LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 12:32:13 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: VENETO - L’ECONOMIA, la CULTURA, i PROTAGONISTI  (Letto 3710 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Maggio 20, 2009, 04:13:04 pm »

Veneto - L’ECONOMIa, la CULTURA, i PROTAGONISTI

Un altro Paese, alla scoperta delle eccellenze

IL CONVEGNO
Veneto, l'Innov(e)tion Valley
 
 
Comincia dal Veneto il viaggio del Corriere nelle Italie, un modo per raccontare le eccellenze del nostro Paese e la vitalità dei territori.
La crisi ha indubbiamente cambiato molte carte sul tavolo ma non crediamo che abbia fermato la globalizzazione e lo sviluppo dei commerci, tutt'al più può averne rallentato l'impatto per un periodo più o meno lungo. «Dopo» ci troveremo ancora una volta a far fronte alla competizione internazionale che magari si rivelerà ancor più selettiva e spietata di quella a cui eravamo abituati prima del terremoto dei subprime.

Può il Veneto, in questo contesto, rappresentare una sorta di laboratorio della ripresa? Pensiamo di sì, soprattutto per come il modello Nord Est ha saputo affrontare il peggio. La recessione si è fatta sentire duramente, i fax che una volta «cantavano» da mattina a sera sono rimasti muti e molte aziende sono state costrette a interrompere l'attività o addirittura a chiuderla. Per un lungo periodo il traffico delle merci sulle autostrade del Triveneto si è drasticamente ridotto come a fotografare l'interruzione delle attività. Non sappiamo quanto ci vorrà ancora per uscire dal tunnel ma l'atteggiamento che ha prevalso in questi mesi nel Nord Est è stato quello giusto. Invece di discutere fino al parossismo su colpe e untori della crisi — come pure è successo — , gli imprenditori veneti hanno scelto la strada dell'innovazione. Invece di adottare una mentalità da due tempi, «prima superiamo il peggio e poi vedremo», ci si è preoccupati di migliorare la qualità del prodotto, di studiarne dei nuovi e persino di monitorare il rapporto tra azienda e territorio. Un test in materia è stato il «Festival Città Impresa» che ha saputo raccogliere e dare visibilità alle esperienze più avanzate e lungimiranti ma anche indicare un'agenda dei lavori.

Per affrontare un nuovo ciclo di competizione post-crisi sarebbe sbagliato accontentarsi del coraggio che si è avuto nella bufera. Si aprirà comunque una nuova partita che va giocata e possibilmente vinta di nuovo. Come sempre il vero giudice del grado di innovazione del sistema Nord Est sarà il mercato, non ci sono scorciatoie e aiuti di Stato che tengano ma il tema delle infrastrutture e dei collegamenti resta decisivo. È singolare infatti che l'alta velocità ferroviaria si fermi a Treviglio tagliando fuori tutto il Nord Est. Mentre oggi per andare da Milano a Torino o da Bologna a Milano basta all'incirca un'ora (e per la tratta Roma-Milano si scenderà a 3 ore), un viaggio in treno da Torino a Venezia ne occupa ben cinque. E se vogliamo parlare di Trieste le ore diventano sette. Se a questo quadro si aggiunge che gli sloveni stanno lavorando alacremente sui collegamenti del troncone del Corridoio 5 che li riguarda direttamente, il «buco» tra Treviglio e Trieste diventa paradossale. L'area più vivace dello sviluppo italiano, il laboratorio della ripresa, resta tagliata fuori dall'alta velocità. La modernità, come il Cristo di una volta ad Eboli, si è fermata a Treviglio!

Dario Di Vico
18 maggio 2009


---


L’ANALISI di Filiberto Zovico

«Il segreto? L’agilità di un capitalismo informale»

Ci si confronta, si discute, si traggono conclusioni che la mattina dopo vengono applicate in azienda

 
Capitalismo orale: è questa la via veneta all’impresa.
Un metodo per innovare in cui c’è poco di codificato e molto di chiacchierato. Filiberto Zovico, editore di Nordesteuropa. it , lo dice con parole più eleganti: «La forza motrice di questo capitalismo è che tutto avviene per reti informali». Ma la sostanza è la medesima. Un tempo le idee, le innovazioni si sviluppavano in piazza o in osteria; oggi nel salotto di casa, la sera con un gruppo di amici. Ci si confronta, si discute, si traggono conclusioni che la mattina dopo vengono applicate in azienda. Gli americani dicono che è stato fatto un brain storming , i veneti «quatro ciacoe». È esattamente la stessa cosa.

Questa che è la forza dell’innovazione in salsa veneta, da qualcuno è considerata anche la sua debolezza: non ci sono dati, non c’è coordinamento, ognuno procede in ordine sparso, è difficilissimo ricostruire serie statistiche perché per scoprire quali aziende innovino e quali no bisognerebbe visitarle una per una, ed essendo oltre 450 mila sarebbe un lavoro complicatuccio. Zovico però non è d’accordo che si tratti di un fattore negativo. «Il fatto che non si sia nemmeno in grado di misurare la capacità innovativa delle aziende dal mio punto di vista è un punto di forza. Consideriamo quanto è avvenuto di recente, durante questa crisi: mentre i grandi gruppi studiavano programmi, facevano riflessioni, determinavano nuove strategie, l’impresa veneta nell’arco di un mese ha ribaltato tutti i piani e se n’è uscita con nuovi prodotti. Chiaro che il tasso di innovazione è impossibile da misurare, perché si tratta di un’impresa padronale».

Quindi la mancanza di codificazione, a parere di Zovico, non è un difetto strutturale del sistema veneto, anzi. «Il limite si è rivelato la sua forza, in un contesto in cui possono morire dieci imprese perché non fanno innovazione, ma intanto ne nascono altre dieci». Nella sostanza il tasso d’innovazione rimane un fattore etereo, impalpabile, che caratterizza l’impresa veneta, ma che non si lascia acchiappare. «È possibile misurarlo? No. È rilevante misurarlo? No. Bisogna trovare altri sistemi per evidenziarlo, magari censendo le singole imprese», osserva Zovico.

La negatività forte, a parere di Zovico, è un’altra: è la mancanza di raccordo con il mondo accademico. «Il problema è il rapporto tra un’impresa informale e un’università formale. L’università italiana è burocratizzata, poco elastica, esattamente il contrario del capitalismo veneto. È un gap forte che il mondo della formazione superiore non riuscirà mai a colmare. Si fa fatica a costruire una relazione tra impresa e ricerca», conclude. E il prodotto immateriale del Festival delle Città Impresa, che Zovico dirige, cerca anche di favorire il crescere di questa relazione.

Alessandro Marzo Magno
18 maggio 2009


----


INFRASTRUTTURE - LE CONTRADDIZIONI NEI TRASPORTI

La regione che vola ma va a bassa velocità

Il Marco Polo ha saputo trattare da tempo Alitalia al pari di altre compagnie.

Il Corridoio 5, che unirà Kiev a Lisbona passando da qui, resta lontanissimo


Se il federalismo fiscale è ancora sulla carta, il federalismo dei trasporti ha già presto il volo. Almeno da queste parti. Venezia se non batte Roma, certamente sa fare a meno di Milano, intesa come aeroporto di Malpensa, dove nessun suddito dell’odierna Serenissima sognerebbe di andare a imbarcarsi.
Il Marco Polo è il terzo aeroporto d’Italia. Lo era anche dieci anni fa, ma in quest’arco di tempo ha saputo gestire l’avanzata delle compagnie low-cost , rinnovarsi completamente (nel 2002) e dribblare polemiche, ricatti e retromarce che hanno caratterizzato la gestione pubblica di Alitalia, trattando l’ex compagnia di bandiera al pari delle altre.
«Abbiamo fatto di necessità virtù — sottolinea Enrico Marchi, il presidente di Save, la società che gestisce lo scalo veneziano — e non potendo contare su una forte compagnia nazionale basata a Venezia siamo andati a cercarci 42 compagnie aeree che oggi collegano il nostro scalo a 67 destinazioni. Così abbiamo smesso di essere dipendenti dagli altri».

Da Venezia passano quasi 9 milioni di passeggeri l’anno (19 milioni a Malpensa, 35 a Fiumicino), che possono raggiungere direttamente 48 nazioni e 15 hub. Dalla pista in riva all’acqua decollano i jet di Emirates che puntano su Dubai, ma anche i voli Delta per New York e Atlanta. Diretti, senza scalo. Un aeroporto nazionale, ma con forte vocazione verso l’estero. Infatti, il richiamo turistico di Venezia e di tutto il Veneto è mixato con la clientela business, richiamata dalle aziende del Nord est. Al Marco Polo tre quarti del traffico è internazionale. E l’accordo con Emirates ha aperto opportunità davanti agli occhi quasi increduli di Marchi: nel 2008 sono stati 15.500 i viaggiatori con passaporto australiano transitati per lo scalo veneziano: 500 da tutto il mondo, 15 mila attraverso l’hub di Dubai.
Soprattutto il Marco Polo ha dimostrato di essere il riferimento di un bacino che va dal Garda a Trieste: le 550 mila aziende del Nord est e i 5 milioni di abitanti dell’area hanno questa pista come riferimento, che oggi è anche più facile da raggiungere. Il passante autostradale alleggerisce il traffico e non capita più di vedere partire l’aereo mentre si è bloccati in fila in tangenziale a Mestre. Domani in aeroporto si potrà addirittura arrivare in treno. È stato firmato l’accordo perché davanti all’aeroporto (non a Mestre) fermi l’Alta velocità. È il progetto del Quadrante di Tessera, un’area intermodale che vedrà sorgere spazi commerciali, il Casinò, aree destinate allo spettacolo. Con in più la stazione dell’Alta velocità. Un progetto ancora lontanissimo. Perché il Veneto si muove, vola, ha nuove strade, stenta solo se deve salire in treno e soprattutto se deve ridiscenderne in tempi allineati con quelli di una nazione occidentale. Oggi da Milano si arriva a Padova in un’ora e 51 minuti su una linea che solo in minima parte è ad Alta velocità. Sono stati superati i decennali problemi di attraversamento delle aree urbane tra Padova e Venezia, ma è un troncone isolato. Il miracolo riuscito tra Roma e Milano qui non si è ancora realizzato. E la regione rischia di finire soffocata da progetti mai diventati realtà. La città diffusa, la metropoli che da vent’anni chiamano Patreve (Padova-Treviso-Venezia) è priva di interconnessioni, è un pupazzo che non sta in piedi. La metropolitana di superficie è un sogno.

