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Autore Discussione: GUIDO CERONETTI  (Letto 5332 volte)
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« inserito:: Maggio 15, 2009, 12:38:04 pm »

15/5/2009
 
Migranti e prediche
 
 
GUIDO CERONETTI
 
Per la loro lettura, la sopravvivenza dei giornali quotidiani riposa sugli approfondimenti ben rigirati, gli inviati sul posto e, su tutto, i temi d’interesse generale.

Temi reiterati sempre, anche senza sostegno della notizia. Uno di questi è l’immigrazione numerica, non ne contiamo le branche. Ma che cosa vogliamo? Guerre, per spostare frontiere, non se ne fanno più - la pace sociale, se mai c’è stata, è perduta. E’ di fatto irrecuperabile quando c’è un’esile penisola che supera i sessantuno milioni di abitanti, uno meno dell’altro disposto a rinunciare a qualsiasi cosa in vista di una dubbiosa convivenza accettabile: e l’Italia è questo, case vuote di vita e riempite di troppe cose; case disertate da ogni superfluo e brulicanti di vita, di rumorosa, ambigua vita.

E’ ridicolo che si facciano prediche per far fare più figli alle famiglie italiane, ma ce n’è una spettrale ragione metafisica. L’uomo-individuo in genere ha penuria di voglia di morire; l’uomo-nazione non tollera l’idea dell’estinzione. Tollera bene l’estinzione di vita ambientale, da cui dipende la sua durata nel tempo, ma per la propria sopravvivenza di comunità nazionale, non gli basterebbero i modelli criminali. Eppure si sono perfettamente estinti i Romani (quelli che ancora si chiamano così Mommsen li definiva «italiani di Roma») e secondo Koestler anche le dodici tribù d’Israele. E gli italiani autoctoni - capaci per una sola volta di gettare sul mondo, partorita da una povera contadinella toscana, la figura ipostatica di un Leonardo, e di ragionare di politica con la grinta di Machiavelli - hanno un bel girare, per altri secoli, col passeggino: saranno grossi come lucertoline dei cimiteri. E questa penisola avrà altri padroni, qualcuno che per fame pianterebbe a cavolfiori anche il camposanto di Pisa, altri che per fanatismo farebbero saltare San Petronio per tirarci su un minareto. Perché la storia è come la natura: non ha cura di niente e di nessuno, ingoia e disfa tutto, è Sheòl e non museo...

Posso dire così come dilettante di filosofia: se invece mi metto a pensare immigrazione da cittadino senza paraocchi ideologici, una riflessione può essere la seguente, spicciolata in pensieri brevi. Uno Stato carente di giustizia come il nostro, che seguitasse ad accogliere, al ritmo dell’anno in corso, immigrazione marittima dall’Africa e aeroterrestre da tutti gli Est possibili (tra poco i soli romeni toccheranno il milione, i turchi fremono) in meno di dieci anni avrà cessato di esistere come entità statuale identificabile. A misura del crescere di incontrollabilità e anarchia, regione per regione, città per città, l’Italia diventerebbe invivibile. La riduzione delle risorse idriche passabilmente bevibili e il forsennato aumento dei consumi d’acqua bastano a far saltare l’intero sistema sociale. Anche l’igiene è diventata minaccia.

Neppure un sommesso dubbio nel coro pan-mediatico che ha accolto giubilando l’info statistica dei sessantuno milioni raggiunti grazie (proprio così: grazie) allo spermatozoo che viene dal mare. Lo spermatozoo, se non lo freni, fabbrica bomba biologica: di che ti rallegri, stolto? Per terrore di essere pochi, si opera nel senso del suicidio identitario, preludio dello sparire.

Benvenuto lo spezzarsi dell’uniformità di fede religiosa, purché ci sia dispersione e varietà di gruppi (in Italia, secondo Introvigne, sono circa settecento) e non la pressione sbilanciante di una più forte di tutte (l’Islam) che conta seguaci a milioni, già tutti presenti e mira a convertire, non certo a rassegnarsi a convivere. Il talebanismo non ha confini.

