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Autore Discussione: MARIO VARGAS LLOSA  (Letto 2441 volte)
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« inserito:: Maggio 04, 2009, 05:12:30 pm »

4/5/2009
 
Gli architetti che non sanno fare i musei
 
MARIO VARGAS LLOSA
 

Visitare nella stessa settimana due grandi musei europei alla ricerca di testimonianze delle culture del Congo e dell’Amazzonia può riservare al visitatore insospettate lezioni sulla civiltà del nostro tempo e sul modo in cui in essa, senza che nessuno l’abbia deciso e neppure l’abbia ben capito, si sia via via verificata questa sostituzione tra sostanza e forma - tra contenuto e contenitore - che in un passato remoto sarebbe stata immaginabile solo attraverso la magia, il patto diabolico o il miracolo. Oggi a rendere possibile questo prodigio non sono, a quanto pare, né maghi, né diavoli, né santi, ma solo il narcisismo e la superficialità.

Il Real Museo dell’Africa Centrale sorge a Tervuren, a circa 15 chilometri da Bruxelles, in un parco da sogno, attorniato da boschi che in questa mattina di primavera fremono di fronde e di canti e voli d’uccelli multicolori. Ai piedi dell’edificio c’è un grande stagno circolare e laghetti artificiali: qui, durante l’Esposizione Universale del 1897, Leopoldo II mise in mostra alcuni congolesi in carne e ossa arrivati dal suo vasto impero africano con relative capanne e tatuaggi e lance e tamburi. Furono la maggior attrazione dell’evento, ma nove di essi non si adattarono al clima e morirono di polmonite.

Il sovrano belga - lì c’è la sua imponente statua con tanto di barba ben pettinata - voleva che questo museo offrisse un’immagine di potere e di orgoglio del tutto giustificati (non era forse lui il proprietario del Congo, ricchissimo dominio grande 97 volte il suo paese?) e dette l’incarico di realizzarlo all’architetto francese Charles Girault che aveva disegnato il Petit Palais di Parigi. Il risultato è stato «versaillesco», monumentale e magnifico, anche se il passare del tempo e gli alti e bassi della storia hanno attualmente inflitto a questo presuntuoso edificio un’aria un po’ Kitsch. Mi dicono che, nonostante la sua smisurata vastità, il museo presenti solo il dieci per cento delle sue raccolte. Anche così, comunque, quel che splende nelle sue teche e nelle sue sale è tantissimo ed esposto in maniera intelligente e con gusto. Le didascalie e i pannelli sono eloquenti e la ricchezza delle collezioni di maschere, armi, strumenti musicali, utensili, abiti, acconciature, e persino la gigantesca piroga scavata in un tronco d’albero che può ospitare un centinaio di rematori, danno un’idea straordinaria della varietà delle culture centro-africane. L’amico che mi accompagna, uno storico che ha compiuto ricerche negli archivi del museo, mi garantisce che la biblioteca con i suoi libri e i suoi documenti sull’Africa Centrale è la più ricca del mondo.

C’è un elemento che sorprende, soprattutto se si visitano i settori che ricordano le fasi durante le quali il Congo è stato proprietà personale di Leopoldo II (1885-1908) e colonia dello Stato belga (1908-1960): a differenza di quanto accade in altri musei europei in cui le antiche potenze colonizzatrici hanno cancellato i segni della colonizzazione vergognandosi della loro stagione imperialista, in quest’esposizione è ancora presente, senza infingimenti e senza complessi, la vecchia concezione di un’Europa che conquistava paesi lontani con l’intento di civilizzarli e di guidarli all’emancipazione. Ci sono allusioni al cannibalismo e alla tratta degli schiavi praticata dagli arabi di Zanzibar - piaghe dalle quali i belgi avevano allora affrancato i congolesi - e foto di missionari che predicano il Vangelo a schiere di africani nudi e inginocchiati. È vero che si può vedere qualche mano mozzata e qualche schiena frustata, ma sono in mostra anche gli «atti eroici» della Force Pubblique che reprime i tentativi di ribellione degli indigeni. Non un solo accenno, è chiaro, ai dieci milioni di congolesi che, secondo lo storico Adam Hochschild, sono morti per i maltrattamenti e nello sfruttamento delle piantagioni di caucciù e delle miniere.