Un incubo da evitare, invece, è raggiungere Treviso da Padova in treno. Un viaggio dell’altro secolo, inteso però come l’Ottocento. Se si parte a mezzogiorno si impiega un’ora e 29 minuti, salvo ritardi. Un cinquantenne allenato copre i 48 chilometri tra le due stazioni in minor tempo in bicicletta. Sono le contraddizioni di una terra cresciuta velocemente e senza linee guida. I capannoni hanno tolto spazio per far passare i binari e l’auto affolla strade spesso troppo strette, delimitate da filari di platani. La modernità cozza contro le infrastrutture del passato. E il Corridoio 5, che unirà Kiev a Lisbona passando di qua, resta lontanissimo. Per ora il progetto è valso l’ammissione del Quadrante di Tessera ai finanziamenti Ue nell’ambito del progetto Ten-Transeuropean Networks . Di questi tempi non è poco.

LE CIFRE

8,6 MILIONI
I passeggeri transitati nel 2008 nello scalo veneziano di Tessera- Marco Polo. Attesi più di 9 milioni nel 2009. È il terzo aeroporto italiano

42 COMPAGNIE
Sono operative sullo scalo di Venezia. Oltre a tutte le principali europee, con voli diretti per le rispettive capitali, ci sono anche Emirates e l’americana Delta

17 ANNI
La durata del dibattito su quale sia il migliore tracciato della linea di Alta Velocità tra Milano e Venezia. I lavori, per ora, sono partiti solo tra Venezia e Padova

89 MINUTI
Sono necessari per coprire, in treno, i 48 chilometri che separano le stazioni di Padova e Treviso. Una media inferiore ai trentadue chilometri all’ora


Stefano Righi
18 maggio 2009


-----


 LAVORI VISTI DALL'ALTO

Il Mose a metà, ma la Laguna è già cambiata

Riaffiorano le isole erose dal mare, l’opera già piace ai cittadini.

Sui costi della «diga», però, la Corte dei Conti storce il naso

Scordatevela, l’acqua alta: dal 2014 la vedrete soltanto nelle vecchie foto. Diventerà un lontano ricordo della Venezia che fu, come il Bucintoro, il Doge o Casanova. A mandare in soffitta gli stivali di gomma ci penserà il Mose, la barriera di paratie mobili — ormai costruita a metà — che separerà laguna e mare quando la marea starà per farsi impertinente, chiudendo le tre bocche di porto del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Garantisce il Consorzio Venezia Nuova, una sorta di braccio armato del ministero delle Infrastrutture e del magistrato alle Acque, che del Mose e di un mucchio di altra roba, è il padre attento. Per quelli del Consorzio l’acqua alta è come l’acqua santa per messer Satanasso: un orrore da annichilire. Con la differenza che loro ci stanno riuscendo. Non senza polemiche, è vero; anzi, con discussioni tanto roventi che tutta l’acqua della laguna non riuscirebbe a raffreddarle: sono oltre vent’anni che sostenitori e detrattori del Mose si sparano a palle incatenate. Ma per una volta lasciamo riposare le polveri e andiamo a dare un’occhiata a come e quanto stia cambiando la zona umida più estesa d’Italia (cinquanta chilometri di lunghezza e una decina di larghezza media). Parecchio, per la verità.

C’è un pezzo di laguna, tra il Lido e Chioggia, che è un po’ come se avessero passato uno straccio imbevuto d’acquaragia sul «Tramonto a Venezia» di Claude Monet e avessero lasciato soltanto mare e cielo facendo sparire le isole. Proprio questo è accaduto; il colpevole è il mare che entra invadente dal Canale dei petroli (scavato negli anni Sessanta per consentire alle navi di raggiungere le raffinerie di Porto Marghera) e fa piazza pulita di tutto quello che trova sul suo cammino. È impressionante sorvolare quel deserto d’acqua: non c’è più nulla. Spazzate via velme (isole che emergono con la bassa marea per poi essere sommerse con l’alta), barene (isole basse coperte d’erba), canali e canaletti tortuosi (ghebi, nel gergo lagunare) ovvero il sistema circolatorio delle barene: vene e arterie che trasportano l’acqua attraverso il fango.

Che c’entra tutto ciò col Mose? C’entra, eccome se c’entra. Le paratie mobili sono solo l’ultimo stadio, il più macroscopico e spettacolare, di una serie di interventi che hanno lo scopo di riportare un po’ di equilibrio in una laguna sconvolta da interventi forsennati. Il Consorzio da anni lavora per ridarle un aspetto decente. La buona notizia è che ci riesce. Se il Mose è un concentrato di tecnologia, le armi invece usate per contrastare l’erosione sono quanto di più antico e a basso contenuto tecnologico si possa pensare: fango e pali di legno. Eppure funziona: si piantano i pali in tondo e in mezzo si mette il fango, in modo da riformare le isole cancellate. Le barene artificiali vicino a Chioggia, ormai vecchie di una dozzina d’anni, hanno ripreso un aspetto naturale: ci è cresciuta l’erba, l’acqua si è scavata i propri percorsi formando i ghebi, ci nidificano gli uccelli. Inoltre qua e là per la laguna sono state risistemate dodici grandi isole e dall’alto la differenza con quelle lasciate in balia dell’erosione è drammaticamente evidente.

Ai puristi e ai romantici dal sopracciglio inarcato nel sentir parlare di isole artificiali è bene ricordare che non c’è nulla di meno naturale della laguna veneta. Se gli antichi cittadini della Serenissima non avessero deviato ben tre fiumi (Sile, Piave, Brenta) quello specchio d’acqua sarebbe ora interrato e Venezia sarebbe una città di terraferma, come è accaduto per Ravenna. È però anche vero che i veneziani antichi erano attentissimi a non alterare l’equilibrio acqua- fango, tanto da mettere in galera chiunque camminasse (sì: camminasse!) sulle barene.

Intanto si è intervenuti anche sulla città: a una bella fetta di Venezia è stata data una sostanziosa sollevatina. Si è alzato il selciato fino a un metro e dieci sul livello medio del mare, cosa che già ora permette di rimanere all’asciutto a estese zone della città prima abituate ad andare a mollo; l’area marciana, soprattutto, ovvero il punto più basso di Venezia.

Non è stato possibile sollevare la piazza, che continua a cominciare ad allagarsi quando la marea supera i 69 centimetri sul medio mare (questo significa che il 1˚ dicembre 2008, con l’acqua a più 156 sul medio mare, in piazza San Marco c’erano 87 centimetri d’acqua), sono state invece sollevate le rive del molo a più 110, in modo da evitare l’allagamento da quel lato. Durante gli scavi sono state trovate tre antiche pavimentazioni di San Marco, una delle quali, la più antica a due metri sotto l’attuale superficie, completamente sconosciuta.

A qualche chilometro di distanza, sul litorale, si pensa a difendere la delicata laguna dall’abbraccio violento del mare. Per esempio è stata allargata l’isola Pellestrina, costruendo una spiaggia e dotandola di pennelli per impedirne l’erosione. Questo delicato cordone che separa le placide acque lagunari da quelle, talvolta furiose, del mare, era stato spazzato via dalla violenta mareggiata del 1966 e in quell’occasione le onde marine entravano direttamente in laguna. Ora non succederà più. Anzi, in occasione dell’ultima acqua eccezionale del 1˚ dicembre 2008, Pellestrina è rimasta completamente all’asciutto. Le opere di ridisegno del territorio sono ormai completate al 90%.

Il Mose avrà la propria testa pensante all’Arsenale: lì sono stati magnificamente recuperati gli antichi capannoni dove la Serenissima allestiva le galee con le quali dominava il Mediterraneo, soltanto fino a pochi anni fa ridotti a scheletri vuoti invasi da erbacce a arbusti. Le barriere mobili sono in via di costruzione. Dall’alto è facile distinguere i profili delle aree dove saranno allestite, prima di essere affondate e incernierate ai cassoni fissati al fondo marino, in modo da poter essere alzate riempiendole di aria compressa. L’assemblaggio delle paratie avviene all’interno delle conche di navigazione — per il momento a secco —che permetteranno a navi e imbarcazioni di entrare in laguna anche quando il Mose sarà alzato.

Il tutto, quando sarà finito, costerà la non modica cifra di quattro miliardi e 273 milioni di euro. Se è il prezzo per salvare Venezia, non è poi neanche tanto. Su questo, però, la Corte dei Conti ha arricciato il naso. In una ponderosa relazione pubblicata in dicembre si accusano le procedure di scarsa trasparenza: niente gara pubblica, ma trattativa privata; niente valutazione d’impatto ambientale; incremento dei costi e impossibilità di determinare, se non a posteriori, se il Mose funzionerà o meno, perché manca un progetto esecutivo. Di più: visto il sostanziale monopolio del Consorzio Venezia Nuova nella costruzione dell’opera, appare improbabile, sempre secondo la relazione, che qualcun altro riesca a vincere la gara per aggiudicarsi la gestione. Ma in ogni caso tutti, Corte dei Conti compresa, si augurano che le paratie mobili funzionino, anche perché non esiste un piano B per salvare Venezia dall’acqua alta.

Alessandro Marzo Magno
18 maggio 2009


------


  LA DIFFUSIONE SUL TERRITORIO

Nel Veneto multietnico stranieri al 10 per cento

Fra residenti e irregolari, si calcola che qui vivano 500 mila immigrati Integrazione aiutata dall’assenza di ghetti ma il clima sta peggiorando

 
I veneti non avevano ancora finito di emigrare, quando già i primi immigrati cominciavano ad arrivare in Veneto. Erano gli anni Settanta, e il maresciallo Tito permise ai suoi concittadini di andare a lavorare all’estero: un modo semplice per incamerare valuta pregiata. Gli jugoslavi si fecero assumere nelle concerie di Arzignano (il polo conciario più grande d’Europa) e molti lì sono rimasti mettendo su famiglia e integrandosi con la popolazione locale.
In quel torno di tempo c’era ancora qualche veneto che andava in cerca di fortuna oltreconfine, magari al di là dell’Atlantico. L’anno della svolta è stato il 1975, il primo in cui gli immigrati hanno superato gli emigrati.
Fonte: Demos

Oggi in Veneto gli immigrati residenti sono 400 mila, l’8,4 per cento della popolazione. La stima degli irregolari e degli stranieri residenti in altre regioni, ma domiciliati in Veneto, fa crescere il loro numero a circa mezzo milione. Insomma, il dieci per cento degli abitanti arriva da fuori (mentre si calcola che se ne siano andati oltre tre milioni di veneti). Due terzi si concentrano nelle province più industrializzate: Treviso, Vicenza, Verona. In effetti Treviso con il suo 10,1 per cento di popolazione residente immigrata è una delle sei province italiane dove tale percentuale è a due cifre (al primo posto c’è Prato, con l’11,4, seguita da Brescia con l’11,1). Rovigo e Belluno hanno entrambe soltanto il 5,4 per cento di immigrati.