L’Italia è (meglio dire: è stata) paesaggi urbani indicibili e paesaggi marini e alpini di bellezza mozartiana. La perdita di terreni agricoli e di spazi liberi per promuovere edilizia ad ogni costo, case dopo case, quartieri di bruttezza, ghetti condominiali, e traffico d’asfalto senza limiti, è una sconfitta spirituale. Chi non odia la verità può comprendere.

Il diritto all’asilo politico non è applicabile né automaticamente né oggettivamente; è opinabile sempre, e toglierlo dalla Costituzione eviterebbe polemiche inutili e mai disinteressate. I governi si muovono secondo linee pratiche e ciniche. Possono pretendere asilo anche mani insanguinate e da governi ideologicamente affini subito ottenerlo. Di rado c’è accordo per certezza del merito: diritti dimostrabili da parte di chi non dà neppure certezza di nome e di provenienza non ce ne sono. Puoi riconoscere e

Ingovernabile, perfino dalle Utopie, è questo mondo di folle in movimento verso nessun mondo possibile.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 17, 2010, 07:24:31 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 17, 2010, 07:18:35 pm »

17/10/2010

Né futuro, né libertà

GUIDO CERONETTI

Un’apertura di costituzione che parla di «repubblica fondata sul lavoro» è un’idiozia che non promette, di buono, niente.
Soltanto verbosità, retorica, fumo... Di buono ce n’è stato, nella rifondazione dello Stato, nonostante il Luogo Comune fondatore.
(Mi provo a nominarlo: adesione alla Nato, chiusura delle Case, autostrada del Sole, abolizione della pena di morte, cinema neorealista, Piccolo di Strehler-Grassi, divorzio, aborto, l’antimafia...) - non è neppure tanto poco! Ma il Luogo Comune è un uovo di serpente: ne possono venire non rettili innocui ma ingenti draghi invasori che avvelenano col fiato tutto. Chi lo sa si batte disperatamente per la lingua, stritolata dall’angloamericano, e per il linguaggio, palude morta, stagnazione fetida in cui di Luogo in Luogo Comune, la politica si è tuffata, per amore stolto di facilità e bramosia di applauso elettorale, ed è rimasta invischiata.

Luogo Comune vuol dire Immaginazione Zero. Significato di qualcosa Zero su Zero. L’essere cittadini uno spenzolare come mutande stese e dimenticate sul filo. Ho represso ogni passione civile per non peggiorarmi la vita, tanto il totalitarismo del Luogo Comune non lo rimuove nessuno, lercia fenice, vampiro senza palo.

Svuotata d’ideali, morti tutti o quasi gli idealisti, una democrazia (ab aeterno «fondata sul lavoro») è vuota di se stessa ed è esposta alle forze dissolvitrici. Vale anche per le democrazie l’aforisma di Xavier Bichat: «La vita è l’insieme delle forze che resistono alla morte». Una democrazia fondata sul Luogo Comune imperituro è svuotata di forze che resistono alla morte. La fibbia è fibbiata.

Per esemplificare di minima: Il Capo-opposizione si presenta con maniche rimboccate in pubbliche gigantografie per esortare la gente a... (vedi il fulgore del lampo) «rimboccarsi le maniche»!!! Facciamo una prova. Un milione di sedotti se le rimboccano: ditemi se gli succederà qualcosa. Ma quel Luogo Comune senza tramonto si traduce in sequele di insignificanze derivabili analogicamente, che per lo Stato, il sistema democratico, sono acutamente patogene! E guarda, c’è dell’altro. Gianfranco Fini sarà certamente alla testa di un partito denominato Futuro e Libertà: se ti aspetti del nuovo smetti subito. In quelle due parole non ci può stare che del fumo.

A): futuro è un tarocco che porta sgarro, mai adottare una parola così vacua, così flagellata dai venti del Nulla. Il futuro non lo puoi conoscere, non sai dove siano le sue stive, non esiste: la politica lavora (se è un lavorare) sul presente; se è saggia, il prossimo giro di presente ne ricaverà mirabilia, (forse)...