Ma non è questo che, nelle due ore e mezzo di visita, mi disturba senza sosta impedendomi di gustarmi come vorrei questa formidabile varietà di oggetti esposti. È il fatto che il museo, mentre mostra le proprie raccolte, mette troppo in mostra se stesso. Le cupole, le vetrate, le modanature, i lampadari, le tende, gli specchi smussati si frappongono in modo continuo e sfacciato tra il visitatore e ciò che, in teoria, è la ragion d’essere dell’edificio: rivelare la realtà storica, geografica, culturale ed etnologica del Centro Africa. Colpevole di questa intromissione esibizionistica non è solo l’architetto Girault: costui obbediva alle indicazioni del committente, un re messianico e megalomane che, attraverso il museo, voleva promuovere le sue gesta e pavoneggiarsi al cospetto dei posteri. Ma, contemporaneamente e senza rendersene conto, chi disegnava il Petit Palais e il Museo Reale dell’Africa Centrale ha inaugurato quella tendenza a privilegiare nuove sensibilità e nuovi valori estetici che, in ogni angolo dell’Europa Occidentale, ha spinto gli artisti a diventare protagonisti delle proprie opere: capovolgendo così l’antichissima vocazione dell’arte e della cultura secondo cui chi crea deve restare nascosto dietro la sua realizzazione in modo che questa possa risplendere al meglio e brillare di luce propria.

Non era che l’inizio d’una evoluzione dalla quale, nel volgere di pochi decenni, sarebbe derivato un curioso cambiamento: quello per cui un’opera d’architettura, ad esempio, si è trasformata più o meno in un autoritratto, un’architettura d’autore, un’arte esibizionista e narcisista in cui i musei, come i ministeri, i ponti e persino le piazze hanno soprattutto il compito di richiamare l’attenzione non su ciò che ospitano nelle proprie sale o su quello per cui si suppone siano stati edificati, ma sui costruttori, sul loro estro e la loro audacia.

A riprova di ciò basta fare un giro al Museo delle Prime Arti e delle Civiltà di Africa, Asia, Oceania e Americhe, come si chiama il museo del Quai Branly a Parigi. Doveva chiamarsi «delle Arti primitive», ma il politicamente corretto ha tempestivamente bloccato questa definizione «etnocentrica». Con questo museo Jacques Chirac volle immortalare il ricordo di sé, come Pompidou ha immortalato il proprio con il museo che porta il suo nome e Mitterrand con la Biblioteca Nazionale i cui quattro edifici assomigliano a quattro libri aperti messi in verticale e la cui più profonda originalità consiste nel fatto che le sale di lettura sono nei sotterranei e i libri ai piani alti, protetti con costose gelatine dai guasti della luce solare. Ma, a differenza di questi ultimi, Chirac non è riuscito a raggiungere completamente il suo sogno d’eternità museale, perché l’unico personaggio immortalato dal Museo del Quai Branly è il suo ideatore, l’architetto Jean Nouvel, il più moderno di tutti gli architetti moderni, visto che ogni sua opera è sempre uno spettacolo straordinario.