Il settore in cui si concentra il maggior numero di lavoratori stranieri è quello dei servizi alla persona (24 per cento), seguito dalla metalmeccanica (15) e dall’edilizia (14). I servizi sono una voce piuttosto vasta che comprende gli addetti di alberghi e ristoranti, le badanti, i lavoratori domestici. In questo campo si è registrata una completa inversione di tendenza, poiché nel 2000 i servizi alla persona occupavano il 13 per cento degli immigrati, mentre il settore metalmeccanico aveva il 23 per cento degli occupati. Un numero rilevante di immigrati è diventato imprenditore, i titolari d’azienda, soci o amministratori nati in paesi non dell’Unione europea sono 34 mila, ma tra questi ci sono anche parecchi figli di emigrati veneti. Comunque sono aumentati gli imprenditori cinesi, marocchini, serbo-montenegrini e albanesi.

Le nazionalità rappresentate sono 168: i romeni hanno superato i marocchini, mentre Tonga, Corea del Nord, Timor Est e Gibuti hanno un solo cittadino. «Il segnale di stabilizzazione dell’insediamento degli immigrati sul territorio è dato dai minori — spiega Veronica Fincati, ricercatrice dell’Osservatorio immigrazione della Regione Veneto —. La presenza nelle scuole di bambini figli di stranieri è sempre più importante, tanto che coprono il calo demografico. Nel 2006 i figli di entrambi i genitori stranieri sono stati il 17 per cento del totale delle nascite in Veneto». «Il fatto che questi studenti nascano e crescano nel Veneto riuscirà a soddisfare le loro esigenze di mobilità sociale —sottolinea Davide Girardi, ricercatore della Fondazione Nordest —. Non a caso maturano aspettative pari ai loro coetanei italiani. La riuscita dei figli è il coronamento del progetto migratorio dei genitori». Sulla natalità, comunque, ci sono differenze marcate tra gli immigrati di diversi paesi d’origine. I romeni hanno pochi figli perché spesso la famiglia rimane in patria, cosa che non accade per marocchini, nigeriani o bengalesi.
 
Un’altra caratteristica della presenza di immigrati in Veneto è la loro diffusione sul territorio. Per esempio tre comuni non grandi, ma confinanti — uno in provincia di Belluno (Alano di Piave) e due in provincia di Treviso (Fonte e Possagno) — hanno una popolazione immigrata che si aggira attorno al 18 per cento. «I lavoratori stranieri acquistano immobili che gli italiani non comprerebbero, spesso molto degradati, ma sempre in zone ben collegate da servizi per poter facilmente raggiungere il posto di lavoro», osserva Fincati. Nel Veneto non ci sono stati ghetti per immigrati, con la sola eccezione di via Anelli, a Padova, dove si era creata una situazione strana, con gli immigrati residenti divenuti vittime di immigrati arrivati lì per spacciare droga. Duplice, poi, era il ruolo dei nostri connazionali: italiani erano i padroni di casa che speculavano affittando agli immigrati, italiani (per lo più studenti universitari) gli acquirenti della droga spacciata da altri immigrati.

La presenza sparsa, la mancanza di ghetti, ha impedito il nascere di forti conflitti tra veneti e stranieri, ma il clima sta peggiorando, qui come dappertutto. Imed Hamila, tunisino, è in Italia da vent’anni e in questa regione da dieci. Dal 2005 vive a Venezia dove gestisce un kebab e un internet cafè. Da qualche tempo vede cose che prima non accadevano: «Bestemmiano, ti guardano male, se chiedi un’informazione non te la danno, se in autobus sono seduto, nessuno si siede vicino. Se sono solo. Se invece sono con la mia ragazza italiana, allora tutto è normale».


Alessandro Marzo Magno
19 maggio 2009


-----



L’ALTRA FACCIA DI VENEZIA

Tecnologia e arte contemporanea

Ecco la nuova chimica di Marghera

Qui si sono già trasferiti pittori, architetti e designer. E qui ha sede il nostro più importante laboratorio di nanotech

 
«Marghera? Potrebbe diventare il vero Museo d’arte contemporanea di Venezia. Un museo-laboratorio che entra nelle aree industriali dismesse, creando l’effetto, magnetico, di saldatura tra l’ieri e l’oggi. È una scommessa forte, ma non impossibile — dice Luca Massimo Barbero, curatore del Peggy Guggenheim —. Del resto, l’attrazione fatale del luogo è già realtà per gli artisti. Molti hanno il loro studio a Marghera. Giovani, soprattutto. Qui si sono trasferiti gli architetti, i designer».

 
Il curatore Luca Massimo Barbero ha scelto come studio una parte di un ex opificio degli anni Cinquanta, in via della Pila
Barbero stesso, vulcanico quarantacinquenne («torinese di nascita, veneziano d’adozione, globe-trotter »), si è insediato in una porzione di un ex opificio anni Cinquanta, in via della Pila. Negli spazi limitrofi lavorano, citando solo un paio di nomi, Francesco Candeloro, che trasforma «foto di strada» in opere d’arte e il collega americano Arthur Duff. Per salire e scendere dai piani, dove s’affacciano gli studi, ecco il vecchio montacarichi, sopravvissuto alle mutazioni interne della fabbrica. Improprio parlare di ristrutturazione. Gli inquilini del terzo millennio cercano di conservare, entro certi limiti, le linee e le forme del passato. Questa è una delle facce della nuova Marghera. «Che è sempre stata, ed è ancora, l’altra faccia di Venezia», sottolinea il curatore del Guggenheim. «L’altra sponda, l’altro luogo». Che guarda la Laguna aperta e il centro storico del capoluogo. L’immensa area (2.200 ettari, un territorio più grande di Venezia e Mestre insieme), nasce industrialmente nel 1917 con il nome di Porto Marghera. Registra la massima espansione nel 1965, con 229 aziende (33.000 addetti), caratterizzandosi soprattutto come polo della chimica, simbolo della rinascita industriale italiana. Il declino comincia negli anni Settanta; la riconversione dagli anni Novanta in avanti, passando per una profonda operazione di bonifica dei terreni inquinati. Intendiamoci, mentre si sviluppa la nuova Marghera, parte della vecchia continua le sue attività tradizionali (conflitti e interrogativi per il futuro della chimica, sono ancora realtà incandescente di questi giorni), di carattere produttivo/manifatturiero. Con punte di eccellenza come la nuova centrale a idrogeno dell’Enel (primo impianto al mondo di questo tipo), a Fusina, adiacente al Petrolchimico.

Ma il post-industriale avanza, nelle forme più varie e Marghera si avvia a diventare un polo-laboratorio. Dall’insediamento avveniristico del Parco scientifico tecnologico Vega, fiore all’occhiello dell’innovazione, alle nuove sedi di uffici («abbiamo aperto un distaccamento qui per essere vicini alle imprese della zona», spiega Roberto Crosta, segretario della Camera di Commercio di Venezia), alla frammentata galassia di spazi per artisti, creativi e professionisti. Così, via via, i libri fotografici (molti, dilettanti e professionisti, si sono esercitati a seguire, per immagini, il mutamento) si aggiornano: uno sguardo alla brochure del Vega (The Venice Waterfront) per notare il «biancoenero» d’epoca di Porto Marghera con le ciminiere, gli enormi bidoni di stoccaggio, e il «policromo» di oggi: linee essenziali degli edifici ultramoderni, squadrati, con qualche inserimento di recupero come la torre Hammon che ospita il più importante laboratorio italiano di nanotecnologie: è un manufatto industriale degli anni Trenta, nel quale si svolgeva il processo di raffreddamento, legato alla produzione dello zinco e dello stagno. Massimo Colomban, vulcanico imprenditore veneto, presidente in carica del Vega, ci parla delle potenzialità d’attrazione del Parco che si espande (Vega 2, Vega 3, Vega 4) degli investimenti dei privati (la società consortile, costituitasi nel 1993, è gestita, a maggioranza, dagli enti locali) con i quali sono stati ripianati i debiti. «Il punto debole sta nelle infrastrutture; inoltre, le lentezze burocratiche rallentano i progetti», osserva Colomban. Che va veloce, nel futuro. L’ultima idea: il Metadistretto Digital Mediale, che ha aggregato 800 aziende in Veneto, mettendo in rete la ricerca, la formazione, le tecnologie. Marghera, seguendo gli itinerari di un opuscolo, pubblicato dal Vega, diventa meta di visite guidate. I titoli la dicono lunga: via del Vega (tra nuovi progetti e archeologia industriale), dell’Idrogeno, dell’Elettricità, della Raffineria, del Vetro, del Mare, del Grano, della Chimica, del Riciclo, del Porto e della Logistica, dell’Alluminio, della Comunicazione, della Natura.

Va da sé che le tane dei creativi/individualisti fanno parte di un altro mondo, non catalogabile. Di un’altra tribù che segue percorsi personali, talvolta eccentrici. Del resto, prima di trasferire i loro studi nel cuore dismesso di Marghera — fenomeno recentissimo — in passato, artisti e intellettuali avevano già subito il fascino del luogo, perdendosi nella Marghera «carbonara» (dietro le serrande abbassate delle fabbriche, gli spettri), frequentando locali notturni di culto come «Il Vapore» (regno del jazz) e il «Cavalcavia », poi chiuso.