B) Se «liberale» può aver conservato una vaghezza di senso alla pesa storica, libertà staccata dal liberalismo delle misure, è il Vuoto dogmatico di tutti i Zen di Kyoto. Se Forza Italia aveva un nome in grado di intrufolarsi dappertutto, la ripetizione di libertà in tutte le successive formule berlusconiane era già annuncio di democrazia svuotata. Sia Libertà che Futuro sono entrambi moncherini di vuoto.
(Quanto a me, non mi proverei a dare suggerimenti; mi basta la pars destruens). Mescola libertà, futuro, popolo, maniche rimboccate, crescita, ripresa, sviluppo, statistiche, sondaggi, aumento, incremento, traguardo, tagli, tassi, mercati, produzione, riforme, e un centinaio di gusci di termini inglesi buoni a tutto e consumabili a gogò - e dalla lessicografia butterata che ne esce immagina di dover formare liste di nomi da ricavarne una assemblea rappresentativa decente, cioè più ragionante che farneticante e annaspante. Lo stesso linguaggio ammorba i giornali, il mediatico, l’universitario, il telefonico, il volgare di tutte le chiacchiere, di tutte le interviste (trovatemi qualcuno che riesca a dire qualcosa di nuovo, di non conforme), di tutte le comunicazioni e i commenti.

In verità, se il futuro non esiste, la libertà, se riferita alla parola, è impossibile, perché il Luogo Comune la obbliga a non rivomitare che se stesso e la propria occupazione ideologica delle zone pensanti dei cittadini imbarcati sul Narrenschiff di una democrazia svuotata. Tutto è affidato a cifre, ma le cifre non sono un linguaggio: sono banditi che rapinano Banche Dati. La comunicazione elettronica non è linguaggio: manda il rumore delle sue catene. In questa repubblica di ricalchi nata nel 1946 non mi pare si siano dette e scritte e ascoltate tante futilità: rivelate tante impotenze per turbamento di fronte alla verità povera e nuda. Nelle Istituzioni repubblicane di Saint-Just trovi questa prescrizione di salvezza: «I rappresentanti del popolo devono mangiare soli».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7963&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 12, 2012, 05:14:37 pm »

12/7/2012 - LO STUZZICAVENTI

Il linguaggio del diritto al lavoro

GUIDO CERONETTI

Il diritto al lavoro - ha indubbiamente ragione nel negarlo la signora Fornero - è una locuzione di linguaggio politico tramontato che non ha senso pretendere di richiamare come costituzionale (art.4) nelle logomachie verticali o popolari. L’irrealtà ci affligge più delle realtà perché impedisce la percezione dei fondamenti reali delle cose. Agli italiani tutti è soprattutto negata la possibilità di accedere ad un linguaggio che non li inganni.

La Costituzione è ancora la stessa di poco meno di settant’anni fa e riflette linguaggio e luoghi comuni del tempo. Nacque dalla convergenza di un partito che ubbidiva al Papa e di un altro che in tutto era la voce del Cremlino di Stalin, con spruzzate consentite di minoritario liberalismo occidentale e di echi ritrovati dell’Ottantanove. La cura principale di De Gasperi era, a qualunque costo, di inserire la riconferma dei patti concordatari del 1929, e di affermare l’indissolubilità del matrimonio. (La parola «indissolubile», che costò notti di veglia al Papa non fu ammessa nel testo). De Gasperi ottenne la bramata riconferma, sebbene eredità fascista, pagando un prezzo politicamente e religiosamente castrante al partito comunista (i senatori di diritto: altro diritto inesistente). Sul tema «lavoro» imperversavano i dogmi retorici dei partiti di sinistra che hanno viaggiato insieme al bagaglio costituzionale più consistente fino ad oggi. La compunta apertura, nel testo che si bea della definizione di Repubblica democratica fondata sul lavoro è una pura scemenza. Se togli «sul lavoro» ne vibra l’essenza: democratica può bastare. Facendo il conto degli scioperi nazionali e regionali si potrebbe dirla fondata sullo sciopero. Se per «lavoro» s’intende il posto di non se ne può certo fare un principio repubblicano! La gente minuta e intelligente è sazia di queste sparate, che purtroppo abbondano e intimidiscono la libertà di

