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Autore Discussione: Isabella Bossi FEDRIGOTTI -  (Letto 3895 volte)
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« inserito:: Giugno 29, 2009, 06:04:29 pm »

Incontri Parla l’autore di «Gomorra», mentre esce il nuovo libro.

Voglio sposarmi: sarà la mia vittoria e la mia vendetta

Saviano: ho sentito l’odio di vecchi amici

Mi hanno salvato gli scrittori stranieri

di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI


Da piccolo — da adolescente, cioè — il suo maestro di scrittura era Tommaso Landolfi, per la semplice ragione che lo scrit­tore era casertano e spesso si firmava così. Quasi come lui che frequentava il liceo di Caserta, copiando, per i suoi primi rac­conti di quindicenne, lo stile, appunto, di Lan­dolfi. Già a quel tempo, Roberto Saviano, del qua­le è uscito in questi giorni il secondo libro, La bellezza e l’inferno (Mondadori, pp. 252, e 17,50) che raccoglie gli articoli pubblicati negli ultimi cinque anni su diversi giornali italiani e stranieri, più due testi inediti, aveva ferma­mente deciso di diventare scrittore, se anche la mamma, insegnante di chimica, lo prende­va in giro per questo suo sogno. Sedicenne, osò mandare uno suo «pezzo» a Vincenzo Con­solo, il quale non soltanto gli rispose ma volle anche incontrarlo, e qualche anno dopo «Nuo­vi argomenti» pubblicava i suoi primi raccon­ti.
 
Da grande i suoi maestri sono diventati per esempio Primo Levi e poi Carlo Levi, ma anche il polacco-partenopeo Gustav Herling oppure Curzio Malaparte o i dissidenti sovietici, e tutti quanti per la stessa ragione: hanno scritto sag­gi romanzati — un po’ come ha fatto lui con Gomorra —, il genere che preferisce perché racconta la verità con parole di fiaba. Qualche volta Roberto Saviano, autore mol­to invidiato per il numero sterminato di copie vendute, per la stima e la solidarietà testimo­niatagli dai più famosi scrittori del mondo e per essere stato invitato a parlare all’Accade­mia del Nobel di Stoccolma, qualche volta emerge dall’ombra obbligatoria alla quale è co­stretto e, dopo aver superato controlli e con­trollori, lo si può incontrare. Tre sono le cose che colpiscono: il suo pallore in una stagione in cui da Milano in giù sono quasi tutti già un po’ abbronzati, il che si spiega con il fatto che al mare, al lago o anche solo al parco lui non ci può andare, l’aspetto sorridente, niente affatto melanconico come pare in foto, e l’irruente fo­ga — comprensibile nel suo sostanziale isola­mento — nel parlare, spiegare, raccontare. «Non è soltanto invidia — precisa — io ho sentito l’odio, purtroppo, da parte di scrittori e giornalisti, anche amici di un tempo. 'Hai fatt ’e ’suord? Vai giranno ’e televisioni?', mi han­no detto e mandato a dire trasformandomi in un personaggio ripugnante.

Un po’ come quan­do i boss nei loro memoriali di denuncia con scherno supremo scrivono di me 'noto roman­ziere', cioè 'noto contaballe', magari anche un po’ omosessuale, offesa massima per i ca­morristi, o come quando il cartolaio di Casal di Principe mi sfotte divertendosi a sistemare Gomorra nel settore fiabe, accanto a Biancane­ve e Cappuccetto Rosso...». «Per difendermi — incalza — sono diventa­to cattivo, perché non è vero che le difficoltà migliorano l’uomo: lo peggiorano, invece, quasi sempre, e nella mia segregazione io so­no peggiorato. Mi ritrovo con una grande vo­glia di vendetta contro chi mi costringe a que­sta vita e talmente nervoso che mi rovino le mani dando cazzotti contro il muro. E chissà come sarei ridotto se non mi potessi sfogare allenandomi con uno degli amici che mi pro­teggono, pugile un tempo, prima di entrare nell’Arma. Nervoso per me ma anche per i miei familiari, in quanto porto la responsabili­tà del loro sradicamento, della loro forzata emigrazione». «Certo che ho guadagnato dei soldi — conti­nua inarrestabile — ma se così non fosse avrei già dovuto smettere di scrivere le cose che scri­vo perché non avrei i mezzi per difendermi dal­le querele che mi fioccano addosso da parte dei malavitosi, Raffaele Cutolo in testa, tutte vinte peraltro, per fortuna. Quanto alla stima e all’amicizia dei grandi scrittori stranieri, proba­bilmente sono vivo grazie a loro perché se al­l’estero non avessero seguito con passione e partecipazione il mio caso, temo proprio che non avrei avuto attenzione e protezione dal mio Paese. Nonostante il presidente Napolita­no — e gliene sono profondamente grato — abbia sempre mostrato sollecitudine nei miei confronti. E in tv ci vado quando arrivano nuo­ve minacce, perché la visibilità, la notorietà so­no una forma di tutela».

