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Autore Discussione: IL PD - Partito Democratico  (Letto 72135 volte)
Arlecchino
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« Risposta #45 inserito:: Febbraio 16, 2018, 12:20:38 pm »

L'accanimento degli avversari (per fortuna di scarso valore) contro Renzi e il PD finirà per danneggiare tutto il CentroSinistra.

Se continuiamo a rispondere a questi loro attacchi con metodi (e parole) consueti non se ne otterrà molto di buono. Solo parlando del futuro del CentroSinistra "tutto" si otterrà credibilità crescente.
 
Il PD ha tenuto al suo interno la "serpe in seno" della sinistraSinistra, che danni enormi ha creato al Governo degli Italiani, adesso che si è fatto ordine il CentroSinistra dica cosa farà nel prossimo governo lasciando perdere le polemiche da oratorio chiuso che alimentano solo malessere negli INDECISI.

ggiannig

da Fb del 14 febbraio 2018
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 16, 2018, 12:30:57 pm »

Il programma del Partito Democratico: il conto da pagare è di 56 miliardi
Sotto la lente, le elezioni e l’economia
1 Maggiori uscite per circa 40 miliardi, la più corposa è lo scorporo dal deficit di spese “mirate”.
Ridurre il cuneo contributivo porta minori entrate per 12 miliardi.
Le privatizzazioni sono irrealistiche

Di ROBERTO PEROTTI
12 Febbraio 2018

Questo è il primo di una serie di articoli a cura del professor Roberto Perotti che quantificano i costi dei programmi delle maggiori forze politiche. Maggiori dettagli su ogni voce appaiono nella versione più ampia di questo articolo sul sito. Le fonti sono il Programma breve in 100 punti e il Programma lungo, entrambi sul sito web del Pd.

QUANTO costa il programma elettorale del Pd? La somma dei costi è di almeno 56,4 miliardi (oltre il 3 percento del Pil), di cui 39,7 miliardi di maggiori spese e 16,7 miliardi di minori tasse. A questa cifra bisogna però aggiungere svariati ma imprecisati miliardi da ben trenta voci di maggiori spese e cinque voci di minori entrate, la cui quantificazione è impossibile in assenza di dettagli. Inoltre, il programma del PD non indica coperture. Di seguito commento brevemente le maggiori proposte, in particolare quelle di cui ho stimato personalmente i costi in assenza di indicazioni nel programma, divise tra maggiori spese e minori entrate. La voce principale è un piano di aiuti alle famiglie, 240 euro di detrazione Irpef mensile per i figli a carico fino a 18 anni e 80 euro per i figli fino a 26 anni, che raggiunge anche gli autonomi e gli incapienti, ad un costo stimato dal Pd di 9 miliardi.


Il programma del Pd prevede poi almeno 150 ore di formazione durante la vita di ogni lavoratore: la mia stima è di un costo annuo di 2 miliardi. Per quanto riguarda il reddito di inclusione, con la legge di Bilancio 2018 vengono stanziati 2,75 miliardi dal 2020; la mia stima del costo del raddoppio è dunque di 2,75 miliardi. Il PD propone l’innalzamento del livello di contribuzione alla cooperazione allo 0,3% del Pil.  Oggi per gli aiuti pubblici allo sviluppo l’Italia spende 3,1 miliardi. Per arrivare allo 0,3 percento del Pil, 5,3 miliardi, stimo quindi un costo di 2,2 miliardi. Il “ritorno a Maastricht” significa lo scorporo dal calcolo del deficit entro il tetto del 3% del Pil di spese “mirate e chiaramente identificabili”.  Questa misura va letta insieme alla prossima, l’ “emissione di Eurobond per finanziare progetti su capitale umano, ricerca e infrastrutture, fino al 5% del Pil dell’Eurozona”. La quota dell’Italia sarebbe il 5 percento del Pil italiano; sull’arco della legislatura, significa l’1 percento l’anno, cioè 18 miliardi.

Tra le minori entrate, la voce maggiore è la riduzione del cuneo contributivo dal 33 al 29 percento per lavori a tempo indeterminato, di un punto percentuale all’anno per quattro anni. La mia stima è di almeno 12 miliardi. Le altre due maggiori misure di riduzioni di entrate sono la riduzione dell’aliquota IRES dal 24 al 22 percento (2,8 miliardi), e l’estensione alle partite IVA del bonus 80 euro (1,9 miliardi).
Il programma del Pd non identifica coperture, eccetto per il punto 95 del Programma breve:  “Recuperare un punto di Pil nell’arco della prossima legislatura attraverso la digitalizzazione della PA”, su cui non vengono forniti ulteriori dettagli. Il Programma lungo enuncia però un ambizioso obiettivo di riduzione del debito: “ridurre gradualmente ma stabilmente il rapporto tra debito pubblico e Pil al valore del 100% entro i prossimi 10 anni”. Per raggiungerlo, basterebbe la “crescita attuale” anche in presenza di “politiche fiscali moderatamente espansive”. Questa affermazione è fattualmente scorretta. Attualmente il costo medio del debito è il 3,1 percento, la crescita nominale del Pil il 2 percento, l’avanzo primario l’1,7 percento del Pil, e il rapporto debito pubblico / Pil il 130 percento. È facile verificare che con questi numeri il rapporto debito pubblico / Pil rimarrebbe praticamente stabile. Con una politica fiscale “moderatamente espansiva”, diciamo un avanzo primario dell’1 percento del Pil invece dell’1,7 percento attuale, il rapporto aumenterebbe. È vero che l’inflazione probabilmente aumenterà, e con essa il tasso di crescita del Pil nominale, ma anche il tasso di interesse probabilmente aumenterà.

In un articolo per il Foglio del 14 gennaio 2018, Luigi Marattin enuncia uno strumento per contribuire a raggiungere l’obiettivo di riduzione del debito: un programma di dismissioni tra i 36 e 72 miliardi in un decennio, cioè tra 4 tra 7 miliardi l’anno. Questo è un obiettivo estremamente ambizioso (negli ultimi tre anni le dismissioni immobiliari sono state 700 milioni, circa lo 0,05 percento del Pil), soprattutto in mancanza della benché minima indicazione su come ottenerlo – e le dismissioni non si improvvisano, richiedono anni. A meno che non si voglia usare un veicolo come il progetto Capricorn della Cassa Depositi e Prestiti – di cui ha parlato Matteo Renzi in una sua intervista ieri al Sole 24 Ore – che è formalmente fuori dal perimetro delle Amministrazioni Pubbliche ma è di fatto pubblico a tutti gli effetti. Una privatizzazione solamente di facciata. In ogni caso, anche se avesse successo, questo programma di dismissioni ridurrebbe il rapporto debito / Pil di circa 4 punti percentuali al massimo.

(1 - continua)
roberto.perotti@unibocconi.it
 
© Riproduzione riservata 12 Febbraio 2018
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 18, 2018, 05:45:38 pm »

Gentiloni con Prodi: “Gli slogan dell’Ulivo sono ancora il tessuto del centrosinistra”

Il presidente del Consiglio: «I distacchi dei sondaggi sono colmabili»

Pubblicato il 17/02/2018 - Ultima modifica il 17/02/2018 alle ore 13:45

«Noi siamo nati come Ulivo sotto leadership di Romano Prodi, per andare al governo. Quella resta la nostra ispirazione, il nostro impegno, anche dopo vent’anni. Quegli slogan che ogni tanto venivano da un professore di Sassari (Arturo Parisi, ndr), “uniti per unire”, se li andate a riguardare sono tuttora il tessuto della coalizione del centrosinistra a guida Pd che oggi si presenta alle elezioni». Lo ha detto il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, intervenendo ad un incontro elettorale di “Insieme”.

«Abbiamo semplicemente fatto, non da ieri - ha detto ancora Gentiloni - una scelta per una sinistra e per un centrosinistra di governo. Questo siamo. Noi non ci accontentiamo per così dire delle nostre biografie, sappiamo che il mondo è complicato e che esercitare l’azione di governo è una sfida per Italia e resto del mondo. Ma l’alternativa di metterci in pace con le nostre biografie non ci convince».

 “I distacchi dei sondaggi sono colmabili” 
Nella corsa elettorale, rispetto alla coalizione avversaria, «c’e un distacco di sei-sette punti, non esistono distacchi incolmabili. Le cose possono cambiare se lavoriamo con grande impegno per un centrosinistra che risolva problemi del Paese» ha proseguito. «Sono convinto - ha concluso - che nella prossima legislatura l’unico pilastro stabile sia quello del centrosinistra, tutti devono dare il proprio contributo».

“Prodi è leader che può dare ispirazione” 
«La partecipazione mia e di Romano a questa iniziativa di Insieme credo che sia molto importante» ha aggiunto. «Abbiamo vinto due volte con Romano - ha proseguito Gentiloni nel suo intervento -, non sempre riusciamo a vincere. Negli ultimi anni di Prodi mi ha sempre colpito per questa sua straordinaria capacità di tenere insieme radici del territorio e una visione globale». «Al di là» dei ricordi «delle bella stagione - ha concluso il premier - Prodi è un leader che può dare a tutti noi ispirazione». 

