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Autore Discussione: ANTONIO MACALUSO -  (Letto 5744 volte)
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« inserito:: Maggio 21, 2009, 10:11:19 am »

La tv Pubblica: il copione che si ripete

Le ragioni di Pannella

di Antonio Macaluso

 
Marco Pannella è in sciopero della fame e della sete dalla sera del 15 maggio. Solo tre italiani su cento, sostiene, sanno dell’esistenza della sua lista. La Rai, accusa, non gli concede gli spazi a cui avrebbe diritto. E, ancora una volta, il vecchio leone radicale mette in gioco la sua vita in una sfida che va ben oltre l’ambito recinto del palazzo di viale Mazzini.

Dove proprio ieri, al settimo piano, il consiglio di ammini­strazione ha proceduto ad una prima sventagliata di nomine dell’era terza berlusconiana. C’è voluto un anno per arri­varci, dopo le elezioni che han­no riportato il centrodestra a pa­lazzo Chigi con una maggioran­za ben più ampia di quella con la quale il governo Prodi non si era comunque risparmiato dal metter mano alla struttura di vertice della televisione pubbli­ca.

Uno spoils system in salsa partitocratica che ripropone ogni volta il copione di una spartizione del potere secondo schemi a geometria più o meno fissa. E ogni volta si dice, si scri­ve, si ripete, che sarà l’ultima, che il sistema va cambiato. Ep­poi, però, si cambia nei criteri ­è successo con l’approvazione della legge Gasparri - ma non nella sostanza. Va detto con chiarezza che le critiche non riguardano lo spes­sore dei singoli (che come in qualsiasi contesto di nomine va­ria di caso in caso) ma un meto­do che rischia di lasciare anche sull’operato del miglior profes­sionista l’ombra della partigia­neria.

Le circostanze che il pre­sidente del Consiglio sia anche il proprietario di Mediaset, che più di una volta di nomine Rai si sia parlato in riunioni tenute nella sua residenza romana, a Palazzo Grazioli e che, infine, si sia ad un passo da un’importan­te tornata elettorale, sollevano dubbi legittimi e fanno gridare l’opposizione. La quale, però de­ve avere, nella migliore delle ipotesi, una memoria ben corta visto che sembra dimenticare quanta parte ha avuto - sempre - nelle logiche spartitorie. Tal­chè, tuttora, mentre con il me­gafono attacca la maggioranza e ordina ai suoi consiglieri di amministrazione di abbandona­re la riunione che sta per proce­dere alle nomine, sottovoce liti­ga al suo interno per le scelte che riguardano la terza rete, quella che la lottizzazione stori­camente gli assegna.

Né si può dimenticare lo spettacolo, che si è trascinato per mesi, di un’opposizione che non è stata in grado di com­pattarsi in maniera credibile dietro un autorevole candidato per la presidenza della Commis­sione di Vigilanza sulla Rai e di una maggioranza che ha avuto buon gioco nel bocciare uno dietro l’altro i tanti nomi propo­sti più o meno ufficialmente. Fi­no a quello di Sergio Zavoli, un grande della storia del giornali­smo, ora senatore Pd, classe 1923. Così alla fine, mentre la figu­ra incombente di Pannella tor­na, con i suoi consueti eccessi, a far da bandiera alla lotta con­tro la partitocrazia, vien da ri­flettere se per caso non sia arri­vato il momento di ammettere che ha ragione. Estirpando alla radice questo male che mina e discredita la nostra democra­zia.


21 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:40:39 pm »

Gli imprenditori

Quel sentimento condiviso


Emma Marcegaglia ci ha messo tutta la sua passione e il messaggio alla platea dei tremila imprenditori di Treviso si è scaricato come un pugno nello stomaco vuoto della politica: ora che questa «bruttissima» campagna elettorale è finita, ha scandito la presidente di Confindustria, deve finire anche la «ricreazione», bisogna tornare ad occuparsi dei problemi.

«A noi — ha accusato — di questa campagna elettorale basata sulle veline, sulle foto, sugli amanti delle mogli, non ce ne frega niente, anzi ci fa un po’ schifo».

Un po’ schifo.