 
Il «Molo 5» nell’ex Dopolavoro dell’Italsider, è il ristorante più alla moda di Marghera. Piscina, lampadari neobarocchi e tanto divertimento: musica, balli ed eventi

Ma, in compenso, oggi è di gran moda il «Molo 5», dove, nell’ex Dopolavoro dell’Italsider (tipico edificio degli anni Trenta, attorniato da un ampio giardino), gira a pieno ritmo il ristorante (con piscinetta): colazioni a prezzo fisso amezzodì, cene sotto i lampadari neobarocchi, la sera. Che s’allunga con il divertimento: musica, balli, eventi. Tant’è. Attorno alla nuova Marghera, il sogno continua. Se Luca Massimo Barbero punta al grande Museo di Arte Contemporanea, Luca Nichetto, designer trentacinquenne, affermato, pensa a certe aree post-industriali di Rotterdam, di Londra, di Amburgo, trasformate in interessanti poli aggregativi per giovani intraprendenti. «Ma per realizzare progetti analoghi, occorre una pianificazione forte, voluta e sostenuta dai governi della città e della Regione», dicono entrambi. Sia Barbero che Nichetto continuano a vivere a Venezia («il teatrino, la migliore trappola», afferma l’uno; «io abiterei anche a Marghera», sostiene l’altro), ma l’approdo verso la sponda opposta è loro indispensabile. Saltuario, Barbero; pendolare, Nichetto. Il designer si è istallato nel luminoso ultimo piano dell’ex «Vetrocoke», tre anni fa. «Lo studio a Dorsoduro era diventato troppo stretto —racconta —. Inoltre, i clienti mi facevano visita, con l’aria di chi è in vacanza. Quando decisi per il trasferimento, puntai subito su Marghera. Una scelta anche simbolica: il mio è un lavoro creativo, ma al servizio dell’industria. E Marghera rappresenta il luogo dell’industria».

Marisa Fumagalli
19 maggio 2009


------



LE NUOVE SINERGIE SOCIALI

E il popolo dei creativi prese la partita

Fabrica, «serbatoio di pensiero», ha messo in moto l’energia degli under 35

Sogna un futuro di grande innovazione

L’imprenditore

Massimo Colomban, presidente del Vega (The Venice Waterfront).

«Io mi trasferisco in Veneto. Ci sono progetti troppo belli e un’energia pazzesca ». Il taglio asimmetrico, dal ciuffo bianco, di Maria Luisa Frisa, la grande curatrice della moda italiana, non mente.
A Treviso ha costruito un corso rivoluzionario di design della moda con lo Iuav di Venezia, assieme alla Camera di Commercio. E l’atmosfera che si respira è quella della scena berlinese o londinese. L’aria è elettrica. I trevigiani guardano sfilare in centro i ragazzi, in silenzio. Ci devono essere abituati a veder passare gente «strana», per capelli e vestiti. A pochi chilometri, nel 1994, nasceva infatti Fabrica, un esempio ancora insuperato di thinking tank («serbatoio di pensiero») creativo e internazionale, targato Benetton. Da allora la classe creativa è in ascesa in Veneto. O forse comincia a farsi vedere.

L’artista - Francesco Candeloro trasforma «foto di strada» in opere d’arte e ha allestito il suo atelier negli spazi di una vecchia fabbrica
Richard Florida studiava, qualche settimana fa, a Schio, questo scenario inaspettato di migliaia di realtà sparse nel paesaggio delle 2.500 zone industriali locali. Raccontargli che su 450 mila partite iva venete, una ogni dieci abitanti, migliaia sono creative, ha lasciato l’americano, di origini italiane, profondamente stupito. Le micro realtà e i talenti individuali si integrano e si fondono spesso con il sistema moda dei grandi numeri, da Diesel a Replay, da Valentino a Marzotto, o con il sistema design, da Magis a Foscarini, a Bisazza. Un piccolo esercito che sta cambiando le città e che determina un nuovo orientamento all’innovazione. E non solo. Sono tutti under 35 e con la voglia di mettersi in gioco. Di rischiare e di intraprendere, come la terra d’origine insegna. Ci sono i nuovi designer come Luca Nichetto, miglior designer italiano dell’anno, Joevelluto, Zaven, Carlo Dal Bianco, Matteo Cibic o Giampaolo Allocco. Gruppi interdisciplinari come Heads Collective o Hangar design, Changed Design o H-farm, Tankboys o Studio Camuffo. Nico Vascellari, Alberto Tadiello, Luca Trevisani e Arcangelo Sassolino rappresentano la nuova nazionale italiana dell’arte contemporanea.

Il designer - Luca Nichetto sogna l’area post-industriale di Marghera trasformata in un polo aggregativo per giovani intraprendenti
A Padova, per inciso, è nato Maurizio Cattelan. A Venezia c’è la prima Biennale del mondo. Ma ancora Vitaliano Trevisan o Marco Mancassola, Romolo Bugaro o Giovanni Montanaro nella letteratura. Fotografi come Lorenzo Vitturi assieme a Federica Palmarin lavorano con i grandi magazine internazionali. Francesco Meneghini nel video. Attorno a innovative fondazioni come la Buziol o Bevilacqua la Masa si stanno costruendo nuovi cluster creativi riassunti dall’Innov (e) tion Valley. Che vanno ad arricchire un paesaggio industriale unico ma che sente l’urgenza di fondere i propri saperi manifatturieri con la visionarietà e la forza della cultura contemporanea. È tempo di nuove sinergie sociali, economiche e culturali. Perché i «schei» non si fanno più come una volta.

Cristiano Seganfreddo
19 maggio 2009


------


CREDITO E IMPRESE

Banche, la calamita degli «schei»

Il Veneto è ormai una presenza strategica.

Il legame col territorio è dimostrato dalla presenza capillare degli sportelli: si va dai colossi del settore agli istituti cooperativi

 
Ci deve pur essere un motivo se il primo azionista della prima banca italiana è veneto; se il quarto azionista della prima banca per numero di sportelli in Italia è veneto; se la terza banca italiana spende 9 miliardi di euro per comperare una banca che ha sede a Padova e la quarta banca italiana è di Verona.

Il motivo può apparire banale: qui ci sono i schei. Qui l’impresa diffusa ha prosperato dagli anni Settanta fino a tutti i Novanta, quando il modello veneto è assurto all’attenzione degli analisti economici. Merito dell’imprenditoria o del sistema bancario che ne ha accompagnato la crescita?
Vincenzo Consoli, amministratore delegato di Veneto banca, ama raccontare come è nata la proiezione estera di quella che un tempo si chiamava Popolare di Asolo e Montebelluna: «Era il 2000, all’epoca c’erano tanti imprenditori di quest’area che andavano in Romania a produrre. In assemblea un socio dice, "ma perché continuate a dire di essere banca del territorio, attenta alle esigenze degli imprenditori e noi in Romania siamo completamente soli?…". Gelo. Allora il nostro presidente, Flavio Trinca, che è un uomo coraggioso, dice: entro l’anno arriviamo in Romania! Pensai subito a una boutade, una di quelle cose che si dicono alle assemblee delle popolari. Invece...». Invece alla fine del 2000 Veneto banca compera la banca Italo-Romena. Poi le altre, in Croazia come in Moldavia e la presenza nella nuova Europa per la Veneto è diffusa. Non numerosissima, ma in posizioni strategiche.

Fiuto imprenditoriale o spirito d’avventura? Forse entrambi. Certo è che oggi del Veneto nessuno può fare a meno. Unicredit qui conta su una rete di 560 sportelli, con punte a Treviso (105), Vicenza (112) e Verona (135). Una diffusione che evidenzia una relazione netta con i territori della produzione, tanto che sono 47 i centri in regione dedicati alle pmi dalla banca guidata da Alessandro Profumo.
Intesa Sanpaolo ha invece appena sottolineato l’importanza di quest’area del Paese, prima riconoscendo l’identità della Cassa di Risparmio del Veneto, e più recentemente ponendo a capo delle operazioni nella zona del Triveneto Fabio Innocenzi, fino a dicembre amministratore delegato del Banco Popolare, uno dei più brillanti tra i giovani banchieri italiani. Sono 670 le agenzie di Intesa in Veneto, 552 fanno capo alla Cassa di Risparmio del Veneto, 112 alla Cassa di Risparmio di Venezia. Numeri che fanno dell’istituto di Corrado Passera il leader di mercato, con una quota del 17,4 per cento, 24 miliardi di impieghi (18 per cento del totale) e 12,4 miliardi di depositi (21,5 per cento).

Il legame tra banche e territorio è strettissimo. Antonveneta prima di finire nell’orbita del Monte dei Paschi di Siena è stata una grande popolare. La fusione tra Antoniana e Veneta, lontana secoli se misurata con il ritmo degli eventi che da allora si sono susseguiti, è del 1˚ luglio 1996, meno di tredici anni fa. Eppure Giuseppe Menzi, il direttore generale cui Siena ha affidato la guida delle operazioni in territorio veneto, per recuperare il terreno perduto al tempo della proprietà Abn-Amro, punta proprio sul rapporto sempre più stretto con la clientela. Una banca «che va» dal cliente, la stessa ricetta della Popolare di Vicenza, la più grande tra le banche non quotate.

Legami quotidiani, dunque. Come testimonia la fitta rete degli istituti più piccoli, le banche di credito cooperativo (Bcc). In un territorio dove il campanile conta più del passaporto, la banca del paese ha un posto nel cuore di molti: sono 110 mila i soci veneti delle Bcc, quaranta le banche, 613 gli sportelli. Un universo che sa parlare alle imprese, perché proprio da lì nasce la loro stessa ragione d’esistenza: 21 miliardi di raccolta diretta nel 2008 e 19 miliardi di impieghi. Numeri da grande banca.

Stefano Righi
18 maggio 2009


-------



Dizionario delle icone


Le parole che fanno Veneto
 
ARENA
Il teatro romano di Verona: per chi, come Goethe nel Settecento, arrivava in Italia dall’Europa Settentrionale, era una sorta di anticipo o primizia del Colosseo. Un elemento italiano, anzi, latino. Oggi è un tempio della musica lirica, e talvolta anche di quella leggera, le cui pietre hanno rifranto l’eco delle voci di Maria Callas, Toti dal Monte e Luciano Ligabue. Ai suoi margini si ammassano, nei giorni precedenti agli spettacoli, maestose scenografie di cartapesta: sfingi egiziane, colonne babilonesi e scalinate greche. Tutto finto, a differenza dell’anfiteatro.
Il simbolo del Veneto che canta.

BIENNALE
Arte, architettura, cinema, danza, musica, teatro. Nata alla fine dell’Ottocento per rianimare la vita artistica di una Venezia nebbiosa e decadente, la Biennale è diventata, nel corso dei decenni, l’ombelico culturale della città, aprendosi in direzioni sempre nuove e divenendo tribuna internazionale con la mostra d’arte cinematografica che ogni estate porta in Laguna i grandi divi della Decima Musa: un tripudio di flash e di lustrini. La mostra del Cinema è forse la migliore idea pensata per Venezia da un secolo, il Novecento, per altri aspetti disastroso.
Il simbolo di un Veneto sempre in mostra.