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2018/02/17/italia/speciali/elezioni/2018/politiche/gentiloni-con-prodi-gli-slogan-dellulivo-sono-ancora-il-tessuto-del-centrosinistra-LZZ6rlw8RLexAjkWQOJvDP/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 09, 2018, 05:10:02 pm »

Nuovo PD ok.

Ma solo dopo una buona doccia, per togliere lo sporco visibile e quello ancora celato, da regalare agli avversari.
Solo uno shampoo alla testa non basta.

Altro quesito: nuovo PD con il rientro dei "guastatori" della sinistra-Sinistra?
Infine: nuovo PD per formare un grande CentroSinistra o per chiudersi in "casa"?


Prima riflettere poi, se volete, rispondere. Grazie.   
ggiannig
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 09, 2018, 05:12:03 pm »

Berlinguer: “Cari dem ora è tempo di opposizione”
Intervista a Luigi Berlinguer di Silvia Merlo – Il Dubbio

Pubblicato il 7 marzo 2018 in Politiche 2018
Luigi Berlinguer PD opposizione
© Imagoeconomica

Il Pd ha perso perché non è riuscito a mobilitare la base, facendo prevalere la pur importante funzione di governo sulla politica». Luigi Berlinguer, storico dirigente del Partito comunista e tra i padri nobili del Pd, vede una sola via contro l’inabissamento della sinistra riformista: «Non risolviamo la critica di ciò che è successo incentrandola su una sola persona, anche se le dimissioni di Renzi sono necessarie», «ricostruiamo il partito» e «ritroviamo il legame tra base e vertici». E, per il futuro governo, ragiona: «Ora è tempo di opposizione. L’interesse del proprio partito deve essere subordinato a quello del Paese, ma questo interesse si tutela anche svolgendo così».

L’errore del Partito Democratico è stato quello di non essere riuscito a mobilitare la sua base, perché «la sua funzione di governo ha prevalso sulla Politica con la p maiuscola». Per Luigi Berlinguer, storico dirigente del Partito comunista e tra i padri nobili del Pd, la sconfitta elettorale del centrosinistra assomiglia ad una svolta storica: «Sembrerebbe che la sinistra non eserciti più quella grande forza di attrattiva che ha avuto in altre stagioni».
 
La domanda che si pongono tutti gli elettori dem è il perché di questo tracollo. Lei che risposta si è dato?
«Partiamo da un dato: l’aumento dell’affluenza alle urne ha indicato positivamente una maggiore volontà di esprimersi da parte dell’elettorato, nel quale non ha prevalso il desiderio di abdicare alla sua funzione, come invece è successo nelle passate elezioni. Il secondo elemento, collegato a questo ma ben più rilevante, è che si è trattato prevalentemente di un voto di opposizione. Attenzione: non solo di opposizione politica, ma di forte insoddisfazione per la società in cui viviamo».
 
E quindi di insoddisfazione rispetto al governo uscente?
«Questo è un altro elemento: il successo delle misure di rafforzamento dei diritti realizzate dalla gestione governativa del Pd non ha pesato positivamente nelle elezioni. E innegabile che si siano conquistati alcuni diritti mai riusciti ad ottenere prima, ma questo bagaglio di successi non ha orientato l’elettorato e anzi ha penalizzato il partito che li aveva realizzati. Eppure questo voto di opposizione è una contraddizione solo apparente: si tratta di una critica generale al modo stesso di essere della nostra società, come già avvenuto negli ultimi anni e mesi anche in Europa e in America».
 
Siamo davanti a una crisi della sinistra di governo?
«La sinistra europea è stata investita in questi tempi da una critica radicale. Bisogna guardare lontano e dire le cose fino in fondo: sembriamo essere nel cuore di una svolta storica, che mostra come il bagaglio teorico-politico e di prassi delle azioni della sinistra sia invecchiato. Sembrerebbe che la sinistra non eserciti più quella grande forza di attrazione che ha avuto in altre stagioni. “Dico più”, forse perentoriamente, ma temo che questa insoddisfazione possa essere irreversibile se la sinistra non rivede se stessa, in Italia e in Europa».
 
Insomma, la sinistra finisce in soffitta?
«No, ma attenzione: ad essere in crisi non è la premessa culturale del socialismo, anzi. L’equità, la giustizia sociale, la liberazione umana, la dignità della persona risultano, invece, sempre più requisiti impellenti, che stanno prepotentemente al centro della scena politica e sociale con bruciante attualità. Ad andare in crisi è invece il modello di società e di Stato, il rapporto tra le classi sociali e persino una parte dell’armamentario lessicale della sinistra. In sintesi, sopravvive l’idealità e invecchia l’ideologia. Questo si rispecchia in un voto che, animato da una forte spinta di opposizione e di insoddisfazione sociale, in Italia ha premiato un’altra forza politica che non si capisce bene cosa sia, ma saldamente impiantata sul rifiuto, che grida “no” a tutto».
 
In una parola, si potrebbe definire i vincitori di queste elezioni Lega e Movimento 5 Stelle come forze populiste?
«Ho timore che il ricorso a questo termine dica troppo poco. Il rischio nella loro vittoria è quello di scaricare la spinta progressista di opposizione sociale in una soluzione politica che è vicina al nulla. Si tratta, infatti, di forze che non hanno ancora e non so nemmeno se l’avranno un’adeguata strumentazione degli atti e degli indirizzi politici necessari a trasformare la spinta del “no” nella costruzione di una diversità sociale. Ecco la contraddizione: una spinta naturalmente progressista come quella contro lo status quo, che però si orienta al “no” tout court e quindi al nulla».
 
Torniamo allora al Pd, che errori ha commesso?
«Negli ultimi tempi e anche in questa campagna elettorale, la funzione di governo pur importantissima ha tuttavia prevalso rispetto alla Politica con la p maiuscola. Una sinistra di governo, infatti, ha di fronte a sé un compiuto assai arduo: conciliare la fattività riformista e quindi la costruzione di risultati, con la capacità di restare sinistra e quindi di collegarsi alla propria base e di essere capace di mobilitarla continuamente per il cambiamento. Alla sinistra occorrono sempre entrambe le componenti, il pragmatismo riformista e la permanente capacità di mobilitazione e di lotta. Questa seconda, invece, è apparsa molto debole».
 
Concretamente, che cosa è mancato?
«Abbiamo pagato gravemente la quasi scomparsa del partito, in quanto organizzazione e casa permanente della sinistra, sede di continua elaborazione, di partecipazione e persino di lotta. Senza un partito riformista ben organizzato e con alti tassi di partecipazione dei militanti non esiste riformismo possibile, perché non si può riformare solo con gli annunci e i messaggi mediatici, servono i fatti. Contemporaneamente, i soggetti del cambiamento devono partecipare attivamente a questo processo e non possono sentire estranea l’azione dei propri vertici politici. Il cambiamento deve conservare tutta la forza d’urto dell’azione sociale, attraverso la partecipazione».
 
Un partito che è stato troppo “liquido”, quindi?
«Troppo liquido, quasi aeriforme. C’è stata insensibilità politica ma soprattutto culturale rispetto a che cosa sia un partito e a quanto esso sia indispensabile per la vita della democrazia e necessario per radicare convinzione e adesione dei progressisti. Il partito non è un optional secondario e non serve essere leninisti per capirlo; basta essere oggi, hic et nunc, progressisti e riformisti, che oggi sembrerebbe coincidere con una nuova accezione del termine “rivoluzionari”».
 
Ha apprezzato allora la decisione di Matteo Renzi di dimettersi da segretario del partito?
«Rispetto la decisione di Renzi di collegare il clamoroso insuccesso elettorale con l’assetto del partito. In questo caso le dimissioni o sono immediate o cosa sono? Rispetto anche se questo è stato il senso del suo scegliere di convocare il congresso dopo le consultazioni che prima di tutto viene l’interesse del Paese a sistemare la questione drammaticamente urgente del decollo del nuovo Parlamento e di avere un governo. Bisogna, tuttavia, evitare che tutto questo appaia come un rinvio del congresso e delle sue dimissioni».
 
Anche per questo il Pd è in ebollizione e Renzi è il grande imputato, oltre che della sconfitta, anche della poca salute del partito.
«Renzi segretario e netta sconfitta del partito: l’equazione è automatica. Teniamo comunque alta l’ambizione politico-culturale di questo dibattito ed evitiamo di risolvere la critica solo incentrandola su una sola persona. Non facciamo sconti a nessuno ma conserviamo in questo momento uno spirito costruttivo: richiamiamo tutti alle proprie responsabilità, nell’intento di determinare un movimento di tutti e con tutti per allargare e non restringere la partecipazione, per approfondire e non sorvolare sulle questioni teoriche di fondo, per individuare con coraggio intellettuale oltre che politico le vie di uscita da una crisi ormai storica, come pure da un insuccesso così bruciante».
 
