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Autore Discussione: Ubriaco al volante: nessuna sanzione... se il legislatore sbaglia nel legiferare  (Letto 3545 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Agosto 08, 2007, 05:05:32 pm »

8/8/2007 (8:1) - IL CASO

Ubriaco al volante: nessuna sanzione

Un buco nel decreto consente a chi viene sorpreso di farla franca. E' già successo a Torino

ALBERTO GAINO


TORINO
Il decreto legge varato per colpire con più efficacia gli ubriachi al volante rischia l’effetto opposto: è sufficiente che l’automobilista non riesca a gonfiare i due palloncini necessari a quantificare il suo tasso alcolemico o finga di non riuscirvi perché la magistratura non possa punirlo. Il primo caso torinese è di una solarità disarmante: 4 agosto, si applicano finalmente le nuove norme, i vigili urbani bloccano un ventisettenne al volante; sono le 4.40 e il giovanotto non si oppone al test del palloncino. Vi soffia dentro una prima volta. Tasso alcolemico altissimo: 1,6 grammi per litro, molto al di sopra del massimo consentito.

Il giovanotto dovrebbe essere la prima «vittima» del severo decreto legge: condanna sino a 6 mesi di carcere, ammenda sino a 6 mila euro (sostituibili entrambe con attività sociale utile e gratuita) e ritiro della patente anche per 2 anni. Invece non accadrà nulla di tutto ciò. Troppo ubriaco, 8 minuti dopo il primo test, l’automobilista non è riuscito a ripeterlo. Vani pure i due successivi tentativi dei vigili urbani. Si fa il verbale e ieri in procura si è preso atto che, senza l’«accertamento tecnico completo», non si può fare nulla. Dal comando della polizia stradale telefonano per avere chiarimenti. Un magistrato spiega che con le vecchie norme bastava accertare lo stato di ubriachezza: «Il palloncino non era indispensabile, adesso sì. Prima con la sintomatologia - l’alito vinoso, l’atteggiamento barcollante, l’eloquio sconnesso - si poteva dimostrare ugualmente la violazione e punire l’automobilista. Ora, fissate tre soglie di tasso alcolemico con relativa graduazione delle sanzioni penali e amministrative, si deve necessariamente accertare la quantità di alcol nel sangue delle persone sottoposte a controllo».

Caso successivo, del 5 agosto: i vigili urbani fermano un automobilista in «evidente condizione di alterazione: forte alito vinoso, eccessiva e sconnessa loquacità, stato confusionale». Prima del 4 agosto sarebbe stato loro sufficiente darne atto nel rapporto alla procura. Ora, invece, si deve passare per il test ripetuto del palloncino. L’automobilista si rifiuta. «Verrà comunque punito ma con una sanzione amministrativa di 2.500-10.000 euro e la sospensione della patente sino a 2 anni. Ma niente condanna penale. Chi fingerà di non riuscire a fare il test non avrà nemmeno quelle».

Le incongruenze non finiscono qui. Il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello a un convegno sulla sicurezza ha richiamato l’attenzione su un’altra misura legislativa: «Con l’intesa del 2006 fra Stato e Regioni si è data attuazione a una legge di cinque anni prima, secondo cui i lavoratori con mansioni particolarmente delicate ai fini della sicurezza, loro e di altri, non possano assumere bevande alcoliche. Sono passibili di controlli da parte del medico di fabbrica o dell’Azienda sanitaria locale e sanzionabili anche penalmente, oltre che con provvedimenti disciplinari. Sono state individuate quattordici attività a rischio, fra cui quelle sanitarie e del trasporto». Risponderebbe della medesima violazione anche chi somministrasse loro, nelle mense aziendali, bevande alcoliche: rigore assoluto. Lo stesso che si pretenderebbe, a maggior ragione, per chi guidasse un’auto o un automezzo più pesante sotto l’effetto di stupefacenti.

Quando ci fu la sciagura di Vercelli, lo scorso maggio - 2 bambini morti e 21 feriti nel ribaltamento di un autobus - si scoprì che il conducente aveva fumato «erba» e fu un coro unico: «Ci vuole una legge per imporre controlli preventivi». Guariniello: «C’è, ed è del 1990, ma da diciassette anni aspettiamo il decreto interministeriale per attuarlo. Il datore di lavoro che disponesse quei tipi di controllo, sinora incorrerebbe in un reato. Com’è accaduto».

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« Risposta #1 inserito:: Agosto 13, 2007, 05:15:59 pm »

La legge che non c´è

Giovanni Salvi - Andrea Balbi


Maria Antonietta Multari avrebbe potuto esser salvata?

La giovane donna era stata perseguitata dal suo ex fidanzato per mesi, con telefonate, appostamenti, minacce.

Questo comportamento viene definito con un termine inglese, stalking.

Un termmine tratto dal gergo della caccia e che si può tradurre con "fare la posta".

Lo stalker perseguita la sua vittima per le più diverse ragioni (a volte si tratta di personaggi famosi, oppure di persone in contatto col pubblico per il loro lavoro) ma molto di frequente tra lo stalker e la sua vittima vi è una relazione prossima: spesso si tratta di ex (ex coniugi, ex fidanzati).

