LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 08:00:09 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: NEWS - (SCIENZA - SALUTE)  (Letto 7315 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« inserito:: Maggio 17, 2007, 06:34:56 pm »

Una ricerca dell'università di Granada su un campione di 308 partorienti

I pesticidi preferiscono la placenta

Fra le sostanze trovate più frequentemente nelle donne incinte un parente del Ddt e un composto di shampo antipidocchi

 
La placenta delle donne incinte è una spugna che assorbe e accumula le tracce di pesticidi presenti nella catena alimentare. Purtroppo il 100% delle donne gravide ospita almeno un tipo di queste ormai onnipresenti sostanze tossiche e cancerogene. Lo ha rivelato una ricerca condotta dall'ospedale universitario San Cecilio di Granada, che ha sottoposto ad accurate analisi 308 donne le quali hanno dato alla luce dei bambini tra il 2000 e il 2002.

«I pesticidi trovati più frequentemente nei tessuti della placenta sono il DDE (un parente stretto del DDT, ormai vietato in quasi tutto il mondo), il Lindane e il Diolo Endosulfan», hanno riferito Maria Jose Lopez Espinosa e Nicolas Olea Serrano, due degli autori della ricerca. Si tratta di composti organoclorurati, impiegati abitualmente per la formulazione di pesticidi che servono a a combattere parassiti sia vegetali sia animali.

Il Lindane, per esempio, si riscontra nella composizione di alcuni shampo antipidocchi e, se usato in maniera massiccia, oltre a esporre al rischio di tumori cerebrali, ha effetti neurotossici immediati, con sintomi come nausea, vertigini e debolezza muscolare. Altri pesticidi, piuttosto che per contatto diretto, arrivano nell'organismo umano attraverso frutta, verdura, carni di animali, e tendono ad accumularsi progressivamente in alcuni organi come reni, fegato e, appunto, la placenta delle donne incinte. «Anche se la nostra ricerca non ha ancora verificato gli effetti a lungo termine della contaminazione da pesticidi -riferisce Lopez-, possiamo prevedere che ci saranno seri rischi per i bambini nati dalle madri che presentano i tassi più elevati di contaminazione, a causa dell'esposizione subita nelle delicate fasi dello sviluppo embrionale».

DIETA PREVENTIVA - La ricerca ha tuttavia dimostrato che una dieta bilanciata, attenta a evitare i cibi maggiormente contaminati, è idonea a limitare l'accumulo dei pesticidi. Una recente statistica ha stabilito che ogni anno l'industria chimica sforna circa duemila sostanze che presentano rischi potenziali per la salute e che finiscono per accumularsi nel nostro organismo per esposizione indiretta.

Franco Foresta Martin
16 maggio 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Maggio 17, 2007, 06:48:09 pm da Arlecchino » Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #1 inserito:: Maggio 17, 2007, 06:38:47 pm »

L'allarme dei medici internisti italiani dopo il ritiro del farmaco in Irlanda «Molti casi di danni al fegato da nimesulide»

Dibattito sul farmaco con il principio attivo dell'Aulin: «Non è un medicinale innocuo».

Federfarma: «Usato male con ricette ripetibili»

 
ROMA - La nimesulide, principio attivo di molti antinfiammatori come l'Aulin, sale sul banco degli imputati anche in Italia dopo essere stato ritirato in Irlanda per segnalazioni di gravi danni al fegato. Dal convegno dei medici internisti italiani arriva l'allarme: «Per molto tempo la nimesulide ha goduto della fama di un farmaco non molto rischioso, ma ogni anno, noi medici internisti, osserviamo un numero abbastanza preoccupante di pazienti che subiscono danni epatici e dell'apparato gastroenterico causati proprio da questa molecola». E' quanto affermato da Giovanni Mathieu, presidente della Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti, commentando la decisione dell'Agenzia del farmaco irlandese, di sospendere la vendita dei farmaci a base di nimesulide. «Come ogni farmaco - precisa Mathieu - la nimesulide va valutata all'interno di un rapporto rischio-beneficio. Purtroppo, infatti, come ogni farmaco, anche la nimesulide presenta aree di rischio».
Sotto accusa la facilità con cui è possibile acquistare questo farmaco, commercializzato in Italia dal 1985 con successo (nel 2002 nel nostro Paese si registrava il più alto consumo di questa specialità rispetto al resto dell'Europa). «La nimesulide viene considerata una molecola di facile uso - spiega il presidente - quasi fosse un farmaco da banco, ma è tutt'altro che un medicinale innocuo».