Lei crede che così si esorcizzi quello che prima ha definito “il rischio che la forza attrattiva della sinistra si sia esaurita”?
«Io ho visto in tutti i nostri circoli lo sconcerto, il dolore, la sofferenza per questo insuccesso. L’ho visto negli occhi di tutti quegli attivisti che si sono mossi con la consueta generosità, soprattutto nelle ultime settimane della campagna elettorale. Ho assistito ad episodi di azioni e di abnegazione che sono il cuore della militanza politica. Non deludiamo questo potenziale, che c’è e che possiamo ricaricare creando idee nuove di giustizia sociale e di strategia progressista. Molto dipenderà da come sarà organizzato fattivamente e positivamente il dibattito e da come il partito vivrà questo difficilissimo momento istituzionale della Repubblica».
 
Il suo è un appello all’unità?
«È un appello al popolo del Pd. Un richiamo a cambiare risolutamente il vuoto di interesse per il partito e per la sua vitalità di questi ultimi tempi. Senza turbare lo svolgimento delle irrinviabili misure di assestamento istituzionale, deve però essere chiaro che una sconfitta di queste dimensioni -specialmente se è vero che essa risiede anche in una ormai inadeguatezza storica, teorica e strategica degli stessi fondamenti ideali della sinistra richiede un’operazione politico-culturale radicale. Non bastano l’autocritica politica e persino il rilancio della forma organizzata del partito: esse devono anche essere accompagnate da un largo dibattito. Dobbiamo far crescere la consapevolezza che i cambiamenti dovranno essere profondi e che bisogna ricominciare a pensare teoricamente a che cosa sia, oggi, una vera sinistra».
 
A proposito del fronte istituzionale, Renzi ha collocato il Pd all’opposizione, come promesso in campagna elettorale nel caso di una sconfitta, ma in molti chiedono di ragionare su un’apertura ai 5 Stelle, nell’ottica di responsabilità istituzionale. Lei come si colloca?
«Ora è tempo di opposizione. È successo talvolta, nella nostra storia, che potesse insorgere un ipotetico conflitto tra la volontà di sostenere e rilanciare il partito e l’interesse generale dello Stato. Chi non fa l’interesse del proprio partito è un cattivo politico e un cattivo militante, chi non fa l’interesse del proprio Paese è un cattivo cittadino. Tenderei a dire che in una tale ipotesi di conflitto, che tuttavia non so quanto sia attuale, anzitutto viene l’interesse del Paese. Questo interesse, però, si tutela assumendosi compiti di sostegno al governo, ma lo si può fare altrettanto svolgendo una energica e positiva azione di opposizione. Il Paese ha bisogno di un buon governo ma anche di una efficace opposizione. La scelta è spinosa, ma in nessuno dei due casi la soluzione può essere un rifugio in cui collocarsi solo nell’interesse del proprio partito».

Non teme, nel caso di un appoggio al futuro governo, di mettere in crisi ciò che è rimasto dell’elettorato del Pd?
«Io credo che se sapremo sostenere efficacemente, anche di fronte a un certo nullismo presente in altri partiti, una concreta azione politica che assicuri una gestione istituzionale in favore dell’Italia, questo potrà giovare al Pd e al suo rilancio politico».

Da - https://www.partitodemocratico.it/politiche-2018/berlinguer-cari-dem-ora-tempo-opposizione/
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 10, 2018, 05:58:11 pm »


Il Pd rinuncia alle primarie. Leader scelto dalle correnti
Segretario eletto in assemblea: in pole Delrio, Zingaretti in pista nel 2019.
I dem temono le sirene di un governo guidato dal leghista Giorgetti con Fi
Carlo Calenda «Non mi candido perché sarei un buffone», ha detto. Forse di qui a un anno o due potrebbe maturare un desiderio che allo stato non si vede. Anche perché pare che da Statuto un nuovo iscritto non possa candidarsi leader

Pubblicato il 10/03/2018

CARLO BERTINI
ROMA

Il campo martoriato del Pd consiglia a tutti i contendenti di cercare una tregua se pur armata. Per questo da ogni parte si presti orecchio, il refrain è sempre lo stesso: meglio evitare le primarie in questa fase. Lo ammettono perfino i renziani, che - pur divisi al loro interno - si stanno rassegnando a questo epilogo che trova d’accordo tutti: da Franceschini a Fassino, da Orlando a Zanda e via dicendo. Rinviando in sostanza al 2019 la contesa. E, per arrivarci, si sta disegnando un percorso. Che vede Maurizio Martina nel ruolo di traghettatore, il tempo per convocare l’assemblea nazionale una volta scavallata l’elezione dei presidenti delle Camere.

Superato questo scoglio, designare all’unanimità, senza candidature contrapposte, un segretario vero: come lo fu Franceschini dopo Veltroni ed Epifani dopo Bersani. Una figura che conduca il partito fuori dalle secche. Fino a quando? Qui le strade divergono: alcuni vorrebbero fino al 2021, scadenza naturale da statuto. Altri fino al 2019, in coincidenza con le europee e magari con un voto anticipato. E chi potrebbe essere questa figura? Il nome più gettonato da varie parti è quello di Graziano Delrio. Anche Renzi - che lunedì sarà in Direzione senza aver alcuna voglia di mollare la presa sul partito - nella sua rosa di favoriti annovera lui al primo posto, seguito da Sergio Chiamparino e in terza battuta da Matteo Richetti. Pure se il ministro dei Trasporti non ha lesinato critiche, Renzi lo considera sempre uno dei suoi.

«È un personaggio di peso e in questa situazione serve qualcuno con una certa statura», dicono i fiorentini. Anche sull’altra sponda, quella degli anti-renziani, Delrio è molto ben visto. Se non altro, perché designare lui consentirebbe di non andare alla “conta”, evitando così uno scontro fratricida. 

Dalle parti di Orlando la pensano in modo un filo diverso, puntando su Martina reggente e Zingaretti segretario. «Non sentiamo il bisogno di tornare alla contrapposizione dei gazebo - dice Cesare Damiano - ma di un partito che consulta gli iscritti. Superando la transizione con la designazione unitaria di un segretario». Ma le vie per la tregua sono tante. 

Lo stesso Zingaretti non amerebbe correre senza le primarie e anche per lui, fresco di elezione a governatore, il 2019 o 2021 potrebbero andar bene. Stesso dicasi forse per un neo-iscritto di peso come

Carlo Calenda. Che non avendo alcuna intenzione di scendere in campo oggi, «non mi candido perché sarei un buffone», forse di qui a un anno-due potrebbe maturare un desiderio che allo stato non si vede. Anche perché pare che da Statuto un nuovo iscritto non possa candidarsi leader. Ma su questa voglia di sedare e sopire, o di rigenerare il partito, incombe una spada di Damocle: l’arrivo - di cui si vocifera tra i renziani - di un’offerta del centrodestra per un appoggio esterno del Pd ad un governo guidato da un fedelissimo di Salvini, Giancarlo Giorgetti.

Numero due di fatto del Carroccio, deputato di lungo corso, già presidente di commissioni economiche, cattolico e da sempre in buoni rapporti con i Dem. In quel caso il Pd si spaccherebbe di nuovo: gli orlandiani, ma anche molti renziani, non vogliono finire nelle braccia della Lega. Ma non si sa se gli altri big e il corpaccione dei peones resisterebbero ai richiami di Mattarella. Specie di fronte alla minaccia di un altro voto anticipato a stretto giro, con il rischio di finire nel baratro. 

 Licenza Creative Commons
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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/10/italia/politica/il-pd-rinuncia-alle-primarie-leader-scelto-dalle-correnti-MGuIwytrDODqUuMwvO5jRL/pagina.html
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 10, 2018, 06:08:52 pm »

Rispondere alla solitudine degli elettori per recuperare i nostri voti andati ai 5 stelle

 09/03/2018 16:29 | Aggiornato 6 ore fa

Anna Finocchiaro Ministro per i Rapporti con il Parlamento

Non vedo altra strada che quella di una riflessione collettiva e plurale per reagire a una sconfitta elettorale che non ha eguali nella storia repubblicana né per il PD, né per i partiti della sinistra dalla cui tradizione proviene.

Provo ad indicare solo alcune delle questioni su cui aprire questa riflessione, e dico subito che ritengo che nel nostro lavoro di analisi sarebbe bene giovarsi non solo degli strumenti tradizionali della politica, ma anche di saperi altri, non consueti, ma per questo e per rendere sempre più partecipato questo lavoro, grandemente utili.

Parto da una considerazione condivisa, ma a mio avviso non compiutamente esplorata, che è quella che generalmente evoca le grandi trasformazioni che investono la nostra società contemporanea e che mettono in difficoltà i partiti nel loro ruolo di rappresentanza e trasmissione di volontà popolare all'interno delle sedi istituzionali decidenti, come riconosciuto dall'articolo 49 della Costituzione.

Sulla crisi del modello tradizionale di partito, e del modello dei partiti di massa nella nostra esperienza nazionale, si è molto scritto.

