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Autore Discussione: GIORGIO AMBROSOLI  (Letto 10986 volte)
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« inserito:: Maggio 13, 2009, 10:55:26 am »

Il liquidatore della Banca Privata italiana fatto uccidere da Sindona nel 1979

Mio padre Ambrosoli sarebbe ancora solo

«Oggi come trent’anni fa. La società continua a non vedere nella legalità un valore»


«Mio padre oggi a Milano? Proverebbe lo stesso disagio di allora. Rappresentato da una consapevolezza: il lavoro chiamato a fare solo nell’interesse del Paese, non gli porterebbe la solidarietà della collettività».

Umberto Ambrosoli è il terzo figlio di Giorgio, l’avvocato liquidatore della Banca Privata italiana, ucciso aMilano nella notte fra l’11 e il 12 luglio 1979 da un killer assoldato da Michele Sindona. Lui ha 38 anni, è avvocato penalista e sei anni fa ha deciso di scrivere un libro, «la storia di un uomo che, come tanti, conduceva una vita normale, aveva una bella famiglia che amava molto, credeva nel significato e nel valore della propria libertà e responsabilità. Quest’uomo era mio papà». Un libro (in uscita fra pochi giorni da Sironi) scritto per i suoi tre figli e che ha un titolo piano ma straziante: Qualunque cosa succeda. Straziante perché si tratta di una citazione dalla lettera che Giorgio Ambrosoli scrive per la moglie Anna e che lei trova quasi per caso una mattina del febbraio 1975. L’«eroe borghese», come l’ha definito Corrado Stajano, rivela un presagio che trasforma la pagina a quadretti in un testamento spirituale: «Qualunque cosa succeda tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali abbiamo creduto».

«Ecco — dice Umberto — credo che oggi come allora, a Milano ma anche altrove, la società non veda nella legalità e in chi la preserva un valore». Non che manchino esempi del contrario: le lezioni sulla Costituzione sono seguitissime, alla presentazione dei libri sui temi legati alla legalità e alla democrazia c’è spesso la fila. «L’ex magistrato Gherardo Colombo per i suoi incontri e conferenze ha un’agenda con i primi "buchi liberi" nel 2011. Ma se si va all’Università di giurisprudenza pochi sanno chi è stato mio padre. Per molti un giudice ucciso dalle Brigate Rosse». Nonostante il libro di Stajano, uscito nel ’91 poco prima che esplodesse Tangentopoli, e il successivo film abbiano in teoria «cancellato la dimenticanza». E in fondo la storia dell’eroe borghese, pur appartenendo agli anni Settanta, al «decennio lungo del secolo breve» («anni confusi che hanno visto lo Stato mostrare due volti: nelle sue personalità migliori quello del "bersaglio"»), resta un’«anomalia» anche in questi momenti della riconciliazione con il saluto fra le vedove di Luigi Calabresi e Giuseppe Pinelli.

Un’«anomalia» perché, dice Umberto Ambrosoli, «se non è certo una storia di solidarietà, non lo è nemmeno di divisione politica. Mio papà non ha consentito che il suo lavoro diventasse politica. Se non, come scrive a mia mamma, "in nome dello Stato e per nessun partito"». E «nessuno ha mai potuto dire: Ambrosoli era uno dei nostri». Il libro è, come scrive nella prefazione Carlo Azeglio Ciampi, «un atto d’amore per il padre». E nasce sei anni fa, in sala parto. «L’infermiera entra e dice: fuori c’è il nonno. Era il padre di mia moglie. Ma in quel momento ho capito che a Giorgio, il primogenito, e ai figli successivi, dovevo raccontare la storia di mio papà». E la scrive rivolgendosi a loro: «Una storia bella, emozionante e un po’ complicata che forse potrà sembrarvi, nella sua conclusione, triste e ingiustamente dolorosa. Eppure credo che quando l’avrete conosciuta sarete orgogliosi, in qualche modo, di farne parte».

Una storia personale, vista dagli occhi e dal cuore di un bambino che perde il padre tragicamente quando è piccolo ma che acquista progressiva consapevolezza della sua morte e della sua figura. Dal funerale in una Milano calda, irreale, innaturale («ancora oggi non voglio che i miei figli passino anche un solo giorno di luglio in questa città», alle sere trascorse origliando fuori dalla sala, quando zii, amici e la madre discutono della lunga cronaca successiva: delle indagini, dell’estradizione di Sindona, dell’arresto del killer Arico. Serate alle quali è «ammesso» quando ha dodici anni. E a quattordici chiede di assistere al dibattimento in Corte d’assise: non si può, ai minorenni è proibito. Ma la madre Annalori promette di chiedere un permesso speciale. Anni di ricerche e riflessioni che lo portano al libro e lo aiutano a capire una cosa: «Sarebbe bastato un piccolo sì, qualche piccola omissione, non prendere posizione; avrebbe avuta salva la vita». Come ha scritto Ugo La Malfa «mezza Italia» («che poi — spiega l’autore — significa mezza Dc») si è mossa «in difesa» di Sindona. E progressivamente in Umberto matura l’amarezza che raccoglie in queste parole: «Sento un’omissione generalizzata intorno alla vita di papà. Chi è chiamato a responsabilità pubbliche non ha forze né motivazioni per confrontarsi con la sua storia. La mia sensazione è che nella sua interezza e complessità non sia stata raccolta dalla collettività». E forse anche oggi avrebbe lo stesso destino.

