del mondo finanziario
e bancario (soprattutto nei paesi anglosassoni) siano all’origine
dell’attuale grave crisi economica.

L’incoraggiamento ai consumi oltre ogni ragionevolezza, la creazione
di titoli di valore almeno dubbio, l’opposizione ad ogni controllo
pubblico e la caduta del senso etico nei comportamenti dei
responsabili del settore sono certamente alla base di una crisi
finanziaria che con una rapidità davvero senza precedenti ha infettato
tutta l’economia reale.

Nonostante questo mi dichiaro senza alcuna esitazione a favore dei
salvataggi bancari che con una varietà di strumenti vengono messi in
atto in diversi paesi.
Non vi è alcuna contraddizione tra la condanna dei comportamenti di
molti protagonisti del sistema bancario e la politica dei salvataggi,
perché quando la crisi si estende a tutto il sistema economico, il
primo obiettivo deve essere quello di evitare che un panico diffuso
nei confronti della solidità delle banche spinga i risparmiatori a
ritirare i depositi e a portarli “sotto il materasso”, bloccando in
questo modo tutta la vita economica.

Un elemento che ha aggravato il  precipitare della crisi è stato
infatti il comportamento delle autorità americane che, dopo aver
tenuto senza briglia e senza controllo le banche, ha poi fatto fallire
la Lehman Brothers, lasciando con questo intendere che nessuna banca
poteva ritenersi sicura.
L’ondata di paura  provocata da questo fallimento è stata solo
parzialmente tamponata dalle decisioni di molti governi di dedicare
cospicue risorse a sostegno del sistema bancario.

Ed è inutile, a questo proposito, lamentare l’eccessiva ingerenza
dello Stato nell’economia, perché essa è stata resa  indispensabile da
questi eventi. Dobbiamo invece chiederci perché tanti politici, tanti
operatori economici e anche tanti economisti alla moda ci hanno
raccontato per quasi un paio di decenni che il mercato doveva essere
il solo perfetto regolatore di se stesso e non aveva bisogno di nessun
controllo.

Sappiamo invece tutti che, perché il mercato funzioni occorrono regole
e comportamenti rigorosi. Occorre cioè che le regole siano rispettate
e che ci sia una autorità che le faccia rispettare.
Opportuni quindi gli aiuti a favore delle banche, ma nel rispetto di
alcune precise condizioni.
La prima è che anche i loro dirigenti diano il proprio contributo al
risanamento del sistema.

Non si può tollerare una situazione in cui essi sono premiati (a volte
in modo indecente) se le cose vanno bene, non sono puniti se le cose
vanno male e, addirittura ricevono benefici copiosi se vengono mandati
via in conseguenza dei loro errori.

In secondo luogo i “salvataggi” bancari hanno un senso se le banche
provvedono con  il massimo sforzo al finanziamento del sistema
produttivo (soprattutto delle piccole e medie imprese) e delle famiglie.
Se dobbiamo sostenere le banche perché sono le arterie del sistema
economico, bisogna che il sangue lo portino davvero a tutti gli organi
e quindi anche alle periferie del mondo economico. E, ripeto,
soprattutto alle imprese di minori dimensioni che, anche quando sono
sane, non hanno alternative al credito bancario.

Invece non solo l’esperienza quotidiana  di molti imprenditori e
consumatori ci parla  di forti restrizioni al flusso del credito, ma
lo stesso messaggio è contenuto nelle indagini di Confindustria, della
Confederazione Nazionale Artigiani e di altri autorevoli organismi.

Ancora più incisivo è, a questo proposito, quanto scrive l’ultimo
bollettino della Banca d’Italia, e cioè che le Banche italiane
partecipanti all’indagine sul credito bancario (Bank Lending Review)
hanno esse stesse ammesso di aver inasprito i criteri adottati per
l’erogazione dei prestiti alle imprese.
E sottolinea l’irrigidimento dei criteri di erogazione anche nei
confronti del credito alle famiglie, sia nel settore del consumo, sia
nei mutui per l’acquisto di abitazioni.
Lo stesso bollettino sottolinea poi che “il rallentamento del credito
è più intenso nei confronti delle piccole imprese”. E questa frase,
purtroppo,  non ha bisogno di commenti.

Certo la crisi economica porta sempre con sé l’aumento delle
sofferenze dei crediti ed è evidente che le banche debbano essere più
prudenti nelle loro decisioni, ma il passaggio dalla prudenza
all’adozione di criteri automaticamente più selettivi non si
giustifica in alcun modo.

Ancora più non si giustifica in quanto le banche italiane appaiono in
generale meno colpite dalla tempesta che ha travolto le consorelle
degli altri paesi.
Quindi sì al sostegno alle banche ma solo se esse sostengono l’economia.
Tuttavia non solo il sistema bancario, ma anche la pubblica
amministrazione è chiamata con i propri comportamenti a dare un
contributo positivo al sostegno dell’economia.

Non mi riferisco in questo caso a comportamenti di carattere generale, ma al
fatto specifico (che costituisce una patologia esclusivamente
italiana) del ritardo dei pagamenti nel caso dell’acquisto di beni e
servizi e del ritardo dei rimborsi fiscali nei confronti di imprese e
privati cittadini.

Si tratta di situazioni patologiche esistenti da tempo, situazioni
patologiche che in molti settori e in molte regioni si vanno
ulteriormente aggravando. Ciò deprime ancora di più il ciclo economico
e rende allo stesso tempo più costoso l’acquisto di beni e servizi.

Il primo aiuto dello Stato all’economia in crisi sta quindi nella
vecchia ed elementare regola che i debiti vanno pagati e vanno pagati
nel tempo dovuto.


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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 25, 2009, 04:03:55 pm »

Romano Prodi


Le divisioni del mondo arabo non aiutano la pace ma possono provocare
un conflitto inarrestabile.


Intervento su Il Messaggero del 17 gennaio 2009

di Romano Prodi


SI PARLA di una imminente tregua a Gaza. Se ne parla con ottimismo e
speranza ma la si invoca anche per necessità.

L’Egitto, grande e infaticabile mediatore, si trova infatti in una
posizione sempre più scomoda e difficile. Da un lato, soprattutto
negli ultimi tempi, non nasconde il suo distacco e la sua irritazione
nei confronti di Hamas e, dall’altro, non può nemmeno nascondere la
grande preoccupazione per l’effetto che i bombardamenti a Gaza,
producono sull’opinione pubblica, non solo egiziana ma di tutti i
Paesi arabi.

Nonostante il fermo controllo sui mass media esercitato dall’esercito
israeliano, le reti televisive più seguite nel mondo arabo continuano
infatti a mostrare all’opinione pubblica le tragiche scene delle
scuole colpite, dei bambini uccisi e degli ospedali sempre meno in
grado di curare i feriti.

La preoccupazione e la fretta dell’Egitto sono aumentate ulteriormente
dopo il vertice di Doha (in Qatar) nel quale la presenza del leader
della parte più estremista di Hamas (quella che risiede a Damasco ed è
capeggiata dallo sceicco Khaled Meshaal) ha spinto i Paesi presenti
verso posizioni sempre più dure ed intransigenti.

Il ragionato ottimismo che tre giorni fa il presidente egiziano mi
esprimeva riguardo a una possibile tregua, doveva essere perciò
tradotto in azione nel più breve tempo possibile. Questa è la ragione
per cui è stato convocato con la massima urgenza il vertice di Sharm
el Sheikh, vertice assolutamente necessario per porre termine alla
tragedia di Gaza prima che tutto il vicino Oriente si infiammasse.

Non nascondiamo però il rischio contenuto nella convocazione di questo
vertice di cui non sappiamo ancora
definitivamente quale sarà il livello di partecipazione, anche se ci
auguriamo che sia più ampio ed elevato possibile, proprio per la
grandezza dei problemi che deve affrontare. La nostra speranza per il
successo di questo vertice non può né deve nasconderne i limiti e
soprattutto i problemi che lascerà in ogni caso aperti. La necessità
che tutti i partecipanti avranno di giungere ad un accordo il più
rapidamente possibile renderà infatti difficile una decisione efficace
riguardo alla costituzione di una “forza di interposizione” capace da un
lato di controllare il traffico di armi fra l’Egitto e Gaza, ma capace
anche di permettere il flusso di merci di cui la città assediata ha
necessità, flusso che negli ultimi mesi è arrivato con sempre maggiore
difficoltà, imponendo penosi sacrifici a tutta la popolazione.