La riflessione che pure dentro al PD, sin dall'atto della sua costituzione e già al tempo del passaggio dal PCI al PDS, è stata avviata e ha provato alcune sperimentazioni, ma non ha prodotto risultati assestati e soddisfacenti. Ora, a me pare che, al di là di ogni pur presente deviazione di stampo leaderistico, il problema nudo e crudo sia che i partiti politici non riescono ad essere più luogo effettivo e riconosciuto di rappresentanza.

Rappresentanza di soggetti, di categorie, di interessi, di territori, di bisogni, di desideri, di scelte valoriali, di prospettiva politica.

Questa difficoltà, che oggi misuriamo sulla incerta definizione della "identità politica" del Partito Democratico, non è un fatto accidentale. È frutto – lo dicevo prima – di una così profonda trasformazione sociale da rendere davvero complessa ogni operazione di rappresentanza politica in senso classico.

A guardare oggi la società italiana è assai difficile ritrovare quel tratto unificante che, ad esempio, tradizionalmente aveva fatto del più grande partito della sinistra il partito del lavoro.

Quale lavoro? Il lavoro (seppure così mutato) nelle fabbriche, il lavoro nei servizi (nelle sue mille accezioni), il lavoro frammentato dei part-time, quello dei contratti a tempo, il telelavoro, il lavoro occasionale, il lavoro delle partite IVA, il lavoro nero o quello dei sottoccupati? Quale lavoro dunque? E di quale disoccupazione parliamo? Degli inoccupati, dei giovani laureati del Mezzogiorno, dei lavoratori licenziati senza ritorno possibile, dei licenziati delle multinazionali, dei lavoratori dell'indotto che sono magari padroncini? Di chi parliamo?

È già difficile – come sappiamo – per il sindacato trovare il nesso unificante che dia sostanza e forza alla rappresentanza, cioè all'identificazione di gruppi sociali in quel soggetto.

Ma non siamo più da tempo "solo" il partito del lavoro. Abbiamo avuto l'ambizione di essere la rappresentanza politica della parte più "moderna" della società italiana, per contribuire alla crescita del Paese imprimendo ad essa il segno delle uguaglianze di opportunità, del contrasto alle disparità e alle discriminazioni, della legalità e della coerenza con un quadro di crescita europea e con le stesse regole dell'Unione.

Bellissimo. Ma non ha funzionato. Le sorti magnifiche e progressive, che pur nel morso della crisi abbiamo giustamente difeso, non hanno parlato all'Italia. Non hanno parlato a quegli elettori che ci hanno preferito il M5S. Non alle élite che ancora costituiscono un bacino importante – il più consistente – degli elettori del PD. Ma agli altri. A cominciare dagli elettori del Mezzogiorno e, come abbiamo visto anche con il risultato referendario, dai giovani.

Molti commentatori politici hanno proposto di leggere la società italiana e il conseguente risultato elettorale sulla scorta del sentimento di paura che vi serpeggia. È certamente una chiave di lettura. Credo personalmente che, di fronte al fenomeno migratorio, la risposta politica – pur razionale e "corretta" – non sia in grado di sconfiggere quel sentimento di paura e che questo, ad esempio, abbia vigorosamente nutrito il voto alla Lega, laddove la risposta semplicistica (e irrealizzabile) del "ve li leviamo di torno" è apparsa comunque rassicurante.

Ma io credo ci sia dell'altro e torno a quelle centinaia di migliaia di nostri elettori che hanno votato M5S. A me pare, infatti, che ancora sotto la paura (che ne è conseguenza), ciò che caratterizza gran parte della società italiana sia la perdita di nesso. Il fatto, cioè, che si siano lacerati tutti quei legami che rendevano la condizione umana, specie le esistenze più difficili e faticose, inserita in una rete di legami che davano a ciascuno l'idea di essere comunque parte di qualcosa di più vasto, e dunque di più forte, e che rendevano dotata di un senso riconosciuto l'esperienza di ciascuno.

Io sono io perché sono siciliano, operaio, impiegato, iscritto al sindacato, militante di un partito, figlio, padre, madre in un contesto familiare ristretto, abitante di quel quartiere. Io sono quei "qualcosa", e non sono solo.

Non ripeto qui – molte volte è stato detto – perché quel nesso, fatto di tanti legami, ciascuno dei quali aveva in sé una propria potenza, dava senso a quella esistenza. La straordinaria frammentazione, e frantumazione, che ha investito la società ha travolto insieme nessi e senso. Il risultato è che sia la solitudine – troppo spesso – il segno della vita di moltitudini di persone. È il trionfo dell'individualismo "debole", del "devo fare da solo", del rancore e della rabbia, della paura.

Il M5S ha offerto alcune soluzioni. A mio avviso sbagliate, inefficienti, ma che assecondano quella condizione e quei sentimenti.

Pensate solo alla possibilità di credere (anche se non è vero) che "uno vale uno", che cioè se clicchi sul tasto il tuo parere vale tanto quanto quello di chiunque altro, anche se non è filtrato da alcuna riflessione, o da alcuna competenza. La possibilità di esprimere la tua potenza, in un illusorio egualitarismo, sorpassa in quel soggetto ogni osservazione critica sul fatto che, come abbiamo già mille volte visto, quello che pensi conterà zero, se il capo del Movimento, Grillo o Casaleggio o chiunque sia, la pensa diversamente.

L'illusione (la mistificazione) della potenza uguale. La possibilità di esprimere rabbia e malcontento, postandole e urlandole sul web, sterilizza momentaneamente la solitudine, che tale però resta, perché uguale resta l'assenza di legame. Ciascuno è disperatamente solo, impaniato dall'illusione. In qualche modo questo ha inciso sullo stesso nobile principio della democrazia diretta, che è stato mal inteso come gerarchicamente sovraordinato e generalmente sostitutivo degli strumenti di democrazia rappresentativa.

Io partirei da qui, dalla categoria, forse non politica, della solitudine, dall'assenza di legame e dalla conseguente perdita di senso della propria esistenza per ricominciare a tessere.

Credo che un enorme lavoro politico, dunque, ci attenda.

Da - http://www.huffingtonpost.it/anna-finocchiaro/rispondere-alla-solitudine-degli-elettori-per-recuperare-i-nostri-voti-andati-ai-5-stelle_a_23381581/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 12, 2018, 04:15:32 pm »

Pd, Sala attacca Zingaretti: "I mandati vanno portati a termine"

Il sindaco di Milano critica la dichiarazione del governatore del Lazio di voler correre al Congresso del partito.

E invita anche Renzi a dare dimissioni chiare.

Esame di coscienza per LeU, Fratoianni: "Sovraesposizione di D'Alema e Bersani ha contribuito al fallimento"

10 marzo 2018

"Ho trovato improprio Zingaretti. Per come sono fatto io i compiti e i mandati vanno portati a termine": lo ha detto il sindaco di Milano, Beppe Sala, intervistato da direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana a Tempo di libri, a proposito del neo rieletto governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che si è già detto pronto a partecipare alle prossime primarie del Pd.

"Io ho fatto un patto con i milanesi per fare il loro sindaco e voglio portarlo a termine", ha ribadito Sala, che invece ha espresso apprezzamento per la decisione del ministro Carlo Calenda, che in un momento come questo per il Pd "va e si prende la tessera".

Michele Emiliano ci tiene a stoppare sul nascere qualsiasi tentazione di alleanza con la Lega di Matteo Salvini: "Sto aspettando di vedere chi deve parlare nel mio partito sull'apertura di Salvini al Pd perchè poi - come si dice - avrà a che fare con me".

Intanto in casa LeU è il momento dell'esame di coscienza: "Immaginare che la responsabilità sia di una persona sola è un grande errore, ma non c'è dubbio che la nostra campagna elettorale è stata segnata da una sovraesposizione di figure con un linguaggio e una cultura politica che non hanno funzionato".

Dopo voto, Fratoianni (Leu): "Sovraesposizione di D'Alema e Bersani ha pesato sul risultato"
Così a margine della direzione di Sinistra italiana, il segretario di Si e deputato di Leu Nicola Fratoianni risponde a chi gli chiede quanto abbia pesato Massimo D'Alema, Pier Luigi Bersani e altri storici esponenti ex Pd sul cattivo risultato elettorale della formazione guidata da Pietro Grasso.

Ancora più esplicito il compagno di partito Stefano Fassina: "LeU per i messaggi e la classe dirigente in prima linea, è stato il Pd pre-renziano e siccome non andava bene quel Pd, lo avevamo visto nel 2013, non è andato bene tanto più oggi, in un quadro aggravato rispetto allora".