Emendare il linguaggio, qui è la vera riforma Alfa-Omega, la rivoluzione legittima permanente. Che il lavoro debba essere tutelato e protetto, questo sì, fa diritto; e anche il pensionamento per chi abbia faticato, e rimasto invalido abbia cessato prima di lavorare, è ovviamente un diritto; ma è legislazione ordinaria. La prof. Fornero rettifica semplicemente un errore linguistico, elevato a principio sacro.

Ma lo stesso si può dire anche del diritto alla salute (art. 32). Si ha diritto alle cure, alla salvaguardia, all’assistenza - ma la «salute» non è mai stata un diritto. Lo grida l’intera esperienza umana dei mortali: la salute è un bene transitivo quando c’è, perché il genere umano è destinato alle malattie e al decadimento del corpo e della mente, e dalla morte «niuno homo vivente po’ scampare», e San Francesco la loda, e ne loda il suo Signore, che dà e ritoglie, illumina chi vuole e oscura chi vuole, senza predestinare nessuno a un posto di lavoro fisso a vita, senza sentirsi minimamente impacciato da obblighi costituzionali in aeternum .

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10321
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 20, 2012, 09:35:49 am »

19/8/2012

Decrescita e felice socialismo utopistico

GUIDO CERONETTI

Potrei definirlo così, il Pil, lodato quando e dove cresce (non importa il come), deplorato unicamente quando e dovunque non cresca: un fantasma che infesta le menti (dalle più semplici alle meglio fornite di strumenti per dominare). Se lamente se ne libera, e apre le finestre alla verità, il pensiero liberato arriverà a ragionamenti diversi, a conclusioni finora non pensabili. Come questa: che l’idea della Decrescita del Pil èmigliore dell’idea fissa, cara a tutti i poteri che ci opprimono - dai governi alle mafie - che la Crescita (del Pil, funesto infestatore) non abbia nessuna alternativa possibile.

Ne parlo con Maurizio Pallante, inventore del movimento e della formula alternativa della Decrescita Felice, senza riportare nulla dal suo libro con questo titolo (Edizioni per la decrescita felice, 2005) perché con quest’uomo singolare, romano di nascita, abitante nella zona più verde della provincia astigiana, sessantacinquenne, ho l’occasione di un rapporto di amicizia e di un colloquio diretto.

Voglio ancora osservare, prima di interpellarlo, come in questa formidabile crisi del pensiero, cominciata molto tempo prima di quella della Lehman Brothers, siano presenti molti segni indicati con premonizione in tutte le trattazioni sul significato della Tecnica, di Martin Heidegger: basterebbe a «qualcosa di più alto» allacciare tutti i discorsi obbligatori e facili (talmente facili che li abbiamo imparati amemoria dai giornali) che si fanno dappertutto sull’economia, vista come un soffocante assoluto senza il minimo scrupolo di obbiettività.Ma dove tutto si relativizza, dove tutto è visto come puramente relativo e dissacrabile, ha senso assolutizzare il Pil, le cifre aziendali, le pensioni, le tasse, i conti della spesa, la Crescita di merci che non portano per niente a diminuzioni di infelicità o a più ricchezza nei rapporti umani?

Emendate il linguaggio e avrete trovato una chiave. Liberate la mente da una formica di falso e vi toglierete dallo stomaco il peso di un elefante.

Quel che va dicendo da qualche anno Maurizio Pallante in Italia èmolto semplice, e nello stesso tempo implica una rivoluzione del pensiero alla quale aderisce sempre più gente, incredula nelle prediche del Potere legale, sempre più distaccata dalla politica, e una quantità di giovani intelligenti che l’enorme pallone di menzogne sospeso sul mondo allontana da tutto, disperatamente. Sulla copertina dell’Espresso del 2 agosto leggevo «In vacanza con lo Spread»: ed è con questo tipo di attrazioni triviali che si vende svago ai lettori?