LA REPLICA DI FEDERFARMA - Pronta la replica di Federfarma, l'associazione che raggruppa i titolari di farmacie: I farmaci a base di nimesulide «non sono mai venduti nelle farmacie italiane come medicinali Otc (over the counter), cioè senza ricetta» assicura il presidente Giorgio Siri. «E nessun farmacista ne consiglia l'uso se non è strettamente necessario, proprio per via delle possibili controindicazioni al fegato dovute al sovradosaggio. Già note a tutti da tempo». Ciononostante, Siri assicura che «sarà nuovamente inviata a tutte le farmacie della penisola aderenti a Federfarma la circolare che mette in guardia da un uso poco accorto e dal vendere il farmaco senza ricetta medica». Per il presidente dell'associazione dei titolari, il problema alla base del consumo della nimesulide «fuori prescrizione» deriva però dalla possibilità di «usare la ricetta del medico più volte nell'arco di sei mesi. E dalle confezioni del farmaco che contengono troppe bustine rispetto ai bisogni». «Proporremo al ministero della Salute di ridurre le confezioni di nimesulide, visto che il più delle volte si tratta di un farmaco usato all'occorrenza. E che mai - conclude Siri - deve essere assunto per un periodo prolungato».

PRECEDENTI - La nimesulide è già stata in passato al centro di casi analoghi. Nel marzo del 2002, infatti, le autorità sanitarie finlandesi avevano sospeso la commercializzazione del medicinale proprio per l'aumento delle segnalazioni di reazioni epatiche. Infatti, dal primo gennaio '98, nel Paese scandinavo si erano verificati 66 casi di danni epatici che hanno portato a due trapianti di fegato e a un decesso. Anche la Spagna, qualche mese più tardi, a maggio 2002, aveva sospeso cautelativamente la vendita di questo farmaco. In seguito ai provvedimenti di sospensione della commercializzazione del farmaco, l'Italia, quale paese a più alto consumo di nimesulide in Europa, è stata incaricata di predisporre, insieme alla Finlandia, un rapporto di valutazione completo sul profilo beneficio/rischio del farmaco. Dopo un processo di revisione dei dati esistenti durato 2 anni, il Comitato Scientifico dell'Emea (CPMP, ora CHMP) ha stabilito che il profilo beneficio/rischio della nimesulide è positivo e in linea con quello degli altri farmaci della stessa classe e ha confermato il mantenimento della registrazione del prodotto in tutti gli Stati membri inclusa la Finlandia, pur restringendone le indicazioni terapeutiche e aggiungendo altre controindicazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto.

17 maggio 2007
 
da corriere.it
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #2 inserito:: Giugno 01, 2007, 11:51:16 am »

A Firenze 3.100 nuovi casi l´anno:+5% del resto d´Italia

Aumentano i tumori colpa dello stile di vita

Allarme Società della Salute: fumo in crescita fra i giovani "Urge laboratorio"  «Ogni anno 3.100 nuovi casi di tumore a Firenze, il 5 per cento in più della media nazionale, un dato comune alle altre aree urbane. Le cause: peggiori stili di vita e, solo in parte, inquinamento. Le forme più frequenti sono la mammella per le donne e la prostata per gli uomini. Per ambedue i tumori le probabilità di sopravvivenza è molto buona: per esempio per quello alla mammella è del 90% a cinque anni per quello alla mammella, un risultato dovuto sia alla diagnosi precoce che alle migliori terapie». Questo dice Marco Rosselli del Turco, direttore del Centro di studio e prevenzione oncologica, che ieri in Palazzo Vecchio ha presentato la Giornata mondiale senza tabacco (è oggi) insieme all´assessore alle politiche sociosanitarie e presidente della Società della Salute Graziano Cioni, il direttore generale dell´Azienda sanitaria di Firenze Luigi Marroni, Francesca Cirauolo, responsabile dipartimento educazione alla salute dell´Asl fiorentina, Riccardo Poli presidente della sezione fiorentina della Lega italiana per la lotta ai tumori. «Il fumo è una delle cause che contribuisce all´insorgenza del tumore. E dalle ricerche emerge un aumento dell´uso delle sigarette tra le donne e i giovani, con tutto quello che ne consegue a livello di salute», dice Cioni.