Minacce che, in effetti, sono arrivate anche di recente, sotto forma di una lunga memoria dei boss Bidognetti e Iovine, letta in tribunale dal loro avvocato, nella quale si accusa Savia­no, il pm Raffaele Cantone e la giornalista Ro­saria Capacchione (nonché lo stesso giudice Federico Cafiero de Raho) di aver influenzato con i loro scrit­ti «prezzolati» l’andamento del processo a loro carico e perciò ritenuti responsabili di una eventuale condanna. Minacce per le quali la Procura di Napoli ha deciso pochi giorni fa di mettere sotto indagine anche l’avvocato in questione, Miche­le Santonastaso. Riflettendo sull’incredibile destino toccatogli, ci si chiede se c’è stata per Saviano la possi­bilità di scegliere, un momento nel quale decidere se prendere una strada normale oppure una difficile, un bivio davanti al qua­le ha percepito a che cosa pote­va andare incontro. La sua rispo­sta è incerta e fa pensare a Man­zoni: come don Abbondio il co­raggio non se lo poteva dare, co­sì, forse, lui non si poteva dare la fifa, per cui non è mai stata questione di imboccare una via oppure un’altra. E poi, c’era la sua ambizione...

«Sì, un’ambizione da pecca­to mortale, la mia. Con Gomor­ra non pretendevo tanto di ave­re successo quanto di cambiare le cose, svegliare la gente, co­stringerla a vedere l’orrida realtà neppure tan­to nascosta». Poi però riconosce che forse un momento per decidere c’era stato, all’inizio, quando, alle prime notizie sulle minacce della camorra, il governo di Stoccolma gli aveva of­ferto di trasferirsi in Svezia. «Non sono anda­to perché cosa ci fa lassù uno abituato a vivere nei quartieri spagnoli di Napoli, in vicolo San­t’Anna a Palazzo, per la precisione, strada di cui ho grande nostalgia, dove ha vissuto Eleo­nora Fonseca Pimentel ed è nato Domenico Rea? Ma devo ammettere che non sono anda­to anche per quella mia ambizione da peccato mortale, e cioè la voglia di non dargliela vinta ai miei nemici». Ascoltandolo parlare, si ha l’impressione che, se anche, come sostiene, le difficoltà ren­dono peggiori, per qualche verso possano tut­tavia averlo reso migliore: per la frequentazio­ne assidua della scrittura, per esempio, per il confronto privilegiato con i grandi autori vi­venti, per il consumo intenso — favorito dal­l’isolamento — di letteratura.