BUCINTORO
La maestosa imbarcazione, originariamente a quaranta remi ornata di fregi d’oro che il Doge usava per le sue uscite più solenni, e di cui oggi in un cantiere si sta ricostruendo un modello in scala uno a uno. Nel corso della storia ne furono varati diversi, sempre più grandi e lussuosi: a testimonianza, più che dell’accresciuta potenza di Venezia, della sempre maggiore propensione per lo sfarzo e, come si diceva un tempo, le pompe. Esisteva, anzi, un magistrato «alle pompe» appositamente incaricato di vigilare sugli eccessi. Ma allo sfarzo di Stato, si sa, non c’è limite.
Il simbolo di un Veneto che sfila.

BUZZATI
Dino, bellunese, nato nel 1906, giornalista del Corriere della Sera , nel quale entrò a ventidue anni, e scrittore fra i migliori del secolo passato. Assieme a Goffredo Parise, Guido Piovene, Giovanni Comisso, Luigi Meneghello e Mario Rigoni Stern compone un drappello di penne venete che continuano a influenzare la sensibilità e l’immaginario degli italiani. Offrendo, direttamente o indirettamente, un’immagine vivida della loro stessa regione: più che l’atmosfera surreale del «Deserto dei Tartari caso di quella «dolomitica» di «Bàrnabo delle Montagne».
Il simbolo di un Veneto che scrive.

CANALETTO
Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, non è solo un classico dell’arte italiana. È anche un fenomeno di prima grandezza nel mondo della finanza. I suoi quadri, che in un’epoca priva di cartoline e di fotografie hanno sparso in tutto il mondo l’immagine inconfondibile di Venezia, delle sue architetture e del suo paesaggio, divennero già durante la vita dell’autore l’oggetto di un collezionismo sfrenato, intorno al quale vorticavano cifre da capogiro. L’accorto veneziano se ne seppe giovare. E preparò la strada alle aste sempre milionarie dei nostri giorni.
Il simbolo di un Veneto che rende.

CANOVA
Antonio, da Possagno, in provincia di Treviso. Ossia: come diventare emblema di un’epoca lavorando a colpi di scalpello. E accanendosi sul marmo fino al punto di farlo diventare più levigato e seducente della stessa epidermide delle modelle. «Amore e psiche», «Paolina Borghese», «Le tre grazie»: le opere sensuali e insieme algide uscite dalle sue mani raccontano un tempo, quello del neoclassicismo napoleonico, meglio di qualsiasi pagina di storia.
Il simbolo di un Veneto che seduce.

CARNEVALE
Un tempo era la stagione della gloria di Venezia: quella che affollava teatri in cui lavoravano personaggi come Ruzante e Goldoni; quella che attraeva in Laguna principi e sovrani stranieri, desiderosi di assistere allo spettacolo di una città straordinaria. Oggi è il trionfo della mercificazione turistica: l’invasione di milioni di turisti che alternano indifferentemente la piazzetta di San Marco con un lungomare di Viareggio e un viale di Cento, o di Rio de Janeiro. Una grande risorsa economica, ma anche un problema irrisolto per l’immagine e il decoro.
Il simbolo di un Veneto che schiamazza.

CARPACCIO
Il Vittore che dipinse un memorabile Ciclo di Sant’Orsola, un Leone San Marco degno di essere esposto Palazzo Ducale e vari altri capolavori della pittura veneziana tra la fine del Quattrocento e i primi del secolo successivo. Ma nei favolosi anni Sessanta, un celebre ristoratore della città per omaggiare Vittore ne fece anche il nome di un piatto a base di carne cruda, rucola e grana, il cui rosso si mise in competizione con quello dei teleri e delle pale. Col risultato che oggi molti apprezzano il crudo, e pochi il pittore di San Giorgio degli Schiavoni.
Il simbolo di un Veneto che piace.

CASANOVA
Giacomo, nato a Venezia nel 1725. Inventore del gioco del lotto, spia della Serenissima, autore di qualche indigeribile opera letteraria e di una poco più digeribile autobiografia, scritta in francese per avere più audience. Ma di lui ci si sarebbe dimenticati se le sue credenziali politiche e intellettuali non fossero sopravanzate da quelle del più grande seduttore di tutti i tempi, divenuto a tal punto famoso che il suo cognome è ormai un nome comune, sinonimo di avventuriero, di sciupafemmine, di dongiovanni imbattibile. Fellini ne ha consacrato il mito al cinema, e di recente Lasse Hallström ci ha riprovato, invano.
Il simbolo di un Veneto che conquista.

DOLOMITI
Sono forse il monumento più antico della regione, visto che la loro «costruzione» iniziò nel Triassico, oltre duecento milioni di anni fa, sul fondo di oceani che oggi non esistono più. Eppure, il loro nome è recente: la roccia che le compone è intitolata a un geologo settecentesco, Déodat de Dolomieu. Rimaste periferiche e inesplorate durante lunghi secoli di storia, in età moderna sono diventate celeberrime grazie alla passione di escursionisti e sciatori, che amano perdersi nel silenzio marziano di queste lande simili alle Montagne Rocciose, e fors’anche più eleganti.
Il simbolo di un Veneto che emoziona.

FENICE
L’uccello che risorge dalle proprie ceneri, ma anche il Gran Teatro nel cuore di Venezia che già due volte nella storia ha attraversato incendi e ricostruzioni. L’ultimo rogo divampò la sera del 29 gennaio 1996: un incendio doloso, enorme, che trascinò in strada migliaia di veneziani e lasciò a bocca aperta i vigili del fuoco. Arrivati sul posto a bordo delle loro lance, trovarono il teatro già semidistrutto: un lavoro da professionisti, per il quale fioccarono le condanne. Ma in pochi anni, tutto risorse «com’era e dov’era», e nel 2003 Riccardo Muti poté salire di nuovo sul podio.
Il simbolo di un Veneto che brucia.

GIULIETTA
Dei Capuleti, giovane veronese protagonista di una delle più celebri tragedie di Shakespeare, ambientata nella Verona medievale della lotta tra fazioni. Nella Verona dei nostri giorni, i turisti sfilano sotto il balcone dal quale, si dice, la bella innamorata dialogava nottetempo col suo Romeo Montecchi. E il Comune organizza cerimonie nuziali ambitissime. Ma ai promessi e ai novelli sposi occorrerà ricordare che la storia d’amore fra i due giovani inventati, forse, da Matteo Bandello, finì presto e male. L’amore (per la letteratura), però, è cieco.
Il simbolo di un Veneto che sospira.

GOLDONI
Carlo, non «il buon papà» di una ripugnante tradizione ottocentesca (che lo ha ingenerosamente trasformato in una specie di maschera del carnevale veneziano), ma il prolifico genio del teatro settecentesco. Dalla Bottega del Caffè alle Baruffe chiozzotte, dalla Trilogia della villeggiatura a Arlecchino servitor di due padroni i suoi capolavori riempiono ancora le platee e i cartelloni dei teatri di tutto il mondo. Caso raro, è molto amato anche in patria, tanto da esser l’unico personaggio monumentato in pieno centro a Venezia in epoca recente.
Il simbolo di un Veneto sempre in scena.

GONDOLA
La barca-simbolo di Venezia, oggi rigorosamente nera e rigorosamente scoperta, il cui nome viene attribuito dai visitatori anche a natanti che i veneziani, distinguendo con cura meticolosa, chiamano sandolo, gondolino, sampierota, e così via. Quella del remo (e dello scalmo-forcola, e del ferro a sei rostri) è, in Laguna, più che una passione: una cultura, che si celebra spettacolarmente nelle regate (altra parola veneziana), e che lega passato e presente con una tradizione ininterrotta. Non senza novità, come quella recente di una celebre gondoliera: donna e tedesca.
Il simbolo di un Veneto che voga.

GRAPPA
Il nome locale dell’acquavite (che qui suona per la precisione graspa, e ha evidentemente a che fare con il grappolo) sarà anche, come pare, di origine lombarda; e il prodotto sarà certo anche friulano. Ma il monte Grappa non fa ombra né ad Abbiategrasso, né a Spilimbergo, ma a Bassano, provincia di Vicenza. Patria di distillatori, oltre che di innumerevoli alpini: e in effetti, la figura del fante di montagna si lega indissolubilmente, da queste parti, a quella del corroborante bicchierino.
Il simbolo di un Veneto che scalda (il cuore).

LEONE DI SAN MARCO
Un caso di appropriazione araldica: il felino alato è, per antica tradizione cristiana, emblema dell’evangelista, ma la «Repubblica del leone» ne ha fatto cosa propria, trasformandolo in un’icona della venezianità. Ne esistono diverse versioni: andante, stante, con il vangelo aperto e il motto latino («pace a te Marco, mio evangelista»), con il vangelo chiuso e la spada (leone di guerra), con la croce; c’è anche quello quello «in moleca», cioè racchiuso in un cerchio in modo tale da assomigliare a un gambero lagunare (donde il nome).
Il simbolo del Veneto: semplicemente.

MONA
Letteralmente «organo femminile», e l’origine di quest’antica parola veneziana è tuttora misteriosa: deriverà forse dal greco? Avrà a che fare con un termine che in molte lingue europee significa «scimmia»? Ma per uno scivolamento di significato tipico dei dialetti veneti, che lascia perplessi i parlanti d’altra provenienza, questa voce significa anche «scemo». Nell’uno e nell’altro senso, la mona (e il mona) sono stati fonte inesauribile d’ispirazione per i poeti, da Giorgio Baffo (un vero intenditore della prima accezione) al meno scandaloso Giacomo Noventa.
Il simbolo di un Veneto che verseggia.

NANOTECNOLOGIE
Che cosa c’entrano con il Veneto? C’entrano, perché questa regione è l’unica ad aver dato vita a un «distretto sulle nanotecnologie»: un grande progetto permanente che coinvolge istituti di ricerca, università, industrie: sei anni fa si sono messi in rete per sviluppare, in un’azione concertata, ricerche e tecniche di realizzazione che hanno in comune le dimensioni su cui lavorano, cioè il miliardesimo di metro. Una frontiera della conoscenza, ma anche un ghiotto investimento per la tecnologia d’avanguardia. Tanto più allettante se a lavorarci è una regione intera.
Il simbolo di un Veneto che innova.

OMBRA
Non è solo il contrario di luce: nel Veneto è, prima di tutto, l’unità di misura di Bacco, ossia il vino servito all’osteria in vari tipi di bicchieri, dal ruspante cilindrico di vetro infrangibile al calice pretenzioso di certe enoteche. Secondo alcuni si chiama così perché un tempo la si mesceva agli assetati «all’ombra» di apposite rivendite pubbliche; ma a giudicare dallo smercio che se ne fa anche di notte, o in pieno inverno, è più probabile che il sole c’entri, e che con questo nome si alludere alla modica quantità del vino (quasi a dire: «Un nonnulla»).
Il simbolo del Veneto che beve.