Ancora più complicato appare soprattutto il cammino verso una pace
stabile e una “soluzione politica” del problema palestinese. La
“guerra di Gaza” ha infatti radicalizzato ancora di più le posizioni,
ha aumentato la spaccatura non solo fra Israele e la Palestina, ma
anche all’interno dei palestinesi e, quello che è più grave, tra i
diversi Paesi arabi.

C’è chi pensa, seguendo il vecchio principio del “divide et impera”
che una ulteriore divisione tra i Paesi arabi possa facilitare la pace
definitiva in Medio Oriente. Nulla è più sbagliato di questa ipotesi.
Stando in Medio Oriente si deve infatti convenire che, in tempi nei
quali da un lato incombe la minaccia del terrorismo e dall’altro la
diffusione dei media è capace di infiammare in un attimo l’opinione
pubblica, le crescenti divisioni del mondo arabo non sono in alcun
modo un aiuto alla pace ma, all’opposto, rendono sempre più facile lo
scoppio di un conflitto inarrestabile.

E l’esperienza ci dimostra che non sono certo le liti fra i Paesi
arabi a garantire la sicurezza di Israele. É necessario perciò che le
cosiddette grandi potenze tengano ben presente questo fatto e
rifuggano dalla tentazione di ripetere il vecchio gioco che troppo
volte ha innescato tensioni e guerre. Nel ribadire la calda
ma non scontata speranza che l’incontro di oggi a Sharm el Sheikh
ponga finalmente fine alla guerra di Gaza, non facciamoci illusioni
sulla definitività e la stabilità di questa tregua.

Le cose in ogni caso partiranno da una situazione peggiore di quella
di un mese fa. Ci auguriamo perciò che il nuovo presidente degli Stati
Uniti, con lo stesso realismo di cui ha dato prova nella formazione
del suo governo, sia capace di dare concretezza e significato al
concetto di “dialogo  che ha ripetutamente posto alla base della sua
futura politica estera. Dialogo e “divide et impera” non sembrano
infatti essere concetti fra di loro compatibili. Anche se in politica
tutto è possibile.

Romano Prodi

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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 14, 2009, 11:48:14 am »

Romano Prodi

:::::  dalla Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli  :::::


Care amiche, cari amici,

il racconto che vi proponiamo oggi rappresenta una sorta di 'diario di
bordo' delle visite internazionali che Romano Prodi ha fatto dopo la
conclusione della sua esperienza di governo.

Al rientro da Palazzo Chigi, il Professore ha ritenuto di voler
mettere la propria esperienza al servizio della Fondazione per la
Collaborazione tra i Popoli. Una Fondazione che affronta le
problematiche sociali, culturali, economiche, politiche del mondo',
che cerca nuove proposte di collaborazione nel contesto internazionale.

Il racconto qui proposto, scritto di suo pugno da Romano Prodi, parla
del lavoro per la pace in Africa su incarico delle Nazioni Unite.
Ricorda gli incontri con i vertici di governi in Cina, in Europa, in
America Latina. Sono i primi passi di un lavoro intenso e
appassionante. C'e' il desiderio di rendere trasparente e condiviso il
percorso intrapreso tappa per tappa, con chi ha manifestato interesse
ad essere informato.

E' uno scritto sintetico che consegna riflessioni rapide e vive. Dal
primo viaggio di lavoro, in Spagna nel 2008, si arriva alla visita in
Messico che ha avuto luogo poche settimane fa. Il testo e' corredato
da foto e rinvii a documenti di approfondimento. Potete trovarlo a
questo indirizzo:

http://www.romanoprodi.it/wordpress/documenti/guardandosi-intorno_384.html

Se lo desiderate, potete inviare le vostre impressioni ed i vostri
commenti sul Forum che la Fondazione ha preparato per voi.

Il Forum e' pronto per voi qui:

http://www.mondogrande.it

Potete iscrivervi e cominciare subito a dialogare.


Buona lettura

e buona partecipazione al Forum della Fondazione !


la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli




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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 16, 2009, 11:00:19 am »

GLI SCHIERAMENTI

Prodi e il caso Mastella: «Questa non è politica»

Il Professore: «Andando nel Pdl continua la tradizione. Io? Ormai sono lontano mille miglia da queste cose»
 

DAL NOSTRO INVIATO


BOLOGNA — Neanche la notizia dell'ennesima migrazione di Clemente Mastella, passato con armi e ceppalonici bagagli alla corte berlusconiana, con vista sull'Europarlamento, riesce a strappare Romano Prodi dalla sua «second life», fatta di Africa, Onu e dotte conferenze. «Non considero questa politica» ha laconicamente commentato l'ex premier, intercettato al telefono da Radio Capital.
Aggiungendo, poi, che la vicenda «è purtroppo un segnale di continuità con la tradizione » e che comunque lui «è lontano mille miglia da queste cose», compresa l'inevitabile scia di sospetti che accompagna il nuovo matrimonio politico dell'uomo che un anno fa fece cadere il governo dell'Unione.

Inaccessibile a qualsiasi discorso che soltanto sfiori la politica italiana, l'ex premier ha fatto una piccolissima eccezione durante un recente viaggio in Messico, quando, incalzato sui motivi della caduta del suo governo, ha dovuto ammettere, come lui stesso scrive nel suo sito, «che non è stato sempre agevole spiegare perché l'Ulivo sia prematuramente appassito». Non è chiaro se, con il termine Ulivo, Prodi intendesse riferirsi all'insieme della sua esperienza di governo o piuttosto alla scarsa incidenza della filosofia ulivista nel Pd veltroniano. La sostanza comunque non cambia: «Io, per questa politica, non voglio esistere» ha più volte confidato l'ex premier ai suoi.

Cosa che gli è riuscita perfettamente da quando, era il 21 gennaio di un anno fa, Mastella annunciò che l'Udeur sarebbe uscita dal governo. Molto si è scritto di quel giorno, a cominciare dalla lettera con la quale l'ex Guardasigilli annunciò a Prodi l'intenzione di ritirare l'appoggio all'esecutivo. «Mastella ha sempre detto — ricorda Sandra Zampa, allora capo ufficio stampa di Palazzo Chigi e ora deputato pd e portavoce del Professore — di aver avvertito per primo Prodi. Non è vero. Abbiamo saputo dalle agenzie che l'Udeur se ne andava. La lettera è arrivata dopo».

Scritta di pugno da Mastella, finito in quei giorni nel mirino di De Magistris, la missiva così recitava: «Caro Romano, con il cuore trafitto, con lo sguardo alla mia splendida famiglia e pensando a quanto abbiamo fatto insieme in condizioni disperate. Con il grazie che ti debbo per la scelta di un dicastero prestigioso, drammaticamente prestigioso, oggi prendo atto che le condizioni politiche non ascrivibili né alla tua persona né a me, imputabili invece a chi questo ha provocato sul piano politico, sono venute meno. Abbiti tanta amicizia». Così finiva il secondo governo di Prodi: «Una manciata di righe, senza alcun costrutto politico, mah...» ricorda ora Zampa. Quel 21 gennaio, mentre il Professore era impegnato in un incontro internazionale, lei era davanti al computer: «A un certo punto — racconta — comparve l'agenzia che annunciava l'uscita dell'Udeur. Alzai la testa e dissi a Flavia (moglie di Prodi, ndr): Mastella se ne va. E lei, che stava scendendo le scale, si bloccò e disse: allora è davvero finita». Ora Mastella è di nuovo politicamente tra noi. Anche se qualcuno, come l'ex finiano Francesco Storace, fatica a crederci: «Mi pare un pessimo scherzo di Carnevale per gli elettori di An».


Francesco Alberti

16 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 28, 2009, 09:09:55 am »

26 Feb
13:45


Bilancio più forte e titoli europei per battere la paura- Pubblicato in Riflessioni sul Mondo



Bilancio più forte e titoli europei per battere paura

di Romano Prodi su Il Messaggero

del 26 febbraio 2009


ROMA (26 febbraio) - Domenica scorsa a Berlino i più importanti paesi europei si sono trovati finalmente d’accordo per farsi promotori di una nuova trasparenza nei mercati finanziari internazionali. Una decisione estremamente importante per evitare in futuro altre crisi ed estremamente urgente perché bisognerà cominciare a tracciare le concrete linee di azione in materia fin dalla prossima riunione dei G 20 che si svolgerà a Londra nei primi giorni di Aprile.