© Riproduzione riservata 10 marzo 2018

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2018/2018/03/10/news/pd_sala_attacca_zingaretti_i_mandati_vanno_portati_a_termine_-190939363/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 12, 2018, 04:51:50 pm »

Chi sta con chi? La mappa definitiva delle correnti del Pd

I renziani rappresentano il 60% della pattuglia parlamentare del partito.
Ma la situazione è estremamente fluida

di PAOLO MOLINARI 10 marzo 2018,07:15


PD CORRENTI MATTEO-RENZI DARIO-FRANCESCHINI MAURIZIO-MARTINA ANDREA-ORLANDO
Rappresentano il 60 per cento dei parlamentari del Partito Democratico: sono i renziani che siederanno in Parlamento e che, ad oggi, si dicono fedeli al segretario uscente. Gli smottamenti nel Pd, conseguenza della sconfitta alle elezioni rendono la situazione delle correnti estremamente fluida, con esponenti renziani che si allontano dal segretario e altri che cercano di tenere insieme le fila. Ecco qual è, al momento, la composizione delle aree Pd:
Matteo Renzi
Il segretario sta per passare il testimone a un reggente e, stando a quanto dichiarato dal capogruppo Pd alla Camera dei deputati, non si ricandiderà alle primarie. Potrà contare comunque su un folto numero di parlamentari con cui eventualmente orientare le scelte del partito.

L'Inner Circle renziano
- Maria Elena Boschi: braccio destro di Renzi fin dai tempi di Palazzo Vecchio.
- Luca Lotti: 'uomo macchina' al quale Renzi delega i dossier più delicati riguardanti il partito.
- Francesco Bonifazi: accanto a Renzi dai tempi in cui era segretario del circolo Pd "Vie Nuove" a Firenze.
- Tommaso Nannicini: consulente economico di Renzi, a lui il segretario ha affidato il programma Pd.

I renziani duri e puri
- Andrea Marcucci: occhi e orecchie di Renzi al Senato, i suoi tweet riportano la linea del segretario.
- Lorenzo Guerini: con Renzi in Anci, quando entrambi erano sindaci, l'uno di Firenze l'altro di Lodi.
- Ettore Rosato: nasce franceschiniano ma diventa uno dei più strenui difensori della linea del segretario.
- Dario Parrini: renziano della prima ora, è stato per anni segretario regionale Pd.
- Davide Faraone: l'uomo di Renzi a Palermo.
- David Ermini: con Renzi nella campagna per le primarie contro Bersani.
- Alessia Morani: avvocatessa di Pesaro, renziana della prima ora.
- Anna Ascani: convertita alla causa renziana dopo essere arrivata in Parlamento con Enrico Letta.
- Luciano Nobili: organizzatore dell'area Renzi e responsabile della campagna di Giachetti contro Raggi.
- Rosa Maria Di Giorgi: considerata una delle fedelissime di Renzi.

Area Renzi
- Carla Cantone: candidata simbolo di queste elezioni per l'impegno sindacale in Cgil.
- Roberto Giachetti: uno dei più strenui difensori di Renzi contro la minoranza di Bersani e Speranza.
- Filippo Sensi: portavoce di Renzi a Palazzo Chigi e poi al Nazareno, prima di dedicarsi a Gentiloni.
- Silvia Fregolent: torinese, fedelissima dell'ex premier ha guidato la commissione di garanzia del congresso.
- Lucia Annibali: una delle candidate simbolo, assieme a Carla Cantone e Lisa Noja, volute da Renzi.
- Davide Gariglio: segretario regionale in Piemonte ebbe a dire "meglio di Renzi solo de Gasperi".
- Franco Vazio: una vita nei Ds, bersaniano, si è convertito al renzismo abbracciandone il rito ortodosso.
- Raffaella Paita: candidata fortemente voluta e difesa da Renzi in Liguria, sconfitta poi da Giovanni Toti.
- Maria Chiara Gadda: varesina, incaricata da Renzi per il dipartimento Lotta allo spreco alimentare del Pd.
- Mario Del Barba: frontman del leader Pd in commissione banche.
- Emanuele Fiano: incaricato da Renzi di redigere la prima bozza di legge elettorale, il Fianum.
- Lisa Noja: avvocata che si batte per i diritti dei disabili, accanto a Renzi alla presentazione dei candidati.
- Alfredo Bazoli: nasce prodiano, è passato a Renzi ed è stato tra i pochi a difenderlo dopo il flop urne.
- Elena Carnevali: si definisce "convinta elettrice del Pd e altrettanto convinta sostenitrice di Matteo Renzi".
- Roger de Menech: uomo di fiducia di Renzi in Parlamento e soprattutto in Veneto.
- Alessandro Zan: a lui il segretario ha affidato la battaglia per le unioni civili alla Camera.
- Luciano D'Alfonso: presidente della Regione Abruzzo, fortemente voluto da Renzi in Parlamento.
- Salvatore Margiotta: di casa alla Leopolda, dice di Renzi "nessuno ha la sua stoffa".
- Ernesto Magorno: "special one" dei dem calabresi e photobombing in tutte le iniziative con il segretario.
- Daniele Manca: primo cittadino di Imola definito da Renzi "uno dei migliori sindaci che abbiamo".
- Matteo Richetti: considerato un nativo leopoldino ha avuto alti e bassi con il segretario.
- Simona Malpezzi: a lei Renzi ha affidato il compito di far passare il messaggio della Buona Scuola, ma fonti del Pd oggi la danno in avvicinamento a Graziano Delrio. Mino Taricco: esponente di punta del renzismo nella provincia di Cuneo.
- Giuseppe Cucca: segretario regionale Pd della Sardegna.
- Nadia Ginetti: secondo posto per lei nel listino in Umbria, dietro al Segretario.
- Luigi Marattin: braccio destro economico di Renzi.
- Antonello Giacomelli: sottosegretario al Mise, gia' franceschiniano, oggi e' in asse con Lotti.
- Laura Cantini: toscana, vicina al ministro Luca Lotti.
- Camillo D'Alessandro: assieme a Luciano D'Alfonso il nome forte del Pd in Abruzzo.
- Stefania Pezzopane: ex presidente della Provincia dell'Aquila, bersaniana convertita al renzismo (ma data in uscita dall'area Renzi).
- Umberto Del Basso Decaro: già sottosegretario alle Infrastrutture, fedelissimo del segretario.
- Piero De Luca: figlio del governatore campano, la sua candidatura ha destato polemiche.
- Vito De Filippo: ex sottosegretario alla salute con Renzi premier.
- Antonio Viscomi: vice presidente della Regione Calabria.
- Daniela Cardinale: figlia dell'ex ministro Salvatore, voluta da Renzi in corsa in Sicilia.
- Gavino Manca: assieme a Luigi Cucca e' l'organizzatore dei renziani in Sardegna.
- Luigi Cucca: il secondo pilastro del renzismo nell'Isola.
- Tommaso Cerno: giornalista ed ex condirettore di Repubblica.
- Stefano Collina: per inquadrarlo Wikipedia scrive "vicino alla linea politica di Renzi".
- Vanna Iori: ex bersaniana, si occupa di temi legati all'infanzia.
- Mauro Laus: già presidente del Consiglio regionale piemontese.
- Marco Di Maio: "il Di Maio buono" ebbe a dire Renzi di lui.
- Stefano Lepri: cattolico, si è opposto a Renzi solo in occasione del voto sulle stepchild adoption.
- Patrizia Prestipino: ultrà renziana, ha confessato di scambiare messaggi ed emoticon con il segretario.
- Lia Quartapelle: stimata da Renzi al punto da essere stata in predicato per diventare ministro degli Esteri.
- Andrea Romano: dalemiano negli anni Novanta, oggi è renziano e direttore di Democratica.

Sinistra è cambiamento
L'area di Maurizio Martina ha sostenuto la mozione Renzi-Martina al congresso e, dunque, è a tutti gli effetti in maggioranza. Gli smottamenti conseguenti la sconfitta e il ruolo di reggente che si appresta ad assumere il ministro dell'Agricoltura potrebbero cambiare lo scenario. Altri eletti, oltre a Martina, sono:
- Micaela Campana: entrata in Parlamento in quota Bersani e passata ai 'Responsabili' (altro nome per Sec).
- Mattia Mauri: milanese, uomo-organizzazione della corrente alla Camera.
- Roberto Rampi: brianzolo, al secondo mandato da parlamentare.
- Teresa Bellanova: una vita al sindacato, scelta da Renzi per ricucire con le parti sociali.
- Paola De Micheli: commissaria per la ricostruzione post-sisma succeduta ad Errani a Palazzo Chigi.
- Diego Zardini: segretario Pd a Verona.

Areadem
Si tratta della corrente che fa riferimento a Dario Franceschini, quella con il peso politico maggiore dopo i renziani. Ne fanno parte, tra i nuovi eletti:
- Luigi Zanda: duro lo scambio con i renziani in occasione delle dimissioni del segretario.
- Gianclaudio Bressa: unico non renziano eletto con il maggioritario al Senato.
- Daniela Sbrollini: deputata e responsabile sport Pd (ma molto legata a Ettore Rosato).
- Annamaria Parente: senatrice e responsabile Formazione del Pd.
- Bruno Astorre: romano di formazione democristiana, già assessore con Marrazzo, senatore dal 2013.
- Vito Vattuone: segretario del Pd a Genova, da verificare il suo avvicinamento all'area Renzi.
- Edoardo Patriarca: esperto di Terzo Settore.
- Laura Garavini: torna in Parlamento da senatrice eletta nella Circoscrizione.
- Sonia Ferrari: eletta in Senato, già commissaria del Parco della Sila.
- Caterina Bini: appartiene all'area di Franceschini pur avendo collaborato a stretto contatto con esponenti renziani di primo piano.
- Franco Mirabelli: è stato tra i franceschiniani a prendere posizione contro la scelta di Renzi di "decidere in solitudine" i prossimi passaggi alle Camere.
- Alberto Losacco: franceschiniano, si è avvicinato al segretario. Oggi fonti del Pd lo danno di nuovo in piena Areadem.

