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Autore Discussione: L 'ALTRA CASTA I sindacati italiani sono una macchina di potere e di denaro.  (Letto 3238 volte)
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« inserito:: Agosto 04, 2007, 09:45:07 pm »

L 'ALTRA CASTA

di Stefano Livadiotti


Fatturati miliardari. Bilanci segreti.

Uno sterminato patrimonio immobiliare.

E organici colossali, con migliaia di dipendenti pagati dallo Stato.

I sindacati italiani sono una macchina di potere e di denaro.

Temuta perfino dai partiti
 
Non trattiamo con la calcolatrice... Così, nei giorni scorsi, il grande capo della Cgil Guglielmo Epifani ha replicato a brutto muso alle pretese rigoriste di Tommaso Padoa-Schioppa sulla riforma delle pensioni. Il numero uno di corso d'Italia non è l'unico ad essere allergico ai moderni derivati del pallottoliere. Della stessa idiosincrasia fanno mostra i suoi pari grado di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, almeno quando si tratta di affrontare l'annosa questione dei conti dei sindacati, che continuano a promettere bilanci consolidati, tranne poi guardarsi bene dal metterli nero su bianco. Forse perché i numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in autentiche macchine da soldi. Con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione. Che a sua volta dipende proprio, in grandissima parte, da un formidabile potere economico alimentato a spese della collettività: se c'è un problema di costi della politica, allora il discorso vale anche per il sindacato.
Se non di più.

Quasi dieci anni fa, alla fine del 1998, un ingenuo deputato di Forza Italia, ex magistrato del lavoro, convinse 160 colleghi a firmare tutti insieme appassionatamente un provvedimento che obbligava i sindacati a fare chiarezza sui loro conti. Dev'essere che nessuno gli aveva ricordato come solo pochi anni prima, nel 1990, Cgil, Cisl e Uil fossero state capaci di ottenere dal parlamento una legge che concede loro addirittura la possibilità di licenziare i propri dipendenti senza rischiarne poi il reintegro, con buona pace dello Statuto dei lavoratori. Fatto sta che, puntuale, la controffensiva di Cgil, Cisl e Uil scattò dopo l'approvazione del primo articolo con soli quattro voti di scarto. "È antisindacale", tuonò con involontario umorismo l'ex capo cislino Sergio D'Antoni, oggi vice ministro per lo Sviluppo economico. Lesti i deputati del centro-sinistra azzopparono la legge, mettendosi di traverso alle sanzioni (tra i 50 e i 100 milioni) previste in caso di violazioni. Alla fine la proposta di legge è rimasta tale, così come tutte quelle presentate in seguito, anche in questa legislatura. "È il sindacato che detta tempi e modalità", titolava del resto nei giorni scorsi il confindustriale 'Sole 24 Ore', all'indomani dell'accordo sullo scalone pensionistico.

Il risultato è che i bilanci dei sindacati, quelli veri, non sono mai usciti dai cassetti dei loro segretari. "Il giro d'affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3 mila e 500 miliardi di vecchie lire", sparò nell'ottobre del 2002 il radicale Daniele Capezzone, "e il nostro è un calcolo al ribasso". Non ci deve essere andato molto lontano, se è vero che oggi Lodovico Sgritta, amministratore della Cgil, si limita a non confermare che il fatturato consolidato di corso d'Italia abbia raggiunto il tetto del miliardo di euro. E ancora: se è vero che quello del sistema Uil, non paragonabile per dimensioni, metteva insieme 116 milioni già nel 2004, esclusi Caf, patronati e quant'altro. Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali, che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell'ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perchè le loro fonti di guadagno sono le più disparate. Ma ecco quali sono i principali meccanismi di finanziamento. E le cifre in ballo.