Non sarà facile portare in porto questo progetto perché, al momento opportuno, sorgeranno mille ostacoli, certamente costruiti da chi ha interesse che zone d’ombra e paradisi fiscali rendano difficile creare davvero trasparenza nel fiume di denaro che corre per il mondo.

La recente tensione fra Stati Uniti e Svizzera sul segreto bancario è solo una pallida premessa dei conflitti che sorgeranno quando si vorrà davvero dare concretezza a questo difficile ma indispensabile progetto. Per questo motivo è grandemente opportuno che l’Europa abbia deciso una coraggiosa iniziativa in materia.

Se è bene guardare alle grandi riforme di domani bisogna però evitare che la casa europea bruci oggi. Nelle scorse settimane, infatti, i singoli paesi, anche quelli che appartengono all’Euro, sono stati lasciati soli a difendere la propria economia e le proprie banche nella tempesta. La speculazione ha cominciato a saggiare il terreno e i tassi dei titoli pubblici di Irlanda, Grecia e Portogallo ( e in minore misura di Spagna e Italia ) si sono progressivamente allontanati da quelli tedeschi, mentre le difficoltà economiche e le conseguenti debolezze delle banche dei paesi membri non appartenenti all’Euro (soprattutto nei paesi nuovi) stanno pericolosamente mettendo in crisi tutto il sistema bancario e finanziario europeo.

Se vogliamo evitare che i paesi vengano messi in ginocchio uno alla volta occorre perciò dotare l’Unione Europea di strumenti di difesa comune.

In questo momento la solidarietà europea non è solo un fatto etico ma il nostro più efficace strumento di difesa contro l’allargarsi della crisi. Per essere ancora più chiari voglio dire che ogni Euro dedicato alla difesa dell’economia europea nel suo complesso vale molto di più di un Euro dedicato alla difesa di un singolo paese.

Perché la speculazione ha paura di una Europa forte e unita e colpisce solo i paesi isolati.

Se così stanno le cose è necessario, in sede europea, prendere urgentemente due decisioni.

La prima riguarda un aumento del bilancio dell’Unione.

Esso è oggi inferiore all’1% del PIL europeo e va portato subito, nell’ambito della Revisione di Bilanci 2008-2009 all’1,25, dedicando questo quarto di punto in più ad interventi straordinari volti ad alleviare le tensioni dei paesi dentro e fuori dall’Eurozona, aiutando in questo modo a stabilizzare i mercati finanziari europei.

La seconda decisione è l’emissione di titoli del debito pubblico a livello europeo, che si affianchino e non sostituiscano i buoni del tesoro dei singoli paesi.

La costituzione, il controllo e l’impiego di questi titoli dovrà naturalmente essere nelle mani dei ministri delle finanze dell’Eurozona.

Questo sono gli strumenti per precedere e non semplicemente rincorrere le turbolenze dei singoli mercati. Attaccare l’Europa è infatti molto molto più difficile che attaccarne i singoli membri.

Ed è anche utile aggiungere che, mentre l’Euro è già diventata una valuta di riferimento e di riserva nei mercati mondiali, non esiste ancora un titolo rappresentativo dell’Europa in cui si possa oggi investire. Capisco che queste proposte possano creare punti interrogativi e perplessità nei paesi che dovrebbero sopportarne il peso maggiore, soprattutto in Germania, dove tante sono state le discussioni negli anni e nei giorni passati. Capisco che con questo si tocca un punto cruciale nel patto sottostante la costruzione dell’Euro, patto per cui la moneta è comune ma i debiti degli stati debbono rimanere separati. Tuttavia siamo arrivati ad un punto in cui è interesse di tutti ( a partire dalla Germania) fare fronte comune per rispondere ad un pericolo comune. Lo stesso ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrùck ha recentemente ammesso la necessità di intervenire nel caso vi sia il rischio di default di un paese. Il modo migliore non solo per intervenire e per prevenire questi casi è proprio quello di costruire ed utilizzare un mercato per gli Eurobond emessi a livello europeo.

E’ chiaro che di fronte a decisioni così importanti sarà necessario offrire alla Germania (come ha recentemente scritto Soros su queste pagine) e agli altri paesi più “virtuosi” garanzie di ferro per l’impiego di queste risorse comuni. Ritengo tuttavia che siamo arrivati al punto in cui la solidarietà non è solo l’aspetto essenziale dell’Unione Europea ma è uno strumento fondamentale per vincere la paura che sempre più alimenta la crisi mondiale.
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 13, 2009, 03:40:36 pm »

L`industria: passato o futuro della nostra economia?

Charles Chaplin in Modern Times

Lezione di Romano Prodi presso la Real Academia de Ciencias Economicas y Financieras de Espana

Barcellona, 12 marzo 2009

Una certa attività politica svolta tra Roma e Bruxelles mi ha, per un notevole numero di anni, tenuto lontano dagli studi di economia industriale che per tanto tempo avevo con passione coltivato. Sono stati anni di grandi cambiamenti e di trasformazioni radicali nel sistema economico mondiale. Si sono aperti nuovi orizzonti nella ricerca e nella produzione. Nuovi paesi sono entrati imperiosamente nella grande arena dell’economia mondiale. Nuovi protagonisti hanno rubato la scena ai vecchi attori.

Quando pochi mesi fa ho ripreso in mano, non con l’affrettato sguardo del politico (sempre protetto e spesso annebbiato dai suoi uffici studi), il quadro di riferimento dell’industria mondiale, mi sono trovato di fronte a una trama quasi irriconoscibile. Un quadro mutato negli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione e del commercio internazionale.

Non volendo annoiarvi con una valanga di dati statistici, l’eccesso dei quali è lo strumento migliore per nascondere la necessaria riflessione, basti mettere in rilievo che, all’immediata vigilia della grande crisi che stiamo ora vivendo, ben il 40% delle esportazioni mondiali proveniva da paesi di recentissima industrializzazione, con tutte le implicazioni che questo semplice dato contiene. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, vent’anni fa, questa quota era relativamente trascurabile.

Oltre a questa osservazione sui mutamenti del commercio internazionale, mi limito a richiamare la vostra attenzione sul trasferimento di settori industriali verso l’Asia, sulle crisi di interi distretti produttivi negli Stati Uniti ed in Europa e sulle conseguenze politiche e sociali che questi cambiamenti hanno prodotto. Mutamenti epocali che hanno, per il bene e per il male, radicalmente cambiato il nostro modo di vivere.


una antica fabbrica
Mai per un attimo ho pensato che questi cambiamenti abbiano avuto effetti soltanto o prevalentemente negativi: essi sono stati il necessario strumento per un aumento generale del benessere del globo e per un passaggio verso condizioni di vita più umane di miliardi di persone, anche se è evidente che tutti i grandi cambiamenti lasciano vittime sulle loro strade e creano la necessità di interventi politici che non sempre sono all’altezza della situazione e che sono risultati particolarmente difficili in un periodo storico in cui il filone portante della scienza economica riteneva che il mercato fosse sempre in grado di trovare il proprio equilibrio senza interventi esterni.
Un periodo storico in cui perfino il termine “politica industriale” suonava eretico nelle orecchie di gran parte degli economisti.

Ciò che più mi ha colpito, e su cui vorrei riflettere insieme a voi, non è tanto la dimensione di questi cambiamenti, perché essa è nota a tutti voi e fa parte della nostra comune esperienza, quanto invece le reazioni dei politici e degli studiosi di fronte a questi eventi. Soprattutto vorrei esaminare come essi hanno interpretato il rapidissimo passaggio da un’economia dominata dall’industria ad un’economia di carattere prevalentemente terziario.

Ebbene, il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia è stato nella maggior parte dei casi interpretato come un passaggio naturale, identico nelle cause e nelle conseguenze a quello che si era manifestato con l’abbandono dell’agricoltura nelle generazioni precedenti.

Gli indici del processo di terziarizzazione della società sono stati perciò considerati la misura e il segnale del progresso di tutti i paesi a elevato livello di reddito. Più elevato era il tasso di terziarizzazione dell’economia di un paese, più forte appariva il suo sistema economico.

