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Autore Discussione: CHIARA BERIA DI ARGENTINE -  (Letto 32355 volte)
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« inserito:: Maggio 15, 2009, 12:36:13 pm »

15/5/2009 (7:36) - INTERVISTA

"Ho parlato con Veronica. Chi è senza peccato scagli la prima pietra"
 
«Per questi problemi non servono ambasciatori»

CHIARA BERIA DI ARGENTINE
MILANO


«Mi spiace», dice Fedele Confalonieri, «vedere persone con problemi personali che andrebbero risolti tra le quattro mura di casa e che, invece, vengono squadernati in pubblico. Mi spiacerebbe per chiunque si trovasse in una simile situazione, figuriamoci quando capita a persone alle quali voglio molto bene». L’appuntamento con il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, è per parlare dell’arrivo il 20 maggio a Torino, Cuneo e 600 comuni piemontesi della nuova tv digitale. Per lanciare il cosiddetto switch-over (la transizione dal sistema televisivo analogico a quello digitale terrestre) Mediaset ha organizzato questo fine settimana nel cuore di Torino, in piazza San Carlo, una kermesse con tanto di Maria De Filippi, provini per il Grande Fratello 10, schermi digitali e cotillon. Dispiacere personale, riserbo. Amico da quasi 60 anni e coetaneo del premier Confalonieri finora non aveva mai commentato la crisi della coppia Berlusconi. Tantomeno il j’accuse di Enrico Mentana a Mediaset.


Crisi familiari&strappi.
Presidente Confalonieri, in questi giorni amari cosa suona al suo pianoforte?
«Nella musica non c’è mai amarezza, la musica è la consolazione dalle amarezze. Suono sempre un’ora la mattina, prima di andare in ufficio. E’ un’ottima ginnastica per la mente».


Un villaggio digitale in piazza San Carlo, gran artisti e conduttori Mediaset. Perché questa gran festa a Torino?
«Torino in questo momento è un città all’avanguardia. Ha stile e classe. Ha saputo reagire alla crisi della Fiat, diversificarsi. Non solo. Stimo moltissimo Sergio Marchionne per quello che sta facendo; tra l’altro anche lui (a conferma della frase di Cervantes "Signora, dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo") è un gran intenditore, mi ha fatto anche conoscere e apprezzare un pianista turco. Il Piemonte ha ottimi amministratori: penso a Bresso, a Chiamparino. E’ una di quelle Regioni dove contano di più il senso civico e la cultura degli schieramenti politici. Detto questo i «Mediaset days» marcano l’avvio di una nuova fase della tv, sia nostra che Rai. Con il passaggio al digitale terrestre l’offerta di canali si moltiplica e si avrà una migliore qualità di visione. Malumori? Quando si cambia c’è sempre chi brontola. Ma tranquilli nonostante sia un vero analfabeta tecnologico persino io sono stato capace di usare con la mia tv il digitale terrestre».


Sia sincero, Confalonieri, sentite la concorrenza di Sky? Cosa invidia: il Tg di Carelli, lo show di Fiorello?
«Caspita se la sentiamo! Ma non per le star o per i giornalisti; loro, com’è giusto, vanno e vengono. Sky è un concorrente forte, ha un fatturato molto vicino al nostro e a quello della Rai. E’ il terzo polo. Rupert Murdoch, può essere simpatico o antipatico, ma è certo un grande dell’editoria. Anche la sua idea di far pagare l’accesso ai siti web dei giornali mi pare giusta».


Ma quando Murdoch voleva comprare Mediaset lei con Marina e Pier Silvio Berlusconi si oppose. Pentito?
«Per niente. C’è stato un momentino - quando c’era il conflitto d’interessi - che Berlusconi fu tentato a vendere. Ma era giusto che Mediaset restasse un’azienda italiana e che i figli sentissero la voglia di continuare l’impresa del padre...»


Veramente il conflitto d’interessi con Berlusconi premier c’è oggi più che mai!
«Certo che c’è. Ma anche per molti altri che sono in Parlamento; per Berlusconi è più grosso perché è riuscito da grande imprenditore a fare 3 volte il primo ministro e 5 campagne elettorali. E’ un’eccezione lui, è un’eccezione la situazione. Ma siamo in un Paese democratico: gli italiani l’hanno eletto».


E però c’è chi parla di dittatura televisiva e chi come Mentana sostiene che la «polifonia di voci» in Mediaset è finita.
«Con tutto il rispetto per Mentana credo di saper più di lui cos’è la polifonia o il canto gregoriano. Non aggiungo altro».


Da suo vecchio amico: come sta veramente Berlusconi?
«Come al solito. E’ un uomo sorprendente, è come Anteo: ritrova tutta la sua forza quando lo buttano per terra».


Veronica Lario ha fatto trapelare che tra gli amici solo lei e Gianni Letta le hanno telefonato. Per tentare di mediare?
«E’ vero, confermo: l’ho chiamata. Ma per questi problemi non servono gli ambasciatori. In questi giorni penso spesso a una parabola del Vangelo: scagli la prima pietra chi non ha peccato. Stop, non mi faccia dire altro. Io a Torino? No, purtroppo, non ci sarò. Con mia moglie Annick festeggiamo i 49 anni di matrimonio. Sarà una tranquilla cena in famiglia al Pescatore di Mantova, un bel ristorante 3 stelle Michelin».

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 21, 2009, 09:58:01 pm »

21/11/2009

Muccioli, a SanPa l'eredità della speranza
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE


So che la famiglia di Stefano Cucchi - dice Andrea Muccioli - si era messa in contatto con una delle nostre associazioni antidroga, nate in tutta Italia per non lasciare i ragazzi in strada o in carcere ma aiutarli a smettere con la droga e consigliare le famiglie come star loro vicino. Era solo il primo passo del percorso di recupero. Nel caso di Stefano questa speranza è stata spezzata sul nascere». Stefano Cucchi non è mai arrivato tra i 1600 giovani (età media 24 anni) che combattono la loro battaglia per riprendersi la vita nella comunità di San Patrignano; non è a mangiare nella gigantesca mensa tra spacciatori strappati alla galera, e neppure al lavoro nei laboratori di SanPa con i suoi coetanei dai corpi ipertatuati - tossici senza buchi in vena - di una generazione travolta dallo tsunami cocaina. Stefano con le sue bugie e promesse ai genitori; il primo tentativo in una comunità, la ricaduta e tanta coca e hashish celati in un armadio: una storia simile a quelle di molti ragazzi di SanPa ma dal finale tragicamente diverso.

«Spero che l’inchiesta scopra cosa sia successo», commenta Muccioli. «Non penso che i tossici debbano avere corsie preferenziali. Ma di una cosa sono sicuro: per chi si droga il carcere non serve a nulla, anzi peggiora la situazione». Sbarre e metadone: la soluzione oggi più praticata. Nelle nostre superaffollate carceri i tossicodipendenti sono più di 15 mila, gestiti dai medici dei Sert a forza di metadone e psicofarmaci mentre le misure alternative - arresti domiciliari o sospensioni di pena in comunità - sono dimezzate (da 12 mila nel 2002 a 4600 nel 2009). Passaggio di competenze dal ministero della Giustizia a quello della Sanità; tagli ai fondi per le comunità. Muccioli, 44 anni, bislaureato in legge e sociologia, spiega: «San Patrignano, grazie alla solidarietà di tanti privati e imprese e alle nostre attività produttive, non chiede un soldo alle famiglie o allo Stato. Purtroppo però siamo un’eccezione.
Per difficoltà economiche, negli ultimi 10 anni, 300 comunità hanno chiuso.

Oltre tutto rischiamo di perdere un vero patrimonio di volontari, un’esperienza unica al mondo. Il fatto è che noi delle comunità siamo gente scomoda. Togliamo “clienti” non solo alla criminalità organizzata ma anche a un sistema - dal personale dei Sert alle industrie farmaceutiche - che si alimenta della cronicizzazione dei tossici. Loro sono gli anelli deboli e sono dei “clienti” facili e a vita, soprattutto se li agganci a 15-18 anni».
Al disagio giovanile opporre la forza dell’esempio. Nell’ultimo anno 600 mila ragazzi sono stati informati sui danni della droga con spettacoli nelle scuole, visite in comunità e nei centri «2you» per la prevenzione sul territorio.
«La cosa di cui vado più fiero? Aver aperto San Patrignano al mondo», dice Andrea che dal 1995, nei giorni degli attacchi alla comunità e della morte del padre Vincenzo, ha raccolto il testimone. «Da quando ho fatto questa scelta di vita il mio cognome non è più Muccioli ma San Patrignano. Ma una comunità non s’eredita, siamo una famiglia allargata con una struttura orizzontale d’educatori. Ogni giorno bisogna mettersi in gioco, altrimenti rischiamo di fare i santoni».