Secondo i dati dell´Azienda regionale sanità in Toscana fuma il 22,9 per cento della popolazione: il 28 per cento dei maschi e il 18 per cento delle femmine e questa percentuale è più elevata rispetto al dato nazionale. E la predilezione delle donne toscane per il fumo è testimoniata anche nella tendenza, registrata negli ultimi 25 anni, di una riduzione dei maschi fumatori e una stabilità invece tra le donne. Ed è in aumento anche il fumo tra i giovani: non solo la percentuale più alta tra i fumatori (il 30,7%) si riscontra tra i ragazzi dai 20 ai 29 anni ma fra gli adolescenti toscani (14-19 anni) la quota di fumatori è in aumento con una percentuale del 17,9 per cento (22,7% maschi, 11,2% femmine). Un fenomeno confermato anche da una ricerca effettuata nel 2005 in 56 scuole superiori toscane da cui emerge che il 65 per cento dei giovani ha provato almeno una volta a fumare. Rosselli Del Turco insiste sull´importanza della prevenzione. Per quanto riguarda l´attività di prevenzione oncologica, Firenze e il territorio della Asl è interessata da tre programmi di screening: quello per i tumori a mammella, collo dell´utero e colon-retto. (31 maggio 2007)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #3 inserito:: Giugno 06, 2007, 04:27:59 pm »

Ma la terapia sostitutiva va ancora valutata

Se manca il testosterone la vita si accorcia

Secondo uno studio Usa il rischio di mortalità aumenta per gli uomini con ridotti livelli di ormone maschile nel sangue

 
La storia degli uomini di Rancho Bernardo insegna: chi ha poco testosterone nel sangue rischia di morire di più a partire dai 50 anni. Per qualsiasi causa. La ricerca, coordinata da Gail Laughlin dell’Università della California a San Diego (Ucsd) è cominciata negli anni Ottanta su 800 uomini: all’epoca, almeno un terzo delle persone presentava bassi livelli di testosterone e fra queste, una su tre aveva manifestato, nei diciotto anni successivi, un maggiore rischio di mortalità rispetto agli altri. Indipendentemente dal fumo, dall’attività fisica o dalla presenza di malattie come diabete o disturbi cardiovascolari.

A SAN DIEGO - Questo studio, presentato all’Endocrine Society americana da Gail Laughlin, rientra in uno dei più famosi studi longitudinali americani, condotti su lunghi periodi di tempo e su un’ampia popolazione di persone, chiamato appunto Rancho Bernardo Study, alla ricerca di fattori di rischio di malattia. Rancho Bernardo è una località della California vicina a San Diego e negli anni Settanta ospitava una delle 12 Lipids Research Clinic degli Stati Uniti, centri che servivano per valutare i livelli di colesterolo nel sangue della popolazione americana. Successivamente 11 cliniche chiusero i battenti, mentre a Rancho Bernardo Elisabeth Barrett-Connor continuò a seguire, a partire dal 1972, i 10 mila abitanti circa con l’obiettivo di mettere in relazione malattie, come diabete o disturbi cardiovascolari, con diversi fattori di rischio, come fumo, dieta o attività fisica. Grazie a questa lunga osservazione, si è ora individuata un’altra condizione di rischio, appunto i bassi livelli di testosterone per gli uomini.

RISCHI - Non è facile spiegare questa relazione, ma si è osservato che gli uomini con basso testosterone presentano più elevati livelli di alcuni indicatori di infiammazione (le cosiddette citochine infiammatorie) che stanno alla base di molte malattie. Non solo: hanno anche un giro-vita più ampio e a questo tipo di accumulo di grassi sono in genere associati fattori di rischio per malattie cardiovascolari e diabete. Ancora: chi ha bassi livelli di testosterone va incontro più facilmente alla cosiddetta sindrome metabolica, una condizione caratterizzata da tre o più fra i seguenti fattori di rischio: giro vita superiore a 101-102 centimetri, bassi livelli di colesterolo «buono» Hdl, alti livelli di trigliceridi, ipertensione e iperglicemia.

SOLUZIONI - «E’ possibile che gli stili di vita determinino i livelli di testosterone – ha commentato Elisabeth Barret-Connor, ora professore emerito alla Ucsd- e si può ipotizzare che riducendo l’obesità, i livelli di testosterone aumentino». Lo studio suggerisce anche l’idea di una terapia sostitutiva con testosterone per ridurre la mortalità nelle persone anziane con bassi livelli di ormone, ma questa soluzione è tutta da valutare anche perché la somministrazione di testosterone potrebbe, a sua volta, comportare rischi di tumore.