Vi è naturalmente una certa parte di verità in questa sapienza convenzionale perché l’industria stessa, se vuole progredire, ha bisogno di un supporto di servizi efficiente e moderno. Non vi è attività manifatturiera moderna capace di prosperare se non ha al suo fianco una sofisticata struttura finanziaria, una scuola per tutti, raffinati centri di ricerca, infrastrutture moderne ed una pubblica amministrazione capace di accompagnare, con la sua efficienza, il complicato funzionamento di una complessa organizzazione economica.

Tutto ciò si riflette naturalmente in un mutamento dei dati statistici e censuari, la lettura dei quali ci spinge a concludere che inevitabilmente il progresso economico di un paese si accompagna al prevalere del settore terziario.

Nemmeno io mi sottraggo completamente a questa conclusione, ma una più attenta riflessione sui comportamenti dei sistemi economici contemporanei mi porta a sostenere che in queste valutazioni ci si è spinti troppo avanti.

Esse infatti trascurano il grande contributo che viene apportato al progresso e all’intelligenza di un paese da una forte e moderna industria manifatturiera, anche se, ovviamente, essa è sempre più spesso una manifattura in cui anche i colletti blu sono laureati o diplomati.

Se è valida l’affermazione che non vi è un’industria efficiente se non è supportata da un moderno settore terziario, è infatti altrettanto valida l’affermazione opposta che, almeno in un grande paese, non vi può essere nel lungo periodo un terziario prospero se non è sorretto ed affiancato da una forte industria manifatturiera.


una industria moderna
Entrambe queste affermazioni sono compatibili con la continua diminuzione degli addetti all’industria, dato che nel comparto produttivo l’automazione gioca un ruolo ormai dominante. Il continuo aumento degli addetti al terziario, è inoltre in parte esaltato dal fatto che la moderna organizzazione aziendale tende a decentrare all’esterno dell’impresa una parte sempre crescente del processo produttivo. Non solo servizi di pulizia, ristorazione e manutenzione, ma funzioni aziendali essenziali come la progettazione o la stessa contabilità. L’attività industriale cambia i suoi connotati nel tempo, mentre la medesima flessibilità non può evidentemente esistere nelle regole dei censimenti. Questo aspetto tecnico tende naturalmente ad accentuare ulteriormente, dal punto di vista statistico, il processo di deindustrializzazione, attribuendo al terziario addetti e fatturati che, in precedenza, venivano invece attribuiti all’ industria.

Anche tenendo conto di queste necessarie correzioni, si deve tuttavia convenire che il calo del peso dell’industria negli Stati Uniti e in alcuni grandi paesi europei ha superato ogni previsione e, a mio parere, anche molte logiche di convenienza economica.

Per svolgere questo ragionamento prendo come esempio la Gran Bretagna, paese che è stato il protagonista e il simbolo della rivoluzione industriale.

Non può non destare stupore constatare che oggi operano nell’industria britannica circa 3 milioni di addetti, mentre più di 6 milioni sono attivi nei servizi legati alla banca e alla finanza.
Un dato quasi incredibile, se si pensa che all’inizio degli anni ‘80 il rapporto era esattamente inverso, con 3 milioni impiegati nel settore finanziario e 7 milioni nell’industria.
In meno di una generazione e con un consenso quasi unanime si è compiuta una trasformazione che, per rapidità e ampiezza, non ha avuto confronti nemmeno ai tempi della prima rivoluzione industriale.
Ancora più sorprendente, nel sottolineare la marginalità dell’industria nel sistema economico britannico, è constatare che il valore aggiunto dell’industria è pari al 12,6% del valore aggiunto dell’intera economia.

Non dissimili sono i dati della Francia e degli Stati Uniti.
Per questo rapido confronto mi voglio tuttavia limitare ai paesi europei, in modo da poter fare riflessioni e confronti su sistemi che sono fra di loro maggiormente omogenei.
Ebbene i dati censuari ci offrono sufficienti elementi di meditazione perché le diversità nel processo di passaggio dall’industria al terziario vanno oltre le previsioni e le comuni opinioni in materia.
Per accentuare l’attenzione sui problemi di nostro interesse ho messo soprattutto in rilievo i settori che riguardano l’economia reale. Nella tabella che segue (tratta dai dati Eurostat) ho voluto semplicemente isolare il diverso peso dell’industria (con uno sguardo anche all’agricoltura e alle costruzioni) nei cinque grandi paesi della “vecchia Europa”.

Valore aggiunto lordo percentuale (a prezzi correnti) per diverse attività

(anno 2007 – Dati Eurostat)


 Agricoltura
 Totale Industria

(escluso le

Costruzioni)
 Industria

Manifatturiera
 Costruzioni
 
Germania
 0,9
 26,7
 23,9
 4,0
 
Spagna
 2,9
 17,5
 15,2
 12,3
 
Francia
 2,2
 14,1
 12,2
 6,5
 
Italia
 2,0
 20,8
 18,4
 6,3
 
Gran Bretagna
 0,7
 16,7
 12,6
 6,4
 



Nell’economia di queste mie riflessioni non mi soffermo sui dati che riguardano il settore agricolo, limitandomi, a questo proposito, a mettere in rilievo il dato della Spagna, che si presenta come primo paese in termini di percentuale del valore aggiunto agricolo sul totale, superando (anche se ovviamente non in dati assoluti) la stessa Francia.

La nostra attenzione, nel leggere la semplice tabella tratta da Eurostat, riguarda l’industria (e l’industria manifatturiera in particolare). In essa il dato che riguarda la Germania si distacca fortemente da tutti gli altri, soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Non è una differenza di poco conto. È una differenza abissale in quanto il valore aggiunto dell’industria manifatturiera germanica è sostanzialmente il doppio in termini percentuali rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna.

Singolare è il caso dell’Italia, che si trova in situazione intermedia ma che, se escludiamo le regioni del Mezzogiorno nelle quali il valore aggiunto industriale è a livelli minimi, raggiunge livelli di intensità del settore manifatturiero pari a quelli tedeschi.

Esaminando l’industria europea si arriva al sorprendente risultato che essa si è sempre di più concentrata in una specie di cilindro che dal Nord Europa (ma soprattutto dalla Germania) scende fino a metà dell’Italia e lì si ferma.

I grandi paesi a ovest di questo cilindro, segnatamente Francia e Regno Unito, pur possedendo campioni nazionali di grandissimo rilievo mondiale e di assoluta efficienza tecnologica, non hanno tuttavia una diffusione dell’industria paragonabile a quella di Germania e Italia.

Germania e Italia, inoltre, presentano nel 2007 non solo il più alto valore aggiunto totale nel settore manifatturiero (rispettivamente 519 e 251 miliardi di euro) ma anche il più alto valore aggiunto pro-capite. Anche questo dato merita ampia riflessione e studi più approfonditi perché sembrerebbe dimostrare che una più diffusa presenza dell’industria garantisce più elevati livelli di produttività e che quindi può diventare pericoloso scendere al di sotto di certi limiti.

Anche se non è certo facile definire quali siano questi limiti, credo che sia necessario disporre di studi preliminari per elaborare una seria politica industriale.

Un’ulteriore riflessione su questi temi è suggerita dai dati elaborati dalla Fondazione Edison che ha esteso l’analisi dei dati Eurostat (riferiti al 2005) ad altri paesi di antica industrializzazione come Svezia, Olanda, Belgio e Irlanda.

Nella tabella (n. 2) si evidenzia il rapporto fra il valore aggiunto dell’industria manifatturiera (più agricoltura e turismo) da un lato e il valore aggiunto di finanza e costruzioni dall’altro. Cioè i due settori che hanno più contribuito a creare la “bolla” che ha portato alla crisi in cui ora ci dibattiamo.