Sergio Bocconi
13 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 15, 2009, 06:42:17 pm »

GIORGIO AMBROSOLI
 
Il ricordo (e l’esempio) di Giorgio Ambrosoli sono una componente essenziale della nostra riflessione inseriamo nel  sito questa lettera, indirizzata  da Ambrosoli alla moglie, che contiene il suo testamento spirituale.
 
 

Anna carissima,

è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana n.d. r.) atto che ovviamente non soddisfarà molti e che è costato una bella fatica.

Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese.

Ricordi i giorni dell'Umi (Unione Monarchica Italiana n.d.r.) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito.  Con l'incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.

I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie.  Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo.  Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa.

Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro [... ]

Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi.

Hai degli amici, Franco Marcellino, Giorgio Balzaretti, Ferdinando Tesi, Francesco Rosica, che ti potranno aiutare: sul piano economico non sarà facile. ma - a parte l'assicurazione vita – (…)   

 
Giorgio
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 15, 2009, 06:43:10 pm »

12 luglio 1979

Il caso Ambrosoli


di Gherardo Colombo

Documento aggiornato al 24/02/2006



Il 12 luglio 1979, sotto casa, di notte, viene ucciso Giorgio Ambrosoli.

Chi lo uccide non è un terrorista, è un killer prezzolato che lo uccide per il suo lavoro.

Ambrosoli, avvocato civilista, esperto in liquidazioni coatte amministrative, aveva lavorato con grande competenza nella liquidazione della SFI, ed era perciò stato nominato in seguito commissario liquidatore della Banca Privata, controllata da Michele Sindona, della quale nel 1974 era stata dichiarata l'insolvenza, e cioè il fallimento.

Sindona, fino ad allora, era il più potente banchiere privato italiano e il massimo esponente della così detta “finanza cattolica”.

Ambrosoli, giovane professionista (era nato a Milano il 17 ottobre 1933), di convinzione monarchica e liberale, impegnato a fare cultura più che politica, aveva il compito di ricostruire i motivi del fallimento e di recuperare il denaro distratto da Sindona.

Nella lettera testamento del 25 febbraio 1975 indirizzata alla moglie Annalori, che la troverà dopo la morte del marito fra le sue carte, Ambrosoli scrive di essersi trovato così, di colpo, a “fare politica per conto dello Stato e non di un partito”; ad impedire che ricadessero sui cittadini le passività delle banche di Sindona.

Quando il suo lavoro cominciò a dare frutti, e venne acquisita alla liquidazione la holding estera che controllava l’impero societario di Sindona, iniziarono le intimidazioni, che divennero continue; le voci anonime che telefonicamente minacciavano Ambrosoli parlavano di dettagli conosciuti soltanto da chi aveva con lui stretti rapporti proprio riguardo alla liquidazione della banca.

Procedevano intanto anche le manovre politiche a protezione di Sindona; per indurre la giustizia americana a non estradare il banchiere personaggi di rilievo, tra cui il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Roma, sottoscrissero “affidavit” a sostegno dell’imputato, affermando che era vittima di una persecuzione politica pilotata dalla sinistra.

Amborosoli però non si piegò. Sulla paura prevalse il rispetto della propria libertà, libertà di essere coerente con se stesso, di non farsi condizionare da altri, di assolvere nell’interesse di tutti il proprio mandato.

Poichè Sindona era fallito anche in America, e i magistrati di New York si trasferirono in Italia per saperne di più sui suoi metodi, sulle sue malefatte italiane. Assunsero, per giorni la lunga testimonianza di Ambrosoli, che metteva a nudo le responsabilità di Sindona.

Ambrosoli venne ucciso la notte precedente alla sottoscrizione formale delle sue dichiarazioni.

Giorgio Ambrosoli era sposato ed aveva tre figli: Francesca, Filippo e Umberto, amava teneramente la sua famiglia, alla quale fu sottratto da chi voleva conservare il proprio potere e le proprie illecite ricchezze.


La vicenda di Ambrosoli pone inquietanti interrogativi sul modo di essere della nostra società.

Ambrosoli che era uomo delle regole, ebbe tutti, o quasi tutti, contro. Era considerato per la cultura di allora (intendendo per cultura l'insieme dei punti di riferimento che valgono per la generalità o meglio per la maggior parte delle persone e, nel caso specifico, delle persone che contano) , e forse continua ad essere considerato anche per la cultura di adesso, un personaggio a dir poco anomalo. Perché?.

Parto dal presupposto che nessuno sia necessariamente in malafede, e mi chiedo: ma perché mai una valutazione di tal genere su Ambrosoli era (e forse sarebbe ancora) così diffusa? Non posso pensare che tutti siano così legati al proprio interesse personale, ai propri soldi, alla propria furbizia da dare un giudizio negativo su Ambrosoli solo perché il suo operare contrastava con precise mire di potere personale o con la evidente salvaguardia di concreti privilegi. Le persone direttamente colpite dalla sua azione erano, del resto, una minoranza, meno numerosi comunque di coloro che invece dalla onesta liquidazione dell’impero di Sindona traevano vantaggio.

Ed allora, come mai Ambrosoli è stato considerato “uno fuori del mondo”? Come mai esiste una convinzione così diffusa e radicata secondo la quale c'è sì la regola. ma la vita è comunque un'altra cosa rispetto alla regola? Essa non riguarda soltanto quella parte di società che Stajano ha individuato intitolando il suo libro “Un eroe borghese”. E’ ben più diffusa nella nostra società, non è prerogativa solo d'una sua componente.