In vacanza andateci con Isaac Singer, Georges Simenon, Wells, Dostoevskij, per cui non è necessario ungersi la pelle, e pestate lo Spread sul bagnasciuga, con un disinfettante pronto.

Più formale, Pallante mi spiega così la Decrescita, come la va raccontando nelle sale e nei libri: «Vedi, per capire che cos’è la decrescita e come possa aiutarci a contrastare una crisi che resiste a tutte le misure di politica economica, dobbiamo bene distinguere tra oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio (definibili come beni) e oggetti e servizi che si scambiano con e per il profitto in denaro (definibili commerci). Il Pil e la Crescita non possono considerare altro che le merci e la loro produzione incessante. Merci però non sono beni.La Decrescita, che nessun politico ammetterebbe come un’opportunità felice, non è una diminuzione indiscriminata del Pil,ma selettiva, e totalmente da reimpostare. Introduce elementi di valutazione qualitativa del fare umano e consentirebbe di creare occupazione utile, non distruttiva per l’ambiente. Aprirebbe una fase più evoluta della storia umana...».

APallante non è difficile persuadere ame - ecologista dal tempo delle bombe diBikini - le sue buone ragioni.Ma la tendenza, in Italia e dovunque, è implacabilmente l’altra, che risponde al pensiero unico dominante.Ame, ormai vecchio, vien voglia di gettare la spugna.È la boxe di un nano disperato contro un gigantesco bruto!

«Guarda che il cambiamento di rotta, vogliano o no saperne i poteri dominanti, sta diventando sempre più inevitabile. Abbiamo esempi che nessun analista può fingere di ignorare. Crollata l’Unione Sovietica, che comprava a Cuba tutta la produzione di zucchero, la salvezza di Cuba fu l’autoproduzione di beni, per mangiare non per acquistare il superfluo. Accadde lo stesso in Argentina. In Grecia, oggi, si salvano dalla crisi tutti quelli che invece di urlare sulle piazze riscoprono il lavoro dellemani e producono per se stessi i beni corrispondenti ai bisogni. In Italia è già così in parecchi settori di economia silenziosa: la famiglia che autoproduce i beni non conosce disoccupazione. È l’offerta di merci sumerci tutte prodotte qua e là nelmondo, a rendere folle l’economia dei potenti. Il profitto perdente sta creando panico e suicidi.Ma il tuo nano disperato ha delle possibilità di sottrarsi ai pugni del bruto, e senza gettare la spugna! Perciò la popolarità dell’idea di decrescita è alta».

Da questo colloquio amichevole emerge «chi per lungo silenzio parea fioco»: le grandi ombre premarxiane dei Thoreau, dei Fourier, dei Saint-Simon, dei Gandhi, della società fabiana, dei Malthus, dei Tolstoij, che tuttora indicano altri cammini, altre vie... E il primo kibbuzismo sionista che cos’è stato? Non ha più nulla da insegnare almondo? Era un’idea grande, una rivoluzione portatrice di pace...

Il socialismo disprezzato come utopistico da Marx, apostolo della mercificazione e della violenza, risorge anche nelle parole chiarificatrici e nei volti nuovi della Decrescita Felice.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10437
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:45:20 am »

Cultura
28/10/2012

Il prossimo trasloco sarà spaziale

Da via Roma a via Marenco a via Lugaro, dal 1950 ai giorni nostri: l’avventura di Ceronetti attraverso le sedi del giornale e i suoi direttori

Guido Ceronetti

La Stampa, nei miei ricordi di giornalismo, comincia nel 1950. Il direttore era un patron dei più tremendi, che invece di assumermi a fare vaga letteratura, m’invitò a crescere. 

Era il temuto, ma non maleamato, Giulio De Benedetti, il secondo dalla liberazione. Oggi ripenso ancora a quel nostro unico incontro e a come avrei dovuto presentarmi, chiedendo semplicemente di darmi un lavoro di prova che a lui piacesse affidarmi. Ma non ero fatto per le carriere. 