Dal 1978 a San Patrignano sono stati accolti 20 mila giovani; il 70%, secondo i dati della comunità, si è liberato dalla scimmia. I piccolini di SanPa entrano alla «Chiocciola», l’asilo immerso nel verde.
Come il centro per minori in affido o la nuova ala del centro medico (assistenza per residenti ed ex tossici: 450 sieropositivi, mille con epatite cronica), è stato costruito grazie all’asta benefica che si tiene ogni anno; unica in Italia per generosità. Stasera a Milano decima edizione dell’asta: San Patrignano, il paese della speranza, vola più in alto della crisi.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 28, 2009, 07:32:24 pm »

28/11/2009

Clavarino, il carisma del console broker
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE


E’ stato scelto tra molti candidati per le sue capacità e la sua fitta rete di rapporti». Così Einar Bull, ambasciatore di Norvegia in Italia, ha presentato Carlo Clavarino, 49 anni, nuovo console generale a Milano, la città con più consolati (103) al mondo dopo New York. Vicepresidente della Fondazione per l’Expo e presidente di Aon (leader mondiale del brokeraggio assicurativo) per Sud Europa, Middle East e pure la Russia il neoconsole Clavarino («Adoro cariche e onorificenze», ammette) ringrazia. E fa un piccolo, divertente lapsus. Dice che, lo scorso giugno, visitando la Norvegia non è riuscito, per impegni di lavoro, ad andare alle «Foten». Sorry, le isole «Lofoten». Risolini delle belle vichinghe presenti alla cerimonia ma soprattutto degli amici più cari - da Giberto Arrivabene a Edoardo Teodorani Fabbri - del bel aristomanager genovese di imprevisto e inarrestabile successo.

Mentre in Francia è appena uscito «Gotha City», un libro-inchiesta su come gli aristos hanno riconquistato silenziosamente potere nel Paese della ghigliottina (dal presidente Nicolas Sarkozy de Nagy-Bocsa a Henri De Castries, Pdg di Axa; dai banchieri De Rotschild a Nicolas de Tavernost patron del network M6) in Italia impera la corte degli «aristomuffiti», molto genere Cafonal di «Dagospia». Gli autori di «Gotha City» sostengono che una delle armi segrete della rivincita degli aristos è il loro network
d’amicizie e relazioni internazionali tanto più prezioso in tempi di business globali. Proprio l’arma che, con un mix di fiuto degli affari, fascino sulle gentil dame e ironia ha catapultato Clavarino da Genova a Chicago; da svogliato studente (solo nel 2006 ha preso una laurea, Honoris causa, a l’Aquila) a manager stimato da Pat Ryan, re di Chicago, amico dei Bush e di Obama, fondatore di Aon Corporation il colosso mondiale del brokeraggio (37 mila dipendenti in 120 Paesi; ricavi per 7,65 miliardi di dollari).

«Siamo quattro fratelli. Quello scemo, come dicono gli inglesi, lo si manda a fare l’assicuratore», ride il broker che cominciò a lavorare dai genovesi Pratolongo. Avanti Clavarino! Nella fabbrica ristrutturata per Giorgio Mondadori da Gae Aulenti, ora quartier generale a Milano di Aon, tra sue foto con vari tycoon - Ryan, Warren Buffet, Berlusconi - Clavarino mostra una lettera autografa di Emanuele Filiberto, Duca di Savoia al suo avo, marchese Alfeo: «Il cammino del dovere e dell’onore che è gloria dei Clavarino». A indicare a Carlo il suo cammino, in verità, fu una ragazza romana, Camilla Nesbitt, ora nota produttrice, che gli presentò il dovizioso cognato, Federici: la prima superpolizza della sua fortunata carriera. Ma è nella vivace Madrid Anni 80 che il giovane manager, gran amico di Giovannino Agnelli a quei tempi in Spagna, dispiega la sua poliedricità: sviluppa il business dei Pratolongo; incontra la futura moglie, lady Isabelle Harvie Watt e stringe preziosi rapporti con re di denari (da Juan Abello ai Botin) e con il principe Felipe (i Clavarino saranno invitati al suo matrimonio).

Ai vertici di Nikols per volere dell’azionista Letizia Moratti quando Pat Ryan lancia una Opa non ostile sulla società, Clavarino continua la sua ascesa come «country manager» per l’Italia. Dall’Eni alla Ferrero diventa consulente per la gestione rischi dei più grandi gruppi. Utili triplicati, raffica d’acquisizioni: Ryan lo chiama nel board esecutivo del colosso di Chicago. «Non dimenticherò mai Giovannino Agnelli». S’interrompe Clavarino parlando della prossima apertura con Enrico Boglione, presidente di Aon-Italia, degli uffici torinesi, proprio in corso Marconi. «Era il 13 marzo, a Saint Moritz. Festeggiavamo il compleanno di Isabelle quando lui si sentì male».
Ma non c’è polizza contro il destino.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 16, 2010, 11:53:31 am »

16/1/2010

Stragi d'Italia. La memoria di un cittadino di serie B
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE


Certi giorni mi sento un cittadino di serie B. Non ho neanche il diritto -ammesso che lo avessi voluto- di perdonare i colpevoli».
Brescia, via Crispi 2. Nel suo studio al secondo piano della palazzina, sede della «Casa della Memoria», fondata nel 2000 dall’Associazione dei familiari uccisi nella strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974, 8 morti, 105 feriti) il presidente Manlio Milani che, quel tragico giorno, vide il corpo straziato della giovane moglie, Livia Bottardi, un’insegnante di 32 anni e di alcuni suoi carissimi amici, cede solo per un attimo alla commozione. «Avevamo grandi progetti. Livia voleva andare a insegnare per un periodo in Sud America; io, operaio all’azienda elettrica, volevo prendere un’aspettativa e seguirla». Un’altra vita, altre speranze, un’altra Italia.

Trentasei anni dopo mentre a Roma si discute di «processo breve», di maggiori diritti della difesa e -ultimo must- della sentenza 333 della Consulta (riapertura dei termini in caso di nuove contestazioni del pm) scritta a dicembre dal giudice Giuseppe Frigo, l’avvocato bresciano che- curioso contrappasso- è stato per anni nel collegio di parte civile nei vari gradi di giudizio (tutti conclusi senza condanne) sulla strage, a Brescia la ricerca della giustizia sembra non avere mai fine. Quale diritti hanno le vittime? Sono 5 gli imputati nel dibattimento di 1° grado in Corte d’Assise della quinta istruttoria su piazza della Loggia. Iniziato nel novembre 2008 al processo, giovedì, è andata in scena l’udienza numero 87: l’interrogatorio del teste Giusva Fioravanti, ex terrorista dei Nar.

«Processo ai fantasmi? Non certo per colpa dei magistrati. Altro che fannulloni!», accusa Milani. «La verità è che ci sono state troppe interferenze di uomini degli apparati dello Stato. Hanno fatto in modo che non si arrivasse alla verità». Black-out. Trentasei anni dopo l’uomo che non ha mai smesso di cercare il perchè di quelle morti («Non per spirito di vendetta ma per la consapevolezza che se ciò che è accaduto non viene svelato e ricordato diventa un macigno ricattatorio sulla vita politica e istituzionale») e va nelle scuole a testimoniare il valore della vita e della tolleranza ha chiesto finora invano («A cosa serve il servizio pubblico?») che non scenda il silenzio sul processo di Brescia, il solo e l’ultimo che potrebbe aprire qualche squarcio di verità sulle stragi. Abbasso la Rai, Viva i detenuti. Così, udienza dopo udienza, un insegnante ora pensionato ha videoregistrato tutto il dibattimento: 400 videocassette destinate all’archivio sempre più prezioso della «Casa della Memoria», la più appassionata e struggente casa d’Italia. Non solo. Manlio Milani, 71 anni, allora fervente militante comunista ora assai tiepido con il Pd, mostra una scatoletta. «Questa memory card», spiega, «contiene un milione di carte».