Peraltro la convinzione secondo cui la regola è cosa diversa dal vivere si combina in una singolare misura con il radicato atteggiamento secondo il quale il rispetto delle regole viene chiesto agli altri, mentre ciascuno risulta intimamente convinto di esserne personalmente svincolato. C'è, secondo me, questa diffusa doppiezza, secondo la quale coloro con i quali ti trovi, anche occasionalmente, in contraddittorio sono tenuti, loro, a rispettare le regole, mentre se le rispetti tu finisci quasi per sentirti uno sprovveduto.

Mi sembra ovvio che fin quando queste convinzioni saranno capillarmente diffuse sarà ben difficile che nel nostro paese possa instaurarsi una effettiva legalità.

Va poi sottolineato un altro profilo: molti si sentono vittime della malvagità altrui, ma il loro atteggiamento è quello dello spettatore impotente, che non partecipa al gioco, che non ha strumenti per incidere, per far pesare il suo punto di vista, per comunicare ad altri (compresi i potenti che siano allo stesso tempo “malvagi”) le proprie convinzioni e convincere a sua volta chi gli sta intorno. Tale atteggiamento il più delle volte è in contraddizione con la realtà ed è comunque soltanto distruttivo e assolutamente pessimista.

Esso inoltre suscita un atteggiamento di fastidio come se chi vuole il rispetto della legalità venisse a turbare un “equilibrio”, una sicurezza, una consuetudine, che evidentemente paiono valori in sé, ancorché determinino danni per tutta la collettività.

da www.archivio900.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:40:26 pm »

29/9/2009

Ambrosoli la scia del lutto
   
MARIO CALABRESI

Avevano appena finito di fare i conti con il dolore e con gli anniversari. Avevano ricostruito la memoria della vita e dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli tutti insieme, una vedova con i suoi tre figli, con lo stesso pudore e contegno con cui erano tornati a Milano all’alba della mattina del 12 luglio 1979, quando la mamma aveva chiesto ai bambini di salire in macchina senza fare colazione e senza spiegare perché. La forma alla memoria l’ha data Umberto - il figlio più piccolo dell’«eroe borghese» - ma Francesca e Filippo, ha spiegato, l’hanno «tenuto per mano nel fare i conti con questa storia». Una famiglia che non ha mai smesso di tenersi per mano, da quella mattina in cui uno accanto all’altro erano entrati nella chiesa di San Vittore per i funerali.

Ieri mattina Anna Lori Ambrosoli era seduta nella vecchia Aula magna della Bocconi, dove era in corso un convegno dedicato a suo marito e all’ex governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, due uomini che avevano camminato nella solitudine di un’Italia feroce e corrotta e avevano pagato il rispetto delle regole e l’amore per il bene comune. Con la vita il primo, con la fine di una carriera il secondo. Anna Lori stava ascoltando il presidente della Rcs Piergaetano Marchetti citare brani tratti dal libro di suo figlio, intitolato «Qualunque cosa succeda». Una madre fiera di aver tramandato, senza rancori, «l’enorme valore positivo» delle scelte, della tenacia e del coraggio di suo marito.

Un uomo che scelse fino in fondo di fare il suo dovere come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona. A trent’anni dall’omicidio era finalmente venuto il tempo di una memoria serena, delle parole che pochi minuti prima aveva mandato il governatore Draghi ricordando Ambrosoli e Baffi come «due servitori dello Stato entrati nella storia del nostro Paese per il prezzo da loro pagato per la fedeltà ai principi, alle regole, al dovere». Poco più in là era seduta anche la figlia di Baffi, avevano ascoltato Mario Monti, Giovanni Bazoli e Ferruccio de Bortoli. Poi, mentre le parole scritte da Umberto riempivano l’Aula, proprio quel figlio più piccolo - che il giorno dell’omicidio del padre aveva solo 7 anni - ha chiesto alla madre di uscire in corridoio e le ha dato la notizia più terribile della sua vita: il fratello Filippo, di tre anni più grande, era stato trovato morto in casa. Un malore ha portato via questo figlio che aveva recuperato la sua serenità come disegnatore e incisore. Questa volta Anna Lori non ce l’ha fatta a reggere il dolore, come aveva fatto per anni per amore dei suoi ragazzi, ed è svenuta.

Difficile non pensare che trent’anni dopo Filippo abbia pagato ancora per quel gesto di tremenda violenza che gli aveva portato via il padre e segnato per sempre la vita. L’eco di quei quattro colpi di pistola, sparati nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1979 da un killer ingaggiato negli Stati Uniti da Michele Sindona, ha raggiunto e colpito ancora una delle famiglie più composte, rette e ammirabili di questa Italia.

Non riesco a non pensare che c’è una profonda ingiustizia in tutto questo, non riesco a non rileggere una delle ultime pagine del libro di Umberto, in cui racconta quella mattina in cui ricevettero la notizia: «E’ veramente presto, c’è poca luce e poca gente in giro, anche in autostrada. Dopo circa un’ora ci fermiamo in una stazione di servizio: siamo usciti precipitosamente e bisogna che mangiamo qualcosa, beviamo del latte. In autogrill, la radio diffusa in sottofondo annuncia: “Assassinio nella notte, a Milano, del commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, Giorgio Ambrosoli”. La mamma inizia a parlare più in fretta e a voce alta per coprire la filodiffusione. Nella speranza che non abbiamo sentito ci porta fuori per risalire in macchina. Francesca, che pure si è fatta ogni possibile forza, piange la restante parte del viaggio, ma piano, cercando di non farsi vedere da me e Filippo: è la più grande di noi tre e anche se ha solo undici anni si sente di doverci proteggere». Mario Monti ha aspettato la fine del convegno per dare la notizia dal palco, voleva che l’omaggio ad Ambrosoli non si interrompesse, che gli studenti della Bocconi ascoltassero un esempio capace di illuminare una vita. Con quel garbo che è stato la cifra di una famiglia oggi spezzata.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:50:10 am »