Il sostituto d'incasso

La maggiore risorsa economica di Cgil, Cisl e Uil ("I tre porcellini", come ama chiamarli in privato il vice premier Massimo D'Alema) sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti: in media l'1 per cento della paga-base; di meno per i pensionati, che danno un contributo intorno ai 30-40 euro all'anno. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già sindacalista di lungo corso della Cgil ed ex presidente dei sindaci dell'Inps, parla di almeno un miliardo l'anno. Secondo quanto risulta a 'L'espresso', il solo sistema Cgil ha incassato nel 2006 qualcosa come 331 milioni. Una bella cifra, per la quale il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore: se ne incaricano altri; gratuitamente s'intende. Nel caso dei lavoratori in attività, a versargli i soldi ci pensano infatti le aziende, che li trattengono dalle buste paga dei dipendenti. Per i pensionati provvedono invece gli enti di previdenza: solo l'Inps nel 2006 ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Nel 1995 Marco Pannella tentò di rompere le uova nel paniere al sindacato, promuovendo un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore. Ma il meccanismo è tuttora vivo e vegeto: salvato, in base a un accordo tra le parti, nei contratti collettivi. Le aziende, che pure subiscono dei costi, non sono volute arrivare allo scontro. E lo stesso ha fatto il governo di Romano Prodi quando, più di recente, Forza Italia ha presentato un emendamento al decreto Bersani che avrebbe messo in crisi le casse sindacali. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l'ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Apriti cielo: capi e capetti di Cgil, Cisl e Uil hanno fatto la faccia feroce. Il governo, a scanso di guai, ha dato parere contrario. E l'emendamento è colato a picco.

Lo strapotere dei Caf

I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati vengono pagati dagli enti previdenziali. Solo l'Inps per il 2006 verserà ai 74 caf convenzionati 120 milioni. A fare la parte del leone saranno le strutture di Cgil, Cisl e Uil, che insieme totalizzeranno circa 90 milioni. Non basta. Per i lavoratori in attività i Caf incasseranno dal Fisco 15,7 euro per ognuna delle 12.261.701 dichiarazioni inviate agli uffici nel 2006. Il ministero sborserà dunque 186 milioni e spicci. Anche in questo caso, secondo i conti che 'L'espresso' ha potuto esaminare, la fetta più grande della torta andrà a Cgil (38 milioni, 195 e 177 euro), Cisl (30 milioni, 763 mila e 485) e Uil (12 milioni, 78 mila e 793 euro). Un piatto ricco, considerando che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di 175 milioni, secondo Cazzola) e mettono insieme un'altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise e Isee (i redditometri per le famiglie che chiedono prestazioni sociali). Considerando le cifre in ballo, i sindacati hanno fatto fuoco e fiamme pur di tenersi ben stretto il giocattolo. Nel 2005, sotto l'incalzare della Corte di Giustizia europea, convinta che il monopolio dei Caf rappresentasse una violazione ai trattati comunitari, il governo di Silvio Berlusconi aveva aperto la porta a commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro. Una manovra talmente timida che la Commissione europea ha inviato all'Italia una seconda lettera di messa in mora. Sull'argomento gli uomini di Bruxelles hanno preteso e ottenuto, ancora nel gennaio scorso, un vertice a palazzo Chigi. Concluso, naturalmente, con un niente di fatto.