Raffronto tra il peso dei principali settori di economia reale e dei settori oggi più in difficoltà a causa della “bolla” immobiliare e finanziaria in alcuni Paesi UE: valore aggiunto a prezzi correnti, dati di confronto per l’anno 20(valori in miliardi di euro)

 

 
 Agricoltura, caccia, pesca
 Industria manifatturiera
 Turismo (Alberghi, ristoranti)
 TOTALE PRINCIPALI ATTIVITA’ DI ECONOMIA REALE (A)
 Intermediazione finanziaria
 Costruzioni
 TOTALE SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE (B)
 RAPPORTO TRA IL VALORE AGGIUNTO DEI SETTORI DI ECONOMIA REALE E QUELLO DEI SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE E FINANZIARIA(A:B)
 
Paesi più specializzati nell’economia reale (escluse costruzioni)
 
Germania
 17,3
 459,3
 33
 509,6
 100,8
 80,2
 181
 2,8
 
Svezia
 2,8
 50,6
 3,8
 57,2
 11,5
 11,7
 23,2
 2,5
 
Italia
 28,2
 236,9
 47,9
 313
 62,1
 77,5
 139,6
 2,2
 
Paesi con specializzazione “mista”
 
Belgio
 2,2
 46
 4,3
 52,5
 15,9
 13
 28,9
 1,8
 
Francia
 33,8
 204,9
 36,7
 275,4
 75,3
 87,5
 162,8
 1,7
 
Paesi più specializzati nella finanza e nelle costruzioni e oggi dunque più “esposti” alla crisi
 
Spagna
 26
 128,8
 61
 215,8
 37,7
 93,8
 131,5
 1,6
 
Olanda
 9,5
 65,2
 8,5
 83,2
 35,1
 24,6
 59,7
 1,4
 
Irlanda
 2,7
 33,7
 3,2
 39,6
 14,5
 14,1
 28,6
 1,4
 
Regno Unito
 10,9
 217,3
 47,9
 276,1
 137,4
 99,5
 236,9
 1,2
 


Fonte: elaborazione Fondazione Edison su dati Eurostat


Ebbene, anche prendendo in esame questi pur discutibili parametri, la differenza strutturale fra i diversi paesi europei appare degna della massima attenzione. Naturalmente ogni conclusione riguardo ai rapporti tra struttura produttiva e fragilità di fronte alla crisi economica appare oggi prematura e non provata. Mi auguro tuttavia che anche su questi particolari temi dei rapporti fra struttura produttiva e performance dell’economia si verifichino gli approfondimenti scientifici necessari per elaborare una politica industriale non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello europeo.

Non credo che si possa arrivare a definire un livello ottimale e nemmeno un livello minimo dell’attività industriale in ogni paese, ma penso che una riflessione su questi temi non sia affatto fuori luogo.

È evidente che, per arrivare a conclusioni meno affrettate, sarebbe necessaria un’analisi disaggregata per settori, per dimensione e tipologia di imprese, ma già le correlazioni messe in evidenza ci obbligano ancora una volta a mettere in discussione l’assioma da cui siamo partiti, cioè che i sistemi economici progrediscono sempre con il progredire del settore terziario.

Tanto più che il livello di tecnologia e di innovazione iniettato nell’industria si traduce in un continuo aumento di produttività del settore.


la crisi del 1929
Anche le proiezioni future fanno pensare ad un continuo e sostanzioso aumento del valore aggiunto per ora lavorata dell’industria, anche senza tenere in conto i potenziali progressi di settori ad alta intensità di ricerca come le scienze della vita e le nuove energie.
Un altro elemento che aggiunge forza al dubbio sul parallelismo tra l’esodo dall’agricoltura e quello dall’industria è dato dal fatto che una serie di fattori, come l’aumento dei costi di produzione nei paesi di nuova industrializzazione, e le più raffinate e specifiche esigenze da parte dei consumatori, spingono a pensare che il grande processo di delocalizzazione che si è verificato negli ultimi due decenni abbia ormai raggiunto e superato il suo massimo sviluppo.

Su questo punto non vi è ancora un segnale univoco, anche se l’ipotesi di un’attenuazione del fenomeno è confermata dal fatto che le migrazioni di settori a basso valore aggiunto e ad altrettanto basso contenuto tecnologico si sono in gran parte già concretizzate. Pensiamo allo spostamento verso l’Europa dell’Est e soprattutto verso l’Asia, di tessile, abbigliamento, giocattoli, mobili, arredi per la casa e componenti meccaniche ed elettroniche elementari. Trasferimenti ulteriori avverranno certamente ma ad un ritmo meno impetuoso e con possibilità di strategie di contenimento e di reazione assai più efficaci che in passato. Non parlo naturalmente di azioni di tipo protezionistico, che costituirebbero per tutti un tragico destino, ma di una capacità di risposta prima di tutto attraverso processi di innovazione e di automazione che rendono meno determinante la differenza del costo di mano d’opera che è stato ed è la causa principale del decentramento produttivo.

Ed in secondo luogo, in conseguenza di un maggior grado di sofisticazione da parte del consumatore si nota, in un numero crescente di casi, un ritorno di competitività da parte delle imprese che, per consuetudine o vicinanza geografica, sono in grado di meglio interpretare questa maggiore sofisticazione del consumatore.

Non è tuttavia questo il tema su cui voglio ora soffermarmi: mi preme infatti maggiormente ritornare a riflettere sulle diversità della presenza dell’industria in paesi europei con un livello simile di reddito e di sofisticazione della società.

Parlo soprattutto del più alto tasso di presenza industriale della Germania, ma lo stesso discorso vale per l’Italia del centro-nord e per alcune aree ad esse vicine (e, al di fuori dell’Europa, per il Giappone).

In Germania (ed in Giappone) l’importanza dell’industria manifatturiera si colloca in un ordine quantitativo non lontano dal doppio di quello britannico, francese o americano.
Economisti, storici e sociologi si sono naturalmente affannati per spiegare queste differenze ed io stesso vi ho dedicato una certa attenzione, forse esagerando ma forse no, nell’attribuire importanza primaria all’istruzione tecnica. In questa sede voglio limitarmi a sottolineare alcune conseguenze non trascurabili sull’economia del paese (e soprattutto sulla bilancia commerciale) di una presenza industriale particolarmente intensa.

Le conclusioni mi sembrano abbastanza evidenti:  tutti i paesi con un alto indice di presenza industriale mostrano una bilancia commerciale molto più favorevole rispetto ai paesi che più velocemente hanno proceduto verso un processo di deindustrializzazione, qualsiasi sia la dimensione del mercato e del grado di specializzazione settoriale.


la crisi finanziaria globale del 2009
Prendendo come campione gli ultimi dodici mesi (v. Economist, Economic and Financial Indicators 21 febbraio 2009) la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha un passivo di 821 miliardi di dollari, la Gran Bretagna di 173 , la Francia di 80 miliardi, e la Spagna di 149.
La Germania presenta invece un attivo di 264 miliardi e il Giappone di 36, mentre l’Italia presenta un modesto passivo di 17 miliardi, pur essendo importatrice della quasi totalità del proprio fabbisogno energetico. Si tratta naturalmente di un quadro limitato alla bilancia commerciale. Esso non tiene evidentemente conto dei movimenti dei capitali e di tutte le altre voci che formano il totale della bilancia dei pagamenti.

Se ritorniamo per un attimo alla bilancia commerciale e la depuriamo dalla bolletta energetica, troviamo che nel 2008 l’Italia ha mostrato un surplus commerciale pari a 61,4 miliardi di euro. E non sto certo parlando di un paese privo di problemi, ma di un paese sul quale hanno fortemente pesato in passato ed ancora oggi pesano fattori particolarmente negativi che riguardano la pubblica amministrazione, le infrastrutture, l’energia, i servizi ed il secolare problema non ancora risolto del divario territoriale fra il Centro-Nord ed il Sud del paese.

Ebbene, il fatto di avere conservato un apparato industriale di dimensioni ancora ragguardevoli, ha permesso all’Italia di fare fronte a tutte le debolezze precedentemente elencate e di mantenere un elevato livello di competitività nonostante il suo grado complessivo di “attrattività” sia così basso da essere costantemente in coda in tutti gli indici che riguardano l’ammontare degli investimenti esteri.(v. M. Fortis, L’Italia è seconda per competitività nel commercio mondiale, il Trade Performance Index UNCTAD/WTO 2006) .
Per sottolineare l’importanza dell’industria nell’economia contemporanea ho messo in particolare rilievo il paradosso italiano anche perché mi trovo a rappresentare questo paese nel  consesso di fronte al quale ho l’onore di parlare, ma conseguenze ancora più evidenti sarebbero emerse se avessi presentato di fronte a voi i dati riguardanti la Germania che, negli indicatori precedentemente presentati, risulta al primo posto mondiale nel surplus della bilancia commerciale.