Sono tutti gli atti sulle stragi di piazza della Loggia, di piazza Fontana e alla Questura di Milano messi sul web dai detenuti della cooperativa Labor del carcere di Cremona con il progetto Digit&Work del giudice Pierpaolo Beluzzi e del ministero di Giustizia. Trasparenza degli atti, memoria condivisa. Grazie all’ottimo lavoro dei detenuti sul sito dell’Associazione (www.28maggio74.brescia.it) si può seguire il troppo dimenticato processo di Brescia. A dicembre, in questa Italia tanto divisa e contraddittoria, Manlio Milani era sul palco del 40° anniversario di piazza Fontana violato dalle contestazioni. «Fischiavano senza sapere», dice indignato. «Liberiamo la memoria. Dopo la strage per 3 giorni Brescia fu autogestita da un servizio d’ordine di soli cittadini e operai. Un messaggio esplicito: a prescindere da chi le rappresenta le istituzioni democratiche siamo noi. Le abbiamo conquistate a duro prezzo, vogliamo difenderle fino in fondo».

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:11:07 am »

20/2/2010

Lo scienziato italiano che riaccende il cervello
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Abbiamo acceso una fiaccola nel buio pesto. Ora, abbiamo un’arma in più per capire se un paziente con una diagnosi di stato vegetativo è cosciente o meno». Martin Monti, 31 anni, giovane e geniale neuroscienziato italiano in forza all’Unità di ricerca cognitiva dell’università di Cambridge ha il brevetto per pilotare piccoli aerei (con Platone e la musica il volo è la sua grande passione) ma i suoi studi l’hanno portato, mille a miglia al di là delle nostre conoscenze, in un pianeta ancora tutto da esplorare, il cervello umano. «Mi sento come uno dei primi astronauti in rotta verso la Luna», ride Martin, figlio di una nota coppia milanese (il padre, Michele, avvocato; la madre, Micaela Goren, in politica col Pdl), liceo classico al Tito Livio, la laurea al Des, della Bocconi, un dottorato a Princenton in Psicologia e neuroscienze e, dal 2007, ricercatore a Cambridge. Dall’economia alla neuroscienza.

Fil rouge dell’inconsueto percorso è stato l’interesse di Martin per i meccanismi del cervello umano: «Nell’economia l’informazione è il bene principale, io mi occupo di capire come le informazioni siano acquisite e processate nel cervello». In particolare, da anni, Monti studia i casi di perdita di coscienza (coma, stato vegetativo, stato di minima coscienza). «Cosa succede al cervello in queste drammatiche situazioni? Quale ruolo hanno il linguaggio e il pensiero nello stato vegetativo? Rispondere a queste domande», spiega, «significa affrontare aspetti fondamentali del nostro essere umano. Il problema è che non esiste un termometro per misurare il livello di coscienza in questi pazienti; finora avevamo solo test comportamentali. Si stimola il paziente, si cerca di farlo reagire, di fargli fare qualche movimento. "Muovi una mano", per esempio, che dimostri uno stato di coscienza. La questione è: se un paziente fosse cosciente ma non potesse muoversi come potremmo capirlo?». Da questi interrogativi è nata la ricerca su 54 pazienti del team di ricercatori anglo-belgi guidato da Monti i cui sorprendenti risultati sono stati pubblicati, il 4 febbraio, sul prestigioso «New England Journal of Medicine». L’idea base dell’esperimento è stata quella di usare la Risonanza magnetica funzionale per immagini, ossia una tecnica in grado di scansionare la funzionalità cerebrale dei malati che venivano stimolati a pensare di giocare a tennis o di muoversi nelle loro case. «Sembrano cose da pazzi!», sorride Monti, «in realtà noi conosciamo quali parti del cervello sovraintendono alla gestione del movimento e dello spazio». Ebbene, se la maggioranza dei malati non ha mostrato alcuna attività cerebrale significativa in 4 casi -tutti pazienti vittime di traumi- dal buio profondo è arrivato un tenue segnale di consapevolezza. «Stimolate dalle nostre domande quelle parti del loro cervello si attivavano e noi potevano vederlo».

Non solo. Martin Monti non nasconde la sua emozione nel raccontare il caso di un ragazzo belga di 20 anni, da 5 anni in condizioni disperate, dopo un incidente stradale. «Usando questa tecnica il paziente è riuscito, anche se per poco, a interagire con noi». In sostanza, dal buio più profondo il cervello del ragazzo è riuscito a recepire e elaborare un messaggio, dimostrando, per esempio, di saper ancora riconoscere il nome di suo padre, Alexander. Nuove, più raffinate tecniche di diagnosi; nuovi orizzonti dai confini imperscrutabili. «Non voglio alimentare false speranze. La nostra ricerca ha dato risultati positivi ma -sia chiaro- non dimostra che tutti i pazienti in stato vegetativo sono coscienti. Nè credo che una tecnica possa darci tutte le risposte. Ripeto: siamo solo agli inizi», sottolinea Martin Monti. Il caso Englaro? «Sono uno scienziato», ribatte Martin, «le polemiche ideologiche non mi riguardano. Personalmente sono per la libertà individuale. Tutto qua».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 27, 2010, 09:50:14 am da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 27, 2010, 09:50:44 am »

27/2/2010

"La ricostruzione esemplare che ho visto all'Aquila"

   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Ambiente: illustri architetti, sofisticati designer e illuminati imprenditori a una cena da intellighenzia meneghina, ovvero non berlusconiana. Ravioli di zucca e questione morale, a cominciare dall’affaire Bertolaso. «Basta fare harakiri!», attacca Pierluigi Nicolin, ordinario di composizione architettonica al Politecnico. «Sono andato a L’Aquila e, per onestà intellettuale, devo riconoscere che quello che è stato fatto finora non si era mai visto non solo in Italia ma, a quanto so, neanche a New Orleans dopo l’uragano Katrina. E’ un’esperienza che va perfezionata, non demolita per ragioni politiche».

L’inatteso punto di vista sulle scelte in terra d’Abruzzo di B&B (Berlusconi-Bertolaso) coglie in contropiede i presenti: Nicolin, 68 anni, esperto di progettazione urbana, già socio fondatore della Gregotti Associati, esperto di progettazione urbana (periferie, aree dismesse etc), direttore della rivista «Lotus international» non è il tipo archistar. Più che megacommesse (solo ora a Milano firma il nuovo centro congressi in Fiera, 16 mila posti, il più grande d’Europa) l’architetto ha operato sul fronte dei terremoti, dal Belice (coordinò «Belice 1980», il laboratorio di progettisti chiamati a rimediare ritardi e sprechi della ricostruzione) a Napoli. Altre scosse, altri terremoti: nel 1994, l’architetto Nicolin scrisse «Notizie sullo stato dell’architettura in Italia» (Bollati Boringhieri) un duro j’accuse su Tangentopoli. «Non conosco Bertolaso, non ho mai lavorato con la Protezione Civile e non ho elementi per intervenire sugli aspetti giudiziari», premette Nicolin.

«Ma, dopo tutto quello che ho vissuto nel Belice e a Napoli, credo di poter prendere la parola. Nel Belice ci chiamarono quando ormai erano rimaste solo le “briciole”. A Napoli fu l’architetto Uberto Siola, allora assessore del Pci, a volere degli esperti per un progetto sul dopo terremoto. Lavorammo un anno, ci bastava 1 miliardo dei mille miliardi in campo». Come finì? «Siola fu gambizzato dalle Br. I politici locali, a cominciare da Bassolino, non ci vollero tra i piedi». Con questo vissuto e relativi pregiudizi («Leggevo di new town e orride case sospese su piloni») Pierluigi Nicolin, in autunno parte per L’Aquila. In incognito («Non volevo farmi condizionare») gira per giorni tra le macerie della periferia («Brutta, come quelle di tante nostre città»), nei cantieri («ordinatissimi»), tra le rovine dei palazzi del centro storico.

