Cultura
28/10/2012
Il prossimo trasloco sarà spaziale
Da via Roma a via Marenco a via Lugaro, dal 1950 ai giorni nostri: l’avventura di Ceronetti attraverso le sedi del giornale e i suoi direttori
Guido Ceronetti
La Stampa, nei miei ricordi di giornalismo, comincia nel 1950. Il direttore era un patron dei più tremendi, che invece di assumermi a fare vaga letteratura, m’invitò a crescere.
Era il temuto, ma non maleamato, Giulio De Benedetti, il secondo dalla liberazione. Oggi ripenso ancora a quel nostro unico incontro e a come avrei dovuto presentarmi, chiedendo semplicemente di darmi un lavoro di prova che a lui piacesse affidarmi. Ma non ero fatto per le carriere.
Il nipote di Mario Gromo, potentissimo nel giornale, direttore amministrativo e famoso critico di cinema, mi lodò presso lo zio che mi richiese di racconti brillanti da pubblicare sull’edizione della sera. Compenso proposto sbalorditivo: diecimila a pezzo! Gliene portai una mezza dozzina, li respinse tutti, compresi che non ero fatto per la narrativa. La sede era in via Roma, e anche le rotative, che esalavano piombo dai sotterranei in galleria San Federico fino a tarda notte. Via Roma era quella rifatta nel 1934, tra immani fughe di topi di chiavica. Sul giornale leggevo Corrado Alvaro, Guido Piovene (a Roma divenimmo amici), Alfredo Todisco, Luigi Salvatorelli, Alberto Ronchey, che succedette a De Benedetti e mi chiamò al giornale. Ero un po’ cresciuto, perché erano passati più di vent’anni, e la sede mia abituale, storica, tra 1972 e 2012, fu il palazzo di via Marenco 32. Mi riceveva e discuteva con me gli articoli, quando passavo da Torino, da cui me n’ero andato nel ’57, il vicedirettore Carlo Casalegno, che fu ignobilmente assassinato da terroristi appena tre anni dopo. Era burbero, ma sono certo che saremmo, senza fretta, diventati amici.
Vidi transitare un buon numero di direttori, con alcuni dei quali fu subito comprensione e amicizia. Era inevitabile, del resto, con Arrigo Levi, per la comune passione per il dramma senza fine di Israele (fu nei primi mesi della mia collaborazione la strage olimpica di Monaco, una macchia indelebile sulle gare successive perché i Giochi del 1972 non vennero interrotti), dura tuttora con Ezio Mauro, rimasto sempre un buon sostenitore della mia lunga avventura teatrale.
La rivoluzione tecnologica me la trovai davanti del tutto inaspettatamente; quella immediata del giornalismo uguaglia l’analoga del passaggio, da un giorno all’altro, dal disco di vinile al compact, parola che pronuncio a fatica. Vetrine dappertutto sfarzose di musiche e voci incantevoli, con copertine irresistibili, venivano svuotate con furia di Formula Uno, per far posto a dei quadratini capaci di annoiarti per ore senza mai smettere, che i convertiti si portavano a casa come pane (ma non c’è nulla di buono mai, nella mancanza di misura). Oggi è in ripresa il mercato del vinile, e si fabbricano perfino dei giradischi nuovi per 33 e 45 giri, in vendita nelle botteghe musicali. In via Marenco, tornandoci dopo due o tre mesi, non ricordo quale anno fosse, vidi sui tavoli della redazione una filza di lavagne nere, con i redattori seduti di fronte, per lo più immobili, che impugnavano un tasto premendolo incessantemente. Mi domandavo: si può licenziare un articolo passabile in un simile stile di scrittura? Ho potuto constatare che è possibile riuscire leggibili, ma l’abbandono di ogni rapporto reale con la carta e l’inchiostro sta avendo già conseguenze incalcolabili, non qui soltanto ma in tutto il mondo.
Era e resta bello l’appuntamento coi giornali, mattutino, all’edicola; ma non so che piacere ci sia nel leggere un articolo nel Virtuale. Lo si farà come un obbligo, forse, perché siamo strani.