Ed è ancora più interessante esaminare ancora l’indice TPI (Trade Performance Index) elaborato da UNCTAD/WTO che prende in considerazione non solo il saldo commerciale, ma anche il livello di export pro-capite ed altre caratteristiche come la diversificazione dei mercati di sbocco. Ebbene in questo indice la Germania conquista nel 2006 ben 7 primi posti tra i 14 macrosettori esaminati e primeggia in settori che hanno tra di loro diverse caratteristiche tecnologiche ed un diverso contenuto di innovazione.

L’industria tedesca prevale ad esempio nei mezzi di trasporto, nella chimica, nella meccanica elettrica, nelle macchine per l’industria, mentre l’Italia prevale ovviamente nei suoi settori più tradizionali come abbigliamento, calzature e mobili, ma tiene il secondo posto anche in comparti come la meccanica elettrica, la meccanica strumentale e i manufatti di base.
Naturalmente tutte queste riflessioni fotografano situazioni precedenti la crisi economica mentre, allo stato attuale, non abbiamo indicazioni soddisfacenti né sulla durata né sulla profondità della crisi.

E nemmeno sappiamo come i diversi paesi usciranno da questa crisi, anche se io penso che le evoluzioni ed i dibattiti in corso spingano a pensare che il “problema industriale” avrà una nuova centralità sia nelle discussioni accademiche che nelle politiche governative di tutti i paesi ad elevato livello di sviluppo.

Un fatto è già acquisito, che cioè dopo vent’anni nei quali il termine era stato bandito, si ritorna a parlare di “politica industriale”, anche se ci auguriamo che questo indispensabile ritorno di saggezza e di buon senso non sia maldestramente usato per scopi protezionistici.
Se le precedenti riflessioni mi spingono a pensare ad una nuova futura centralità del problema industriale, questo non significa che non si verificheranno grandissimi cambiamenti sia dal punto di vista di modelli organizzativi delle imprese, sia dal punto di vista settoriale.
Abbiamo già accennato alla fondata ipotesi che due settori saranno particolarmente rinforzati, e cioè il settore della scienza della vita e il settore energetico-ambientale.

A questi orientamenti corrispondo chiare indicazioni di politiche pubbliche di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dove sono previste ingenti risorse a favore dei così detti “green jobs”.

Nella pubblicistica generale si è preferito mettere in rilievo i sussidi all’industria dell’automobile ma non si debbono dimenticare i 18,5 Miliardi $ per le energie rinnovabili, i 2 M$ per le nuove batterie, i 2M$ per il sequestro dell’anidride carbonica.
Il tutto con un aumento particolarmente positivo dei “green jobs” nel settore manifatturiero.

È probabile che la crescita di questi nuovi settori, per la loro particolarità, possa avvenire anche al di fuori di un diffuso contesto industriale ma credo che, proprio per la tecnologia di incrocio che essi richiedono, il loro sviluppo sia grandemente favorito da un ambiente industriale fortemente radicato e diversificato.

Anche la presente crisi ed i suoi probabili sviluppi produttivi ci spingono a porci di nuovo la domanda che è stata il filo conduttore di queste brevi riflessioni e cioè quale è e quale sarà il ruolo dell’industria nei paesi più avanzati e se esiste un livello minimo di presenza dell’industria manifatturiera al di sotto del quale vengono grandemente ridotte le prospettive di efficienza e di sviluppo dell’intera economia.

Sappiamo che non esistono leggi universali in materia, sappiamo che grandissime sono le diversità da paese a paese ma sappiamo anche che le argomentazioni svolte in precedenza e gli interrogativi da esse sollevate meritano un’attenzione molto superiore a quelle riservate a questi temi in passato.

L’industria europea è troppo importante per non richiedere riflessioni e risorse dedicate a preparare per essa una nuova primavera.

Romano Prodi


P.S.: Può sembrare una scelta un po’ particolare quella di parlare di problemi strutturali di lungo periodo in presenza di una gravissima crisi economica mondiale.
Credo invece che se anche negli anni scorsi avessimo affrontato questi problemi forse avremmo evitato qualche disastro e ancora di più credo che proprio quando la crisi è più grave bisogna pensare a come sistemare le cose per preparare un futuro un poco migliore.

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Categoria Marzo 13, 2009
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Tags Cina, crisi economica, Europa, industria, Italia, mercati, USA


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« Risposta #12 inserito:: Marzo 15, 2009, 10:32:51 pm »

Crisi, dalla Lettonia all’America: Europa dell'Est, ecco perché si vuole creare un capro espiatorio


di Romano Prodi
 
 
ROMA (15 marzo) - AVEVAMO tutti imparato che la crisi economica era partita dagli Stati Uniti, aveva infettato l’Europa e l’Asia, e si era poi diffusa in tutto il mondo, devastando anche i Paesi più poveri.
Credo che le cose stiano proprio così.

Per questo motivo sono stato molto colpito dal fatto che i giornali e le televisioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna abbiano, nelle ultime settimane, dedicato uno spazio smisurato alle difficoltà dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale.

Il giudizio negativo nei confronti di questi Paesi è talmente forte da far pensare che essi, anche se non la causa della crisi, ne siano almeno attori principali, tanto da mettere a rischio l’economia dell’intera Unione Europea.

È evidente che un’interpretazione di questo tipo può contribuire ad alleviare la tensione nell’opinione pubblica americana e, ancora di più, in alcuni Paesi europei come Gran Bretagna, Irlanda e Spagna, Paesi dove gli eccessi dei mercati immobiliari, uniti a spericolate operazioni finanziarie, avevano contribuito all’aggravamento della crisi.
Mi sembra tuttavia opportuno chiarire come stiano davvero le cose, sottolineando il fatto che alcuni di questi Paesi sono messi davvero male (come la Lettonia e l’Ungheria), mentre altri, (come la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Polonia) navigano nella tempesta non certamente peggio dei Paesi della “vecchia Europa”.

Ed è ancora più importante sottolineare che quello che possiamo definire (anche se con linguaggio non scientifico) il “buco finanziario” di questi Paesi presi tutti insieme, non raggiunge la dimensione quantitativa del “buco” di una sola impresa americana, come il colosso assicurativo Aig.
Quando, con titoli cubitali, si parla della crisi della Lettonia come fattore di rischio per tutta l’Europa, non ci si vuole rendere conto che l’intera economia di questo Paese ha una dimensione pari a quella di una medio-grande provincia italiana.
Un po’ diversa è la situazione dell’Ungheria ma, complessivamente, si tratta di cifre che possono essere messe in equilibrio con misure alla portata dell’Unione europea anche in questo periodo di grande difficoltà.

Naturalmente questo intervento sarebbe più facile ed efficace se avessimo uno strumento a livello europeo come gli eurobonds o un altro strumento comune, capace di fare capire ai potenziali speculatori che non possono nemmeno pensare di assalire prima la Lettonia, poi l’Ungheria e (dopo aver creato un sufficiente panico) anche la Grecia e l’Irlanda, per arrivare magari fino alla Spagna e all’Italia.
Allo stesso modo viene naturalmente ridimensionato anche il rischio delle banche svedesi, tedesche, italiane e francesi che hanno acquistato istituti bancari dell’Europa Centro-Orientale. L’impegno in questi Paesi costituisce infatti una parte non molto rilevante rispetto alla dimensione totale delle banche della “vecchia Europa”.

Il discorso fatto prima riguardo all’economia dei Paesi può estendersi quindi, con un legittimo parallelismo, agli equilibri finanziari delle banche. A questo proposito, è opportuno sottolineare a titolo di esempio, che il credito totale delle banche di tutti i Paesi dell’Europa Centro-Orientale, rappresenta poco più dell’80% delle banche del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo).

Tali osservazioni non debbono spingerci a trascurare il problema, ma ci invitano semplicemente a valutarlo nella sua giusta dimensione quantitativa. E nel conto bisogna anche aggiungere il fatto che i Paesi dell’Europa Centro-Orientale hanno avuto negli scorsi anni un tasso di sviluppo molto forte e che , se non li abbandoniamo in questo periodo di crisi, manterranno probabilmente un forte ritmo di crescita anche per il futuro, una volta superata questa fase di emergenza.