Primo bilancio: «La Protezione civile aveva un perfetto controllo del territorio. Ho incontrato giovani preparati, tutti col pc aperto, pronti a spiegarti e a confrontarsi sugli interventi. Al confronto gli uffici del Comune di Milano sono da Terzo Mondo!». Capitolo case. «Una volta fatta la scelta - altre erano possibili - di non avere abitazioni provvisorie ho visto prefabbricati più o meno decenti. Nel bel paesaggio ondulato è interessante come sono stati inseriti non a schiera; buona anche la soluzione dei posti auto sotto le case tra i piloni antisismici che elimina orride rampe e parcheggi ma, soprattutto, l’attenzione al risparmio energetico mai vista nella nostra edilizia popolare. Gli interni tutti finiti, tutti uguali? Sarà pure un atteggiamento dirigista, ma avreste dovuto vedere cosa succedeva, cosa spendevano nel Belice». Ben altro tema, secondo Nicolin, è la rinascita del centro storico. «Altro che i vicoli murati a Napoli! Ponteggi, sensori sulla cupola del Duomo: la prima fase della messa in sicurezza mi è parsa esemplare. Non capisco la polemica sui detriti: è contro la sovrintendenza, contro il sindaco, contro il governo? Il vero nodo è la conservazione. Non è più compito di Bertolaso ora, deve scendere in campo un personaggio autorevole - penso ad Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali - che elabori con degli esperti un piano strategico su cui confrontarsi democraticamente. Serviranno forse 15 anni, non puoi imbrogliare la gente. Ma senza un piano la città non rivivrà mai, perché nel frattempo la gente se ne sarà andata».

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:03:51 am »

13/3/2010

Da un vecchio pc ai trionfi multimediali
   
CHIARA BERIE DI ARGENTINE

Nella «Control room», al primo piano dell'edificio superconnesso (a Rai, Mediaset, Sky, Ansa; ai telefonici H3G, Vodafone, Wind e a grandi aziende come Ferrari e Mondadori) video e testi transitano su decine di monitor accesi 24 ore al giorno, 365 giorni l'anno; il superprotetto DataCenter è nell'interrato; nel centro di produzione e negli uffici dove lavorano 150 persone - età media 28 anni - c'è ogni genere di diavoleria tecnologica.

Appuntamento in via Lomazzo, nella Chinatown di Milano, per raccontare la storia di un giovane che ha saputo intercettare la Grande Onda della multimedialità. Mentre noti moschettieri di prima generazione della New Economy vivono ore difficili (vedi inchieste giudiziarie) in quella che era la stalla di un antico mulino lumbard, nonostante la crisi, si lavora a gran gigabit. «Nel 2009 il nostro fatturato è aumentato del 20%; quest'anno puntiamo a fare ancora meglio», dice Andrea Besana, 34 anni, direttore generale e fondatore con il produttore Maurizio Rasio di RealLife, nel terrificante linguaggio dell'era digitale un «service integrator» ovvero, un'azienda che fornisce servizi e prodotti audiovisivi a multipiattaforme (tv, telefonia mobile, Internet, nuovi media).

Milioni di sms, mms, video che hanno invaso la nostra vita quotidiana. Esempi: da «RealLife» transitano i canali Sky per i cellulari. E ancora: come servizio editoriale ufficiale dell'Ansa, quelli di via Lomazzo rielaborano l'80% delle notizie che arrivano sui nostri cellulari, gli sms sulle partite di calcio e il Televideo Rai; gestiscono le «outdooor tv» di Autostrade e Poste Italiane; inviano news in lingua originale a Telecom Brazil e H3G Australia; producono il materiale multimediale per i siti di aziende come Ferrari e Pagine Gialle, programmi per Retequattro e per Nestlé fiction a puntate («Sognatori del gusto») su Internet.

Sul Pc del giovane imprenditore compare un video ancora inedito per la casa di Maranello: 2 minuti di una spettacolare corsa (le riprese sono state fatte da un elicottero) in fantastici luoghi d'Italia, dall'Isola Bella alla Costiera Amalfitana. «Sono sempre più appassionato dell'italianità. Le nostre radici, i nostri valori», ti sorprende il tecnologico Besana, fidanzato con la bella Wen, nata a Shanghai. Figlio del brianzolo Giancarlo, cronista sportivo ultrainterista e di un'insegnante, Andrea, aggiunge: «Ora che posso permettermelo voglio coccolare la mia famiglia. Soprattutto nonna Siria, 95 anni, la mia prima fan».

Insomma, un «brau fieu» allevato non certo nella bambagia, cresciuto ai folli ritmi del digitale. A 19 anni Andrea è tra i 60 giovani che si fanno le ossa da videogiornalisti all'emittente «Sei Milano»; a 20, frequenta Scienza delle comunicazioni allo Iulm e a «Videomusic» conduce con Victoria Cabello «Hit Hit». Poco dopo la svolta: mentre sta scrivendo una tesina di sociologia il suo vecchio computer va in tilt. Entra in un negozio; vede un nuovo modello di pc che monta anche i video. «Costava 3 milioni. L'ho comprato a rate e ho aperto una partita Iva. Era nata la mia casa di produzione! In 3 mesi, vendendo servizi giornalistici a Mediaset e Telemontecarlo, mi sono ripagato il computer». Nel 2000 Besana e Rasio fondano RealLife, nella cablata via Lomazzo producono format interattivi. Scoppia la bolla della New Economy e la loro banca chiude i rubinetti. «A 25 anni con 20 dipendenti rischiavo il crac. Siamo ripartiti grazie alla determinazione di Rasio e di 3 nuovi soci, Andrea Rapaccini, Roberto Fantino e Paolo Ceresi di Mbs consulting».

Nuovo modello business to business (B2B); produzioni superinnovative e superveloci. RealLife vince le gare d'appalto dell'Ansa e di H3G; vola il fatturato (più 55% l'anno). Per i frati cappuccini, nel 2003, il team di Andrea Besana realizza l'emittente satellitare TelePadrePio; nel 2004 impiega un solo mese per mandare sui telefonini il «Grande Fratello». E' solo l'inizio del digitale miracolo di via Lomazzo.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 20, 2010, 08:56:27 am »

20/3/2010
Il volto eccentrico di un re del food

CHIARA BERIA DI ARGENTINE


Saint Moritz, week-end scorso. A una cena di lor signori non è passato certo inosservato con una giacca nera traslucida e scarpe coperte di borchie, la suola rossa scarlatta (firmate Christian Loubotin) molto da divo del rock.

Tre giorni dopo, nel suo nuovo quartier generale milanese in via Spadolini, Angelo Colussi, 59 anni, presidente del gruppo industriale umbro che sforna biscotti e panforti, pasta e riso, crackers e prodotti dietetici, dadi per brodo e succhi di frutta (marchi: Colussi, Agnesi, Gran Turchese, Maltagliati, Audisio, Flora, Sapori, Misura, Liebig, Del Monte etc. etc.) esce da una riunione. Inappuntabile grisaglia grigia; sul tavolo mappe di Google con i siti, cerchiati in rosso, dei 3 stabilimenti dove, insieme ai suoi partner russi della compagnia InfoLink, produce a tutto spiano buona pasta all’italiana - «I russi amano i maccheroni» - per quell’enorme mercato in rapida espansione; l’agenda stracolma di chi guida a tutto sprint un gruppo con 7 stabilimenti in Italia e 4 all’estero (3 in Russia, uno in Romania); 1400 dipendenti (altri 609 in Russia); 580 milioni di ricavi (di cui 100 milioni made in Russia).

Scusi presidente Colussi, ma lei è la stessa persona che in privato è così fashion&rock? «Parla del mio look?», ride Colussi. «L’importante è non prendersi mai troppo sul serio. In ufficio, per rispetto ai miei collaboratori, cerco di avere un atteggiamento il più possibile dignitoso; nella mia vita privata faccio quel che mi pare. Ho amicizie molto diverse con persone di classi sociali le più differenti.