«È vero — rico­nosce — mi è stato tolto un mondo ma in cam­bio ne ho trovato un altro. E la scrittura è stata ed è medicina, piacere, casa, riconferma che esisto, ma anche straordinaria — forse unica per me — possibilità d’incontro, e non penso solo a libri e articoli ma anche a Facebook, che è la mia piazza, il mio bar, il mio ristorante, il mio giardino pubblico e la mia passeggiata a mare...». Da brillante studente di Filosofia qual è sta­to (laurea in tre anni prima del­l’avvento delle facoltà triennali) forse anche grazie alla prigione, Saviano ora ha allargato i suoi interessi alla storia, non solo quella criminale, alla letteratu­ra, alla giurisprudenza, al tea­tro, al cinema, al linguaggio. E poiché a farlo leggere, cercare, studiare e ristudiare è stata in primo luogo la malavita, è lì che non può fare a meno di ritorna­re con regolarità: «Proprio sta­mattina — dice — riflettevo su come sono paradossalmente at­traenti i nomi dei luoghi di cri­minalità più atroce: non è forse bello e leggiadro chiamarsi Ca­sal di Principe, dove regna la ca­morra? Oppure Filadelfia, terra di feroce ’ndrangheta? Oppure Corleone, fino a non molto tem­po fa importante crocevia di ma­fia? E imperdonabile è che nes­suno di queste tre cittadine fos­se un borgo povero, ma al con­trario piuttosto prospero e fio­rente ». Al suo futuro Saviano osa pensare? Come se lo immagina? Cosa si aspetta? «Non penso praticamente ad altro. Sto lavo­rando a un racconto sulle paro­le pericolose, farò un monologo a teatro, ho in mente un nuovo libro e mi piacerebbe scrivere delle sceneggiature per cinema e tv. Ma anco­ra più che al mio futuro professionale penso a quello sentimentale. Voglio farmi una fami­glia e ci riuscirò nonostante le difficoltà. Le co­se che fanno gli innamorati, andare a passeg­gio, a prendere un aperitivo, a visitare un mu­seo, a cena fuori, mi sono tutte quante proibi­te, ma ci riuscirò lo stesso e sarà la mia vera vittoria. Salman Rushdie mi ha messo in guar­dia dicendomi che dovevo trovare il coraggio di uscire dalla mia prigione altrimenti il pub­blico ci si affezionerà troppo e vorrà continua­re a volermi rinchiuso».

26 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 09, 2010, 10:47:04 pm »

Un passo avanti (e un dubbio)

Il provvedimento riguardante la formazione delle classi, varato ieri dal ministro della Pubblica Istruzione, non è soltanto ispirato a un condivisibile buon senso, ma è anche ormai urgentissimo affinché istruzione e integrazione possano andare, se non proprio di pari passo, almeno di buon accordo. Da settembre, dunque, per evitare che si moltiplichino i casi di classi-ghetto dalle quali gli scolari italiani sono quasi del tutto spariti, il numero di stranieri per ogni sezione non potrà superare il 30 per cento degli alunni. Se questo tetto viene oltrepassato, e succede spesso e in molte scuole, ne soffre non solo la didattica, ma anche l' integrazione dei piccoli stranieri. Ovvio, infatti, che in una classe nella quale raggiungono o superano il 50 per cento, tendono a giocare, a fraternizzare con i bambini che vedono in qualche modo simili a loro, a maggior ragione se in soprannumero; e la mescolanza vera, proficua, indispensabile per un futuro di convivenza armoniosa resta un miraggio. Quel che è altrettanto grave e carico di conseguenze è che, contemporaneamente, ne risente il livello di istruzione dell'intera classe: per portare il gran numero di alunni stranieri in pari con quelli italiani si rallentano i tempi della didattica.

Certo non tutto si risolve con un provvedimento, perché se il lavoro di integrazione non continua anche fuori della scuola, con le famiglie immigrate isolate nei palazzoni popolari dai quali gli inquilini italiani, appena possono, tentano di andarsene, la battaglia è comunque persa. Ma il provvedimento—e anche questo è un dettaglio non da poco —non specifica neppure il modo in cui dovrebbe venire individuata la percentuale di alunni cosiddetti stranieri, considerando che, almeno a livello di scuole elementari, la quasi maggioranza di loro è ormai nata in Italia, a volte anche con cittadinanza italiana, senza, però, che per questo necessariamente parlino la nostra lingua come i loro coetanei con genitori e nonni italiani. Il primo passo, insomma, è stato fatto e la teoria è stilata; ora si dovrà fare il secondo e più difficile, mettere cioè in pratica il decreto. E sarà lavoro—impervio—di direttori e presidi.

C'è però una cosa ancora da dire e riguarda un dubbio, forse con qualche fondamento, forse soltanto malizioso. Sarà stata una coincidenza che il ministro Gelmini l'abbia licenziato proprio l'indomani della rivolta degli immigrati di Rosarno? O non sarà stata invece una scelta voluta per ingraziarsi l'estesissimo e trasversale partito di chi gli stranieri li vorrebbe tutti a casa loro, salvo impiegare, pagandoli il meno possibile, quelli che servono per pulire le case, curare gli anziani, badare ai bambini, lavare i piatti nei ristoranti e raccogliere pomodori nei campi? Speriamo di no.