Intoccabili patronati Se il monopolio dei Caf è sotto assedio, resiste saldo quello dei patronati, le strutture (quelle convenzionate con l'Inps sono 25) che assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione): una rete capillare, dall'Africa al Nordamerica passando per l'Australia, che alcuni sospettano abbia un ruolo non indifferente anche nell'indirizzare il voto degli italiani all'estero. Nel 2000 i radicali hanno lanciato l'ennesimo referendum abrogativo, ma si sono visti chiudere la porta in faccia dalla Consulta. Più di recente Forza Italia ha cercato, con un emendamento al decreto Bersani, di liberalizzare il settore. Se l'armata berlusconiana non fosse stata respinta con perdite, per il sindacato sarebbe stato un colpo mortale. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute: "Con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni", sostiene Cazzola. Non bastasse, i patronati assicurano un gettito che non è proprio da buttare via: in pratica si dividono (in base al lavoro svolto) lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi dei pensionati privati, per l'ottimo motivo che a quelli pubblici le scartoffie per l'assegno le ha sempre curate l'amministrazione (e proprio per questo motivo pochi di loro sono iscritti al sindacato). Poi, però, nel 2000, per gentile concessione del parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche quelli dei lavoratori statali. E la cifra ha iniziato a lievitare: 314 milioni nel 2004, 341 nel 2005, 349 nel 2006. Solo l'Inps nel 2006 ha speso per i patronati (che ora, per arrotondare, si occupano anche del rinnovo dei permessi per gli immigrati) 248 milioni, 914 mila e 211 euro. Alla fine, secondo quanto risulta a 'L'espresso', l'Inca-Cgil ha incassato 82 milioni e 250 mila euro, l'Inas-Cisl 66 milioni e 150 mila euro e l'Ital-Uil 26 milioni e 600 mila euro.

Forza lavoro gratuita

È quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione, che continua graziosamente a pagarle lo stipendio. Compresi, e vai a capire perché, i premi di produttività e i buoni pasto. Oggi i dipendenti statali dati in omaggio al sindacato sono 3.077 e costano al contribuente (Irap e oneri sociali compresi) 116 milioni di euro. Ai quali vanno sommati 9,2 milioni per 420 mila ore di permessi retribuiti. Di regalo in regalo, per i dipendenti che utilizza in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. Un privilegio che hanno perduto perfino le assemblee elettive (a partire dal parlamento). Ma i sindacati no.

Business formazione Dall'Europa piove ogni anno sull'Italia circa un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale. In più ci sono i circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione, alimentato dallo 0,30 per cento del monte-contributi che le aziende versano agli enti previdenziali. Un tempo, non meno del 40-50 per cento di queste somme passava attraverso enti di emanazione sindacale, che non incassavano direttamente un euro ma gestivano comunque le assunzioni e la distribuzione degli incarichi. Oggi la concorrenza s'è fatta più dura. Ma i sindacati non mollano l'osso. Dieci dei 14 enti che si distribuiscono ogni anno circa la metà dei finanziamenti nazionali sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Casa mia, casa mia L'assenza di bilanci consolidati non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare accumulato negli anni dai tre sindacati confederali, cui lo Stato a un certo punto ha pure regalato i beni delle corporazioni dell'epoca fascista. Fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili: li intestavano a società controllate. La legge che ha consentito loro il controllo diretto ha garantito anche un passaggio di proprietà al riparo dalle pretese del fisco. Oggi la Cgil dichiara di avere, sparse per tutto il Paese, qualcosa come 3 mila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. "Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco ma", afferma l'amministratore della Cgil, "deve trattarsi di una cifra davvero impressionante". La Cisl dichiara addirittura 5 mila sedi, tra confederazione, federazioni nazionali e diramazioni territoriali (pensionati compresi), quasi tutte di proprietà. La Uil è l'unica che ha concentrato il grosso degli investimenti sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento. Si chiama Labour Uil e ha in bilancio immobili per 35 milioni e 75 mila euro (a valore storico; quello di mercato è tre volte superiore), ma non, per esempio, la sede romana di via Lucullo, che lo stesso tesoriere nazionale Rocco Carannante stima tra i 70 e gli 80 milioni di euro.

Il fatto certo, alla fine, è che Cgil, Cisl e Uil sono ricchi. Quanto, però, nessuno lo sa davvero. "Ci sono situazioni che talvolta non sono pienamente trasparenti", ha scolpito Epifani lo scorso 27 febbraio. E però si riferiva allo scandalo del calcio.
 