Una via per Ambrosoli

di Alessandro Gilioli


In Italia sono soltanto una decina le vie dedicate a Giorgio Ambrosoli. A trent'anni dalla sua morte, dalla rete nasce l'idea di sensibilizzare i comuni a dedicare una strada a un uomo che fu ucciso per aver servito lo Stato
 
'Via Giorgio Ambrosoli, 1933-1979'. In Italia ce n'è sì e no una decina: a Firenze, Palermo e Mantova, più altre in località minori, come San Donato Milanese o Montoro inferiore, provincia di Avellino. A Roma gli hanno dedicato un largo in zona Nomentana, a Milano e ad Alessandria una piazza. Niente a Napoli, niente a Torino, niente negli altri capoluoghi di regione.

E comunque una decina di citazioni in tutto - sugli oltre 8.000 comuni italiani - per un martire civile come Giorgio Ambrosoli non costituisce certo un dato di cui andare fieri. Per questo grazie alla Rete sta crescendo il tam-tam di quanti chiedono ai sindaci italiani - e più in generale a tutti i politici che hanno voce in capitolo nelle questioni toponomastiche - di dedicare una via del loro comune a Giorgio Ambrosoli. Su Facebook è nato un gruppo apposta, mentre si progetta di far partire una raccolta fondi in Internet (attraverso PayPal) per acquistare anche un'inserzione su un giornale cartaceo: magari il "Corriere della Sera", che tutte le mattine Ambrosoli comprava prima di andare in ufficio.

L'idea è di sensibilizzare tutti i consigli comunali, che magari perdono i giorni a litigare sui nomi delle vie spartendole tra il politico di un partito e quello di un altro partito. Invece Giorgio Ambrosoli non era un politico, anche se per la "polis" ha fatto molto.
Anzi, il suo è uno di quei nomi che non dovrebbe proprio dividere la destra dalla sinistra: avvocato di cultura moderata, accettò per senso del dovere l'incarico di commissario liquidatore della banche di Sindona. E una calda sera di luglio fu ammazzato per aver interpretato il suo ruolo con la schiena diritta, senza cedere alle pressioni e alle minacce del banchiere. Insomma era un uomo per bene, un servitore dello Stato. Uno Stato che non si fece nemmeno vedere, ai suoi funerali: non un ministro, non un sottosegretario. Troppo potente, all'epoca, il clan di Giulio Andreotti a cui Ambrosoli si era opposto nel suo tentativo di fare pulizia.

La vicenda umana e civile di Ambrosoli è tornata recentemente alla ribalta grazie a un libro scritto dal figlio Umberto, "Qualunque cosa succeda. Storia di un uomo libero" (Sironi, 2009). Ma già nel 1995 il giornalista Corradio Stajano aveva rivelato a un'Italia intorpidita e immemore la statura morale dell'uomo, con il suo libro "Un eroe borghese" (Einaudi), poi diventato un film di e con Michele Placido.
Dalla lettura dei libri, ma anche dalla pellicola di Placido, emerge con chiarezza quello che Ambrosoli era. Soprattutto un cittadino onesto, disposto a rischiare la vita in nome di questa onestà: "Pagherò a molto caro prezzo questo incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perchè per me è stata un'occasione unica di far qualcosa per il Paese". Già, il Paese: quello che oggi potrebbe - e forse dovrebbe - ricordarlo un po' di più e un po' meglio. Ambrosoli era un uomo riservato, pacato, rispettoso.
Figlio di quell'Italia minoritaria che considera un onore servire al meglio la società in cui si vive. Chissà se, passati più di trent'anni dalla sua morte, l'Italia saprà rendergli onore.

(08 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 16, 2010, 07:35:56 am »

L’Italia pulita di Ambrosoli

Un volume curato da Gerbi per Aragno


A Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore dell’impero di Michele Sindona, ucciso da un sicario del bancarottiere nella notte fra l’11 e il 12 luglio 1979, sono stati dedicati libri e vie cittadine. È oggi riconosciuto un simbolo, un mito, un eroe. Eppure è difficile parlarne e scriverne senza provare un certo disagio. È il disagio che, si capisce, ha convinto Sandro Gerbi a curare il volume Giorgio Ambrosoli, nel nome di un’Italia pulita (Nino Aragno editore, pagine 218, € 12). E che nasce da una semplice consapevolezza: «La battaglia contro il malaffare non è stata vinta, anzi: c’è un’Italia che forse non la vuole vincere e gira consapevolmente la testa dall’altra parte». La questione morale è rimasta irrisolta. L’esempio di Ambrosoli non è stato raccolto in riconoscibili comportamenti collettivi. Ciò vuol dire che le celebrazioni del simbolo, del mito, dell’eroe, immancabili soprattutto quando il calendario si avvicina alla commemorazione, hanno spesso non più del significato di un rito.

Coltivando queste considerazioni amare, Gerbi ha raccolto nel libro alcuni saggi inediti (del figlio di Ambrosoli, Umberto, di Gianfranco Modolo, Giuliano Turone e Salvatore Bragantini) e altri per così dire di archivio, ma che conservano la piena attualità: a cominciare dalla lettera di Ambrosoli alla moglie Annalori, che diventa un testamento morale dell’avvocato. Lavori e documenti che la prefazione del curatore lega nel significato comune: rinnovare l’attualità ma soprattutto la concretezza di una figura di un servitore dello Stato che è diventato eroe «semplicemente» perché ha fatto il suo dovere. Fino al sacrificio, che poteva essere evitato se solo anche lo Stato avesse fatto «semplicemente» il proprio dovere: se l’avesse cioè appoggiato e difeso. Figura che ora è oggetto di un «culto che, proprio in quanto indistinto, induce a qualche riflessione».