Gli autori dello studio sottolineano, infatti, che è stata dimostrata una correlazione fra bassi livelli di testosterone e aumentato rischio di mortalità, ma non è stato ancora dimostrato se livelli alti di testosterone diminuiscono il rischio. Soltanto studi che metteranno a confronto una terapia con testosterone e il placebo potranno dimostrare se i supplementi di testosterone allungano la vita.

Come dire che è ancora presto per correre in farmacia.

Adriana Bazzi
06 giugno 2007
 
da corriere.it
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #4 inserito:: Giugno 06, 2007, 04:29:48 pm »

Non basterebbe agire secondo «scienza e coscienza»

Il medico ha «obbligo di risultato»

Secondo la Suprema Corte la prestazione medica dovrebbe sempre migliorare obiettivamente la situazione del paziente


Malasanità, contenzioso medici-pazienti, sono termini ai quali abbiamo ormai fatto l’abitudine. Secondo quella che si potrebbe definire un’autodenuncia all’inizio di quest’anno gli oncologi ospedalieri dichiaravano che in Italia le persone danneggiate da errori avvenute in sala operatoria erano 320 mila l’anno. E il Tribunale per i diritti del malato affermava di aver ricevuto alla sua sede milanese un 12 % in più di denunce rispetto all’anno precedente. Per il Cineas, consorzio universitario specializzato nella prevenzione del rischio sanitario, quattro ricoverati su 100 subiscono danni durante l’ospedalizzazione. In questa situazione arriva una sentenza della Corte di Cassazione che cambia non di poco le carte in tavola. A favore dei pazienti. Secondo la Suprema Corte la prestazione medica comporta non solo un «obbligo di mezzi» ma anche un «obbligo di risultato». Il che significa che il medico non è tenuto solo a operare secondo scienza e coscienza, servendosi di tutti i mezzi che la moderna scienza gli mette oggi a disposizione (insomma a fare del suo meglio); ma anche a migliorare obiettivamente la situazione del paziente. Se il risultato ottenuto non è quello che era lecito attendersi dato lo sviluppo della conoscenze e dei mezzi scientifici disponibili, tocca al dottore provare che si sono verificati eventi del tutto imprevedibili e irrisolvibili.

IL CASO - La vicenda dalla quale è nata la sentenza è relativa a un intervento di settorinoplastica su una giovane donna che intendeva eliminare un grave disturbo funzionale di respirazione. L’intervento non aveva risolta alcunché e la paziente si era dovuta sottoporre a un secondo intervento per fortuna risolutivo. La causa civile intentata dalla donna contro il medico che l’aveva operata senza successo si era conclusa in modo sfavorevole per la paziente e successivamente la Corte d’Appello aveva confermato la precedente decisione.

IL PARERE DELLA CASSAZIONE - La Cassazione ha ribalto entrambe le decisioni precedenti. E ha puntualizzato che se l’attività medica non consegue il risultato «normalmente ottenibile» tocca al medico provare che si è verificato un evento imprevedibile e non superabile adottando un’adeguata diligenza (sentenza numero 8826 del 13 aprile 07 Cassazione Terza Civile). La Cassazione prosegue poi affermando che in caso di inesatta realizzazione dell’intervento non solo il medico ma anche la struttura in cui opera sono tenuti a provare che il risultato «anomalo o anormale» dell’intervento è dipeso ad un fatto non imputabile ad alcuno, insomma, di cui nessuno ha colpa. Ma che cosa si intende per risultato «anomalo»? Qualsiasi esito che causi: una nuova malattia; aggravi quella già presente; ma anche , ed è questa la novità: non produca alcun miglioramento. Insomma, il medico, è tenuto a «migliorare» la situazione del malato e non solo a fare del suo meglio. E se il medico è uno specialista, aggiunge la Cassazione, la sua attività andrà giudicata con maggior rigore perché da una specialista è lecito attendersi una condotta scientifica particolarmente qualificata tale da rendere il risultato positivo una «conseguenza statisticamente fisiologica» di una prestazione professionale diligente. Come dire che rivolgendosi a uno specialista della patologia che si deve curare i giudici riterranno del tutto «normale» che l’intervento o la terapia abbiano successo. In caso contrario toccherà al medico discolparsi, dimostrando di non avere sbagliato e non al paziente (e al suo avvocato) dimostrare che c’è stato un errore.