Prendi la tessera farai carriera

La Cisl ha conquistato la seconda carica dello Stato con Franco Marini alla presidenza del Senato. La Cgil s'è accaparrata la terza con Fausto Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio. In Italia il sindacato è un buon trampolino di lancio. Lo conferma la pattuglia di ex sindacalisti che ha trovato posto nel governo di Romano Prodi e che ha la sua roccaforte nel ministero del Lavoro: il titolare Cesare Damiano viene dalla Cgil, così come il sottosegretario Rosa Rinaldi, mentre l'altro sottosegretario Antonio Montagnino ha un passato nella Cisl. A completare la squadra governativa ci sono poi il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero (ex delegato Fiom-Cgil) e il suo sottosegretario Franca Donaggio (ex Cgil Trasporti); il vice ministro per lo Sviluppo Economico Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl); il vice ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli (già alla Cgil Scuola); il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che viene dalla Cgil come il suo collega all'Economia Alfiero Grandi. Nutrita anche la rappresentanza parlamentare: la sola Cgil può schierare sei tra deputati e senatori: Titti Di Salvo, Teresa Bellanova, Pietro Marcenaro, Andrea Ranieri, Gianni Pagliarini e Maurizio Zipponi. Anche negli enti locali il primato è della confederazione di corso d'Italia: l'ex numero uno Sergio Cofferati ha conquistato il municipio di Bologna e Gaetano Sateriale (ex chimici e poi metalmeccanici) quello di Ferrara, mentre l'ex segretario aggiunto Ottaviano Del Turco è governatore dell'Abruzzo.

Se la politica è lo sbocco naturale, non mancano gli ex sindacalisti che si sono riciclati nel mondo dell'impresa. A partire da Mauro Moretti, ex Cgil, salito al vertice delle Ferrovie; Fulvio Vento, ex Cgil Lazio, diventato presidente dell'Atac; Natale Forlani, ex Cisl, planato sulla poltrona di amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese, anche lui ex Cisl, già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi, la confederazione tra le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali.
 
Via dalla scrivania

Distacchi sindacali dell'amministrazione pubblica
 
DISTACCHI COSTO TOTALE

AGENZIE FISCALI 21 900.476

AZIENDE 27 1.107.465

ENTI PUBBLICI NON ECONOMICI 237 11.088.813

AFAM 3 143.244

ENTI RICERCA 25 1.011.814

MINISTERI 419 15.700.155

PRESIDENZA CONS. DEI MINISTRI 1 46.543

ENTI LOCALI 597 19.602.370

SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE 445 16.036.843

SCUOLA 1.099 42.878.849

UNIVERSITÀ 45 1.647.192

DISTACCHI CUMULATI 158 5.903.291

TOTALE 3.077 116.067.054
 
Tra poltrone e privilegi
 
Il più potente sindacalista italiano, il capo della Cgil Guglielmo Epifani, guadagna 3.500 euro netti al mese. I 12 segretari confederali, la prima linea di corso d'Italia, circa 2.400 euro. La Cisl e la Uil pagano poco di meno i loro numeri uno (3.430 euro per Raffaele Bonanni e 3.300 per Luigi Angeletti), ma sono più generose con i dieci segretari confederali (2.850 quelli di via Po, 2.900 quelli di via Lucullo).

La mancanza di un bilancio consolidato non consente di fare chiarezza sugli stipendi dei circa 20 mila sindacalisti a tempo pieno delle tre grandi confederazioni. Della Cgil si sa solo che ne conta 14 mila (per il 40 per cento dirigenti, qualifica che scatta a partire dal grado di funzionario) e che il costo del lavoro è pari a circa il 40 per cento del fatturato. Ma un calcolo si può azzardare sull'organico del quartier generale. Dove i dipendenti sono 178 e il costo del lavoro è pari a 9 milioni e 109 mila euro: la media fa 51 mila euro. Quanto ai benefit, in corso d'Italia ce ne sono pochi: se si escludono i segretari confederali, gli altri dipendenti dotati di cellulare hanno un tetto di spesa di 750 euro l'anno. Più fortunati, sotto questo aspetto, i 180 dipendenti della sede nazionale romana della Cisl (nella confederazione di Bonanni il costo del lavoro è un po' più del 30 per cento del giro d'affari), che dispongono di uno sconto sui trasporti pubblici e stanno per ottenere un asilo nido.