Dems
La corrente di Andrea Orlando nella quale sono confluiti anche alcuni esponenti di Sinistra Dem, area guidata da Gianni Cuperlo.
- Andrea Orlando: ministro della Giustizia, ha sfidato Renzi alle primarie.
- Barbara Pollastrini: cuperliana e vice presidente dell'assemblea dem.
- Susanna Cenni: al secondo mandato, Orlando ha battezzato la sua campagna elettorale in Valdelsa.
- Francesco Critelli: segretario del Pd a Bologna, si è schierato con Orlando al congresso.
- Andrea De Maria: già esponente cuperliano, ora sostiene Orlando contro la maggioranza.
- Andrea Giorgis: costituzionalista, in minoranza dal 2013 non ha seguito Bersani in Mdp e Leu.
- Alberto Pagani: ha dichiarato di scegliere Orlando "perché unico a garantire alternanza nel Pd".
- Antonella Incerti: espressione dell'area Orlando nel reggiano.
- Monica Cirinnà: madrina della legge sulle Unioni Civili.
- Anna Rossomando: stretta collaboratrice di Orlando sui temi dei diritti dei detenuti.

Fronte democratico
L'area del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano conta tre eletti:
- Francesco Boccia: presidente della Commissione Bilancio della Camera e fedelissimo del governatore.
- Marco Lacarra: consigliere e segretario regionale del partito in Puglia.
- Ubaldo Pagano: giovane segretario provinciale sul quale scommette Emiliano.

I governativi
- Paolo Gentiloni: presidente del Consiglio, sostenuto dai padri fondatori Walter Veltroni e Romano Prodi, oltre che da Giorgio Napolitano, che lo vedrebbero bene a Palazzo Chigi anche nella legislatura che si sta per aprire.
- Pier Carlo Padoan: ministro dell'Economia sia con il governo Renzi che con quello Gentiloni.
- Maria Anna Madia: ministro della Pubblica Amministrazione, nasce veltroniana, oggi è considerata renziana.
- Dario Franceschini: ministro dei Beni Culturali, punto di riferimento di Areadem, la corrente di maggior perso politico nel partito dopo quella renziana. I rapporti con il segretario dem si sono fatti più tesi negli ultimi giorni.
- Roberta Pinotti: ministro della Difesa, schierata con Renzi dalle primarie perse dall'allora sindaco di Firenze contro Bersani
- Graziano Delrio: da renziano doc a punto di riferimento per chi cerca l'alternativa a Renzi nel partito.
- Maurizio Martina: ministro dell'Agricoltura e vice segretario del Pd. Sarà lui il "reggente" del partito fino al prossimo congresso.
- Valeria Fedeli: una lunga carriera nel sindacato culminata con la vice presidenza della European Worker Federation. Lascia il sindacato nel 2013 quando diventa senatrice e vice presidente di Palazzo Madama. Gentiloni la chiama a Palazzo Chigi per sostituire Stefania Giannini.
- Marco Minniti: ministro dell'Interno con il governo Gentiloni, apprezzatissimo anche da Renzi per la sua politica sui migranti, è stato anche sottosegretario alla presidenza del Consiglio con il governo D'Alema, ha ricoperto lo stesso ruolo con la delega ai servizi segreti durante il governo presieduto da Enrico Letta.

Gli altri
Un gruppo composito è poi quello degli eletti a cui non è possibile, al momento, attribuire una collocazione d'area.
- Roberto Morassut: veltroniano al fianco del padre fondatore Pd dai tempi della giunta di Roma.
- Walter Verini: collaboratore e amico di Walter Veltroni fin dagli anni Ottanta.
- Mauro Marino: piemontese, vicepresidente della fondazione Italia-Usa.
- Eugenio Comincini: eletto nella circoscrizione Lombardia 4 del senato dietro Simona Malpezzi.
- Francesco Giacobbe: senatore eletto nella circoscrizione estero Australia.

Naturalmente, agli eletti e alle correnti del Partito Democratico, vanno aggiunti gli alleati del centro sinistra, dai socialisti-ambientalisti-prodiani di Insieme, ai radicali, col sostegno dei cattolici di Tabacci, di +Europa, passando per la Sudtiroler Volks Partei e l'Union Valdoten. Questi eletti rispondono a sensibilità diverse, difficili da inquadrare con le categorie delle correnti Pd.

+Europa
- Bruno Tabacci: eletto nell'Uninominale Camera Lombardia, cattolico e leader di Centro Democratico, è stato vicino a Giuliano Pisapia prima che il progetto di Campo Progressista naufragasse.
- Emma Bonino: già ministro degli esteri con Enrico Letta, sostituita da Renzi con il quale, prima dell'alleanza, ha duramente polemizzato per la politica adottata sui migranti.
- Riccardo Magi: segretario dei radicali per Emma Bonino, è il braccio destro della leader.
- Alessandro Fusacchia: eletto con +Europa nella circoscrizione estero, ex capo di gabinetto del Miu con il ministro Stefania Giannini. In precedenza agli esteri con Emma Bonino e al Mise con Passera.

Lista Civica Popolare
- Beatrice Lorenzin: uninominale Camera, Emilia Romagna.
- Pier Ferdinando Casini: uninominale Senato, Emilia Romagna.

Insieme
- Riccardo Nencini: segretario nazionale Psi, viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti con Renzi e Gentiloni, eletto nell'uninominale del Senato.
- Serse Soverini: prodiano e collaboratore del Professore dai tempi di Palazzo Chigi.

Svp
- Albrecht Plangger, Renate Gebhard, Juliane Unterberger, Reinhard Durnwalder.

Unione Valdotaine
Albert Laniece

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Da - https://www.agi.it/politica/pd_chi_sta_con_chi_renzi_zingaretti-3611876/news/2018-03-10/
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 23, 2018, 05:54:27 pm »

Pd, Rosato: sul governo utile un referendum tra gli iscritti.
Orfini: non serve. Martina: pronti all'opposizione
L'inventore del Rosatellum: "No ad accordo con il M5s".
Il presidente dei dem: "Di responsabilità si muore".
Il portavoce Pd a Circo Massimo: "Ritorno al voto? Non mi spaventa"

19 marzo 2018

ROMA - "Non sono d'accordo a fare un governo con i 5 stelle, ma su decisioni importanti potrebbe essere utile una consultazione degli iscritti, anche sulla possibilità eventuale di fare un governo". Lo ha detto Ettore Rosato, capogruppo uscente del Pd alla Camera e inventore del Rosatellum, a 'Un giorno da Pecora'. Nel Pd continua lo scontro sotterraneo sulle strategie per il dopo voto. Con le divisioni che si celano dietro le sfumature.  Interpellato su potenziali candidati alla presidenza del Senato e della Camera, Rosato dice di stimare Giorgetti della Lega, mentre sull'ex direttore di Sky Tg24 Emilio Carelli, neoletto M5S a Montecitorio, afferma: "Non lo conosco tranne che per la televisione, ma non possiamo essere pregiudizialmente contro".

Sul referendum un altro renziano, il presidente Matteo Orfini, la pensa diversamente: "E' previsto dal nostro statuto che su alcune questioni di grande importanza possa svolgersi un referendum tra gli iscritti. Non è mai successo nella storia del partito. Se dovesse essere necessario, si potrebbe fare. Io onestamente non credo ce ne sia la necessità in questo caso". Poi chiude nettamente a qualsiasi spiraglio di intesa:  "Non ci interessa minimamente. Noi stiamo all'opposizione, vogliamo starci e ci staremo. Con il Movimento 5 Stelle non c'entriamo nulla". Poi ironizza: "E' come se a quello che ti ha rubato la fidanzata chiedi di andare a vivere con loro. Possiamo fare un'orgia e andare con tutti, ma mi pare un'idea strampalata. Quando sento la parola responsabilità mi preoccupo perchè se non avessimo sostenuto così a lungo il governo Monti avremmo evitato alcuni danni al Paese".

Pd, Orfini: "Referendum tra gli iscritti? Possibile ma non necessario. Faremo opposizione"
Sulla linea dell'opposizione anche il segretario reggente, Maurizio Martina: "Il Pd deve far tesoro del passaggio che sta vivendo, sapendo che il 4 marzo siamo stati sconfitti. Bisogna prepararsi bene a un'attività di minoranza che vuole contribuire dall'opposizione". E ancora: "Mi pare che l'atteggiamento di chi ha vinto sia ancora da campagna elettorale. Sappiano che la campagna elettorale è finita e che il Paese ha bisogno di risposte e non accetterà balletti, tatticismi esasperati come quelli che stiamo vedendo, in queste ore, da parte di chi ha vinto. Dobbiamo sfidarli sul terreno della serietà, delle proposte concrete. La prima proposta che il Pd farà in Parlamento è sull'assegno universale per le famiglie con figli".