Faticai non poco ad adottare la scrittura con la portatile direttamente, dopo parecchie testate e alcuni libri. Normalmente, per un anno o due, un articolo da inviare alla Stampa, da Roma per raccomandata espresso (o fax dalla redazione in largo Chigi, dove facevo spesso la siesta, sul tavolo di qualcuno), lo scrivevo manuale in minuta, una volta copiato lo sottoponevo al giudizio di mia moglie, se non l’approvava tornavo a scriverlo, altrimenti soltanto allora lo battevo a macchina (velocissimo, con dieci dita, dattilografo con diploma dal 1945) e mai lo trovavo come avrei voluto, per mania di perfezionismo perfino ossessiva.
Tutti i manoscritti dei principali scrittori, dal 1930 circa all’elettronica, furono battuti con la portatile, talvolta resi incerti dal foglio copiativo. Ma lo stile ne ha risentito; Dostoevskij scriveva convulsamente eppure con ben più tempo, per il profondo del pensiero, di depositarsi sulla pagina. Non ho mai considerato l’ipotesi di surrogare la portatile con l’ordinatore (mi è difficile scrivere computer), ma non immaginavo tanta durata di esistenza mia e tanto rivolgimento elettronico da coinvolgerne anche i Tuareg e i Mongoli di Kakimba, che mi rendesse così balordo l’uso della portatile (una campionessa germanica di tutto metallo che coabita con me da circa quarant’anni), per la difficoltà di procurarsi nastri di ricambio bene inchiostrati, la rudezza del lavorarci con una colonna che la megera Vecchiaia mi ha reso torcetto di qualche portichetto piemontese, privo di sediame adatto, il peso e l’ingombro che la caratterizza. (Sto adoperandola, su una pila di cuscini, il corpicciuolo malfamato che poggia su una sola chiappa, giusto in questo momento). I faciloni dicono che mi troverei, con uno di quei tasti in mano, molto meglio, ma io ne trovo impossibile e deviante l’alfabeto. All’età mia è più facile imparare l’Ugaritico o il Lineare B che la scrittura elettronica. Ripiego sempre più sulla scrittura manuale, senza dover cambiare un’altra volta stile. Se sarò costretto a comprare una tastiera elettronica, sarà per ridurre, per lo sforzo, il debito karmico e sciogliermi dalla catena delle rinascite.
Era già quasi tutto meccanizzato prima che scomparisse la micidiale linotype, ma il più recente trasloco del giornale, settembre 2012, al 15 di via Lùgaro, lontano dal verde e dal Po, i locali principali tutti a pianterreno, la redazione a semicerchio, nessun altro colore che il bianco, è un salto stupefacente che oltrepassa quanto possiamo considerare tessuto tradizionale dell’arredo urbano torinese. Non è un caso che a guidare il trasloco sia stato il più giovane dei direttori che il giornale abbia avuto, Mario Calabresi. Il predominio della tecnica sull’ambiente di lavoro è totale.
Penso che questa sede nuova dalle trovate impressionanti, tra una selva di grandi teleschermi che in perpetuo trasmettono senza necessità immagini, faticherà a coniugarsi con l’anima, ben più lenta e prudente, di Torino.
Ma è la città stessa che si sta adeguando alla nuova sede del giornale perché, dappertutto, si vedono imponenti trasformazioni urbanistiche tali da costringere i suoi abitanti a un continuo sforzo di adattamento.
Una mano c’è, destinata a tenere stretta la ringhiera del passato secolare mentre un piede è piantato, ancora da convincere, nella furia del presente. L’idea è geniale: si tratta di un museo storico, visitabile sempre, che racconterà la storia del giornale in stretto rapporto con gli eventi che ci hanno più ustionati. Vuoi vedere però che l’evento mondiale più importante di tutti non verrà ricordato?
Via Lùgaro è una rampa di lancio.
Se sul declino del secolo La Stampa cercherà un’altra sede, questa non la troverà che nello spazio, si sbarcherà a una redazione virtuale da astronavi utilitarie o in spacetaxi. Le agenzie trasmetteranno telepaticamente, da Aldebaran o dal Granchio, le loro superflue notizie. La bravura del comandante sarà di mai però recidere il cordone ombelicale con la cronaca torinese.
Ma forse torneranno per le vie gli strilloni, ricchezza sonora della città, le Edizioni Straordinarie... La mia portatile sarà visitabile al Museo Egizio.
da -
http://www.lastampa.it/2012/10/28/cultura/il-prossimo-trasloco-sara-spaziale-2CSl8pQId6KydgA5KqnBwI/pagina.html