Il nipote di Mario Gromo, potentissimo nel giornale, direttore amministrativo e famoso critico di cinema, mi lodò presso lo zio che mi richiese di racconti brillanti da pubblicare sull’edizione della sera. Compenso proposto sbalorditivo: diecimila a pezzo! Gliene portai una mezza dozzina, li respinse tutti, compresi che non ero fatto per la narrativa. La sede era in via Roma, e anche le rotative, che esalavano piombo dai sotterranei in galleria San Federico fino a tarda notte. Via Roma era quella rifatta nel 1934, tra immani fughe di topi di chiavica. Sul giornale leggevo Corrado Alvaro, Guido Piovene (a Roma divenimmo amici), Alfredo Todisco, Luigi Salvatorelli, Alberto Ronchey, che succedette a De Benedetti e mi chiamò al giornale. Ero un po’ cresciuto, perché erano passati più di vent’anni, e la sede mia abituale, storica, tra 1972 e 2012, fu il palazzo di via Marenco 32. Mi riceveva e discuteva con me gli articoli, quando passavo da Torino, da cui me n’ero andato nel ’57, il vicedirettore Carlo Casalegno, che fu ignobilmente assassinato da terroristi appena tre anni dopo. Era burbero, ma sono certo che saremmo, senza fretta, diventati amici.

Vidi transitare un buon numero di direttori, con alcuni dei quali fu subito comprensione e amicizia. Era inevitabile, del resto, con Arrigo Levi, per la comune passione per il dramma senza fine di Israele (fu nei primi mesi della mia collaborazione la strage olimpica di Monaco, una macchia indelebile sulle gare successive perché i Giochi del 1972 non vennero interrotti), dura tuttora con Ezio Mauro, rimasto sempre un buon sostenitore della mia lunga avventura teatrale.

La rivoluzione tecnologica me la trovai davanti del tutto inaspettatamente; quella immediata del giornalismo uguaglia l’analoga del passaggio, da un giorno all’altro, dal disco di vinile al compact, parola che pronuncio a fatica. Vetrine dappertutto sfarzose di musiche e voci incantevoli, con copertine irresistibili, venivano svuotate con furia di Formula Uno, per far posto a dei quadratini capaci di annoiarti per ore senza mai smettere, che i convertiti si portavano a casa come pane (ma non c’è nulla di buono mai, nella mancanza di misura). Oggi è in ripresa il mercato del vinile, e si fabbricano perfino dei giradischi nuovi per 33 e 45 giri, in vendita nelle botteghe musicali. In via Marenco, tornandoci dopo due o tre mesi, non ricordo quale anno fosse, vidi sui tavoli della redazione una filza di lavagne nere, con i redattori seduti di fronte, per lo più immobili, che impugnavano un tasto premendolo incessantemente. Mi domandavo: si può licenziare un articolo passabile in un simile stile di scrittura? Ho potuto constatare che è possibile riuscire leggibili, ma l’abbandono di ogni rapporto reale con la carta e l’inchiostro sta avendo già conseguenze incalcolabili, non qui soltanto ma in tutto il mondo.

Era e resta bello l’appuntamento coi giornali, mattutino, all’edicola; ma non so che piacere ci sia nel leggere un articolo nel Virtuale. Lo si farà come un obbligo, forse, perché siamo strani.

Faticai non poco ad adottare la scrittura con la portatile direttamente, dopo parecchie testate e alcuni libri. Normalmente, per un anno o due, un articolo da inviare alla Stampa, da Roma per raccomandata espresso (o fax dalla redazione in largo Chigi, dove facevo spesso la siesta, sul tavolo di qualcuno), lo scrivevo manuale in minuta, una volta copiato lo sottoponevo al giudizio di mia moglie, se non l’approvava tornavo a scriverlo, altrimenti soltanto allora lo battevo a macchina (velocissimo, con dieci dita, dattilografo con diploma dal 1945) e mai lo trovavo come avrei voluto, per mania di perfezionismo perfino ossessiva.