PALLADIO
Andrea, nato a Padova nel 1508. Era l’architetto più ambìto dai committenti di ville e barchesse nella campagna veneta; ma è anche l’uomo che disegnò la chiesa del Redentore, e naturalmente tutto il centro della città di Vicenza. Dicono che il corso che oggi porta il suo nome fosse stato pensato per accogliere i raggi del sole dell’alba e del tramonto convogliandoli nella sua fuga di colonne e di mètope, di archi e di loggette. Dalle ville nobiliari dell’Inghilterra alla Casa Bianca di Washington, è forse l’architetto italiano più imitato al mondo.
Il simbolo di un Veneto che progetta.

PASSANTE
Quello di Mestre è diventato ormai celeberrimo: è la cintura d’asfalto che, dopo lunghe— ma non interminabili — discussioni è stata progettata e realizzata per risolvere uno dei problemi più gravi del Veneto del Duemila: l’ingorgo di ruote, di lamiere e di clacson impazziti che paralizzava il traffico a ridosso di Venezia, compromettendo la stessa credibilità economica di un’area che sulla produzione snella ed efficiente delle «fabbrichette» aveva costruito la sua fortuna. Ora il passante c’è, dimostra che non basterà certo un po’ d’asfalto a risolvere tutti i problemi. Ma certo, qualcosa serve, eccome.
Il simbolo di un Veneto che circola.

PIAVE
Un tempo il suo nome era femminile, come si conviene alla maestosità materna del suo corso: oggi, il Piave è ridotto per la maggior parte dell’anno e per la maggior parte del corso a un reticolo di rigagnoli gorgoglianti che scorrono in un larghissimo letto di ghiaia. Si fa fatica persino a immaginarlo quando, «calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il ventiquattro maggio», mormorava all’esercito italiano le parole rese celebri da una canzone. «Non passa lo straniero» è, nelle roccaforti leghiste di oggi, un motto ancora attuale, ma diversamente interpretato.
Il simbolo di un Veneto che scorre.

POLENTA
Ai veneti sembra di averla sempre conosciuta, di averla mangiata ininterrottamente dai tempi del progenitore Antenore. In realtà, la migliore amica dei contadini nella perpetua lotta contro la carestia è un’invenzione relativamente recente, essendo ricavata dal formenton, il granoturco importato dall’America e qui adibito per la prima volta in Europa a coltivazione intensiva. Il guaio è che assieme alla fame, la pappa gialla contrastava anche alcuni fondamentali princìpi nutrizionali, regalando a chi non si nutriva d’altro un malsano effetto collaterale: la pellagra.
Il simbolo di un Veneto che sopravvive.

POLO
Marco, esploratore veneziano del secolo XIII, autore del Milione: il primo europeo ad aver capito l’importanza della Cina. La raggiunse, viaggiando per mare e per terra, prima che essa si incaricasse di raggiungere noi sotto forma di nave-porta-container, e per questo viene oggi additato come il padre nobile delle relazioni commerciali e politiche con l’impero della Grande Muraglia. Qualcuno pensa che con quel cognome avrebbe potuto piuttosto dirigersi verso Nord, precedendo Umberto Nobili: ma Polo in veneziano significa semplicemente «Paolo».
Il simbolo di un Veneto che viaggia.

PROSECCO
Con tutte quelle bollicine... Non particolarmente pregiato da un punto di vista strettamente enologico, è un prodotto che con la sua allegria raffinata (e non sempre frizzante) ha conquistato i palati —e i cuori—di tutti coloro per i quali il vino è innanzitutto un’esperienza sociale, di relazione prima ancora che di meditazione. Un vino così meritava un Festival internazionale, che in effetti si svolge, a Susegana, e non prevede solo mescite, ma anche squisite conversazioni letterarie.
Il simbolo di un Veneto che brinda.

RADICCHIO
Quello trevigiano, naturalmente: dalle foglie strette e lunghe, che culminano in un rosso acceso screziato di bianco e vengono perciò paragonate alle rose. Ha un sapore amarognolo, una consistenza croccante che è difficile confondere. Eppure, basta allontanarsi di poche centinaia di chilometri dalla Marca gioiosa per trovare buongustai che non lo hanno mai assaggiato. In barba alla globalizzazione, certi prodotti si possono anche esportare, ma solo a casa loro possono essere veramente gustati. Il radicchio rosso di Treviso, forse, è uno di questi. Tardivo, precoce, variegato.
Il simbolo di un Veneto IGP.

RIALTO
Rivoalto: il germe di Venezia, in cui quel Canale che più tardi fu detto Grande descriveva un’insenatura e approfondiva il suo corso. Si può provare a immaginarlo, in mezzo a una laguna ancora silenziosissima, popolata solo da pesci e uccelli. Poco alla volta, quel luogo desolato divenne il porto più animato del Mediterraneo: un posto in cui non si produceva nulla, eppure passava tutto, sotto gli occhi sbarrati degli stessi mercanti, su e giù tutto il giorno da un ponte di legno che solo nel Cinquecento fu trasformato in una specie d’arco di trionfo marmoreo.
Il simbolo di un Veneto che commercia.

SCHEI
I veneti oggi chiamano così i soldi, con un misto di disprezzo per lo sterco del diavolo e di ammirazione per un bene tanto a lungo desiderato e faticosamente ammassato. Schei è, sorprendentemente, una parola tedesca: prima parte (incompresa) della sequenza Scheide Münze che i dominatori austro-ungarici dell’800 avevano stampigliato sulle loro monete. Ai tempi dei Dogi (cioè quando il denaro scorreva a fiumi sulle tavole dei banchieri veneziani e nei forzieri dei mercanti) gli Schei non si chiamavano così: casomai, bezzi.
Il simbolo di un Veneto che guadagna.

SPRITZ
Altra eredità austriaca: a quanto pare, l’aperitivo che oggi spopola tra i giovani nelle piazze e nei campielli della regione, altro non era che una miscela di acqua e vino particolarmente gradita alle truppe di occupazione - di gusti non molto esigenti. Col tempo, la sua ricetta si raffinò, complice l’inventiva dei barmen e la fortuna di certi intrugli correttivi rigorosamente rossi e spesso veneti: come l’Aperol, che fu inventato a Padova, o il Select di Venezia, cui si aggiunse il lombardo Campari.
Il simbolo di un Veneto happy hour.

TIZIANO
Vecellio, nato a Pieve di Cadore nel Bellunese alla fine del Quattrocento, visse quasi novant’anni. Un maestro del Rinascimento italiano: l’uomo che ritrasse l’imperatore Carlo V, il papa Giulio II e Francesco I di Francia. Ma anche il poeta Pietro Aretino e uno stuolo di altri illustri committenti. Più che l’intensa fedeltà del suo pennello a fisionomia e carattere dei soggetti immortalati, gli uomini del tempo restavano colpiti dalla capacità che i suoi colori avevano di brillare di luce propria. Un miracolo, come quello compiuto continuamente dall’«Assunta» dei Frari.
Il simbolo di un Veneto che illumina.

VENINI
Uno dei più famosi tra i vetrai di Murano. I suoi vasi e i suoi lampadari sono opere d’arte che, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, recuperano e reinterpretano una tradizione antichissima: quella dei maestri soffiatori veneziani, concentrati su un’isola della Laguna dalla Serenissima, desiderosa di tutelare la città dagl’incendi delle fornaci e di tenere sotto controllo i preziosi segreti della lavorazione di lampadari, anfore e coppe. Qui nacquero le lenti del telescopio di Galileo.
Il simbolo di un Veneto che soffia.

VIVALDI
Il Prete Rosso (così veniva chiamato don Antonio per via della capigliatura) faceva eseguire le sue composizioni alle giovani orfanelle del Collegio della Pietà, sulla Riva degli Schiavoni, alternando cori e avemarie. Più che per la sua musica religiosa, è passato alla storia per le sue laiche Quattro Stagioni, inflazionatesi oggi al punto da diventare lo stucchevole jingle di una Venezia turistico-alberghiera: sarebbe ora di recuperarle alla loro virtuosistica dignità, assieme alla restante parte di un repertorio tutt’altro che spensieratamente turistico.
Il simbolo di un Veneto che suona.

ZORZON
Giorgio da Castelfranco, italianamente il Giorgione, l’enfant prodige della pittura veneziana del Cinquecento. Il catalogo delle sue opere è relativamente ristretto, ma sono tutti capolavori, dalla Pala di Castelfranco ai Tre filosofi, dagli autoritratti alla Tempesta. «Col tempo», porta scritto beffardamente in un cartiglio la vecchia rugosa di un famoso ritratto; altre, più coperte allusioni nei suoi quadri hanno dato, e ancora danno, filo da torcere agli interpreti. A lui, che morì poco più che trentenne, il «tempo» non poté corrugare la fronte e far tremare la mano.
Il simbolo di un Veneto che crea.

Lorenzo Tomasin
18 maggio 2009


da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Maggio 20, 2009, 04:19:28 pm »

IL REPORTAGE

E adesso questa terra è (anche) la mia terra

Viaggio a S. Pietro Mussolino, in provincia di Vicenza, dove si concentra la più alta percentuale d’immigrati


La macroeconomia ha un risvolto molto personale per Bissas Kutub, 29 anni, del Bangladesh: ha perso il lavoro di operaio metalmeccanico e sta aspettando che passi la buriana per essere riassunto. Spera che il giornalista arrivato da fuori sia in grado di dare risposte confortanti. È seduto su una panchina di San Pietro Mussolino, in provincia di Vicenza, il comune del Veneto con il più alto rapporto di immigrati sulla popolazione residente: 22,8 per cento; 363 abitanti su 1589 sono stranieri. Qualche decina di metri più in basso, sotto un sole estivo, le maestre stanno preparando gli allievi della materne per il balletto di fine anno. Sembra che da queste parti si siano scatenati i geni femminili: le bambine surclassano nettamente i maschietti e un po’ di treccine nere risaltano tra le tante treccine bionde. Potrebbe essere un posto da agriturismi e passeggiate nei boschi, San Pietro Mussolino, se il paesaggio non fosse stato devastato da concerie e segherie di marmo (c’erano cave, qui, esaurito il minerale sono rimaste le segherie che ora tagliano blocchi importati): la valle del Chiampo si chiude sulle vette ancora innevate dei Lessini, i colli intorno a San Pietro sono verdeggianti di boschi e il paese ha belle case di pietra quasi tutte restaurate e tirate a lucido. La grande chiesa dedicata a San Pietro Apostolo l’hanno rimessa in sesto in stile neoclassico- romanista: frontone da tempio greco e facciata intonacata in giallo e rosso. Basta attraversare la strada per arrivare a una sorta di corte multietnica, da una porta si affaccia la signora Milica Vukovic che indica i suoi vicini: «Qua abita un africano, là un indiano, là il mio padrone di casa (si chiama Xompero, strano cognome comune a mezzo paese), in fondo un altro indiano ». Gli indiani fanno la parte dei novellini tra gli immigrati, ma ormai sono tanti e stanno insidiando lo storico primato degli ex jugoslavi, arrivati ancora negli anni Settanta.