Nel Museo del Quai Branly, Jean Nouvel supera se stesso per il segno personale che ha lasciato impresso nell’edificio e che supera di gran lunga quello che si nota in altre sue famose realizzazioni come l’Istituto del Mondo Arabo a Parigi, la Torre Agbar di Barcellona o l’ampliamento del Museo Reina Sofia di Madrid. Senza paura di esagerare, del Museo del Quai Branly si può dire che, se si togliessero dall’interno i 3500 pezzi etnologici e artistici, l’edificio non perderebbe nulla perché, per quanto mostra e rappresenta, ciò che contiene è indifferente, se non superfluo. Al di là delle minuziose spiegazioni e giustificazioni contenute nel catalogo, la verità è che questo bel monumento - è bello, senza dubbio - accaparra talmente l’attenzione del visitatore con il suo lungo e sinuoso corridoio ombreggiato, la foresta artificiale da cui è circondato, le labirintiche sale quasi buie dove emergono come fiammate di luce le nicchie, le cellette in cui sono posti gli oggetti, che questi sfumano: scompaiono trasformati in particolari da cui si può prescindere, travolti da un contesto spettacolare che, con audacie, sorprese, ammiccamenti, bravate, civetterie e sguaiataggini assorbe così tanto lo spettatore da non concedergli né il tempo né la libertà di gustare altro se non la rappresentazione che il museo dà di se stesso.

I buoni musei sono invisibili, come i buoni maggiordomi. Esistono solo per dare rilievo e fascino a ciò che espongono, non per esporre se stessi e schiacciare con il loro istrionismo i quadri, le sculture, le installazioni o gli oggetti che ospitano. Le prove? Ancora ne esistono, reminiscenze d’un passato in via d’estinzione. Per esempio, due musei d’arte moderna di Renzo Piano: quello disegnato per la collezione Du Menil, a Houston, e il museo d’Arte Moderna della Fondazione Bayeler, in Svizzera. In entrambi, gli spazi puliti, l’atmosfera serena e prudente stimolata dalla semplicità del disegno e dalla discrezione dei materiali consentono al visitatore di concentrarsi sulle opere e di instaurare con esse un dialogo silenzioso nel quale la buona arte parla e insegna e lo spettatore ascolta, prova piacere e impara. Renzo Piano dev’essere uno degli ultimi grandi architetti a credere ancora che i musei siano al servizio dei quadri e delle sculture e non che quadri e sculture siano al servizio del museo e del suo creatore.

© El País
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 29, 2009, 05:07:08 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 29, 2009, 05:07:38 pm »

29/7/2009

L'anno in cui nelle scuole morì l'autorità
   
MARIO VARGAS LLOSA


Alcuni anni fa ho visto a Parigi, alla tv francese, un documentario che mi è rimasto impresso e le cui immagini sono talvolta riportate all’attualità con una forza esplodente dagli eventi quotidiani. Il filmato raccontava i problemi di un liceo della periferia di Parigi in uno di quei quartieri in cui le famiglie francesi povere vivono con gli immigrati di origine sub-sahariana, latino-americani e arabi del Maghreb. Questo istituto d’istruzione secondaria pubblico i cui alunni costituiscono un arcobaleno di razze, lingue, costumi e religioni, era stato scenario di violenze.

Bastonate ai professori, stupri nei bagni e nei corridoi, risse tra bande a colpi di coltello e di spranghe, e, se non ricordo male, persino rivoltellate. Non so se ci fossero stati morti, ma certamente parecchi feriti e la polizia, perquisendo le aule, aveva trovato armi, droghe e alcol. Il documentario non voleva suscitare allarme, al contrario tranquillizzare, mostrando che il peggio era ormai passato e che, con la buona volontà di autorità, insegnanti, genitori e alunni, le acque si stavano calmando. Con evidente soddisfazione, per esempio, il preside faceva notare che, grazie al metal detector appena installato e sotto il quale gli studenti dovevano passare per entrare a scuola, si potevano confiscare i pugni di ferro, i coltelli e le altre armi da punta e da taglio. E, così, i fatti di sangue avevano avuto una drastica riduzione. Si erano approvate disposizioni per fare in modo che sia i professori sia le allieve non si muovessero mai da soli, anche per andare in bagno, ma sempre almeno in due. Al fine di evitare, in questo modo, aggressioni e imboscate. E ancora: la scuola aveva a disposizione permanentemente due psicologi per dare consigli a studenti e studentesse - quasi sempre orfani di almeno un genitore, con alle spalle famiglie devastate dalla disoccupazione, dalla promiscuità, dalla delinquenza e dalla violenza - disadattati o attaccabrighe irriducibili. Ma la cosa che più mi ha impressionato del documentario è stata l’intervista a una docente che faceva, con naturalezza, un’affermazione di questo tipo: «Adesso va tutto bene, ma occorre sapersi giostrare». Spiegava che, per scongiurare le aggressioni e le botte di prima, lei e altri insegnanti s’erano accordati di ritrovarsi, a un’ora stabilita, all’uscita più vicina della metropolitana e di camminare in gruppo sino alla scuola. Così riducevano i rischi d’essere aggrediti dai «voyous». Quella professoressa e i suoi colleghi che, ogni giorno, andavano al lavoro come se andassero all’inferno, s’erano rassegnati. Avevano imparato a sopravvivere e non sembravano neppure immaginare che il mestiere d’insegnare potesse essere qualcosa di diverso da questa loro quotidiana via crucis.