Napoli, Martina: "Dal Pd più impegno per Sud, giovani e lavoro"
Anche Matteo Richetti, portavoce del nuovo Pd "plurale", a Circo Massimo su Radio Capital esclude la possibilità di un'apertura ai cinquestelle: "Io penso che sull'Aventino il Pd non ci sia mai salito" ma "la partecipazione a un governo Di Maio è da escludere. Bisogna capire se la proposta sul tavolo è un governo Di Maio con quei ministri e un programma che fatico a comprenderlo, e allora siamo molto lontani, o se si tratta di qualcosa di diverso".

Viceversa per Richetti i dem potrebbero valutare l'ipotesi di partecipare a un "governo di tutti, o di scopo, come lo si voglia chiamare". Ma dubita che "Lega e M5s ci staranno". E non si dice spaventato da un eventuale ritorno al voto.

Richetti (Pd) a "Circo Massimo": "Sì a un governo di tutti, ma Lega e 5S non ci staranno"

© Riproduzione riservata 19 marzo 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/03/19/news/matteo_richetti_circo_massimo_radio_capital-191653310/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P9-S2.5-T1
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« Risposta #55 inserito:: Marzo 29, 2018, 06:14:14 pm »

Stando ai numeri reali non è stato il PD-Renziano a far danni in Italia!

La scivolata verso il basso delle risorse, per gran parte degli Italiani, data da oltre un decennio.

Viene anche a voi il dubbio che chi ha votato il Referendum e le politiche il 4 marzo oggi debba riflettere?   
 
ciaooo

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« Risposta #56 inserito:: Marzo 29, 2018, 06:41:18 pm »

Non dico li si debba imitare, ma hanno fatto vedere come si rovescia una situazione "stagnante".
Tanto fragore, molta maleducazione, le falsità fatte diventare tecnica propagandistica, le promesse insostenibili diffuse come favole per bambini-buoni, ed altro ancora che tutti conosciamo.

Quello che pochi conoscevano è che tutto il "meccanismo" fosse studiato da anni e supportato da “l'algoritmo” che mette a nudo il lato nascosto di ognuno di noi, compresi quelli che di politica, hanno sempre detto, non si interessano.

Proprio scavando nelle viscere dei "non interessati alla politica" gli USA hanno nominato un Presidente, l'Inghilterra esce dall'Europa e noi abbiamo svecchiato un Sistema, senza rottamarlo.

Non importa se una vittoria "sgarrupata" arriverà a governare, quello che conta è che ciò sia accaduto.
Nel bene o nel male è accaduto!

Adesso noi Cittadini, vedremo quanto ci costa e quanto ci rende.

ciaooo

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« Risposta #57 inserito:: Marzo 30, 2018, 04:41:43 pm »

Pd, Orlando: “Non basta dire ‘tocca a loro’. Con M5s dialogo doveroso”.
Marcucci: “No all'opposizione? Ditelo”

Il ministro uscente insiste: "Il fatto di Questo non ci esime dall'indicare le nostre priorità e proporre un’agenda sociale al Paese".

Ma Delrio: "Delrio: "Ma da Cinquestelle e destra occupazione di posti inaspettata. E non c'è nessuna discussione sulla linea"

Di F. Q. | 30 marzo 2018

 “Non basta dire ‘tocca a loro'”. “Con i 5 stelle il dialogo è doveroso”. “Tutti rinuncino al potere di interdizione dentro il partito”. I malumori che solo fino a ieri trapelavano in qualche retroscena sui movimenti dentro il Pd, ora il ministro uscente Andrea Orlando decide di esplicitarli in un’intervista al Corriere della sera. Dove, per la prima volta, si parla di un dialogo con il Movimento 5 stelle. La rottura con la linea dell’opposizione a tutti i costi, imposta dall’ex segretario Matteo Renzi e condivisa dalla direzione post voto, è netta. Ma ancora non basta per superare lo stallo. Solo ieri Orlando e il collega Dario Franceschini avevano chiesto che i gruppi parlamentari si rivedessero prima dell’incontro al Colle per rivedere la linea, ma l’ipotesi non è stata nemmeno presa in considerazione. E oggi, il neocapogruppo alla Camera Graziano Delrio, oltre ad aver dichiarato di non essere disponibile a candidarsi per la segreteria, ha ribadito che per i dem la via è quella dell’opposizione: “Non si è aperta nessuna discussione sulla linea da tenere”, ha detto intervistato al Gr1. “Si è aperta una discussione su come bisogna svolgere questo ruolo. E’ una discussione legittima e la faremo dopo le consultazioni”. Anzi, Delrio sottolinea che “pesa soprattutto il fatto che non si sia tenuto conto, da parte di centrodestra e Movimento Cinque Stelle, della volontà popolare. C’è un’occupazione di posti che non ci aspettavamo. Si poteva partire con il piede giusto, invece si è partiti con il piede sbagliato “. E, per finire l’arco delle varie gradazioni, si segnala l’uscita del capogruppo al Senato Andrea Marcucci, renzianissimo: “Il Pd non sosterrà mai nessun governo del M5s, nessun governo Lega-Cinque Stelle – scrive su facebook – La linea che porteremo la prossima settimana al Colle è quella votata praticamente all’unanimità in direzione: il Pd in questa legislatura starà all’opposizione. Se qualche dirigente vuol cambiare posizione, lo dica chiaramente. Non vedo l’ora che giuri un governo Di Maio-Salvini. Loro hanno il diritto dovere di governare, noi non gli faremo sconti”.

Nel frattempo Orlando insiste. Nell’intervista al Corriere, parla molto duramente della situazione dentro il partito. “Prendere atto”, dice, “delle distanze che separano la nostra visione politica e istituzionale da quella delle forze premiate dal voto non equivale a esprimere una linea politica. Il quadro emerso dalle urne non ci consente di realizzare il nostro progetto da soli o in alleanza. Questo non ci esime dall’indicare le nostre priorità. Proporre un’agenda sociale al Paese, altrimenti la nostra posizione sarà subalterna e chiusa nel palazzo”. E in merito al dialogo con i grillini, spiega: “Accordi con i 5 stelle? Per quanto mi riguarda un conto è il dialogo, che è doveroso con una forza che ha raccolto un terzo dei voti, un conto sono le alleanze, che non vedo percorribili. Più che di questo tuttavia mi preoccuperei del dialogo con il Paese, che non si costruisce solo con un posizionamento tattico”. Sull’influenza di Renzi, e sul ruolo svolto nella scelta dei capigruppo in Parlamento (i renziani Delrio e Marcucci), commenta: “La scelta della reggenza è stata fatta dalla maggioranza, a noi è stato chiesto di sostenerla per spirito unitario. Lo stiamo facendo e spero che tutti consentano a Martina di svolgere in modo autonomo il proprio ruolo, rinunciando a un potere di interdizione”.

Orlando torna a spingere per rivedere la posizione di astensione. “Dire no all’assemblea è stato un errore. La salita al Colle è la prima occasione nella quale il Pd può parlare agli italiani oltre che al Capo dello Stato e dire che tipo di opposizione vogliamo fare alla eventuale nascita di un governo giallo-verde. Se è ineluttabile, dobbiamo decidere se gli facciamo una opposizione da destra o da sinistra”. Secondo Orlando davanti al Pd ci sono due strade: “Il rischio più grande per il Pd è smarrire la sua funzione. Non abbiamo molto tempo e io vedo due strade. Attendere l’eventualità che Forza Italia sia dilaniata dall’opa di Salvini e capitalizzare l’uscita di parte di quell’elettorato, oppure provare a recuperare i milioni di voti popolari andati a Lega e 5 Stelle. Le due strade sono incompatibili. Io credo si debba seguire quella che evita che una parte dell’elettorato di sinistra sia consegnato a forze antisistema”.

Orlando arriva infine anche a criticare la linea tenuta dal partito nell’elezione di vice e questori, durante la quale non si è voluto dialogare con nessuno. “Il Pd indubbiamente è rimasto frenato dall’idea sbagliata che interloquire sulle presidenze fosse aprire la strada a una interlocuzione sul governo”.