Tutti i manoscritti dei principali scrittori, dal 1930 circa all’elettronica, furono battuti con la portatile, talvolta resi incerti dal foglio copiativo. Ma lo stile ne ha risentito; Dostoevskij scriveva convulsamente eppure con ben più tempo, per il profondo del pensiero, di depositarsi sulla pagina. Non ho mai considerato l’ipotesi di surrogare la portatile con l’ordinatore (mi è difficile scrivere computer), ma non immaginavo tanta durata di esistenza mia e tanto rivolgimento elettronico da coinvolgerne anche i Tuareg e i Mongoli di Kakimba, che mi rendesse così balordo l’uso della portatile (una campionessa germanica di tutto metallo che coabita con me da circa quarant’anni), per la difficoltà di procurarsi nastri di ricambio bene inchiostrati, la rudezza del lavorarci con una colonna che la megera Vecchiaia mi ha reso torcetto di qualche portichetto piemontese, privo di sediame adatto, il peso e l’ingombro che la caratterizza. (Sto adoperandola, su una pila di cuscini, il corpicciuolo malfamato che poggia su una sola chiappa, giusto in questo momento). I faciloni dicono che mi troverei, con uno di quei tasti in mano, molto meglio, ma io ne trovo impossibile e deviante l’alfabeto. All’età mia è più facile imparare l’Ugaritico o il Lineare B che la scrittura elettronica. Ripiego sempre più sulla scrittura manuale, senza dover cambiare un’altra volta stile. Se sarò costretto a comprare una tastiera elettronica, sarà per ridurre, per lo sforzo, il debito karmico e sciogliermi dalla catena delle rinascite. 

Era già quasi tutto meccanizzato prima che scomparisse la micidiale linotype, ma il più recente trasloco del giornale, settembre 2012, al 15 di via Lùgaro, lontano dal verde e dal Po, i locali principali tutti a pianterreno, la redazione a semicerchio, nessun altro colore che il bianco, è un salto stupefacente che oltrepassa quanto possiamo considerare tessuto tradizionale dell’arredo urbano torinese. Non è un caso che a guidare il trasloco sia stato il più giovane dei direttori che il giornale abbia avuto, Mario Calabresi. Il predominio della tecnica sull’ambiente di lavoro è totale. 

Penso che questa sede nuova dalle trovate impressionanti, tra una selva di grandi teleschermi che in perpetuo trasmettono senza necessità immagini, faticherà a coniugarsi con l’anima, ben più lenta e prudente, di Torino. 

Ma è la città stessa che si sta adeguando alla nuova sede del giornale perché, dappertutto, si vedono imponenti trasformazioni urbanistiche tali da costringere i suoi abitanti a un continuo sforzo di adattamento. 

Una mano c’è, destinata a tenere stretta la ringhiera del passato secolare mentre un piede è piantato, ancora da convincere, nella furia del presente. L’idea è geniale: si tratta di un museo storico, visitabile sempre, che racconterà la storia del giornale in stretto rapporto con gli eventi che ci hanno più ustionati. Vuoi vedere però che l’evento mondiale più importante di tutti non verrà ricordato?

Via Lùgaro è una rampa di lancio. 

Se sul declino del secolo La Stampa cercherà un’altra sede, questa non la troverà che nello spazio, si sbarcherà a una redazione virtuale da astronavi utilitarie o in spacetaxi. Le agenzie trasmetteranno telepaticamente, da Aldebaran o dal Granchio, le loro superflue notizie. La bravura del comandante sarà di mai però recidere il cordone ombelicale con la cronaca torinese. 

Ma forse torneranno per le vie gli strilloni, ricchezza sonora della città, le Edizioni Straordinarie... La mia portatile sarà visitabile al Museo Egizio.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/28/cultura/il-prossimo-trasloco-sara-spaziale-2CSl8pQId6KydgA5KqnBwI/pagina.html
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