Nel prossimo fine settimana avremo di nuovo un vertice europeo. Mi auguro che questo problema venga affrontato con la consapevolezza di avere in mano tutti gli strumenti per risolverlo. Parlo naturalmente degli strumenti economici, perché sotto l’aspetto politico, l’Unione europea non sta certo offrendo l’esempio di sapere prendere le decisioni contro la crisi con la rapidità e la solidarietà che sono oggi necessarie.

Il problema, allora, non è l’ipotesi di un crollo della Lettonia, ma solo la nostra incapacità di prendere decisioni. Se questo è lo stato delle cose, la crisi di un pur piccolo Paese non potrà che tradursi nel crollo della credibilità dell’intero sistema.
Mi auguro perciò che i responsabili della politica europea siano coscienti della forza che insieme possono esercitare e mi auguro anche che la esercitino con la necessaria rapidità. In questo caso la solidarietà è anche conveniente.
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 15, 2009, 10:39:58 pm »

Ospite da Fazio a «Che tempo che fa»

Prodi: «La linea Veltroni non era la mia Non sarò capolista alle Europee»

L'aneddoto su Mastella: «Si affacciò nel mio ufficio e disse "se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi"»


MILANO - «Io l'ho sempre sostenuto che il Pd non deve andare da solo», al contrario è nato per essere «il nucleo fondante della coalizione» e anzi «ritengo che sia compito della democrazia assorbire e portare nella cultura di governo anche le ali estreme». Romano Prodi, ospite di Che tempo che fa, boccia la scelta dell'ex segretario del Pd, Walter Veltroni, di correre da soli alle scorse elezioni politiche. Prodi si spinge oltre, e afferma: «certamente la linea politica adottata» da Veltroni «non era la mia e per questo mi sono fatto da parte».

MASTELLA - Poi rivela che lo stesso giorno in cui l'allora segretario annunciò che il Pd sarebbe andato da solo alle elezioni, «io non ebbi bisogno di pensare, perchè si affacciò Mastella nel mio ufficio a palazzo Chigi e disse "se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi". Anzi, Mastella disse una frase un po' più colorita...».

LA TESSERA PD - Il Pd è la speranza del paese per il futuro. Romano Prodi spiega così il motivo per cui ha rinnovato la tessera del partito, pur dicendosi meravigliato del clamore che questo gesto ha suscitato: «Forse si aspettavano che non la rinnovassi?», dice ironico. «Non possiamo che scommettere in questo - ha detto l’ex premier riferendosi al Pd -. Io sono entrato in politica in età avanzata, a 55 anni circa, con l’idea ben precisa di mettere insieme i diversi riformismi che erano stati divisi in guelfi e ghibellini dalla Guerra freddda, metterli insieme e cambiare le cose: è l’Ulivo. Evidentemente il Pd ha fondamento in quest’idea e deve andare avanti, questo è il significato della mia tessera». Secondo Prodi «e non teniamo assieme le forse riformiste l’Italia non si salva e il Pd è ultima speranza per il rinnovamento del paese».

RITIRO DEFINITIVO - «Ho annunciato con serietà la scelta di uscire dalla politica. Confermo quella scelta e credo che ora c'è bisogno di gente che eserciti il proprio spirito critico. Spero di essere utile così». Così l'ex presidente del Consiglio conferma la volontà di tenersi fuori dalla politica attiva. «Mi hanno offerto di fare il capo lista alle Europee, pensi che me lo ha chiesto anche il Belgio e ciò mi ha fatto molto piacere. Tuttavia, - ha ribadito Prodi - con questo ho chiuso».


15 marzo 2009
da corriere.it


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Prodi: «Pd ultima speranza per l'Italia»

E svela un retroscena su Mastella

«Mi disse: "Se volete far fuori me, io faccio prima fuori voi"

Franceschini sulla crisi: «Ha ragione Confindustria»

 
 
 ROMA (15 marzo) - «Il Pd ha dentro di sè l'idea dell'Ulivo. Deve andare avanti. Bisogna scommetterci. Senza l'unità dei riformismi l'Italia non si salva. È l'ultima speranza che abbiamo». Romano Prodi parla del suo Pd dopo il rinnovo della tessera  e sgombra ogni dubbio sulla possibilità di diventare presidente della coalizione. «Quando ho detto che uscivo dalla vita politica ero serio» ha detto l'ex premier alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa ricordando che in passato il Belgio gli offrì «di fare il capo lista alle Europee».

E poi svela un retroscena su Clemente Mastella, durante gli ultimi giorni del suo governo, all'indomani dell'annuncio di Walter Veltroni di lanciare il Pd in un'eventuale corsa elettorale da solo. «Non ebbi bisogno di pensare - ha affermato Romano Prodi, alla domanda di Fazio su quale fu la sua reazione alla decisione di Veltroni -. Si affacciò Mastella nel mio ufficio e mi disse: "Se volete far fuori me, sono io che faccio prima fuori voi"». Sorridente, l'ex Presidente del Consiglio ha quindi aggiunto: «Mastella per la verità usò una frase un po' più colorita».

«Pd lavori su forma democratica interna». Il Pd, spiega Prodi, dovrà lavorare sulla ricerca di una forma di democrazia interna, riconoscendo che proprio questa carenza è stato uno dei problemi di tutta la politica italiana. «Di partiti democratici - ha affermato - non se ne vedono mica tanti. Io faccio critiche in casa mia perché è doveroso, ma se guardo da altre parti la forma partitica italiana è stata ridotta in uno stato miserabile. E senza partiti non si fa politica. Il partito è uno strumento per fare politica».

Quattro i filoni di lavoro. Oltre alla ricerca di una forma democratica interna, la coagulazione dei riformismi italiani (superando definitivamente - ha detto - la logica di guelfi e ghibellini), l'interpretazione dei dolori del Paese in questa fase di crisi economica, rilanciare la giustizia sociale e il rilancio dei giovani.

Ottimista su risoluzione crisi. Per arrivare alla ripresa dell'economia «ci vorranno ancora molti mesi» ma Prodi è «ottimista» considerando la reazione immediata di governi come Usa e Cina, reazione che differenza l'attuale crisi con quella del '29. quando «i governi tardarono tre anni per capire che cosa succedeva». L'ex presidente del Consiglio si è rallegrato che ora anche la Cina sia stata ammessa ai vertici internazionali.

Franceschini: «Ha ragione Confindustria». Il leader del Pd dà ragione a Confindustria, servono soldi, ma il governo li ha buttati via con l'Ici e l'accordo sfumato con Air France. Dario Franceschini, oggi all'assemblea dei giovani del Pd a Rho-Pero torna sulle parole di ieri di Emma Marcegaglia. Inoltre ironizza sulle dichiarazioni del premier secondo il quale il PdL sarebbe al 43% dei consensi: «Non so perché Berlusconi sia così umile, io ho un sondaggio qua in tasca secondo il quale il suo partito è già al 51 per cento e alle Europee può arrivare al 92 per cento». E gli invia una cartolina chiedendogli di unificare il voto delle europee e del referendum.

Il leader del Pd ha affermato che per varare misure adeguate di sostegno, tra cui quelle proposte nei giorni scorsi dal Pd, «erano sufficienti circa 5-6 miliardi di euro» ma il denaro «è stato buttato via dalla finestra con l'accordo sfumato con Air France e con l'Ici».

«Berlusconi nasconde la crisi». «L'Italia - ha detto Franceschini - è l'unico Paese al mondo in cui il premier si preoccupa solo di nascondere la crisi o di negarla». «Come può reagire una persona che non ha i soldi per fare la spesa - si è chiesto Franceschini rivolgendosi ai circa 1.000 delegati under 30 eletti con le primarie dello scorso novembre - e che si sente dire consumate?».

«Piano casa demagogico». «Dobbiamo contrastare senza ambiguità l'idea di devastare il paesaggio con una norma demagogica» ha detto Franceschini.  «Siamo d'accordo sulla semplificazione delle procedure - ha proseguito - ed è vero che nelle città ci sono tanti edifici brutti che potrebbero essere demoliti e ricostruiti più belli e con criteri ecosostenibili, ma non possiamo accettare una norma demagogica che consente automaticamente a tutti gli edifici un ampliamento del 20%».

