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Autore Discussione: ÉRIC FOTTORINO Le promesse mancate di Sarkò Bonaparte  (Letto 2043 volte)
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« inserito:: Maggio 05, 2009, 11:30:26 am »

5/5/2009
 
Le promesse mancate di Sarkò Bonaparte
 
 
ÉRIC FOTTORINO*
 
Non credo che nessuno voglia rimproverare a Nicolas Sarkozy di aver voluto cambiare la Francia. E nemmeno di averle voluto restituire il suo rango nel mondo, di aver lavorato per rafforzare la competitività del Paese al centro di un sistema globalizzato instauratosi ben prima della sua elezione alla presidenza della République.

Ma com’è possibile allora che dopo due anni di mandato, l’uomo che avrebbe potuto fare suo lo slogan «Yes I can» veda progressivamente screpolarsi la fiducia che i francesi avevano riposto in lui? Il decisionismo, che è stato la sua forza, non è forse ora diventato la sua debolezza? La realtà dei fatti - è vero - non ha giocato a suo favore. Per un uomo che è stato eletto affermando la necessità di dover riformare uno Stato sociale troppo pesante, la crisi economica e finanziaria ha giocato come un crudele contropiede. Lui che voleva finirla con quello statalismo colbertista di pura marca francese ha dovuto ricorrere alle delizie e ai veleni di un intervento pubblico inevitabilmente accresciuto che ha portato un colpo alla sua visione di un’economia autoregolata e resa più dinamica da uno spirito d’impresa liberato dai vincoli di Stato.

Nel maggio 2007 il candidato Sarkozy aveva trionfato accreditando con forza l’idea che la politica e il politico fusi nell’ambizione di un solo uomo avrebbero potuto agire efficacemente sulla società. La gravità della crisi di questi ultimi mesi ha svuotato questo credito di cui il presidente aveva fatto una convinzione.

Il primato dell’economia costringe i politici a una maggiore umiltà, a cominciare dal più importante fra loro. Non è certo una colpa aver agito. Va riconosciuto al Capo dello Stato il ruolo di primo piano giocato l’estate scorsa nella soluzione - provvisoria? - della crisi georgiana, nella tenuta del G20, senza dimenticare il successo del turno di presidenza francese dell’Unione europea. Quanto alla gestione del giorno per giorno nella crisi, il Presidente ha dato prova di una capacità di reazione autentica, nel piano di rilancio - facendosi carico di un aumento del deficit -, negli aiuti ai disoccupati, ai giovani senza lavoro, e nel sostegno alle piccole e medie imprese. Tuttavia questo decisionismo dell’istante, finora, ha mascherato il fallimento del tentativo di riformare la Francia nel profondo. Fatta eccezione delle misure per affrontare la crisi, verso quali obbiettivi ci stiamo muovendo per modernizzare il Paese? Molto pochi, in fin dei conti.

E non è un caso. Nicolas Sarkozy dovrebbe far leva sulle istituzioni - a cominciare dal suo governo e dalla sua maggioranza parlamentare - e sulla macchina amministrativa, e invece conta solo su se stesso. Ma non ce la fa. Né con i sindacati, né con i magistrati. Nemmeno con il mondo dell’università o i dirigenti degli ospedali. E non diciamo altro dei suoi rapporti con i media che vorrebbe controllare tanto più per quanto poco apprezza - ma è un eufemismo - l’immagine che danno di lui alcuni di loro, compreso Le Monde.

Non è tanto l’ispirazione riformatrice, ma la capacità di realizzare che manca a Nicolas Sarkozy. È una questione di stile che finisce per irritare dopo aver sollevato curiosità e speranze. Non basta dichiarare di volersi liberare dai vecchi codici politici della République, di gettare alle ortiche il lascito dei suoi predecessori, a cominciare da quello di Jacques Chirac, o ancora di aprire freneticamente mille cantieri con il rischio di non riuscire a portarne a termine correttamente nessuno.

Avrebbe dovuto instaurare un nuovo modo di far politica in sintonia con la società composto di un dosaggio equilibrato di individualismo e slancio collettivo, di «io prima di tutto» e «tutti insieme». In due anni, invece, il Capo dello Stato ha poco inventato ma si è molto vantato. Abbiamo capito che voleva essere il migliore. Tocca a lui dimostrarlo senza eccessi, attraverso le azioni, altrimenti corre il rischio di cadere in quello che Marcel Gauchet chiama il «bonapartismo televisivo, dove l’esibizione della volontà conta più della realtà».

*direttore di «Le Monde»
da lastampa.it
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