Dove i sindacalisti godono di più che un privilegio è in un sistema di welfare molto particolare. Come quello garantito dagli enti previdenziali, da sempre riserva di caccia quasi esclusiva per ex dirigenti di Cgil, Cisl e Uil in pensione. Solo all'Inps sono a disposizione 6 mila e 222 tra poltrone e strapuntini.

da espressonline.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 04, 2007, 10:11:27 pm »

Così potenti così arroganti

di Bernardo Giorgio Mattarella*


Non rappresentano gli interessi generali. Ma godono di una forte rendita di posizione. Che danneggia il Paese 
I sindacati dei lavoratori sono sotto accusa. Si rimprovera loro di coprire comportamenti fraudolenti, come gli scioperi formalmente mascherati da malattie collettive; di opporsi a misure che comportano sacrifici nell'immediato e benefici maggiori nel lungo termine, come la ristrutturazione di imprese in crisi; di tutelare interessi parziali a danno di quelli generali, per esempio quando ostacolano l'irrogazione di sanzioni disciplinari ai dipendenti pubblici assenteisti.

Questi fenomeni derivano in parte da una sproporzione tra potere e rappresentanza: i sindacati rappresentano solo alcuni cittadini, ma prendono decisioni che riguardano tutti e gestiscono risorse che appartengono a tutti. Gli esempi della sproporzione sono numerosi. Per la riforma delle pensioni, il governo ha ricercato il consenso dei sindacati, che rappresentano alcuni degli interessati (lavoratori e pensionati), e ha trascurato altri interessati, come le imprese, i contribuenti e, soprattutto, i lavoratori futuri (non a caso, Confindustria lamenta che, a differenza di quella trilaterale degli anni Novanta, la concertazione attuale è solo tra governo e sindacati). La legge finanziaria per il 2007 consente ai datori di lavoro di regolarizzare i lavoratori assunti in violazione della legge, ottenendo uno sconto sui contributi arretrati ed evitando le sanzioni, ma a condizione di aver concluso un accordo con i sindacati. Il Memorandum sul lavoro pubblico e sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che riguarda i servizi resi ai cittadini, dispone di materie che non dovrebbero essere negoziabili, come i concorsi pubblici: esso è stato sottoscritto pochi mesi fa dal ministro della Funzione pubblica e dai sindacati, ma nessuno ha consultato gli utenti.

Questa sproporzione ha precise ragioni storiche e, nel passato, è stata utile. In Italia vi è sempre stata una forte attrazione tra sindacati e pubblici poteri: un secolo fa si discuteva seriamente di riorganizzare lo Stato intorno alla rappresentanza degli interessi professionali; l'ordinamento corporativo fascista inserì i sindacati nell'organizzazione pubblica; in età repubblicana le grandi confederazioni hanno conquistato un notevole peso politico, tutelando gli interessi più deboli e spesso facendosi meritevolmente carico di quelli generali. Inoltre, il ritardo dello sviluppo di associazioni di consumatori e utenti ha indotto i governi ad assumere i sindacati come interlocutori, rappresentativi dell'intera società civile. Di qui la concertazione sociale. Di qui anche le tante leggi che attribuiscono ai sindacati il potere di designare componenti di organi pubblici, di porre norme valide per tutti, di condizionare l'adozione di atti amministrativi, di gestire risorse e uffici pubblici. Tutto ciò vale, in misura minore, anche per le associazioni dei datori di lavoro.