Non sopporto stare nel mazzo, sono sempre stato un ribelle. Detesto certi omini con 4 soldi, vestiti come si deve, che parlano solo di denaro e affari». Ritratto di Angelo Colussi, industriale multibrand e super competitivo e anche il più eccentrico tra i grandi nomi del food made in Italy. «Stabilimenti chiusi, storici marchi svenduti alle multinazionali straniere: negli Anni 70-80 è stata una vera carneficina dell’alimentare. Altro che paura dei comunisti e della sindacalizzazione! La verità è che in quegli anni è cambiato il modello di gestione delle aziende, ma la vecchia generazione d’industriali (orientati tutti alla produzione, poco al marketing) non è stata capace di affrontare gli ostacoli e gestire il cambiamento. Così, aziende straniere che erano più innovative e brillanti, per anni hanno fatto shopping dei nostri marchi», sostiene Colussi. 26 novembre 1999, compleanno di suo padre Giacomo, una data che Angelo Colussi non dimenticherà mai. Solo quel giorno, a un mese dalla sua morte, Giacomo Colussi, uno dei 5 figli di quell’Angelo che aveva aperto nel 1911 la prima fabbrica di biscotti a Venezia e che, nel 1949, si era messo in proprio trasferendosi a Perugia («I fratelli dovevano dividersi il mercato, litigarono da subito) disse ai suoi operai di Petrignano d’Assisi: «Vi lascio in buone mani». Ma direttamente a suo figlio, Angelo jr, in azienda già dal 1978, non lo disse mai. «Era di una durezza assoluta; mi ripeteva che non avrei combinato nulla nella vita», confessa Colussi. Convinto che l’Europa è solo «una regione del mondo»

Angelo Colussi che aveva ereditato un’azienda da 9 miliardi di lire in pochi anni ha creato un polo dell’alimentare acquistando marchi come Misura da Plasmon o ricomprando dai francesi storiche aziende come Agnesi. Crac Italgrani. Con un pugno di milioni, 10 anni fa, Colussi si presenta in Tribunale a Napoli per acquistare il marchio Maltagliati già presente in Russia; da quella prima mossa nasce la fortunata joint venture con Andrej Gurov, fondatore di InfoLink (controlla il 70% delle forniture di pasta in Russia). «Gurov e soci erano ingegneri nucleari in una base missilistica; hanno fatto business con le sigarette poi si sono buttati sulla pasta», narra Angelo Colussi,
l’industriale molto rock che compra grano in Arizona, fa il panforte a Siena e i makaroni con gli ex comunisti.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 15, 2010, 12:32:03 pm »

15/5/2010 - DI PROFILO

Fontana, l'invisibile "Ma non per i milanesi"

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Tra i paradossi di questa Milano-Italia in cui mi sento profondamente un estraneo», attacca Carlo Fontana, ex sovrintendente del Teatro alla Scala ed ex senatore malamente dimenticato dal Pd veltroniano, «c’è anche che rischiamo di celebrare i 150 anni dell’unità nazionale dando un colpo mortale ai teatri d’opera che, in quella storia, ebbero una parte fondamentale. Un altro paradosso? Si parla tanto di preservare nel mondo globalizzato la nostra identità, le nostre radici culturali ma, poi, non si difende il melodramma. Nostra arte per eccellenza, un vero distintivo nazionale. Purtroppo non esiste più un Giorgio Strehler che faccia sentire la sua voce; la cultura dominante è la tv. Tutto il resto è considerato residuale». Sciopero alla Scala e all’Opera di Roma, contestazioni del mondo musicale al decreto del ministro Sandro Bondi sulle fondazioni liriche. Carlo Fontana riceve un sms. «Mi scusi se ogni tanto la disturbo ma specie in questi momenti la sua figura onesta e competente è un sollievo al solo pensiero», gli scrive Lucia Bini, corista della Scala e sindacalista.

Commenta Fontana: «Per il potere sono un uomo invisibile, ma non lo sono per molti milanesi e, soprattutto, per i lavoratori della Scala che mi fanno continue attestazioni di stima e affetto». Ex presidente nazionale degli enti lirici, alla Scala 15 anni come sovrintendente e ancor prima come assistente di Paolo Grassi e Carlo Maria Badini, Carlo Fontana non nega le tante turbolenze sindacali in Teatro. «Con la stessa Bini ho avuto scontri durissimi. Però sapevamo di essere tutti dalla stessa parte. Loro non sono lavoratori qualsiasi. Sono artisti; sono i veri protagonisti dello spettacolo». Diluvia su Milano; per un cortocircuito prende fuoco l’insegna del Teatro San Babila giusto in faccia alla sede della Fondazione Balzan di cui Fontana è vicepresidente. «Bondi? Non lo conosco. Non c’è dubbio che la riforma di questo settore va fatta ma non con un diktat dall’alto», sostiene Fontana.

«Il decreto, in sostanza, cancella quell’articolo della legge 800 in cui lo Stato riconosce il valore della musica come bene culturale da sostenere e finanziare. Un caposaldo, persino durante il fascismo». Socialista mai pentito («Durante Tangentopoli sono stato l’unico a Milano a non cambiar giacchetta») Fontana, per ingenuità o errori, è finito a soli 63 anni in un cono d’ombra. Figlio di Ciro, colonna di Palazzo Marino nella Milano capitale morale (per 40 anni fu il braccio destro dei sindaci, da Antonio Greppi a Carlo Tognoli; e autore di commedie in dialetto milanese quando la Lega non era ancora nata) Fontana jr è stato alla guida della Fonit Cetra, direttore musicale alla Biennale, sovrintendente al Comunale di Bologna e, dal 1990, dominus alla Scala negli anni, tra l’altro, della megaoperazione di ristrutturazione del Teatro. 2005, deplorevole scontro tra l’orchestra e il maestro Riccardo Muti. Il cda della Scala sacrifica il sovrintendente; arriva il francese Lissner («Lo stimo molto»); spariscono gli adulatori di Fontana. Rivendica: «Da mio padre ho ereditato il culto delle istituzioni. La Scala è stata la mia vita ma, soprattutto, è un’istituzione della mia città.

Ho cercato di servirla al meglio». Nel 2006 accetta di candidarsi al Senato, in Lombardia, con il centrosinistra: «Fassino dimostrava attenzione al mondo socialista; intervenne anche Prodi». Diligente senatore (98% di presenze in aula) prepara un progetto di riordino delle fondazioni liriche. «Raccolsi consensi dalla Lega a Rifondazione ma mi scontrai con le ambizioni palingenetiche - una riforma dello spettacolo - del sottosegretario, Elena Montecchi. La mia modesta leggina non si fece, tanto meno la riforma. Ora vediamo i risultati!». 2008, regnante Veltroni («Pensa che la cultura sia appannaggio suo e dei suoi»), sprofondato in lista dal 5° al 17° posto, Carlo Fontana non viene rieletto. «Da allora», conclude, «sono spariti tutti, manco fossi morto. Con la politica ho chiuso. L’esperienza con il centrosinistra mi ha mitridatizzato».

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« Risposta #9 inserito:: Luglio 03, 2010, 04:20:22 pm »

3/7/2010

Il signore dei muscoli ha sedotto anche Google
   
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Lavoro in 100 Paesi del mondo con l’orgoglio della bandiera italiana è ovvio che ho provato un gran dispiacere per la figuraccia della Nazionale: partiti primi con la coppa in mano siamo finiti ultimi. Stipendi molto alti, poca grinta; la verità è che, non solo nel calcio, non abbiamo più fame! Speriamo che questa batosta ci serva da salutare lezione. Ciò detto per me i mondiali di calcio vanno avanti, ho molte squadre forti ancora in campo. Spero d’arrivare in finale e di portarmi a casa una coppa!». Saint Tropez, week-end di fine giugno. Vista la sconfitta degli azzurri il re delle palestre, Nerio Alessandri, 49 anni, fondatore e presidente di Technogym, l’azienda di Cesena leader mondiale nei prodotti e servizi per il fitness e la riabilitazione (400 milioni di fatturato, 90% export, 13 filiali dall’Asia al Sud America, fornitore di 53 mila centri wellness nel mondo con 18 milioni di utenti) ha cancellato il volo per il Sud Africa e si gode - con la moglie Stefania e il figlio Edoardo - qualche ora di dolce vita in Costa Azzurra. Trasferta solo rimandata.

Mentre tutta la spedizione italiana è tornata a casa senza gloria e con poco onore il cavaliere del lavoro Alessandri (è stato nominato a 40 anni, il più giovane nella storia della Repubblica), un tipo che gioca sempre all’attacco, è l’unico italiano che ha ottime chance di godersi la finalissima dei Mondiali di calcio 2010. Fornitore ufficiale con la sua Technogym alle ultime 4 Olimpiadi (Sydney, Atene, Torino, Pechino); dei bolidi Ferrari e, nel calcio, dell’Inter trionfatrice a Madrid, della Juve e del Milan, Nerio Alessandri, già tornato al lavoro nel suo quartier generale di Cesena, spiega: «Prima di tutto il Sud Africa per noi è un territorio molto interessante, un vero fiore all’occhiello. Con “Virgin", il gruppo di Richard Branson, abbiamo - per esempio - creato una grande catena di 70 club super innovativi. Ai Mondiali siamo partiti con 16 squadre su 32, a cominciare dai Bafana Bafana. Il nostro team in Sud Africa (mio fratello Pierluigi e tutti i miei collaboratori) ha allestito un “training center” per ciascuna squadra, curando l’assistenza e la preparazione atletica.