Un culto, peraltro, che si è fatto strada a fatica. Perché in realtà Ambrosoli da vivo, con rarissime eccezioni, e subito dopo l’assassinio, è stato lasciato solo. «Noi in Italia, nel procedere alla ricostruzione delle malefatte di Sindona, eravamo isolati», scrive nel ’95 ne La fatica della legalità Silvio Novembre, il maresciallo della guardia di finanza per anni il braccio destro di Ambrosoli. E la solitudine proseguirà dopo i colpi del sicario venuto dall’America, William Joseph Arico: ai suoi funerali le istituzioni sono rappresentate dal solo Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi. È il «secondo abbandono», lo definisce Gerbi, che subisce l’avvocato, «troppo ingombrante per una classe politica tanto compromessa nello scandalo Sindona». Classe politica che vede in prima fila Giulio Andreotti, che definì fra l’altro Sindona il «salvatore della lira». E che, sottolinea Turone (con Gherardo Colombo autore dell’inchiesta che ha portato alla scoperta degli elenchi della P2), nel suo libro Diari 1976-1979 ignora Ambrosoli e «sotto la data del 12 luglio 1979 si limita a registrare un incontro con il presidente della Tanzania». E nel giorno successivo «annota di aver ricevuto il primo ministro dell’Alto Volta».

Qualcosa cambia solo nel 1991 con il «classico» libro di Corrado Stajano Un eroe borghese. Ricorda Gerbi che il 9 maggio di quell’anno alla presentazione accorre «una folla traboccante». Così come quasi vent’anni dopo un pubblico numeroso e attento accoglie il figlio di Ambrosoli, Umberto, alla presentazione del suo libro Qualunque cosa succeda. Un libro che nasce da anni di riflessioni che lo aiutano a capire una cosa: «Sarebbe bastato un piccolo sì, qualche piccola omissione, non prendere posizione; papà avrebbe avuta salva la vita». Ecco l’eroismo quotidiano di Ambrosoli: fare il proprio dovere. Punto. Un eroismo così vicino perché teoricamente semplice, possibile, ordinario. Ma anche così distante dall’abitudine al compromesso e alla sottomissione. Così il culto resta con poche eccezioni rito. Nell’Italia a cui viene proposto invece l’«eroismo» del mafioso Vittorio Mangano.

Sergio Bocconi

02 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cultura/10_luglio_02/elzeviro-bocconi-italia-ambrosoli_a83100c2-85ac-11df-adfd-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:21:33 am »

 L’ambiguità del senatore che elogia ancora Sindona e non l’avvocato eroe

«Ambrosoli conosceva i rischi. Alla moglie scrisse: dovrai crescere tu i ragazzi nel rispetto verso il Paese»


Giorgio Ambrosoli non è stato dimenticato. Trentun anni dopo il suo assassinio nel centro di Milano, vicino alla basilica di San Vittore, le ragioni della memoria di quel che accadde —un uomo che si fa uccidere nel nome dell’onestà— sono rimaste intatte.

Una contraddizione in un tempo come il nostro dove la corruzione diffusa impedisce lo sviluppo, dove la violenza dei poteri criminali è pressante, dove la politica ha perso spesso il rispetto di se stessa. Ma questo panorama intristito del paese non ha impedito che negli anni strade, piazze, scuole, biblioteche, aule universitarie siano state dedicate a Giorgio Ambrosoli. Il suo nome è diventato infatti un modello morale e civile.

Stasera alle 23,50 su Raidue, la puntata della «Storia siamo noi» di Giovanni Minoli è dedicata all’avvocato di Milano ucciso l’11 luglio 1979 da un killer venuto dagli Stati Uniti su mandato del finanziere Michele Sindona. Il documentario, «Qualunque cosa succeda. Storia di Giorgio Ambrosoli» di Alberto Puoti, prende il titolo dal libro di Umberto Ambrosoli, il figlio dell’avvocato, uscito nel giugno dello scorso anno, che ripercorre, con dolorosa sobrietà, la vita e la morte del padre. E’ un programma serrato, questo della TV, ricco di emozioni, assai bello, se l’aggettivo si addice a una materia così straziante. I personaggi, Ambrosoli soprattutto, e con lui la moglie Annalori, il figlio Umberto, gli amici, i nemici, ministri, generali, banchieri, il presidente del Consiglio, si muovono su sfondi color del piombo - la giungla delle banche, delle società, delle finanziarie, lo Ior vaticano - tra Milano, Roma, New York, la Svizzera e Ghiffa, sul lago Maggiore, dove l’avvocato possedeva una casa, contrappunto sereno alla cupa realtà.

Che cosa rappresenta oggi la vicenda Ambrosoli, qual è la novità dopo tanto scandagliare, che insegnamento se ne può trarre?

C’è nel documentario una risposta di Giulio Andreotti a una domanda di Alberto Puoti, che fa sobbalzare chi cinico non è, disabituato alle pillole presidenziali di ambigua saggezza. «Perché Ambrosoli è stato ucciso?» domanda il giornalista. «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia e ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».

Soltanto un caso di ordinaria imprudenza, quindi, un episodio da film all’italiana. Lo statista, il sette volte presidente del Consiglio, non fu prosciolto, al processo davanti alla Corte d’appello di Palermo nel 2003: il reato di associazione per delinquere fino alla primavera del 1980 fu semplicemente estinto per prescrizione, giudizio confermato dalla sentenza definitiva di legittimità della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004.