Cartolina al premier. Franceschini prima di recarsi all'assemblea dei giovani del Pd ha imbucato una cartolina postale a Berlusconi. «Presidente, questa è un'emergenza! Aiuta gli italiani davvero, unifica la data del voto!» si legge. Votare in due giorni diversi per elezioni e referendum, si legge ancora nella cartolina «comporterà un costo in più di oltre 460 milioni di euro, perché buttare questi soldi dello Stato e dei cittadini?». «Il Pd - prosegue il testo - propone di utilizzarli per potenziare con uomini e mezzi le forze dell'ordine, acquistare il carburante alle volanti, riparare quelle ferme, perchè rotte, e pagare gli straordinari al personale». «Sono circa mille miliardi di vecchie lire buttate via - ha aggiunto il leader del Pd, circondato da un piccolo gruppo di sostenitori -: soldi sprecati che potrebbero essere usati per la sicurezza e per la crisi».

 
da ilmessaggero.it


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Il Professore da Fazio: "Sono solo andato a ritirare la tessera del Pd non capisco il clamore"
Poi addossa a Veltroni la responsabilità della caduta del suo governo
Prodi ritorna in televisione
"Non farò il capolista alle europee"

 
Romano Prodi con Walter Veltroni e Dario Franceschini
MILANO - "Mi hanno telefonato che era arrivata la tessera e sono andato a ritirarla, non capisco tutto questo clamore". Romano Prodi ritorna in televisione ospite di Fabio Fazio a "Che tempo che fa" rilancia la sua idea che la politica veltroniana del correre da soli segò il ramo sul quale era seduto il suo governo e, nonostante una distanza di linea politica dice: "Io non tornerò a fare politica ma il partito democratico e la speranza per l'Italia".

Sereno, rilassato apparentemente contento del suo ritorno agli studi il Professore, che compilando il modulo della trasmissione alla voce professione ha scritto "pensionato", ha ribadito che per lui quella politica è una stagione finita. "Ho annunciato con serietà - ha detto l'ex premier - la scelta di uscire dalla politica. Confermo quella scelta e credo che ora c'è bisogno di gente che eserciti il proprio spirito critico. Spero di essere utile così". "Mi hanno offerto di fare il capo lista alle Europee - ha aggiunto - pensi che me lo ha chiesto anche il Belgio e ciò mi ha fatto molto piacere. Tuttavia con questo ho chiuso".

Il Professore non rinnega il percorso che ha portato al Partito democratico, anzi non sembra preoccupato delle difficoltà attuali. "Non si rivoluzionano secoli storia in un anno solo - dice - è un processo in corso, ma è la cosa più importante della mia vita politica, Perché un paese è sempre un insieme di diversità e nel caso del Pd in parte si è riusciti ad unire le due culture, in parte no". Però non dimentica i problemi creati dalla scelta di Veltroni di rompere l'Unione. E rivela che lo stesso giorno in cui l'allora segretario annunciò che il Pd sarebbe andato da solo alle elezioni, "io non ebbi bisogno di pensare, perché si affacciò Mastella nel mio ufficio a palazzo Chigi e disse 'se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi'. Anzi, Mastella disse una frase un po' più colorita...". "Sono andato via perché il partito aveva una linea che non condividevo, ma il Pd è la speranza del Paese".

da repubblica.it




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« Risposta #14 inserito:: Aprile 01, 2009, 12:48:13 pm »

Nei tempi di crisi pensare al dopo-crisi/
     
di Romano Prodi

ROMA (1 aprile) - Da ormai parecchi mesi i dati sulla crisi economica mondiale peggiorano costantemente. La caduta della produzione e del reddito non si limita agli Stati Uniti e alle aree maggiormente sviluppate del globo, ma si estende a tutti i continenti, devastando anche i paesi più poveri che, per l'arretratezza delle proprie strutture bancarie, erano stati risparmiati dalle bancarotte finanziarie. Le conseguenze del crollo dell'economia di carta hanno infettato le economie reali di tutti i Paesi del mondo.

Per la prima volta dopo tanti anni avremo nel mondo un tasso di crescita negativo. La politica non è stata però inerte, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Cina che hanno preparato interventi che non hanno precedenti nella storia.

I Paesi europei, invece, hanno posto l'accento anche sulla necessità del cambiamento delle regole che guidano la finanza mondiale. Vedremo se a Londra nel G 20 queste due diverse accentuazioni (che non sono certamente incompatibili fra di loro) potranno comporsi in una strategia d'azione concordata a livello mondiale. Un messaggio unitario in materia gioverebbe non poco a combattere la crisi. Comunque tra poche ore la nostra curiosità potrà essere soddisfatta. Intanto nel grande ronzio dei mercati e dei media è cominciata la ricerca esasperata di tutti segnali positivi della congiuntura economica internazionale. Qualche debole segnale c'è ed è bene non trascurare del tutto il fatto che i prezzi di alcune materie prime come il rame o i rottami di ferro o di alcuni noli marittimi si sono svegliati così come non è certo negativo constatare che alcuni mercati borsistici hanno smesso di scendere. Si tratta però di segnali deboli ancora non sufficienti per giustificare previsioni più ottimiste sui tempi di uscita dalla crisi.

Tuttavia sappiamo in che direzione lavorare: andiamo quindi avanti senza creare né paure né illusioni. Se non siamo in grado di prevedere quando usciremo dalla crisi, abbiamo però la possibilità di influire sul come uscirne. Senza aspettare che dal cielo scenda la manna degli accordi globali, è opportuno che anche un Paese come l'Italia rifletta attentamente sulle strategie che possono garantire in futuro un ruolo economico più forte. Avendo in mente questi obiettivi mi limiterò in questa sede ad alcune osservazioni limitate all'industria, che sarà anche e sempre di più il pilastro della nostra economia. Nell'ultima generazione l'industria europea è stata soggetta a cambiamenti radicali e si è soprattutto localizzata in una specie di "cilindro" che dalla Germania arriva fino all'Italia Centrale, mentre la Gran Bretagna ed in parte la Francia hanno indebolito la rete di diffusione dell'industria, pur conservando campioni nazionali estremamente forti e punte di innovazione ugualmente degne di attenzione. Questo processo di diversificazione si è spinto così avanti che, mentre il valore aggiunto dell'industria in Francia e in Gran Bretagna è attorno al 12%, in Germania è esattamente il doppio. L'Italia è in situazione intermedia e, tenendo conto della permanente tragica situazione del Mezzogiorno, i dati del Centro-Nord sono sostanzialmente simili a quelli tedeschi. Non c'è che da essere soddisfatti, anche perché è ancora l'industria che salva la nostra bilancia commerciale, ponendo riparo anche al drammatico deficit energetico.
Le nostre imprese industriali combattono quindi bene, ma guardando più dentro alle cose, ci si accorge che esse operano soprattutto in settori a media tecnologia e sono totalmente assenti dalle grandi innovazioni in corso.

Se mettiamo sotto osservazione i prodotti nuovi più importanti entrati sul mercato nell'ultima generazione (dai cellulari agli i-pod, dalle celle solari ai generatori eolici) non solo non ne abbiamo inventato nessuno in Italia, ma non ne abbiamo nemmeno uno prodotto in Italia in larga scala. Dato che si può (e si deve) ricominciare a parlare di politica industriale e lo si deve fare tenendo presenti i cambiamenti provocati dalla crisi, credo che si debba operare con tutti i mezzi a disposizione verso due direzioni che condizioneranno tutto il nostro futuro e cioè il campo delle energie rinnovabili e quello delle scienze della vita, intendendo con questo termine il campo vastissimo che va dalla farmaceutica, agli strumenti medicali alle biotecnologie. Sono settori che non sempre richiedono aziende di grandi dimensioni o investimenti massicci. Sono campi in cui esistono nicchie che possono dare risultati alla portata della dimensione delle nostre imprese. La nuova sfida dell'Italia è quella di far crescere in questi due settori imprese e distretti con lo stesso dinamismo di quelli che ci hanno permesso di sopravvivere, pur in una situazione di grande difficoltà politica e sociale del nostro Paese.

Anche se quindi non siamo in grado di prevedere quando finirà la crisi, abbiamo tuttavia l'obbligo di fare in modo di uscirne con idee e progetti adatti ad affrontare con successo il futuro.

 
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