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Autore Discussione: ANDREA ROMANO. Sì al referendum, per archiviare il mito del centro  (Letto 2513 volte)
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« inserito:: Maggio 09, 2009, 10:07:56 pm »

Sì al referendum, per archiviare il mito del centro


Fai finta di non lasciarmi mai, sembrano dire coloro che nel PD alla vigilia del referendum tornano a parlare di sistema tedesco e di alleanze tra sinistra e centro. Ovvero: facciamo finta che niente possa cambiare, che tutto sia destinato a rimanere com’è stato in quest’ultimo quindicennio. Ma non è solo Gino Paoli a ricordarci che dovrà finire prima o poi, questa lunga e poco amorosa transizione del centrosinistra. E allora proviamo a guardare al referendum in questa chiave, con uno sforzo di immaginazione non troppo difficile per chi dovrebbe volgere il proprio ruolo politico al futuro e non solo a salvaguardia di identità residuali.

Quel futuro ci racconta di un PD (o comunque si chiamerà il soggetto che si contrapporrà al centrodestra con qualche possibilità di vittoria) che dovrà tornare a competere per la conquista di quegli elettori di centro verso i quali fino ad oggi non ha esercitato alcun potere di attrazione. Non accadrà né oggi né domani, e non solo per la scelta di Franceschini di provare a recuperare consensi a sinistra con l’evocazione di rischi autoritari di varia coloritura. Non accadrà né oggi né domani perché il consenso berlusconiano è ben radicato in solide ragioni di natura politica. Ma accadrà comunque dopodomani, quando la competizione per il centro si riaprirà nei suoi contenuti simbolici e culturali assai più che nella configurazione solo immaginaria di partiti centristi di diversa dimensione e aspirazione.

Non abbiamo e non avremo più un grande partito di centro capace come la DC di stabilizzare un sistema governato “par le centre”, secondo la nota distinzione di Maurice Duverger più volte ricordata da Stefano Ceccanti. Abbiamo e avremo uno scenario che si organizza “au centre”, con un elettorato di centro che oggi è conquistato solo transitoriamente da Berlusconi e che attende di essere sedotto da un’offerta politica diversa da quella berlusconiana. Quell’offerta che il PD finora non è stato di articolare perché non poteva farlo, essendo nato come strumento di sopravvivenza di un personale politico più volte sconfitto e sempre resuscitato in assenza di un’autentica competizione interna. Non poteva riuscirci Veltroni per i limiti già ampiamente noti del suo sincretismo politico. Tantomeno potranno riuscirci Franceschini o Bersani su mandato del sempiterno D’Alema, perché conosciamo alla perfezione lo schema che si annuncia sotto quella bandiera: la sinistra che fa la sinistra, il centro che fa il centro, la sinistra e il centro che si alleano per governare il paese. Ma sappiamo altrettanto bene che l’unica fase della nostra storia recente in cui questo schema ha funzionato è stato subito dopo il 1996, in presenza di una leadership autorevole e di un progetto nazionale mobilitante. Dopo di allora la formula ha perduto qualsiasi vitalità, mentre l’elettorato di centro cessava definitivamente di essere rappresentato da una singola forza, peraltro mutevole, recuperando una libertà di movimento finora sempre intercettata da Berlusconi.

Per questo Francesco Rutelli ha colto un punto di verità descrivendo il PD come sempre più somigliante al PCI: un’entità immobile destinata a presidiare una sinistra altrettanto immobile e priva di capacità espansiva, per quanto disposta ad allearsi con altri. Ce lo dice anche la lettura della crisi economica che prevale nel PD: una crisi provocata da quel dominio liberista a cui il centrosinistra italiano si sarebbe supinamente piegato, senza produrre un pensiero autonomo capace di unire mercato e dimensione sociale. E via di seguito con la stessa retorica ideologica che è stata dell’ultimo PCI e dei suoi ultimi dirigenti, oggi rivestita dell’arcinoto pessimismo antropologico che descrive l’Italia come un paese strutturalmente di destra. E che ha impedito al nostro centrosinistra di operare quella trasformazione dei fondamenti culturali che altrove ha garantito ai partiti progressisti lunghe stagioni di governo.

Ma se su questo PD incombe un devastante rischio di impotenza in stile PCI, ciò che Rutelli non vede è che l’antidoto più efficace non è nella riscoperta del celebre trattino tra centro e sinistra ma nell’apertura di uno sforzo a tutto campo per la conquista del centro simbolico e culturale di questo paese. Uno sforzo che abbandoni qualsiasi velleità di resuscitare alleanze ormai prive di radicamento reale, se non nella somma di personalismi particolarmente resistenti, e che passi anche per una legge elettorale che costringa i partiti di domani a misurarsi con una vocazione maggioritaria presa sul serio. Esiste il pericolo, come dicono i critici del referendum, che la legge che uscirà dal voto “consegni il paese a Berlusconi”? Fin troppo facile rispondere che quella consegna è già avvenuta e che Berlusconi ha conquistato l’Italia per palese assenza di un progetto alternativo. Ma soprattutto conta sottolineare che una leadership politica che avesse davvero a cuore ciò che potrebbe accadere domani dovrebbe lavorare già oggi per crearne le condizioni più favorevoli, anche per quanto riguarda il sistema elettorale. Immaginando senza troppo sforzo che quel piccolo e già stanco partito che tenta di sopravvivere a “quota venticinque per cento” dovrà prima o poi misurarsi con la ricerca della maggioranza dei consensi, una volta liberatosi dai piccoli e grandi timonieri che lo costringono in rianimazione.

DA andrearomano.ilcannocchiale.it
« Ultima modifica: Gennaio 14, 2017, 12:41:38 pm da Admin » Registrato
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