Ebbene, delle 8 magnifiche arrivate ai quarti di finale, 4 sono “nostre": Brasile, Argentina, Olanda, Uruguay». Non solo. «Per la prima volta», rivela Alessandri, «ci è stato chiesto d’allestire, a Pretoria, una palestra specifica per tutti gli arbitri dei Mondiali. Per essere bravo ormai un arbitro deve avere un fisico della madonna! Senza moviole e tecnologie dovrebbero essere delle gazzelle; ben più veloci e scattanti dei calciatori». Discussione aperta, visto certi clamorosi errori arbitrali. Di certo nella vita chi corre come una gazzella è Alessandri, imprenditore romagnolo di prima generazione che, a 23 anni con un diploma di perito industriale e pochi soldi, nel garage di casa ha progettato le sue prime attrezzature da palestra e, in pochi anni, è diventato il numero uno in un settore inventato e dominato dagli americani. «E’ stato come vendere la birra ai tedeschi o come correre su un tapis roulant con uno zaino pieno di pietre», ride Alessandri e gli brillano gli occhi nel raccontare della «stupenda palestra» appena fatta a Cupertino nell’headquarter di Google. Corretti stili di vita, non solo bicipiti. «Star bene conviene alle persone ma anche alle casse dello Stato.

L’anno scorso, secondo un report del ministero della Sanità, 28 mila persone sono morte per sedentarietà», dice Alessandri già lanciato verso un nuovo traguardo: l’inaugurazione nella sua amata Romagna del primo Wellness Campus al mondo (60 mila mq, centro ricerca, facoltà di fitness, progetto di Antonio Citterio). Tifoso e gran supporter del Cesena in serie A, Nerio Alessandri, non nasconde che ai Mondiali la sua squadra del cuore era diventata il Brasile: «Lì abbiamo grossi lavori e un ottimo rapporto con il presidente Lula. Lavoriamo per Mondiali e Olimpiadi. Il Brasile è il Paese emergente. Anche se ha perso è il futuro».

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« Risposta #10 inserito:: Luglio 17, 2010, 11:08:19 am »

17/7/2010

Donna Guendalina la signora delle feste
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Donna Guendalina tra i suoi antenati ha Carlo Magno, Pipino il Breve e pure un avo che fu ministro alla corte di ben 4 zar, da Caterina la Grande a Nicola I. D’illustre famiglia patrizia lombarda Guendalina Litta Modignani è nata a Roma ma, scoperta Bruxelles con il secondo matrimonio di sua madre, adora vivere in Belgio: «E’ il posto ideale dove far crescere le mie due figlie». Suo fratello, il marchese Eugenio, non è uno di quegli aristo-bamboccioni: fa l’imprenditore a Mosca ed è riuscito nell’incredibile business di vendere fiumi di vodka ai russi post-comunisti grazie anche alla nostalgica etichetta «Tovaritch», ovvero compagno. E lei, Guendalina, è la lady italiana dal gusto perfetto e professionista tanto seria quanto riservata (non ha voluto neppure un suo sito su Internet) che si è conquistata la fama di essere - non solo in Europa - la miglior organizzatrice di prestigiose&doviziose nozze e di feste private della cosiddetta top-society.

Dagli Arnault ai Rothschild, dai Caprotti ai Mentasti; dagli inviti alle ciprie e profumi nelle toilette degli ospiti. La professione di Guendalina Litta tecnicamente farebbe parte della nicchia superlusso; non a caso dopo essere stata la regista, nel settembre 2007, delle sontuose nozze con relativo ricevimento per 700 invitati a Château d’Yquem di Alessandro Vallarino Gancia e Delphine, figlia di Bernard Arnault, il patron del gruppo Lvmh le ha chiesto d’occuparsi anche delle divise per i camerieri del «Cheval Blanc», il suo hotel 5 stelle a Courchevel. Ma, nonostante simili clienti («E’ stato l’ufficio stampa di Lvmh a fare il mio nome», puntualizza) e, nonostante sia arrivata a organizzare in Arabia Saudita una megacerimonia con 2500 invitati, guai a etichettarla come una «wedding planner»: fa troppo format tv, troppo commercial. «Lavoro solo sui ricordi; il giorno dopo già tutto è finito. Fra tante definizioni, quella che più mi piace è “Magicienne de l’éphémère”, una maga dell’effimero», racconta Guendalina, rientrata subito a Bruxelles dopo aver ideato una fantastica mise en scène, sabato 10 luglio, per le nozze in una tenuta in Maremma di Kerry Mentasti Granelli (famiglia già proprietaria della San Pellegrino) con la bionda Carolina Marengo.

La sposa su un carro tirato dai buoi, butteri, covoni di fieno, festoni di girasoli: una tavolozza alla Van Gogh. Nel padiglione issato per la cena tra alzate di fieno con lavande e fiori di campo i 500 invitati in pochi minuti, grazie a una piantina disegnata su un cartoncino («Detesto vedere la gente smarrita alla ricerca dei tavoli»), erano seduti al loro posto. Paradosso dell’effimero. «Per fare questo lavoro occorrono disciplina e rigore. La riuscita di una festa dipende da una marea di dettagli», spiegava sabato notte donna Guendalina, l’auricolare all’orecchio per guidare il suo team giunto dal Belgio. Con Marino Salom, un imprenditore suo amico (scomparso in un incidente aereo nel 1989) anni fa Guendalina s’occupava solo di catering; fu così che a una cena di Armani al museo Rodin di Parigi conosce il celebre Pierre Celeyron, erede di Papillon de la Ferté, cerimoniere alla corte di Francia.

Matrimoni dei reali belgi, ballo dell’Aga Khan, festa di Valentino a Roma: da assistente di Celeyron, Guendalina scopre che la sua passione per le feste («Già da ragazzina adoravo organizzarle») può diventare il suo mestiere, la sua scelta di vita. Lo scorso autunno a Venezia per il pranzo di nozze di Violetta Caprotti (Esselunga) a palazzo Polignac crea una raffinata tavola di violette e chinoiseries; a Parigi s’inventa una profusione di dalie come décor del ristorante al hotel Bristol. Soprattutto ama far feste per tutte le età: come il gran ballo («E’ stato divertentissimo!») dato da un industriale belga così arzillo da voler celebrare i suoi 80 anni. Cafonate da evitare a un matrimonio, donna Guendalina? «Il kitsch può essere geniale», ride. «Esempio? Sopra la torta di glassa una volta ho messo non una, ma ben 100 coppie di sposini!».

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« Risposta #11 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:39:14 am »

4/9/2010

Il signore delle vette ruba energia al vento

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Dalle discese più ardite al vento del Mediterraneo. L’ultima sfida di Stefano De Benedetti, 52 anni, genovese, amministratore delegato della Seva (centrali idroelettriche) con un passato di celebre e spericolato alpinista - è stato uno dei pionieri italiani dello sci estremo ovvero, scalare e poi scendere da vertiginose vette su pendenze fino a 60 gradi - si chiamano Parchi eolici offshore.