Queste ragioni storiche si vanno esaurendo e gli effetti negativi della sproporzione si acuiscono: la base sindacale rispecchia sempre meno l'articolazione della società e coincide sempre meno con le categorie più deboli; la frammentazione e competizione tra sindacati rende poco conveniente, per il singolo sindacato, farsi carico degli interessi generali, rischiando di perdere iscritti. Il potere sindacale è spesso utilizzato a vantaggio di alcuni, poco meritevoli, e a danno di tutti. È anche un potere invadente, come dimostrato dai contratti collettivi del pubblico impiego, che sconfinano regolarmente in materie che sarebbero riservate alla legge. Ed è un potere spesso incoerente: i sindacati criticano l'affidamento di funzioni amministrative e servizi pubblici a privati (che può determinare risparmi ed efficienza), ma sono i principali beneficiari dell'esternalizzazione in materia fiscale e previdenziale, con i Caf e gli istituti di patronato. I quali costituiscono veicoli di finanziamento pubblico dei sindacati, legittimo ma poco trasparente, e strumenti di proselitismo agevolato: attratti dall'assistenza fiscale gratuita (ma in realtà pagata dallo Stato), ci si iscrive al sindacato.

Come rimediare, senza rinnegare il ruolo positivo che i sindacati hanno storicamente avuto e possono ancora avere? Si potrebbe cominciare applicando la Costituzione. La quale offre indicazioni importanti sia sul rapporto tra interessi generali e interessi di singole categorie produttive, sia sui sindacati.

Sul rapporto tra interessi generali e settoriali, la Costituzione prevede il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel), retaggio delle vicende storiche menzionate. Questo organo non ha mai avuto un ruolo importante, anche per il modo in cui i suoi componenti vengono scelti: quasi una sinecura per esponenti politici o sindacali in carica o a riposo. Ma è interessante ciò che la Costituzione prevede: ne fanno parte i rappresentanti 'delle categorie produttive', e non solo dei lavoratori dipendenti; esso può fare proposte e dare pareri, ma la successiva decisione spetta al potere politico. Dunque, va bene la concertazione, ma tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti e distinguendo tra le responsabilità di chi rappresenta tutti e quelle di chi rappresenta alcuni.

Sui sindacati, premesso che essi rappresentano alcuni ma decidono per tutti i lavoratori, l'articolo 39 della Costituzione stabilisce: che essi possono farlo soltanto attraverso rappresentanze unitarie, composte in modo da rispecchiare la rappresentatività dei vari sindacati; e che, per farlo, devono avere un ordinamento interno democratico. Il secondo requisito non dovrebbe spaventare le grandi confederazioni. Il primo forse sì, perché la misurazione della rappresentatività favorisce chi attualmente è sottorappresentato e danneggia chi gode di posizioni di rendita. È anche per questo che i sindacati si sono sempre opposti all'applicazione di questa norma (ingiustamente criticata anche da tanti studiosi). Ma, in tempi di crisi di rappresentatività, difendere le posizioni di rendita è sempre più difficile.

*Docente di diritto amministrativo, autore con Pietro Ichino del disegno di legge sull'efficienza della pubblica amministrazione
 

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Da loro non mi farei difendere
di Michela Murgia

Una precaria racconta la lontananza dalle organizzazioni tradizionali 

Lo ammetto: da precaria in un call center l'ultimo posto dove avrei pensato di andare a farmi difendere sarebbe stato il sindacato. Come me la pensavano anche i miei precari colleghi e non c'è da stupirsi, visto che il contratto a progetto, ricattatorio per sua natura, scoraggia volentieri qualunque tentativo di negoziazione organizzata. Per il precario di frontiera rivolgersi al sindacato equivale ancora ad andare in cerca di guai, e il temerario passo viene contemplato come estrema ipotesi solo quando il rapporto di lavoro si è già logorato e non c'è più nulla da perdere. Non a caso "mi rivolgerò al sindacato" è la frase preferita del lavoratore atipico appena licenziato, quello stesso che durante il periodo di occupazione non ha mai neppure pensato di far capo alle organizzazioni di categoria. Perché a dire il vero il cosiddetto lavoratore flessibile una categoria non ce l'ha, a parte la sua stessa precarietà. Infatti capita spesso che, se chiedo a qualche coetaneo che lavoro fa, mi risponda: "Sono precario", come se confrontarsi con gli equilibrismi della flessibilità fosse talmente faticoso da fare mestiere a sé.