Isabella Bossi Fedrigotti

09 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 10, 2010, 09:16:49 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:17:18 am »

Scuola

Pasqua e voto: la vacanza infinita


 di Isabella Bossi Fedrigotti

La Pasqua, il voto e una lunga vacanza per le scuole: da dieci a sedici giorni. Troppi, secondo molti genitori. Ma prima delle inevitabili proteste arriva da Milano una piccola grande notizia: due scuole elementari resteranno aperte durante il ponte. Accoglieranno i bambini, con attività varie, dalla mattina fino a metà pomeriggio.

In questo modo si eviterà che restino soli a casa o, peggio, in strada mentre i genitori sono al lavoro. La scuola, dunque, come baby sitter, secondo una concezione che presidi e insegnanti hanno da sempre per lo più rifiutato, considerandola, probabilmente, dequalificante per la loro professionalità?

La si può certo chiamare così, in modo un po’ dispregiativo, ma se si considera che aprendo fuori orario le porte agli alunni l’istituzione scolastica risponde a un bisogno sentito e urgente della società, di dispregiativo non resta più nulla. La civiltà contadina è finita da decenni e da decenni le donne lavorano fuori casa, perciò le vacanze lunghe, sia quelle estive che quelle in mezzo all’anno, sono diventate un problema non soltanto per i genitori di bambini piccoli ma anche per quelli di ragazzi adolescenti. Non ci sono più nonni e zii che stanno in campagna pronti ad accogliere nipoti e nipotini nella cascina e non ci sono neppure più le colonie dove i figli degli operai in passato trascorrevano le vacanze. E mentre la maggioranza dei Paesi europei ha provveduto da tempo, con l’apertura pomeridiana degli istituti e con la riduzione drastica della pausa estiva, a evitare che scolari e studenti restino abbandonati dentro o fuori casa, in Italia, salvo eccezioni che riguardando quasi soltanto gli alunni più piccoli, nulla si è fatto.

Davanti alla vacanza infinita creata dalla sommatoria di elezioni e Pasqua, assume un merito speciale l’iniziativa dei due presidi milanesi che, facendo salti mortali con i miseri budget a disposizione, hanno ritenuto necessario tenere conto dei bisogni — reali e attuali— delle famiglie. Segno che perfino in tempi di drastici tagli, dove davvero si vuole, un’iniziativa intelligente, e costruttiva è comunque possibile. Nella speranza che faccia scuola anche in altri quartieri e in altre città.

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 28, 2010, 06:14:50 pm »

IL caso

Sorelle, ma a distanza di 11 anni

Nate tutte e tre grazie all'inseminazione artificiale, le prime due nel 1999, la terza nel 2010

C'è chi rimarrà sbigottito, sbalordito, senza parole di fronte a un evento come questo, mai accaduto prima al mondo, una terza gemella venuta alla luce undici anni dopo le prime due, e somigliantissima a loro, quando erano in fasce. Nate tutte e tre naturalmente grazie all'inseminazione artificiale, le prime due nel 1999, la terza quando i genitori - una coppia inglese, Adrian e Lisa Sheperd - hanno avuto desiderio di un altro figlio e sono ricorsi a uno dei dodici embrioni «di riserva» che erano stati congelati undici anni fa.

C'è poi chi si strapperà le vesti, dirà che il mondo va alla rovescia, che l'ardire degli uomini e delle donne ha passato i limiti, che egoismo e senso di onnipotenza violano le più profonde regole della natura, che i figli non sono merce che si ordina su catalogo fissando la data di consegna quando fa più comodo, che chi presiede a queste strabilianti macchinazioni altri non è se non il dottor Frankenstein in persona.
E poi ci sarà chi dice che un figlio è un figlio, che sia venuto al mondo alla vecchia maniera tradizionale, che sia arrivato - per adozione - da un Paese lontano o che, invece, sia sbucato dal gelo tecnologico di una provetta. Né saprà dire, quest'ultimo, quali siano i genitori più egoisti e quali, invece, i meno: quelli che, pur di avere un bambino, si sottopongono a interminabili ostinate cure, quelli che affrontano attese di anni prima di essere giudicati idonei ad adottarne uno oppure quelli ai quali i figli vengono così, spontanei come regali, al primo tentativo, magari senza neppure averli particolarmente desiderati?