Nulla a che vedere con la contestata piattaforma petrolifera al largo di Pantelleria che, visto il disastro nel Golfo del Messico, preoccupa non solo i panteschi. «Hanno ragione di protestare», commenta De Benedetti per autodefinizione un «verde concreto». Spiegazione: «E’ facile proclamarsi difensori dell’ambiente, altro è fare qualcosa di concreto. Io ci sto provando. Da 10 anni, accanto all’idroelettrico, studio l’eolico. Ho visitato molti impianti in Usa; è un settore che conosco bene. Uno dei problemi dell’eolico è che consuma spazio, soprattutto visivo. Modifica il paesaggio, una delle nostre risorse più preziose. La soluzione: andare in mare. Dal 2003 lavoriamo a progetti di Parchi offshore, al largo dei litorali italiani, ispirati a quelli in funzione nel Mare del Nord», continua De Benedetti. «Pensiamo a piattaforme ancorate al fondale marino sulle quali impiantare i generatori eolici. Vantaggi? Non inquinano, neanche il paesaggio. Li pensiamo lontano dalle coste, anche 9 chilometri, e dalle località turistiche». Per realizzare il primo parco l’azienda di De Benedetti (16 ingegneri, 10 milioni di fatturato) è in gara con il gruppo Trevi. «Un colosso, noi siamo più piccoli. Gli intoppi burocratici sono infiniti e mancano ancora le linee guida del ministero dei Trasporti. Ma, in montagna, ho imparato ad andare avanti, passo dopo passo, senza mai mollare. Una sfida totale tira fuori il meglio di una persona. A patto, come mi disse uno sciamano, che il “sentiero abbia un cuore"».

E’ il fil rouge della straordinaria vicenda di Stefano De Benedetti. Non solo è sopravvissuto alle sue incredibili imprese in solitario - 80 prime discese, dalle Alpi alle Ande; 22 solo sul Monte Bianco (dalla via Major alla cresta del Peuterey, dal canalone del Freney alla paurosa Innominata, 8 ore di discesa da brivido) ma vive la sua terza vita occupandosi di energie rinnovabili, un business ancora da spericolati tra banchieri «poco propensi al rischio» e valanghe di cavilli. «Un incosciente? Non so. Certo, finora ho avuto molta fortuna. L’importante è avere una percezione lucida dei propri limiti», dice De Benedetti. Fu suo nonno Stefano a iscriverlo al Cai 6 mesi prima della nascita; a 2 anni i primi sci. E’ in Val di Susa che il ragazzo genovese scopre l’incanto del fuoripista. Studente alla facoltà d’Economia, predestinato a lavorare nell’azienda di famiglia, a 19 anni De Benedetti trova il suo sentiero del cuore nello sci estremo e, per 10 anni, sostenuto da sponsor, scia da vero acrobata delle nevi. «L’esposizione al vuoto è pazzesca. Devi avere un ottimo controllo anche di nervi. Un errore e t’ammazzi».

Sulle vette ormai è un mito; poi, s’innamora. «Decido che avevo stressato troppo la fortuna. Così, riparto da zero. Senza soldi, da una casa di ringhiera a Milano. La notte, ricomincio a sognare». Nella sua seconda vita De Benedetti fa il regista degli adrenalinici e fortunati spot e film «No limits» per gli orologi Sector. Protagonisti suoi amici, atleti estremi come Patrick De Gayardon (morirà in volo nel 1998). Stefano gira il mondo, vince premi e risparmia per investire in piccole centrali. Nel 2000 è il primo a comprare una turbina idroelettrica in Cina. «Era un rischio, oggi siamo i loro clienti privilegiati». E ancora una sfida impossibile. E’ sul caso della sua centrale di Pila che, con l’Associazione produttori di energie rinnovabili, ottiene (2001) dall’Autorità per l’Energia l’abolizione degli «oneri pregressi» all’Enel. «Una vera gabella! Un modo per il colosso monopolista di stroncare noi nanerottoli sul nascere». Forse solo allora a Roma, ai piani alti dell’Enel, hanno scoperto che razza di competitor è il «piccolo» Stefano De Benedetti.

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« Risposta #12 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:34:27 am »

20/11/2010

Il re delle miniere sceglie l'Italia
   
CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Meno 40 gradi d’inverno, più 35 in estate, 6 ore di fuso orario dall’Italia. Korchakol dove 3 anni fa Paolo Clerici, presidente del gruppo Coeclerici, ha comprato - primo occidentale in Russia - l’intero capitale di una miniera a cielo aperto di steam coal (carbone per energia elettrica) è un puntino nell’infinita regione siberiana del Kuzbass. Non solo moda, pizza o design. Ora il marchio della Coeclerici (il gruppo, 500 milioni di euro di fatturato, opera nel trading e logistica delle materie prime e nell’armatoriale) compare accanto a sbiadite stelle rosse anche sui vagoni dei treni che trasportano il carbone per 5100 km fino al porto di Murmansk, l’unico al Circolo polare Artico libero dai ghiacci tutto l’anno. Forti investimenti, ammodernamento delle strutture. «In 3 anni a Korchakol la produzione è passata da 300 mila a 600 mila tonnellate l’anno di carbone destinate alle centrali inglesi e spagnole. Entro il 2012 arriveremo a 1 milione di tonnellate», dichiara Clerici, 65 anni, terza generazione di una storica famiglia d’armatori genovesi.

L’acquisto della miniera siberiana (la Coeclerici tratta 6 milioni di tonnellate l’anno di carbone) è solo l’ultima sfida di un cavaliere del lavoro sempre più global. «Nel 1992 quando sono diventato responsabile del gruppo», spiega Clerici, «facevamo più del 94% del nostro fatturato in Italia. Era un altro mondo. Crollo del muro di Berlino e Tangentopoli. Forse anche perché ho una madre inglese non sono tagliato per certe cose, tengo molto alla trasparenza. Ho rivoltato l’azienda e ho cambiato tutti i manager. Adesso il 98% del nostro fatturato lo facciamo all’estero». Due figli maschi, Giacomo e Urbano, già inseriti nel gruppo per anni Paolo Clerici che, in quel 1992 aveva solo il 21,5% del capitale, ha racimolato le quote di parenti e partner finanziari. Infine, un mese fa, ha comprato l’ultimo 10%. «Uno schiribizzo? Anche. Ma, soprattutto, credo nel nostro lavoro e ci metto i soldi». Una ciliegina sulla torta per un imprenditore sulle cui chance anni fa pochi avrebbero scommesso visto i contrasti con il padre Jack e la sua fama di sfrenato giovanotto, compagno d’avventure di play boy come Gigi Rizzi.

Giro di boa, rientro nei ranghi, proiezione su mercati globali. A Milano nel nuovo supercool quartier generale della Coeclerici tra opere d’arte contemporanea del glorioso passato (la società fu fondata a Genova nel 1895 da Henry Coe, uomo d’affari scozzese; Alfonso, nonno di Paolo, diventò suo partner all’inizio del ‘900) restano i dipinti e modellini di antichi bastimenti. I nuovi gioielli Coeclerici sono i supertecnologici terminal galleggianti («Nella logistica siamo i primi al mondo!») che dal lago di Maracaibo in Venezuela a Tanjung Bara in Indonesia caricano e scaricano i minerali dalle navi oceaniche troppo grandi per entrare nei porti. Ex presidente di Confitarma, Paolo Clerici, da buon padrone della miniera («A cielo aperto; nulla a che vedere con Marcinelle») difende con assoluta convinzione le ragioni del carbone. «Grazie alle tecnologie il carbone oggi è meno inquinante. E ancora. Ci sono riserve di petrolio per non più di 40-60 anni e nelle mani di pochi; quelle di carbone sono per almeno 150 anni e in varie regioni del mondo. Perciò penso che il carbone sia il combustibile di transizione verso l’energia pulita.

E, però, mentre il consumo di carbone in Europa, a cominciare da Paesi scandinavi così attenti nella difesa dell’ambiente, è del 35% in Italia è solo del 15%. Una follia visto la nostra totale dipendenza dall’estero. Il problema è che “il mondo petrolifero” ha fatto di tutto per bloccarci», attacca l’imprenditore. Anche lei, Clerici, vuole andarsene? «No. Mi danno del matto ma, contrariamente ai miei concorrenti che hanno le sedi a Ginevra, Zug e Singapore, io resto e difendo l’Italia. Non stupiamoci però se, in mancanza di trasparenza e di regole certe, non attiriamo investimenti stranieri. Del resto, siamo l’unico Paese al mondo dove pure dal medico ti senti chiedere: "Chi la manda?"».

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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:27:53 pm »

8/1/2011

Le erbe e le giacche del farmacista romantico

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Per capelli più belli c’è lo shampoo fatto con pregiato estratto delle mele renette di Saint-Pierre; per combattere rughe e disidratazione creme antiossidanti alla stella alpina e olio alle noci di Arnad; il bagno schiuma ha i profumi del timo e del miele di montagna e, per proteggere il sederino del bebè, la crema alla calendula della Vallée. Slow Cosmetic: altro che i prodotti esotici all’aloe o al jojoba, creme supergriffate&supercostose che promettono nuova giovinezza, punture al «velenoso» botulino! L’idea di lanciare una linea di prodotti fitocosmetici realizzati usando solo materie prime ed estratti di piante officinali coltivate in Valle d’Aosta e nell’arco alpino è di un giovane farmacista, Andrea Nicola, nato 41 anni fa a Vercelli ma da più di 30 anni valdostano di residenza e, soprattutto, di cuore.