I trentenni di oggi sono la prima generazione a definirsi non con la propria competenza professionale, ma attraverso una tipologia contrattuale che ha livellato in maniera trasversale sia le speranze del ricercatore universitario che quelle della telefonista, lasciandoli entrambi sullo stesso piano di incertezza. Questo trend, con buona pace di chi come me sperava in un ridimensionamento della legge Biagi, non sembra affatto volersi invertire, per cui non è strano che, in un contesto dove le categorie non esistono più e la sopravvivenza professionale è percepita in modo forzatamente individualista, i sindacati con i loro meccanismi corporativi continuino a essere letti come entità astratte e al servizio di chi i diritti li ha già.

Le organizzazioni sindacali del resto non hanno fatto molto per smontare questa percezione. Alcune sigle non contemplano nemmeno piani specifici a supporto di quelle che, con un po' di ipocrisia verbale, vengono chiamate 'nuove identità lavorative'; chi li contempla continua a rapportarsi ai lavoratori a progetto nel solo modo che conosce: tentando di stabilizzarli. Sarebbe comprensibile e in apparenza anche auspicabile, se non fosse che certi nuovi lavori (la telefonista commerciale non è l'unico esempio) hanno condizioni strutturali così alienanti che il loro unico aspetto positivo è proprio quello di non durare per sempre; e forse è tempo di fare i conti con il fatto che molti possano trovare vantaggioso fare lavori temporanei in determinati momenti della loro vita, senza per questo dover essere costretti a barattare questo beneficio con i diritti più elementari. In un contesto in cui non esiste più un motivo ideologico per farsi rappresentare sindacalmente, i precari potrebbero fondare la loro fiducia solo sulla capacità dei sindacati di liberarsi dei vecchi schemi per giocare alle nuove regole.

 
Prendi la tessera farai carriera
 
La Cisl ha conquistato la seconda carica dello Stato con Franco Marini alla presidenza del Senato. La Cgil s'è accaparrata la terza con Fausto Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio. In Italia il sindacato è un buon trampolino di lancio. Lo conferma la pattuglia di ex sindacalisti che ha trovato posto nel governo di Romano Prodi e che ha la sua roccaforte nel ministero del Lavoro: il titolare Cesare Damiano viene dalla Cgil, così come il sottosegretario Rosa Rinaldi, mentre l'altro sottosegretario Antonio Montagnino ha un passato nella Cisl. A completare la squadra governativa ci sono poi il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero (ex delegato Fiom-Cgil) e il suo sottosegretario Franca Donaggio (ex Cgil Trasporti); il vice ministro per lo Sviluppo Economico Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl); il vice ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli (già alla Cgil Scuola); il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che viene dalla Cgil come il suo collega all'Economia Alfiero Grandi. Nutrita anche la rappresentanza parlamentare: la sola Cgil può schierare sei tra deputati e senatori: Titti Di Salvo, Teresa Bellanova, Pietro Marcenaro, Andrea Ranieri, Gianni Pagliarini e Maurizio Zipponi. Anche negli enti locali il primato è della confederazione di corso d'Italia: l'ex numero uno Sergio Cofferati ha conquistato il municipio di Bologna e Gaetano Sateriale (ex chimici e poi metalmeccanici) quello di Ferrara, mentre l'ex segretario aggiunto Ottaviano Del Turco è governatore dell'Abruzzo.


Se la politica è lo sbocco naturale, non mancano gli ex sindacalisti che si sono riciclati nel mondo dell'impresa. A partire da Mauro Moretti, ex Cgil, salito al vertice delle Ferrovie; Fulvio Vento, ex Cgil Lazio, diventato presidente dell'Atac; Natale Forlani, ex Cisl, planato sulla poltrona di amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese, anche lui ex Cisl, già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi,
la confederazione tra le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali.

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