 
Il sindaco, Mirella Piazza, mostra gli ultimi dati: gli ex jugoslavi (ma si tratta soprattutto di serbi) sono 120, gli indiani 100, i marocchini 37, i bengalesi 31 e i burkinabé 24. La signora Milica problemi di convivenza non ne ha proprio. Originaria di Petrovac na Mlavi (a una quarantina di chilometri da Požarevac, città natale di Slobodan Miloševic) vive a San Pietro Mussolino da dodici anni; lavora in conceria, suo marito anche e il figlio pure. Quattro porte più in là vive la famiglia di Sarbjit Singh, del Punjab (i Singh sembrano la versione immigrata degli Xompero: gli indiani si chiamano quasi tutti così). La moglie, Palmkour, 30 anni, e la sua amica Baljindar, 28 anni, vestono in abiti tradizionali.

«Qui si commettono pochissimi reati», dice il maresciallo Giampiero Del Mese, comandante della stazione dei carabinieri. Tra quei pochissimi, il reato più comune è lo sfruttamento di immigrati clandestini e sono gli italiani a commetterlo. «Il bello di qua è che si vive ancora lasciando la porta di casa aperta», commenta Joanna Espino, 32 anni, dal Perú, che prima di sposarsi con un uomo di San Pietro Mussolino faceva la baby sitter a Milano. «Grossi problemi non ce ne sono mai stati », osserva il sindaco Piazza che si ripresenta alla testa di una lista civica (l’unica in pista) dopo il primo mandato di cinque anni.

 
Il 22,8 per cento dei residenti proviene da altre nazioni. L’unico luogo monoetnico è il cimitero

«Dei miei vicini non posso dire niente», commenta Giuseppina Zanconato, 75 anni, casalinga. «Di famiglie italiane, ormai, in questa strada siamo soltanto tre», aggiunge il marito Giuseppe Castagna, 76 anni, ex operaio di una segheria di marmo. Adesso in quelle stesse aziende lavorano molti indiani, come Jagjig Singm 32 anni, impegnato a fare a fette un blocco di marmo nella ditta Bauce Narciso srl. L’unico luogo di San Pietro Mussolino ancora compattamente monoetnico è il cimitero. Fanno eccezione la tomba di Angela Xu Jiahui, morta in marzo a soli tre mesi, e quella di Isaac Quainoo, defunto quarantunenne nel 1993, unico nero del camposanto. Il solo, vero, grande problema è il lavoro che scarseggia. Guiebre Abdoul Gafarou, 19 anni, originario del Burkina Faso, spiega con un accento fortemente veneto di aver finito nel luglio 2008 l’Istituto professionale dell’industria meccanica, di aver lavorato un mese in autunno e poi più niente. «Vado in giro dappertutto, ma ovunque mi rispondono che non c’è lavoro», afferma, aggiungendo che dei suoi dodici compagni di classe solo due hanno trovato occupazione.


Alessandro Marzo Magno
19 maggio 2009



---



IL GOVERNATORE DEL VENETO

La sfida di Galan: «Il federalismo? Saremo noi la Regione modello»

«Conti in ordine e sanità eccellente». Il presidente rivendica un ruolo guida

 
Quante Italie esistono oggi, alla vigilia di quella che sarà (dovrebbe essere) la svolta federalista? Dal suo ufficio di Palazzo Balbi, sede della Regione Veneto che presiede, Giancarlo Galan riflette qualche secondo poi elenca: «Io ne vedo tre. Quella delle Regioni amministrativamente più avanzate, come Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna: hanno i conti in ordine, pagano i fornitori e possono contare su sistemi sanitari che rappresentano delle vere eccellenze. C’è poi quella delle Regioni in equilibrio, come Toscana, Umbria, Puglia, Liguria, Piemonte. E ne dimentico sicuramente tante. Infine ci sono quelle più indietro, Campania, Sicilia e Calabria, che definirei in condizioni drammatiche. Aree del Paese che proprio per queste loro condizioni, non riescono neppure a sfruttare i finanziamenti europei».

Cinquantadue anni, da 14 governatore di una Regione con 2.600 dipendenti per cinque milioni di abitanti (la Sicilia con circa gli stessi abitanti ne ha 20 mila) e 504.763 imprese registrate secondo i dati Unioncamere al 31 marzo scorso, Galan è considerato uno dei fedelissimi del premier Silvio Berlusconi. Giovane dirigente di Publitalia, fu lui a mettere in piedi nell’autunno del 1993 la macchina elettorale che consentì al centrodestra di affermarsi nel Nord Est. Questo precedente, unito alla carica che ricopre e soprattutto alla tessera di Forza Italia numero 19 («perché il mio nome fu associato al Veneto che stava alfabeticamente in fondo alla lista, fossi stato abruzzese avrei avuto la numero 3, dopo Berlusconi e Dell’Utri», scherza) lo ha trasformato di fatto nel punto di riferimento di un partito come il Pdl, che ha nell’Udc un alleato un po’ in castigo dopo lo «strappo» nazionale e nella Lega un alleato smanioso di sfilargli la poltrona dopo anni di apprendistato politico-amministrativo, anche se per il momento l’attacco rimane ancora allo stato gassoso del guerrilla marketing , non si è ancora solidificato. Vedremo l’anno prossimo, con la chiamata alle urne regionali.

Presidente Galan, che cosa cambierà con il federalismo? Quante Italie potrebbero uscire da una riforma come quella annunciata?
«Intanto diciamo che attualmente esiste soltanto un testo base, un manifesto che andrà riempito. E la mia sensazione è che la Lega riempirà questo manifesto soprattutto a ridosso delle campagne elettorali. In realtà il progetto diventerà sempre più concreto a mano a mano che verranno approvati i decreti attuativi. Solo a quel punto vedremo qual è l’Italia capace di gestirsi e quella che invece non lo è e rischierà il commissariamento».

E il meccanismo solidale da parte delle Regioni più avanzate?
«Va bene, a patto che esista anche un forte controllo della quota di solidarietà. Ai cittadini del Veneto dovrò spiegare che bisogna finanziare la sanità di altre Regioni, ma loro giustamente vorranno sapere quali sono i meccanismi di spesa. A quel punto, le due Italie uscite dalla riforma federalista potranno diventare una sola, potremo avvicinarci al modello degli Stati Uniti».

Perché il Veneto è stato da subito in prima fila nel richiedere un forte cambiamento del modello istituzionale?
«Bisogna considerare che fino al 1976 siamo stati una Regione povera rispetto all’Italia in base a tutti gli indicatori economici, e addirittura poverissima rispetto all’Europa. La ricchezza costruita velocemente ha creato dei particolarismi e soprattutto la voglia di non essere più trattati solo come fornitori di domestiche per il resto del Paese da parte di una terra che, grazie ai meccanismi fiscali, versa moltissimo e vede tornare indietro pochissimo ».

Negli ultimi anni lei ha condotto una dura campagna contro i privilegi, soprattutto fiscali, concessi alle Regioni a statuto speciale. Crede che il federalismo eliminerà queste disparità di trattamento?
«Spero di sì, ma temo di no, soprattutto per la debolezza degli schieramenti politici che non hanno il coraggio di cambiare la situazione. Questa disparità di trattamento tra i cittadini di uno stesso Paese è una ferita morale che nessuno vuole curare. Non c’è alcun motivo perché il Friuli goda di privilegi modesti, Trento di ingiustificati privilegi e Bolzano di scandalosi privilegi».

E nessuno ha mai avuto nulla da eccepire?
«Evidentemente no. L’unico che finora ha avuto il coraggio di sollevare la questione è stato Brunetta. Fitto sa perfettamente che il tema è da affrontare. Ma nessuno si muove e anche l’Europa se ne lava le mani, dicono che è un problema interno italiano. In realtà quando si danneggiano Regioni confinanti siamo in presenza di un’oscenità, una forma di puro assistenzialismo. Un voto di scambio frutto della politica miope dei governi nazionali ».

Il tema degli statuti speciali porta con sé naturalmente il discorso sui Comuni secessionisti: sono sedici quelli che dopo i rispettivi referendum hanno dato il via libera al lungo e complesso iter legislativo…
«Sì, ma senza gli statuti speciali delle Regioni confinanti i referendum per abbandonare il Veneto non avrebbero avuto ragione di esistere, oppure non avrebbero raggiunto il quorum. Chissà come mai nessun Comune veneto ha mai indetto un referendum per passare alla Lombardia o all’Emilia. Qualcuno se lo è domandato? Tutti a voler scappare in Friuli, in Trentino o in Alto Adige».

Il modello veneto è superato?
«No, non è superato e non morirà. Primo per la sua posizione strategica dal punto di vista logistico, poi per il suo straordinario patrimonio artistico-culturale. Due colonne che nessuno potrà mai abbattere. Se aggiungiamo l’apporto dato dall’industria manifatturiera, che deve rimanere, ci accorgiamo che le tinte sono tutt’altro che fosche».

Dal ’95 a oggi come è cambiato il Veneto?
«È cambiato moltissimo. Prima era ricco di spontaneismi e idee, ma povero di lingue straniere e organizzazione. Oggi è più solido, più scientifico. Scontavamo forse il nostro policentrismo, oggi è diventato un vantaggio».

Mi dice un errore che è stato fatto durante la sua gestione?
«Sulla diffusione della banda larga non siamo stati bravi. Avremmo potuto e dovuto occuparci direttamente del suo sviluppo. Le vie dei dati sono strategiche».