E una valanga di applausi che, diciamolo con franchezza, idealmente varcano la soglia di quella sala e si propagano in tante altre sale, in tante strade, in tante case, nella testa di tanti italiani.

Con il pragmatismo di donna e imprenditrice, Emma Marcegaglia ha forse interpretato quello che molta gente ha dentro e che, in alcuni casi, potrebbe tradursi nella decisione — grave e non auspicabile — di non andare a votare. Resterà comunque agli atti che, nel bel mezzo di una crisi economica durissima, con un’Europa che ha dentro e davanti a sé questioni vitali ma che comunque sta facendo con onore la sua parte, tutta la campagna elettorale del nostro Paese si è giocata su temi più pruriginosi che politici.

E non è andata meglio sul fronte della campagna per le amministrative, dove hanno brillato più che altro le diatribe interne agli schieramenti, vedi Bologna e Firenze. Invece di confrontarci con un maturo bipartitismo programmatico, siamo stati chiamati a partecipare ad una sorta di referendum pro o contro Silvio Berlusconi (quello privato più di quello istituzionale), pro o contro il Partito Democratico di Dario Franceschini.

Di Europa, neanche l’ombra.

Alzi la mano chi è andato o andrà oggi a votare sapendo cosa propone per l’Europa il partito per il quale voterà. Si tratterà più di un richiamo istintivo della foresta che di un voto consapevole per spedire a Strasburgo una squadra in grado di rappresentarci al meglio. Il che in una logica democratica va comunque benissimo a patto che — come chiede la Marcegaglia, come più volte ha auspicato il capo dello Stato Giorgio Napolitano e come sicuramente vuole la maggioranza del Paese — chiuso questo capitolo, si abbassino i toni e si torni a parlar di problemi e di riforme.

Antonio Macaluso

07 giugno 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 30, 2012, 05:30:09 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 30, 2012, 05:17:06 pm »

LA RIFLESSIONE

I sospetti in Procura invadono la politica

E' evidente che qui non si tratta del semplice confronto di visioni diverse sui temi della giustizia e della lotta alla mafia

Sosteneva Piero Calamandrei che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra. E quando sono i magistrati a varcare la soglia della politica, che succede? Cosa dovrebbe succedere? O non succedere?

Partiamo dall'ultima domanda: dovrebbe non accadere che le tensioni interne alla magistratura, le inimicizie personali, le polemiche o anche solo i protagonismi di chi ha per anni indossato una toga si trasferiscano - magari amplificati - in sede politica. Francamente, con tutti i guai che abbiamo, non se ne sente il bisogno.

Cosa dovrebbe succedere, invece? Che, non vivendo in una società divisa in compartimenti stagni, flussi da un potere all'altro, da una professione all'altra, servissero a dare reali contributi di idee, esperienze, innovazione. Nessuna fantasia al potere, solo la logica del buon padre di famiglia.

Cosa succede in realtà? Che, con una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento ormai ai nastri di partenza, si avvia la consueta transumanza di magistrati verso la politica in un clima già rovente. Venerdì il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha annunciato di aver firmato la lettera di dimissioni dai ranghi della magistratura per candidarsi nelle file del Pd. In caso di successo elettorale del partito di Bersani, potrebbe diventare ministro della Giustizia. Ieri, un altro magistrato di peso, Antonio Ingroia, anche lui da molti anni in lotta contro la mafia, ha ufficializzato la discesa in politica con il movimento «Rivoluzione civile», fortemente voluto da un altro ex magistrato, oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. A sua volta ex esponente dell'Idv di Antonio Di Pietro, pm simbolo di Mani Pulite.

Le prime parole di Ingroia da candidato parlamentare sono state un distillato di veleno su Grasso, «procuratore antimafia perché scelto da Berlusconi grazie ad una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Il quale Caselli, su «Il Fatto», assestava ieri un diretto esattamente su quell'episodio. In favore di Grasso si sono espressi, invece, altri due ex magistrati importanti, da molti anni impegnati nel Pd, Anna Finocchiaro e Luciano Violante. «Ho letto le dichiarazioni di Violante che apprezza Grasso - ha commentato sempre ieri Ingroia - e ho letto le dichiarazioni di Dell'Utri che apprezza Grasso. Una convergenza che dovrebbe far riflettere».