Questi comportamenti possono in alcuni casi essere sintomo di un grave disturbo mentale e possono portare a comportamenti sempre più aggressivi, fino all´omicidio. Alcuni casi clamorosi negli anni 80 portarono lo Stato della California ad approvare nel 1991 la prima legge antistalker nel mondo. In Italia non vi è invece una protezione specifica, anche se vi sono disegni di legge, da tempo presentati in parlamento e che prevedono l´autonoma punizione delle condotte persecutorie. Attualmente l´unica protezione per le vittime è data da un´ipotesi di reato punita assai lievemente (quello di molestie), con la conseguenze che altrettanto modesti sono gli strumenti processuali nelle mani delle forze di polizia e dell'autorità giudiziaria. In campo civile si riconosce ormai senza incertezze il danno esistenziale che lo stalking può causare, ma - appunto - si tratta di azioni "risarcitorie", quando cioè il danno è ormai stato fatto, con potere dissuasivo poco o nullo.

Eppure lo stalking è fenomeno di enorme diffusione nel nostro Paese e di gravissimi effetti. La maggior parte delle vittime sono donne, ma lo stalking va chiaramente distinto da altre forme di violenza ed in particolare da quelle generiche nei confronti delle donne. Da una recente ricerca del ministero per le Pari Opportunità e del ministero dell´Interno risulta che oltre due milioni di donne hanno subito forme di persecuzione che le hanno particolarmente spaventate e ciò soprattutto a causa della cessazione di rapporti affettivi. Spesso le molestie sono giunte fino a qualche forma di aggressione fisica. Il dato è particolarmente allarmante se lo si coordina con quello relativo agli omicidi. Paradossalmente, mentre il numero degli omicidi si è più che dimezzato negli ultimi 15 anni (da 1441 nel 1992 a 621 nel 2006), con trend costante, con altrettanta costanza è invece aumentato il numero degli omicidi commessi in famiglia o a causa di relazioni: da 97 nel 1992 a 192 nel 2006, con un aumento percentuale che è - di conseguenza - spaventoso. Per di più, le vittime di tali omicidi sono in maggioranza donne, cosicché la percentuale di donne assassinate è passata dal 15,3 al 26,6 % sul totale degli omicidi.

In conclusione, le donne sono le vittime principali dello stalking, ma questa condotta persecutoria vede come vittime anche moltissimi uomini.

Pur distinte concettualmente, la violenza in famiglia e lo stalking sono dunque vere emergenze nazionali, che come tali devono essere affrontate. La sola repressione penale non è sufficiente e anzi, in assenza di strumenti idonei, può addirittura risultare controproducente. In attesa di una normativa che consenta di punire (e quindi anche di prevenire in sede penale) gli atti di persecuzione in quanto tali, prima che sfocino in fatti più gravi, è possibile muoversi con gli strumenti esistenti, purché si abbia consapevolezza della complessità della minaccia e quindi anche della risposta.

Il punto centrale è che lo stalking va affrontato non come "eventi singoli" ma come una "sequenza potenziale". Quindi esso non va valutato solo per il danno immediato, causato dalle singole condotte persecutorie, ma come rischio di un danno potenziale ben più grave. L´intrusione nella vita di una persona con telefonate, messaggi, appostamenti, minacce può essere la premessa di un´aggressione, anche mortale. Vi è quindi immediatamente un danno al benessere psico-fisico (sospetto, insicurezza, sensazione di essere preda ecc.) che può generare un disturbo da stress grave. Ciò legittima la previsione già in questa fase di un trattamento sanzionatorio più incisivo di quello attuale. Tale previsione faciliterebbe al tempo stesso notevolmente la valutazione del rischio potenziale e quindi consentirebbe anche di muoversi in un´ottica preventiva. Il collegamento tra sistema giudiziario, polizia di prevenzione e sicurezza e servizi sanitari dovrebbe esser l´architrave di un sistema integrato.

In attesa di un´auspicabile, pronta discussione del disegno di legge governativo sulla materia, è possibile già ora muoversi utilizzando gli strumenti esistenti: dalla perizia in sede giudiziaria ad un´applicazione dell´Accertamento Sanitario Obbligatorio, disposto dal sindaco sulla base delle indicazioni del Servizio sanitario, che tenga conto del fatto che alcuni di questi casi costituiscono una delle pochissime situazioni psichiatriche di reale pericolo. Nei casi invece in cui da tali accertamenti non si rivelasse una patologia psichiatrica (i cosiddetti stalkers predatori), aver potuto comunque individuare il persecutore e mettere in atto azioni di controllo costituirebbe di per sé un´opera di prevenzione del rischio, che ridarebbe alla vittima il suo diritto ad una vita libera dalla paura.

*Giovanni Salvi, magistrato, è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura
*Andrea Balbi è docente di psicopatologia delle psicosi all´Università Cattolica di Roma



Pubblicato il: 13.08.07
Modificato il: 13.08.07 alle ore 14.06   
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