Erano proprio quelli gli anni dell’affaire Ambrosoli. Andreotti, allora presidente del Consiglio, ne parla sereno, e pensare che doveva averne multiformi saperi.

Anche oggi non smentisce la sua empatia per il bancarottiere definito in passato «il salvatore della lira »: «Dette—conferma—un allarme per quelli che erano i pericoli del sistema finanziario internazionale che nell'immediato pochi compresero. Ma poi si è visto quanto fosse tempestivo».

E' benevolo Andreotti, seguita a fornire a Sindona le sue ambite referenze: «Il fatto che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene. Io cercavo di vedere con obiettività, non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona».

Com’è diverso il ritratto di Carlo Azeglio Ciampi, nell'anima e nello stile: «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere».

E come piena di nostalgia e di rispetto la memoria di John J. Kenney, il procuratore di New York, che da Ambrosoli ebbe un prezioso aiuto, fonti, prove, documenti, durante l'inchiesta sulla Franklin National Bank, la banca americana di Sindona che segnò l'inizio della sua fine.

L'avvocato di Milano non riusciva a nascondere il suo stupore, lo si capisce leggendo i suoi diari e le sue agendine, di fronte alle rivelazioni continue dei tradimenti, delle trame, delle connivenze che avevano per protagonisti uomini di alto rango dello Stato. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla sua parte, pubblico ufficiale con il compito di sanare una situazione degenerata, protetta dal sistema politico di governo, e invece erano nemici che intralciavano in tutti i possibili modi quel che tentava di fare in nome della comunità condannata, per il malfare del banchiere corrotto, a pagare l’equivalente di 800 milioni di euro di oggi.

Ambrosoli era stato sottovalutato da Sindona e dal suo entourage. E’ invece un giovane avvocato intelligente, non soltanto onesto. Appena entra nella banca di Sindona capisce subito com’è potente e inquinato quel mondo protetto dalla Chiesa romana, dalla massoneria, dalla DC. Con la mafia che fa anche da mano armata. Si saprà soltanto dopo il 1981, quando furono scoperte le carte di Gelli a Castiglion Fibocchi, che era stata la P2 a guidare tutte le manovre per salvare Sindona.

Giorgio Ambrosoli è solo, o quasi. Ugo La Malfa è l’unico uomo politico che si prende a cuore quella verminosa storia nazionale e gli dà aiuto come può. Pochi amici gli fanno da consulenti, il maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre gli fa persino da guardia del corpo, nell’assenza di ogni protezione da parte dello Stato, nonostante le minacce mortali. E sono poi, con lui, uomini della Banca d'Italia, Paolo Baffi, il governatore, eMario Sarcinelli, che finisce persino in prigione.

E’ ben cosciente, Ambrosoli, di quel che fa—altro che «andarsela a cercare». Basta leggere la lettera scritta alla moglie il 25 febbraio 1975, solo un anno dopo la sua nomina. Un testamento: «Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto (...). Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa ».

Corrado Stajano

09 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_09/stajano-andreotti-ambiguo-elogia-sindona-non-avvocato-ambrosoli_e088f23c-bbd4-11df-8260-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 10, 2010, 10:33:17 am »

10/9/2010

Ambrosoli, nuovo sgarbo di Andreotti
   
GIORGIO LA MALFA

Caro direttore,
l’11 luglio del 1979 un sicario italo-americano attese sotto casa sua, a Milano, l’avvocato Franco Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Finanziaria, e lo uccise con alcuni colpi di pistola.

Il mandante dell’omicidio fu, come è stato accertato processualmente nel 1986, Michele Sindona, il banchiere italiano cui faceva capo la Banca Privata Finanziaria. Il movente fu certamente la vendetta per il fermo rifiuto opposto dall’avvocato Ambrosoli a collaborare a coprire in qualche modo la bancarotta della Privata Finanziaria. Ma non escludo che Sindona sperasse altresì che l’eliminazione di Ambrosoli potesse aprire la strada alla nomina di un nuovo liquidatore più sensibile alle pressioni politiche, che erano fortissime, per chiudere la vicenda a suo favore.

Dire, come ha detto l’on. Andreotti in una trasmissione televisiva che è stata trasmessa ieri sera sulla terza rete Rai, che l’avvocato Ambrosoli «se l’andava a cercare» è un’affermazione raccapricciante. È come uccidere Ambrosoli una seconda volta. Il senatore Andreotti ha stamane precisato che con le sue parole egli intendeva dire soltanto che Ambrosoli era consapevole dei rischi che correva nello svolgere quell’incarico. Non è una via di uscita.

L’avvocato Ambrosoli non aveva «cercato» quell’incarico. Lo aveva ricevuto, inaspettatamente, nel 1974 dal Governatore della Banca d’Italia Carli e lo aveva svolto senza alcuna iattanza, ma solo con senso del dovere. Ambrosoli aveva compreso quasi subito che gli era stato affidato un incarico difficile e soprattutto pericoloso. Lo testimonia una lettera commovente che egli indirizzò nel 1975 alla moglie Annalori chiedendole di conservare, in ogni evenienza, presso i loro figli, i valori che li avevano uniti fin dagli anni dell’università.
La tragedia si consumò tra la fine del 1978 e la metà del ’79. Nel 1978, Ambrosoli aveva ultimato la sua relazione come liquidatore della Privata Finanziaria. Dalla relazione risultavano chiaramente le manovre fraudolente del Sindona e dunque si prefigurava una condanna per bancarotta che si sarebbe aggiunta ad analoghi guai del Sindona con la giustizia americana. Sindona e i suoi protettori fecero il tentativo disperato di trovare una soluzione che rimettesse in piedi la Privata Finanziaria e quindi evitasse una condanna per bancarotta fraudolenta.