Alfondo Marra, magistrato

Daniela Natali
06 giugno 2007

da corriere.it
 
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #5 inserito:: Giugno 07, 2007, 10:22:11 am »

TECNOLOGIA & SCIENZA

Pubblicati su Nature i lavori di scienziati del Mit che riproducono gli studi sui topi di Yamanaka

La rivoluzione delle staminali le cellule adulte tornano embrionali

Rigenerano tutti i tessuti. "Così la clonazione senza problemi etici"

di DANIELE DIENA


 ROMA - Ci provava da un anno e alla fine il giapponese che si era messo in testa di spostare indietro l'orologio biologico, trasformando le cellule adulte del topo in qualcosa di molto simile alle embrionali, ci è riuscito. Da qualche mese in un laboratorio dell'università di Kyoto godono ottima salute alcuni topolini transgenici, nati da cellule del tessuto connettivo "riprogrammate" geneticamente in modo da trasformarsi in staminali pluripotenti, quelle particolari cellule in grado di generare tutti i tessuti dell'organismo cui appartengono. Il professor Shinya Yamanaka, che già nel 2006 aveva fatto parlare di sé per i suoi primi tentativi "in vitro" ed ora ha pubblicato l'attesa dimostrazione "in vivo" su "Cell Stem Cell", ha anche fatto centro due volte: "Nature" ha pubblicato altri due lavori di scienziati del Mit di Boston e di Harvard che hanno riprodotto il medesimo esperimento.

La notizia ha suscitato forte interesse nella comunità scientifica internazionale anche per la nuova strada che, nel caso funzionasse sull'uomo, aprirebbe per le applicazioni mediche delle staminali, in alternativa alle tanto contrastate embrionali: "Con questa tecnica si fa clonazione senza usare embrioni. Mi spiace di non averlo ottenuto io questo risultato" ha commentato Angelo Vescovi, direttore dell'Istituto di Ricerca per le Cellule Staminali, al San Raffaele di Milano.

L'anno scorso Yamanaka aveva riscosso l'attenzione e lo scetticismo dei maggiori scienziati del mondo quando annunciò d'avere trasformato in laboratorio delle cellule adulte di topo in cellule "pluripotenti".

Come spesso succede però, il passaggio dall'esperienza "in vivo" a quella "in vitro" non funzionò e da quelle cellule non nacque alcun topo. Lo scienziato nipponico non si dà per vinto, anche perché la scommessa - con tutte le difficoltà di ordine etico suscitate dall'uso delle staminali embrionali - ha una portata enorme, e s'ingegna per migliorare la tecnica coinvolgendo due gruppi di colleghi americani. E alla fine la strada giusta è imboccata: gli scienziati ricorrono a dei vettori virali per trasferire nelle cellule adulte del connettivo del topo quattro geni (Oct4, Sox2, c-Myc e Klf4) aventi una funzione chiave nell'attività del genoma dell'embrione. Poi isolano dalla popolazione cellulare di partenza le cellule staminali così ottenute e le sottopongono ad una serie di test, finché hanno la certezza che sono state riprogrammate geneticamente in modo da essere identiche alle embrionali.

A questo punto non resta che la prova regina: se sono davvero come le staminali embrionali, le nuove cellule devono poter dare vita a topolini. E così è: iniettando le cellule in embrioni ai primissimi stadi di sviluppo, non solo questi hanno dato vita a topolini, ma le cellule riprogrammate hanno partecipato alla formazione di tutti i tessuti del corpo dei neonati topi.

Perfino le generazioni successive di topi avevano ancora cellule originate da quelle riprogrammate, quindi il loro "seme" era presente anche nelle cellule germinali di ovociti e spermatozoi. "Un lavoro splendido che cambia radicalmente il modo di far ricerca sulle staminali - ha commentato Angelo Vescovi - se si riuscisse anche nell'uomo a trasformare le cellule adulte in pluripotenti, si risolverebbero sia i problemi etici sulla ricerca sulle staminali embrionali, sia quelli tecnici, in quanto si avrebbe una facile disponibilità di cellule personalizzate per curare ogni singolo paziente. E questi scienziati meriterebbero il Nobel". Più cauto Maurilio Sampaolesi, stretto collaboratore di Vescovi: "Se quei geni sono in grado di creare staminali pluripotenti, che chiaramente continuano ad autorinnovarsi, perché non hanno formato neoplasie?"


(7 giugno 2007) 

da repubblica.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!