«Curarsi con le erbe è una delle tante, belle tradizioni che le famiglie valdostane si sono tramandate per secoli di padre in figlio. Esempio: la pianta più conosciuta e amata in Valle è l’imperatoria - agrou, in patois - per le sue proprietà cicatrizzanti», spiega il Nicola che nella sua grande farmacia ad Aosta, tra farmaci tradizionali e una vastissima scelta di prodotti «non convenzionali» (fitoterapia, omeopatia e persino fito erbe per misteriose ricette alchemiche) ha messo una riproduzione della lunetta medievale del castello di Issogne dedicata all’antico e affascinante mestiere dello «speziale». Tra una ricetta e l’altra, il fantasioso farmacista si era già inventato un dentifricio per eno-gastronomi («Ha un tensioattivo 5 volte più delicato di quelli usati normalmente per rispettare al massimo il potere sensoriale delle papille gustative») e, nel 2004, con la moglie Alessandra e alcuni soci la linea d’abbigliamento «Valgrisa», chicchissime giacche (modelli ispirati a quelli antichi delle guide di Courmayeur o dei guardiacaccia di Vittorio Emanuele II) con l’ormai rara lana Rosset della Valgrisenche. Il primo test per questa sua nuova scommessa very local e molto romantica fin dalle confezioni dei prodotti: scatole di latta, etichette con l’immagine del Monte Bianco e su quelli per bambini (testati dall’università di Ferrara) immagini dei Tatà, i vecchi giocattoli in legno.

«Il mio progetto è fare della cosmesi vegetale, tracciabile, a costi accessibili. Uno shampoo costa 9,80 euro; il bagno schiuma 8,80; le creme per il viso al massimo 20 euro. Sono in molti a promettere «il Naturale»: troppo facile! Bisogna sapere cosa mettono dentro, la provenienza delle piante, le condizioni di lavorazione; molte materie prime vengono dai Paesi dell’Est e dall’Africa. Nella cosmesi come nell’abbigliamento siamo ancora molto indietro rispetto al settore agro-alimentare dove i consumatori, grazie all’impegno di Carlin Petrini e di Slow Food, hanno acquisito una maggiore consapevolezza». Passione per il territorio, valorizzazione di materie e lavorazioni autoctone, nuove chance di lavoro. Nel suo nuovo progetto Andrea Nicola è riuscito a coinvolgere istituzioni d’eccellenza e privati. Il prestigioso Institut Agricole Régional gli fornisce le piante officinali («Il nostro timo ha qualità così elevate che gli svizzeri cercano di copiarcelo») che crescono in varie zone della Vallée fino a 1.600 metri d’altezza; la maison Bertolin di Arnad, nota per il lardo e i salumi, le noci valdostane; la coop Cofruits l’estratto di mele renette e Cesare Ottin coltiva le stelle alpine usate da Nicola per le creme.

«Ho già trovato alcuni ragazzi valdostani appassionati di piante officinali che, se tutto andrà bene, vorrei coinvolgere nel progetto», dice Andrea Nicola. Già adesso l’ottimo miele di montagna per il bagno schiuma è opera dei giovani disabili della Fondazione Ollignan di Quart, l’onlus voluta dagli assessorati Sanità e Agricoltura. Così buoni e così slow i cosmetici made in Valle d’Aosta riusciranno a scalare il mercato? «E’ un’impresa non facile», ammette Andrea Nicola. «Ma noi valdostani siamo caparbi. Abbiamo la testa dura».

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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 29, 2011, 11:34:55 am »

29/1/2011 - DI PROFILO

Dietro le sbarre nascono dolci da re


CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Con i nostri panettoni siamo entrati nella casa del Papa, dolcemente», sorride Nicola Boscoletto, il presidente ciellino del consorzio sociale Rebus (3 cooperative, 450 dipendenti, fatturato 18 milioni di euro). Boscoletto con la coop Giotto è pioniere nel carcere «Due Palazzi» di Padova di un progetto, basato sul lavoro come strumento d'eccellenza per il recupero dei detenuti, d'avanguardia nel desolante panorama delle nostre prigioni (una minoranza dei 70 mila detenuti lavora; e di questi 1.200 sono in regime di semilibertà e solo 700 dietro le sbarre). «Nel 2005 abbiamo lanciato una sfida ambiziosa: fare alta pasticceria in carcere. Con l'aiuto del maestro pasticciere Lorenzo Chillon sono nati i Dolci di Giotto», racconta Boscoletto.

«Da allora, a Natale regaliamo al Papa un panettone e a Pasqua una colomba accompagnati da una lettera o un video sulle nostre attività in carcere. Un anno il Papa ha donato il nostro panettone ai detenuti di Rebibbia; poi, so che ha cominciato ad assaggiare qualcosa. E, questo Natale, dal Vaticano ci hanno ordinato 260 panettoni. Regali - regolarmente pagati - del Santo Padre a cardinali, ambasciatori e alla famiglia pontificia». Apprezzati da così alti palati, premiati dall'Accademia italiana della cucina e lodati da celebri chef come lo spagnolo Fernan Adrià (ha visitato il laboratorio nel 2009) i dolci dei detenuti-pasticcieri di Padova (oltre a quelli dedicati a Giotto, sfornano per i pellegrini antiche ricette ritrovate dai frati della Basilica di Sant'Antonio) sono solo il fiore all'occhiello delle varie attività - «Lavoro vero, non assistito» - create in carcere dal pragmatico imprenditore veneto e dai suoi amici. Niente a vedere con il buonismo. «Ho la doppia fortuna di non essere un politico e di lavorare da 20 anni in questa trincea», attacca Boscoletto. «Perciò, confesso di provare profondo disagio quando sento certi discorsi sulla sicurezza. Su questo tema - a tutti i livelli - è stato impostato un teatrino per fini elettorali; ora non sanno più come tirarsene fuori. Sia chiaro, il carcere oggi è una fabbrica di delinquenza - il dato reale sulla recidiva è intorno al 90% - e costa miliardi di euro alla collettività. Paghiamo, insomma, per farci del male. E' elementare, eppure sembra quasi impossibile far ragionare le persone e chi capisce la situazione ha paura di fare qualcosa nel timore di perdere consensi».

Nato a Chioggia, laureato a Padova in scienze forestali, sposato con 2 figli, Boscoletto al carcere è arrivato per caso. Nel 1986 con un gruppo di universitari di Cielle («L'incontro decisivo per tutti noi è stato quello con don Giussani») fondò una cooperativa per la progettazione e manutenzione del verde. «Le aree esterne del “Due Palazzi" erano ridotte a una discarica; nel 1991 vincemmo il concorso ma dal ministero non arrivava l'ok. Dietro le sbarre 700 detenuti non facevano nulla, convincemmo il direttore a fare dei corsi di giardinaggio».

Nel 2001 un altro passo avanti. «A parte quei corsi, all'inizio il nostro ruolo era solo cercare il lavoro all'esterno. Ebbene, tra chi lavorava in semilibertà la recidiva era scesa al 15%. Era evidente: il lavoro bisognava portarlo dentro al carcere». Tra ostacoli, diffidenze, miopie («In questo campo ogni piccolo passo è come scalare l'Everest; oltretutto subiamo la concorrenza dei moltissimi laboratori clandestini») il «Due Palazzi» è diventato un laboratorio di speranza.

I 100 detenuti-dipendenti della Giotto (900 euro al mese come contratto delle coop sociali) non solo fanno squisiti dolci (30 mila panettoni a Natale) ma assemblano biciclette, valigie e gioielli. C'è chi fa chiavette con il sofware per la firma digitale e chi lavora al call center della locale Asl. 2010, nuova statistica. «Tra i nostri detenuti la recidiva è crollata al 1%», nota con orgoglio Boscoletto. Educazione al lavoro, dignità, riscatto. Per Nicola Boscoletto «questa è la vera filiera della sicurezza. Tutto il resto sono parole al vento».

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