Si possono ben comprendere tutti quanti, gli sbalorditi, gli indignati e i compiaciuti: ognuno ha le sue ragioni, forse impossibile trovare un giudizio comune. E se per un verso viene da condividere con tutto il cuore il pensiero positivo di chi dice che un figlio è un figlio, per l'altro è difficile che non baleni nella mente l'immagine di quegli undici potenziali fratellini delle tre gemelle destinati a rimanere nel ghiaccio: soltanto grumi di cellule o già infinitesimale, microscopica umanità?

Isabella Bossi Fedrigotti

28 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_28/bossi-fedrigotti-sorelle-a-distanza_172ff018-125d-11e0-80e3-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 09, 2011, 04:51:28 pm »


DUE ANNI FA IL CASO DI ELUANA

Un dialogo per la vita

Due anni fa moriva - o veniva lasciata morire - Eluana Englaro e l'anniversario, invece che un giorno del ricordo di un crudele dramma, uno di quelli che domani, dopodomani o stasera possono capitare in tutte le famiglie, si avvia a diventare motivo di battaglia tra due fazioni opposte, non solo ideologizzate ma anche politicizzate, ferme su posizioni che paiono inconciliabili: battaglia furibonda intorno a una legge che regoli il fine vita. Eppure, se non altro in nome della pietas - per il malato, per chi lo cura (nel caso di Eluana, le suore Misericordine che l'hanno accudita meritoriamente per quindici anni) e per i parenti annichiliti dal dolore - dovrebbe essere possibile trovare un piccolo pezzo di terreno comune per un confronto distante da certi toni gridati che vorrebbero trasformarlo in una contesa tra «partito della vita» e «partito della morte» secondo quanto si è spesso sentito risuonare negli acri rinfacci dei politici e dei loro rispettivi sostenitori.

Sul non accanimento terapeutico, per esempio, in barba alle nuovissime cure in grado di prolungare effettivamente la vita - ma quale vita? - si può davvero essere d'accordo tutti, pazienti, parenti e medici, credenti e non credenti. Come ricorda Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, perfino Giovanni Paolo II, spossato dalla malattia, rifiutò ulteriori cure, chiedendo di non dover tornare ancora una volta in ospedale, pur essendo stato autore di un'enciclica - la Humanae vitae - nella quale si era battuto proprio per la difesa della vita. E anche sul testamento biologico le posizioni, se de-ideologizzate dal buon senso e, appunto, dalla pietas, potrebbero avvicinarsi.

Per contro, un non accanimento terapeutico spinto all'estremo, che volontariamente privi di acqua e di cibo il malato terminale, più che «morte dolce» continua a sembrare morte dolorosa che il poveretto, già tormentato da atroce infermità, non si merita. Ma pretendere di legiferare seriamente intorno a questa materia, fissando regole ed eccezioni - nonostante le ampie norme che tutelano la privacy - su quel che si può e non si può fare, sembra un'impresa difficilissima, forse senza senso, per il semplice fatto che i modi di morire non sono uno, due, dieci, bensì infiniti. Ciascuno muore alla maniera sua, insomma, vanificando gli inquadramenti previsti da una legge.

Inevitabile, perciò, a volte, rimpiangere la maniera antica di morire, quella del tempo dei medici di famiglia che curavano in casa i nostri genitori e nonni, e che, quando questi non volevano più saperne di nutrirsi, annunciavano semplicemente che la benzina era finita, né si sognavano di trasferirli in ospedale per attaccarli ai tubi. Ma il progresso della scienza, una morte così, purtroppo, ce l'ha rubata.
In conclusione c'è, tuttavia, da dire anche che l'intero dibattito è comunque un «dibattito di lusso», nel senso che riguarda solo chi se lo può permettere. Altro che «morte dolce», infatti, per un numero infinito di anziani poveri ma non soltanto, che se ne vanno in solitudine, dimenticati negli ospizi e negli ospedali, a volte anche per trascuratezza o per malasanità alla quale, nel caso loro, si tende a rassegnarsi molto più facilmente. Per non parlare dei tanti vecchi che d'estate, nelle città svuotate dalle ferie, muoiono nel silenzio immobile delle loro case, e passano settimane o mesi prima che qualcuno si accorga che non ci sono più.

Isabella Bossi Fedrigotti

09 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_09
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