Le dichiarazioni pubbliche si mescolano ai retroscena del dietro le quinte. Secondo Repubblica, per esempio, non c’è solo Orlando a spingere per aprire vie di dialogo ufficiali (a parte quelle sotterranee che non si sono mai interrotte), ma il cerchio si allargherebbe a degli insospettabili, proprio tra coloro che in questi anni hanno sostenuto e lavorato al fianco di Matteo Renzi. Franceschini, sì, ma anche il presidente del Consiglio dimissionario Paolo Gentiloni, che ovviamente in questa fase – per il suo ruolo istituzionale – non può esporsi troppo. La posizione, naturalmente, è quella di una “linea istituzionale” e tutto questo si tiene con la corrente del Pd che vuole dimostrare maggiore disponibilità nei confronti di eventuali richieste di “soccorso” da parte del Quirinale. Dall’altra parte c’è la trincea di Renzi, il più convinto dell’Aventino, tanto da essere tentato di forzare la mano e cercare di far eleggere Graziano Delrio come prossimo segretario a tempo attraverso l’assemblea che ora è finita in agenda al 22 aprile (ma sempre con un forse). La linea è ben esemplificata ancora dalle parole di Marcucci: “Come facciamo a intavolare una discussione con loro che dicono che è tutto da smontare? Con M5S e Lega al massimo possiamo prendere un caffè di cortesia “.



Di F. Q. | 30 marzo 2018

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/30/pd-orlando-non-basta-dire-tocca-a-loro-con-m5s-dialogo-e-doveroso-tutti-rinuncino-a-potere-interdizione/4261864/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2018-03-30
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 30, 2018, 04:48:01 pm »

LA PARABOLA DEL PD

Sinistra anno zero: perché ha perso il popolo e chi la sta sostituendo

    Di Alberto Magnani 29 marzo 2018

Nel bene e nel male, Matteo Renzi ha lasciato il segno due volte nella storia del Pd. Nessuno era riuscito a portare il centrosinistra così in alto e così in basso, dalla vertigine del 40% alle europee del 2014 al crollo sotto al 20% alle politiche del 4 marzo. Un'emorragia di cinque milioni di voti che è equivalsa alla Caporetto dell'ex sindaco di Firenze, almeno per ora. Renzi si è accollato il ruolo di grande sconfitto delle ultime politiche, ma la sua parabola è solo il suggello della crisi che logora da anni la sinistra italiana, oggi schiacciata ai margini di un tripolarismo che vede un italiano su due votare per destra e Cinque Stelle.

Non che la socialdemocrazia goda di ottima salute anche nel resto d'Europa. In Germania la Spd di Martin Schulz ha ceduto dopo mesi di trattative al ruolo di stampella del governo di Angela Merkel, dopo una batosta elettorale – in proporzione – anche più grave di quella del Pd di Renzi. In Gran Bretagna il Partito laburista si è affidato alla sinistra vintage di Jeremy Corbyn, leader della vecchissima guardia che ha fatto innamorare i giovani ma ha perso per due punti percentuali le elezioni di giugno 2017.

In Francia ci sarebbe l'eccezione di Emmanuel Macron, il candidato liberal che ha frenato l'avanzata del Front national di Marine Le Pen. Anzi, un po' troppo liberal, visto che l'attuale presidente dell'Eliseo si è scontrato già in campagna con un candidato più a sinistra di lui (Jean-Luc Mélenchon) e ora è contestato dalla gauche per una riforma del lavoro accusata di sbilanciare il potere negoziale a favore delle imprese. In nessun caso, però, i progressisti hanno raggiunto l'irrilevanza elettorale uscita dalle urne italiane, perdendo la propria egemonia anche in fortini che avevano resistito indenni a 70 anni di Repubblica. L'esempio più doloroso è l'Emilia-Romagna, dove il centrodestra è cresciuto fino al 33%, infrangendo il tabù di una regione dipinta come “rossa” fino ai limiti della caricatura.

I delusi del Pd con M5S e Lega. I delusi di sinistra? A sinistra
L'anno zero del centrosinistra è frutto della fuga dei suoi elettori, andati via via scemando nelle ultime tornate elettorali. Il declino ha travolto soprattutto il Pd, rimasto il principale partito di centrosinistra nonostante la ridda di scissioni, correnti interne e «formazione indipendenti» che si sono susseguite negli anni di Renzi (e in quelli precedenti). YouTrend, una società di ricerca e analisi elettorale, ha evidenziato un calo della metà esatta degli elettori Dem nell'arco di 10 anni esatti: dai 12 milioni di votanti alla Camera nel 2008 per il Pd di Walter Veltroni ai 6 milioni alle politiche del 2018, appena quattro anni dopo il clamoroso exploit delle europee. Che fine hanno fatto i voti? E soprattutto, verso chi? L'Italia si è risvegliata il 5 marzo divisa a metà, fra il Nord virato sulla Lega e un centro-sud che ha scelto in blocco i Cinque stelle. Anche parte dell'elettorato Pd ha seguito la corrente, oscillando tra Di Maio e Salvini a seconda della collocazione geografica.

Rispetto alle elezioni del 2013, l'anno della «non vittoria» di Pierluigi Bersani, il Pd ha conservato solo il 53,1% dei suoi voti, perdendo il 16% a favore dei Cinque stelle e il 5,7% in direzione Lega. Una tendenza identica a quella che si è ripresentata nel confronto fra 2014 e 2018: rispetto alle europee, il Pd renziano ha conservato solo il 49,5% dei voti, cedendo il 16,5% dei suoi elettori ai Cinque stelle e addirittura il 6,9% alla Lega di Salvini. Va tutto sommato meglio alle (tante) liste che si collocano a sinistra dei dem. Ad esempio gli elettori che nel 2013 avevano scelto Sinistra ecologia e libertà, la lista capeggiata dall'ex presidente della regione Puglia Vendola, sono poi confluiti nel 2018 in due partiti coerenti con la scelta come Liberi e uguali (46,4%) e Potere al Popolo (22,2%), per un totale di quasi 7 voti su 10 rimasti nell'alveo della sinistra. E il Pd? Si affaccia con un timido 6,9%, poco sopra alla media di elettori attratti dall'esperienza di +Europa (5,1%).

Il Pd, ovvero la sindrome della “sinistra impopolare”
L'unica soddisfazione per il centrosinistra arriva dai grandi centri urbani, a partire da Milano, dove lo stesso Pd conquista la maggioranza dei voti. Una consolazione che rischia di tradursi in condanna: la percezione della sinistra come forza d'élite, compiaciuta nella sua bolla metropolitana mentre le province e il cosiddetto «paese reale» votano in tutt'altra direzione. Andrea Piazza, collaboratore di YouTrend, spiega che le cause dell'allontanamento dalla sinistra nascono proprio dall'incrocio di due fattori sottovalutati: la differenza enorme tra campagne e città (a Milano non si vota come nelle province di Bergamo o Siracusa) e l'incapacità di rispondere alle esigenze manifestate dall'elettorato delle fasce più deboli della popolazione. «Il Pd mantiene risultati tonici, sopra il 20%, solo fra pensionati, dirigenti e la classe intellettuale - dice Piazza - Le fasce popolari sono andate su Cinque stelle e Lega». Quando si parla di «fasce popolari» non si intendono gli operai, già slittati a destra dai primi anni 2000. Ma tutta una serie di categorie che si sentono tradite dal centrosinistra, colpevole di aver abdicato al suo ruolo di rappresentanza: dipendenti pubblici, disoccupati, ma anche dipendenti privati intimoriti dalla crisi e sprovvisti di un appiglio tra i partiti tradizionali. Categorie che chiedono risposte su problemi basilari, come il lavoro o la percezione di insicurezza. E si sono rivolti a chi dichiara di saperle soddisfare.

Ad esempio gli statali, virati in parte sui Cinque stelle, hanno subìto l'eco mediatica di due interventi giudicati «punitivi» come la riforma della Pa (cosiddetta riforma Madia) e quella dell'istruzione (Buona Scuola). «La riforma Madia è diventata nota come una reprimenda dei “furbetti del cartellino”, quella dell'istruzione per i trasferimenti forzati - dice Piazza - In realtà c'erano altri aspetti, ma non sono riusciti a emergere». E la Lega? Anche il partito di Salvini, come buona parte della destra populista europea, è riuscito a farsi percepire come una forza attenta ai diritti sociali. Anche se tradotti nella logica della difesa «degli italiani» contro gli ingressi di migranti. «Anche moltissimi elettori di matrice post comunista hanno finito per votare Lega - dice Piazza -Spinti dalla visione dell'immigrato come una minaccia ai diritti acquisiti». La debacle che ha atteso al varco il Pd assomiglia a quella di un'altra lista, circondata da attese superiori alle possibilità reali: +Europa di Emma Bonino, proiettata su ambizioni del 5% e finita poi sotto alla fatidica soglia del 3%. Numeri simili a quelli del Partito liberale, non a caso la forza che ne ricorda di più il programma: «Erano una bolla mediatica, ma si tratta comunque di un piccolo partito - fa notare Piazza - Il problema è un po' più grave quando si parla del partito che riuniva le due anime principali del paese».

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« Risposta #59 inserito:: Aprile 04, 2018, 12:27:13 pm »

Il PD deve cambiare al suo interno, eliminando asti e personalismi.

Il PD deve aprirsi ad un nuovo CentroSinistra, senza rivoluzionari in giacca e cravatta dediti alla normalità della doppiezza.

Il Polo Democratico deve essere l'abito nuovo del CentroSinistra determinato a farsi apprezzare per contenuti riconoscibili e fattibili, in un preciso arco di tempo.   

Da Fb del 3 aprile 2018 sul PD

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