Attenzione, se questo è l'antipasto di ciò che ci aspetta nelle prossime settimane, c'è da stare poco allegri. Perché, senza ipocrisie, è evidente che qui non si tratta del semplice confronto di visioni diverse sui temi della giustizia e della lotta alla mafia. Basta andarsi a rivedere qualche ritaglio di giornale degli ultimi anni per capire che sono le questioni personali a far premio sui programmi e le idee. Se è vero - e lo è per unanime ammissione - che uno dei grandi malati di questo Paese è la Giustizia, allora chiediamo a questi ex magistrati di rispettare la professione che hanno svolto fino a ieri e di non usare la politica per una lotta nel fango. Se davvero hanno ritenuto più importante lavorare in Parlamento piuttosto che dare la caccia ai mafiosi, lo dimostrino con i fatti. Di pessimi politici, ne abbiamo subiti anche troppi.

Antonio Macaluso

30 dicembre 2012 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_30/sospetti-in-procura-invadono-politica-macaluso_bab3c190-5254-11e2-90d5-1b539b66307f.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 24, 2013, 03:49:06 pm »

Berlusconi, il giorno del silenzio e l'incontenibile voglia di strafare


La partenza sì, era stata tosta, negli accenti e nelle parole. Poi aveva provato ad addolcire i toni, a giocare sulla simpatia e sugli annunci choc. Un impareggiabile one man show che in poche settimane è riuscito nell'impresa quasi impossibile di ridare un volto a un centrodestra senza un capo né un'anima. Ha giocato con il suo solito metodo - non conoscendone praticamente altri - ma dimostrando di sapere reagire con il sorriso a un clima che per lui non è più lo stesso.

Ancora nella conferenza stampa finale, venerdì sera, si è detto certo della vittoria, sicuro che la sua coalizione avrebbe ottenuto addirittura il 55 per cento dei consensi. E si vantava della sua verve e della sua invidiabile forma fisica. Sarebbe bastato: che cos'altro avrebbe potuto dire di più dopo settimane nelle quali non ha bucato un solo studio televisivo, non ha mancato un'occasione per ripetere le sue promesse e i suoi attacchi?

Ha fatto molto per il suo partito, per la sua coalizione. Ma, come spesso gli è accaduto nella vita, forse troppo spesso per un uomo di Stato, ha voluto strafare. Nella giornata del silenzio, quella nella quale i leader dovrebbero starsene serenamente a casa, Berlusconi è andato a Milanello e ha lanciato uno degli attacchi più violenti della campagna elettorale contro i nemici di sempre: i magistrati, ha detto, «sono una mafia più pericolosa di quella siciliana». Ha tirato poi fendenti anche contro l'Europa, la Germania, la Francia, ed è tornato ad attaccare con durezza il governo Monti.

Un'entrata a gamba tesa che francamente avrebbe potuto evitare, che probabilmente non gli porterà un voto in più. Ma - questo sì - gli varrà l'ennesima accusa di mancato rispetto delle regole. Non è il suo primo fallo e vien da dire, come avrebbe detto Indro Montanelli, «Arieccolo». Allora si riferiva all'inossidabile Amintore Fanfani che, come Berlusconi, trovava sempre il modo di tornare in campo. Ma da cavallo di razza e da vero uomo di Stato, le regole le rispettava. E nei sabati preelettorali preferiva coltivare il suo hobby, la pittura. Al Cavaliere sarebbe bastato, e forse convenuto, parlare solo del Milan.