Ugo Savoia
19 maggio 2009



---



IL PRESIDENTE DELLA CONFINDUSTRIA VENETA

«Un patto fra pubblico e privato Così abbiamo reagito alla crisi»

Andrea Tomat: «Stato e imprese, lavorando insieme, hanno evitato il peggio»

Andrea Tomat è nato nel 1957 a Udine. Laureatosi in Economia a Venezia nel 1982, dopo alcune esperienze professionali in Germania, nel 1993 diviene amministratore delegato di Stonefly, azienda del gruppo Lotto. A capo di una cordata di imprenditori, nel 1999 rileva lo stesso marchio, diventando presidente del gruppo.
Nel 2004 viene nominato presidente degli industriali di Treviso. Dall’inizio del 2009 guida la Confindustria veneta

 
Per parlare delle capacità del suo Veneto di rinnovarsi e tenere il passo, il presidente della Confindustria regionale Andrea Tomat ripercorre gli ultimi faticosi anni. «Perché i conti con i nuovi equilibri mondiali abbiamo iniziato a farli ben prima dell’ultima crisi, e un processo strutturale è iniziato già nel 2003, quando la Cina è entrata nel Wto».

Insomma, il Veneto che rappresenta l’avanguardia industriale e produttiva dell’Italia, aveva già preso confidenza con la faccia scura della globalizzazione?

«Indubbiamente. La crisi del 2003 ci aveva colto di sorpresa e abbiamo individuato allora la necessità di rivedere prodotti e processi, da un lato, e quella di internazionalizzare cicli produttivi e commerciali per poter resistere all’onda d’urto della concorrenza asiatica. E in effetti i segni positivi si stavano facendo vedere e le imprese venete si mostravano all’altezza di questa grande transizione. Ma mentre eravamo ancora nel mezzo di questo processo, è arrivata questa nuova crisi... L’analisi della dinamica di questo periodo ci dice e ribadisce, anzitutto, che non è stata una crisi dell’economia reale. Questa volta, insomma, non eravamo noi a sbagliare prodotto, ma un sistema finanziario malato che contagiava la nostra industria. Anche grazie all’azione del governo, si è evitato che il male delle banche venisse trasferito all’industria».

Quali sono i caratteri dell’impatto della crisi e della reazione in Veneto? Che caratteristiche hanno le imprese che, ancora una volta, ce la faranno?

«Qualche esempio ci aiuta a capire di cosa parliamo. Ci sono imprese legate alla produzione di automobili, uno dei settori in cui la recessione ha toccato i suoi apici. In questi casi, oltre a essere chiara la necessità di tarare per il futuro le produzioni su ordinativi diversi e più ridotti, si è continuato a investire in innovazione tecnologica e di prodotto, non accettando di sacrificare il capitale umano né la manodopera. In questo processo, è stato prezioso il sostegno del ministro Sacconi».

Uno dei capisaldi del Veneto produttivo dell’ultimo decennio sono state internazionalizzazione e delocalizzazione. Cosa resta?

«Anche questa esperienza è tornata molto utile, perché ci aiutato a comprendere che in questa fase era fondamentale cercare nuovi mercati, il più possibile sani e ancora intatti rispetto alle dinamiche della crisi. Per questo, ad esempio, abbiamo assistito ad un’espansione delle imprese venete verso il medioriente e il nord Africa».

Come avete risposto, sul territorio, alla stretta del credito?

«È stato fondamentale rafforzare le garanzie del consorzio fidi con l’apporto delle categorie produttive e con il sostegno di Regione e governo».

Il Veneto è stata per anni l’emblema della «via italiana» al liberismo, del capitalismo territoriale che chiedeva in ogni occasione e a gran voce allo Stato di farsi da parte. È stata la crisi a cambiare gli umori e a farvi invocare protezione e sostegno?

«No, gli umori avevano già iniziato a mutare. Le richieste di meno Stato, in realtà, rispondevano da sempre all’esigenza di avere una burocrazia più essenziale ed efficiente. Ma di fronte a questa crisi è apparso chiaro che solo se si marciava tutti insieme, pubblico e privato uniti in squadra, ce la si poteva fare. Non siamo più in una fase espansiva dei mercati, in cui l’economia ha le opportunità di essere lasciata correre. Restano ferme, tuttavia, le istanze di una macchina dello Stato seria, efficiente e produttiva, e in questo campo mi sento di elogiare apertamente il lavoro del ministro Brunetta, dimostrando che con regole e controlli normali è possibile ottenere risultati importanti ».

Con Sacconi e Brunetta ha citato due terzi del Veneto di governo. Non vorremmo che Zaia, il ministro delle politiche agricole di Conegliano Veneto, se ne avesse a male...

 
Secondo Andrea Tomat il Veneto multietnico è un bell’esempio di integrazione per tutta l’Italia
«Anche Zaia ha fatto un grande lavoro per il Veneto e per tutta l’Italia. La battaglia per la difesa dei nostri prodotti tipici e dei marchi di qualità, è una battaglia a tutela di ciò che ci rende famosi in tutto il mondo».

In questo rinnovato quadro di rapporti con la politica, cosa le chiedete?

«Anzitutto, sarebbe fondamentale che i pagamenti della pubblica amministrazione arrivassero puntuali. Secondariamente, sosteniamo la proposta di chi chiede che sia allentato il patto di stabilità interno per i comuni virtuosi: questo darebbe una grossa mano alle imprese locali e territoriali che lavorano per il pubblico ».

Il Veneto è in prima linea anche sul fronte dell’immigrazione. La vostra regione dimostra che l’Italia multietnica c’è già, è un dato di fatto, e indietro non si può tornare?

«Il tanto vituperato Veneto ha dimostrato che le regole applicate bene seriamente e con rigore consentono a tutti — italiani e stranieri — di vivere in pace e in modo produttivo. Il Veneto è forse la regione più multietnica d’Italia e a distanza di una decina di anni dalle grandi ondate migratorie si può dire che è un esempio bello di integrazione per l’intero Paese».

Jacopo Tondelli
19 maggio 2009


--------



Ancora troppo localismo

Imprese a parte

Il rapporto della Fondazione Nordest

 
Una regione a metà del guado, inclassificabile e sorprendente, in grande trasformazione ma ancora frenata da provincialismi e diffidenze. È il Veneto fotografato da «Nord Est 2008», il Rapporto sulla società e l’economia del Triveneto redatto in stile Censis dalla Fondazione Nord Est. «L’autonomia, il far da sé, valori importanti per questo territorio, hanno generato una mentalità localistica che è difficile abbandonare — conferma Daniele Marini, direttore scientifico della Fondazione Nord Est e docente di sociologia all’Università di Padova —. Ma l’eccesso di autonomia porta all’autonomismo, alla frammentazione, mentre il Veneto dovrebbe pensarsi come una nuova governance dello sviluppo territoriale di tipo metropolitano. In molti l’hanno capito, ma poi si agisce troppo lentamente ». Una lentezza che per fortuna ha delle eccezioni: «Ancora una volta è la classe imprenditoriale, da sempre votata all’export, a essere volano di cambiamenti e oggetto della metamorfosi più profonda — dice Marini —. Archiviata la delocalizzazione (lo spostamento all’estero delle fabbriche per usufruire di manodopera locale, a costo più basso), si è passati all’internazionalizzazione, cioè al presidio di nuovi mercati dove si produce e si vende in loco, per poi proiettarsi verso paesi ancora più lontani: c’è chi è andato oltre i classici mercati di riferimento (Europa del Nord e dell’Est), spingendosi fino in India, Cina e Brasile. Un processo che la crisi internazionale ha frenato, qui più che altrove, ma che non si fermerà ». Di fatto i dati sconsigliano qualunque previsione, «ma forse abbiamo già toccato il fondo: la situazione negativa pare essersi stabilizzata, e i primi timidi segnali di risalita arrivano proprio dall’estero, anche se la ripresa è un’altra cosa».

Sul territorio, invece, lo sviluppo passa da due parole-chiave: innovazione e infrastrutture. «Le imprese sopravvivranno solo se saranno in grado, da una parte, di riposizionare i propri prodotti, puntando su qualità, materiali innovativi, design, pubblicità, comunicazione. Dall’altra, di riorganizzare l’attività produttiva con un ulteriore salto tecnologico, ma soprattutto ottimizzando le proprie capacità. E c’è solo un modo per farlo: mettere in rete tutti i subfornitori che concorrono alla realizzazione di un prodotto (il contributo «esterno» è in media dell’80%), fare sistema e creare una vera e propria filiera ». Quanto alle infrastrutture, Marini è chiaro: «Servono più strade e ferrovie, come il Corridoio V sull’asse Lisbona-Kiev, che va sbloccato in fretta. Ma bisogna potenziare anche le infrastrutture immateriali: abbiamo intere zone che non sono ancora coperte da reti adsl o wireless».

 
Fonti - Fondazione Nord Est su dati Istat , Prometeia, Eurostat, OPEN

Complesso il discorso sull’occupazione. Il peso del terziario è in aumento (oltre il 60%), ma le figure professionali ad alta specializzazione tecnica (le più richieste) non si trovano quasi più. «Gli studenti, più preparati della media italiana, preferiscono i licei e le facoltà umanistiche — dice Marini —. Così il divario tra scuola e mondo delle imprese è aumentato: chi si laurea in lettere non trova lavoro e magari finisce in banca, mentre le aziende sono costrette a reperire certe professionalità all’estero». Ma mentre l’immigrazione tradizionale, alimentata da una crescita economica costante, era stata finora destinata ai lavori abbandonati dai veneti, quelli più pesanti e peggio pagati, ora c’è grande necessità di immigrati dai profili professionali più elevati. «Ma se pochi temono che l’immigrato gli porti via il lavoro, sono ancora in tanti a vederlo come una minaccia per la propria sicurezza. Mentre la relazione immigrazione-criminalità, dati alla mano, è in gran parte infondata. Tanto che il Veneto è addirittura secondo in una ricerca Cnel-Caritas sull’integrazione degli immigrati, che in alcuni paesi della fascia pedemontana arrivano anche al 20%, ma senza creare problemi».

Il resto del rapporto mostra un Veneto affezionato ai propri politici finché non scelgono la carriera «romana», abbastanza virtuoso con l’ambiente (bene il risparmio energetico, la raccolta differenziata e la pulizia del mare, male l’inquinamento da traffico), ma sprecone con le università, «che dovrebbero concentrare le poche risorse», dice Marini, «mentre ogni provincia vuole la sua». Per fortuna che anche qui ci sono le famiglie a tener botta alla crisi coi risparmi di una vita. Ma fino a quando?

Marcello Parilli
18 maggio 2009


da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!