Cominciarono a circolare vari progetti - che Enrico Cuccia cui venivano, sotto varie minacce, sottoposti, chiamava «I papocchi». Contemporaneamente cominciarono le telefonate minatorie ad Ambrosoli. In esse una voce con accento siculo-americano invitava Ambrosoli a non frapporre ostacoli a quello che «a Roma» era stato stabilito per risolvere il problema. Queste telefonate avvenivano di norma in coincidenza con incontri che l’avvocato di Sindona, Michele Guzzi, aveva con il presidente del Consiglio dell’epoca, l’on. Andreotti. Il presidente del Consiglio riceveva successive versioni di appunti volti al salvataggio della Privata Finanziaria, appunti che venivano poi trasmessi, attraverso il sottosegretario alla Presidenza Evangelisti o il ministro Stammati, alla Comit, ai vertici della Banca d’Italia, a Ciampi, a Baffi e soprattutto a Mario Sarcinelli che, per averli seccamente respinti, subì l’onta di una scandalosa e totalmente infondata incarcerazione nel marzo del 1979 da parte di un magistrato che in sostanza apparteneva alla stessa cerchia deviata che si dava da fare, di qua e di la dell’Atlantico, per salvare «il grande banchiere».

Anche il capo di Mediobanca, Enrico Cuccia, che Sindona considerava il vero ostacolo alla soluzione dei suoi problemi, subì una serie di intimidazioni telefoniche, un attentato dinamitardo e soprattutto la minaccia di colpire i suoi figli.

Ma Cuccia, Ciampi, Baffi, Sarcinelli e soprattutto Ambrosoli non si piegarono. Ambrosoli fu la prima vittima, probabilmente, come ho detto, nella segreta speranza che il suo posto potesse essere preso da qualcuno più malleabile di lui. L’on. Andreotti si difese allora sostenendo che egli non poteva immaginare che dietro un banchiere, come egli diceva, stimato da tutti, potesse celarsi un assassino e che egli si era limitato a fare il suo dovere trasmettendo in varie direzioni, senza esercitare pressione alcuna perché fossero accolti, i documenti che l'avv. Guzzi gli sottoponeva. E questo ripete ancora oggi. Ma se questa poteva allora essere una buona linea di difesa (ma non più di questo) prima del processo e della condanna giudiziaria di Sindona, essa non lo è più oggi. Dire oggi che Ambrosoli se la era voluta vuol dire che in fondo Sindona aveva le sue ragioni. Ed io sospetto che quell’espressione che gli è venuta alle labbra significhi che questo sia ciò che davvero pensa il sen. Andreotti. Questo suscita indignazione.

*deputato del Gruppo Misto
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7807&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 10, 2010, 10:37:22 am »

Il caso L'intervento

Mio padre e la difesa del pubblico interesse

Essere responsabili può essere faticoso e doloroso. Ma rende piene di vita anche le scelte più difficili


In ordine all'esempio di mio padre, come a quelli di tante altre persone che hanno perso la vita agendo nell'interesse del Paese, vengono identificati diversi significati: onestà, senso dello Stato, libertà, consapevolezza, capacità di indignarsi, senso del dovere.

Guardiamo quest'ultimo: quell'accezione secondo la quale una persona svolge il proprio dovere, realizza la propria funzione, senza farsi condizionare da nulla e da nessuno. Presupposto del senso del dovere è la responsabilità. Parola questa che etimologicamente significa «risposta» e che non si pone in termini astratti: non è nemmeno un titolo di merito. È piuttosto un debito: verso il mandato, quale che ne sia l'oggetto. È responsabile un genitore in ordine ai figli, un imprenditore verso l'economia e l'esercizio dell'impresa, un lavoratore nell'adempimento delle sue mansioni, uno sportivo per lo svolgimento della sua attività. È responsabile, cioè debitore, in termini più estesi chi ricopre incarichi pubblici: verso la collettività. Ripenso alla lezione di mio padre, riproposta ieri sera in tv da Giovanni Minoli nel programma La Storia siamo noi: il presupposto essenziale per «rispondere» è conoscere l'oggetto della domanda, del mandato. Per essere un buon padre bisogna prima di tutto aver chiare le esigenze dei figli, ed in secondo luogo avere la forza di anteporle alle proprie. Assecondare l'esigenze educative dei figli è più facile: per la peculiarità del rapporto figlio-genitore. Per l'imprenditore, ad esempio, le cose cambiano. Già il livello di comprensione del «mandato» rischia di essere viziato da un potenziale contrasto tra l'interesse proprio e quello dell'economia o dell'esercizio dell'impresa. L'imprenditore può far fatica a concepire, ad esempio, la compatibilità tra l'interesse dell'impresa ed il non corrompere per aggiudicarsi un appalto. Ma in realtà l'imprenditore responsabile non è colui che persegue il proprio immediato interesse (ad esempio assumendo in nero, smaltendo illecitamente i rifiuti, o corrompendo, ecc...), ma è colui che ha la forza di condurre la sua azienda in armonia con le esigenze dell'ordinamento. Ci si può vantare di essere imprenditori solo quando si ha chiaro verso chi è rivolta la responsabilità dell'impresa e quando si è capaci di perseguirla proprio in quei termini. La responsabilità del padre, quella dell'imprenditore e quella di tanti altri soggetti origina in una sfera privata che poi arriva a coinvolgere quella pubblica. Ma l'origine è privata.