Antonio Macaluso

24 febbraio 2013 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/24-macaluso-berlusconi-giorno-del-silenzio_ee4f8368-7e55-11e2-b686-47065ea4180a.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 14, 2015, 02:59:01 pm »

L’editoriale
Roma, le dimissioni di Marino
Dimenticare il marziano
Un Pd scosso e commissariato dovrà tentare l’impresa di far dimenticare Marino; il centrodestra dovrà cercare di ricompattarsi dietro un candidato credibile; i cinque stelle, dati per favoriti, dovranno comunque giocarsela con una scelta non stravagante

Di Antonio Macaluso

Inevitabile. Un film dal finale scontato. Atteso, temuto, auspicato, ma senza il brivido della sorpresa. Neanche sulla tempistica: impossibile, dopo tanti testacoda, non schiantarsi contro il muro di scontrini contestati. Dopo 846 giorni di (non?) governo di Roma, Ignazio Marino si è dunque arreso. Accerchiato e solo, è stato messo alla porta da chi aveva in tasca la sua sorte politica: il suo partito, il Pd, ma anche Sel. Vale la pena ricordare che già al suo ingresso in Campidoglio, alcuni compagni di partito esprimevano a voce bassa dubbi sulla sua capacità di «marziano» di governare una città così esposta e complessa. Col tempo, quei sussurri sono diventati lamentazioni, poi richiami, avvertimenti, ultimatum e, ieri, plateale abbandono. Una brutta vicenda che avrebbe potuto essere chiusa prima con meno imbarazzi e conseguenze per tutti.

Il Pd romano, che ne esce con le ossa rotte, ma anche Marino che, con incomprensibile caparbia, ha tentato fino a sera di resistere. E che, comunque, ha fatto sapere che userà i 20 giorni che la legge prevede per eventuali marce indietro nel caso di «una possibile ricostruzione delle condizioni politiche». Non è «furbizia», ha assicurato. Ma, ha l’aria di essere un dispetto al partito che l’ha abbandonato, al quale ha fatto sapere di voler fare i nomi di chi gli suggerì uomini diventati poi «scomodi» per le varie inchieste.

Tra un avvertimento e l’altro, tirerà la corda fino all’ultimo giorno, minacciando un ripensamento che francamente non ci auguriamo. Non si rende ancora conto, Marino, che in tutti quei paesi dove pur spesso si è recato in questi anni, un sindaco non sarebbe sopravvissuto a un’inchiesta come quella su Mafia Capitale e ad una reprimenda del Papa per il suo atteggiamento da furbetto.

Il tutto in un contesto nel quale la città è stata risucchiata in un vortice di fango. Congedandosi, Marino vanta di aver «impostato cambiamenti epocali», ma bisogna francamente tornare parecchio indietro per trovare un simile buio. Con l’aggravante che Roma è stata candidata per Ospitare i Giochi olimpici del 2024 e che tra due mesi partirà l’assalto di milioni di pellegrini per celebrare il Giubileo straordinario.
Ora, quando le tossine che si sprigionano da troppo tempo dal Campidoglio sono diventate ennesimo fattore di avvelenamento della politica nazionale, si è finalmente deciso di intervenire. Meglio così, sia chiaro. Ma senza gioire, con responsabilità, perché, dopo un brutto primo tempo, la partita ne rischia un secondo falloso e volgare, una campagna elettorale lunga e brutale.

Un Pd scosso e commissariato dovrà tentare l’impresa di far dimenticare Marino; il centrodestra, frammentato e senz’anima, dovrà cercare di ricompattarsi dietro un candidato credibile; i cinque stelle, dati per favoriti, dovranno comunque giocarsela con una scelta non stravagante ed evitando di fare i fenomeni in una città notoriamente disincantata. Speriamo di non dover assistere ad una sagra di paese dove si gioca a chi la spara più grossa.

Non ci sono bacchette magiche che faranno camminare meglio autobus e metro, brillare e profumare una città buia e sporca, coprire buche, spazzare via abusivi e malfattori, tornare a produrre cultura. E’ però lecito aspettarsi un sindaco magari con poche idee ma chiare e realistiche, con una squadra di livello e affiatata, che conosca la città e lavori pancia a terra. Un sindaco che la carta di credito del Comune la tenga nel cassetto, soprattutto se va a cena con moglie, parenti e amici.

Ci piacerebbe che Roma tornasse ad una laboriosa normalità, non essere più un caso, o esserlo al contrario: un esempio di virtuosa rinascita.

9 ottobre 2015 (modifica il 9 ottobre 2015 | 07:13)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_09/marino-dimissioni-dimenticare-marziano-136a162c-6e40-11e5-aad2-b4771ca274f3.shtml
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