La responsabilità dei politici, invece, origina nella sfera pubblica, alle esigenze della quale il politico deve rispondere. La continua attenzione alle esigenze e al rispetto del bene comune può non essere coerente con la realizzazione del proprio interesse contingente, ma la scelta è (dovrebbe essere) fatta a priori ed il fatto stesso di candidarsi a quella responsabilità implica (dovrebbe implicare) la ferma determinazione ad avere sempre chiaro il bene comune e ad aver la forza di sovraordinarlo, sempre, a quello personale. L'alternativa tra «interesse personale ed interesse pubblico», una volta fatta la scelta di candidarsi o di accettare una responsabilità istituzionale, dovrebbe essere risolta a priori. Altrimenti non c'è lo Stato, ma solo un insieme di persone che, rivolte verso se stesse, non possono costituire alcuna coesione, ma la accozzaglia di interessi diversi perseguiti da chi intende la responsabilità come affermazione.

Essere responsabili può essere faticoso e finanche doloroso. Rispettare l'interesse comune nell'immediato (e non solo) può essere durissimo. Ma saper essere responsabili rende piene di vita anche le scelte più difficili. Se il passato o il presente ci consegnano esempi di responsabilità radicalmente fraintese e abdicate, è l'ora per trarne lo stimolo ad un cambiamento necessario.

Umberto Ambrosoli

10 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_10/ambrosoli_difesa_pubblico_interesse_6a21ed72-bca3-11df-bb9d-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 22, 2012, 03:25:18 pm »

22/3/2012

Ambrosoli "sgradito" al ricordo del padre

MICHELE BRAMBILLA

Al bon ton della politica mancava questo: invitare il figlio di una vittima della mafia a non partecipare alla commemorazione del padre. Lacuna colmata ieri mattina dalla Regione Lombardia, che ha rivolto un gentile «lei è meglio che non si faccia vedere» a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso l’11 luglio 1979 su ordine di Michele Sindona.

Chi ha avuto lo stomaco di arrivare a tanto? Ai vertici della Regione Lombardia tutti tacciono, almeno formalmente: informalmente, è partito un rimpallarsi di responsabilità fra presidenza del consiglio (il leghista Boni) e presidenza della giunta (Formigoni). Ma stiamo ai fatti.

Ieri era la prima «Giornata regionale dell’impegno contro le mafie in ricordo delle vittime». Programma: proiezione al Pirellone, a trecento ragazzi delle scuole lombarde, del film «Un eroe borghese», dedicato appunto a Giorgio Ambrosoli. C’era l’ex giudice Giuliano Turone, c’era l’assessore regionale Giulio Boscagli che ha portato il saluto di Formigoni, c’era Francesca Ambrosoli figlia di Giorgio. Ma non c’era Umberto, il figlio. Come mai?

Secondo l’associazione Saveria Antiochia Omicron, che collabora con la Regione per questa giornata contro la mafia, Umberto Ambrosoli è vittima di una ritorsione. Il sito dell’associazione, http://www.centrostudisao.org/, esprime «indignazione perché l’ufficio di presidenza della Regione ha rifiutato la partecipazione di Umberto Ambrosoli, a causa delle sue dichiarazioni a Repubblica sulla necessità di azzerare la giunta». Qualche giorno fa infatti Umberto Ambrosoli aveva rilasciato un’intervista sulla raffica di scandali e di inchieste giudiziarie che ha investito il Pirellone, sostenendo fra l’altro che Formigoni farebbe meglio ad «azzerare la giunta».

Sta di fatto che ieri Umberto Ambrosoli avrebbe dovuto parlare ai ragazzi e invece non c’era. Jole Garruti, direttrice di Saveria Aniochia Omicron, la racconta così: «Lunedì mattina Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, mi ha detto che l’ufficio di presidenza del consiglio non gradiva la presenza del figlio. Ho chiamato allora un altro consigliere regionale, il leghista Massimiliano Romeo, e ho avuto conferma del “non gradimento”. Gli ho risposto che mi sembrava assurdo, e lui mi ha assicurato che avrebbe fatto presente il problema all’ufficio di presidenza. Morale: nel pomeriggio mi arriva il programma definitivo e il nome di Umberto Ambrosoli non c’è». Una censura, sostiene la direttrice, provocata proprio dall’intervista a Repubblica.

È così? Massimiliano Romeo dà una versione un po’ diversa: «È vero che, parlando con Jole Garruti, ho detto che l’intervista di Umberto Ambrosoli era stata sgradevole, e che certe cose se le poteva risparmiare. Ho detto che eravamo un po’ contrariati. Ma non mi sono mai sognato di dire che c’era un veto dell’ufficio di presidenza. Ieri è venuta la sorella, Francesca, ed è stata accolta benissimo». Sorella che però non aveva rilasciato interviste sul Pirellone. «Sarebbe stato accolto allo stesso modo anche il fratello», assicura Romeo, che parla di «polemica politica pretestuosa». Jole Garruti in serata ha commentato lo scaricabarile parlando sul suo sito di «mistero su chi non ha voluto che ci fosse Umberto Ambrosoli, visto che l’ufficio di presidenza nega tale responsabilità».

E lui, Umberto Ambrosoli? Non getta benzina sul fuoco: «È un episodio spiacevole, sul quale bisogna però evitare le polemiche. Prevale il fatto che tanti ragazzi hanno avuto modo di vedere il film». L’unica lezione di bon ton viene da lui, «lo sgradito».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9910
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