In questi giorni ho finito di leggere uno dei piacevoli e sofistici saggi di Michel Foucault nel quale, con la consueta verve, il filosofo francese sostiene che l’insegnamento, proprio come la sessualità, la psichiatria, la religione, la giustizia e il linguaggio, è sempre stato, nel mondo occidentale, una di quelle «strutture di potere» erette per reprimere e manipolare il corpo sociale grazie a sottili, ma efficaci forme di sottomissione e di alienazione per eternare i privilegi e il controllo del potere da parte dei gruppi sociali dominanti. Bene, se prendiamo in considerazione anche il solo campo dell’insegnamento, notiamo che, a partire dal 1968, l’autorità che castrava gli istinti libertari dei giovani è finita in mille pezzi. A giudicare, però, da quel documentario che avrebbe potuto essere girato in molti altri angoli della Francia e dell’Europa intera, il crollo e il discredito dell’idea stessa di insegnante e di insegnamento - e, in ultima analisi, di qualsiasi forma di autorità - non sembra aver portato alla liberazione creativa dello spirito giovanile, ma, piuttosto, trasformato le scuole così liberate in istituzioni in preda al caos, nel migliore dei casi, e, nel peggiore, in piccole satrapie di bulli e di precoci delinquenti.

È evidente che il Maggio ’68 non mise fine all’«autorità» - che, già da tempo, stava vivendo un processo di generale sfinimento in tutti i settori, dalla politica alla cultura - in particolare nel campo dell’insegnamento. Ma la rivoluzione dei ragazzi-bene, crema delle classi borghesi e privilegiate di Francia, che furono i protagonisti di quel divertente carnevale all’insegna dello slogan «Proibito proibire», ha consegnato al concetto di autorità il suo atto di morte. E dato legittimità e glamour all’idea secondo cui ogni autorità è infida, dannosa, scivolosa e che il più nobile ideale di libertà consiste nel disconoscerla, negarla, distruggerla. Il potere non si sentì minimamente toccato da quest’emblematica arroganza dei giovani ribelli che, senza che la maggior parte di essi lo sapesse, portavano sulle barricate gli ideali iconoclasti di pensatori come Foucault.

Basti ricordare che nelle prime elezioni svoltesi in Francia dopo il Maggio ’68, la destra gollista ottenne una sonora vittoria. Ma l’autorità, nel senso latino di auctoritas, non di potere, bensì, come la definiscono i dizionari, di «prestigio e credito che si riconosce a una persona o a un’istituzione per la sua legittimità o qualità o competenza in una qualche materia», non rialzò la testa. Da allora, in Europa come in buona parte del resto del mondo, praticamente non esistono figure politiche o culturali capaci di esercitare il magistero, nel contempo morale e intellettuale, dell’«autorità» classica che, a livello popolare, era incarnata dai maestri, parola che un tempo aveva un suono così bello perché associata al sapere e all’idealismo. In nessun campo tutto ciò è stato tanto catastrofico per la cultura come nell’insegnamento. Il maestro, spogliato di credibilità e di autorità, trasformato spesso in strumento del potere repressivo, vale a dire del nemico al quale per raggiungere la libertà e la dignità d’uomini bisognava resistere, arrivando, persino, ad abbatterlo, ha perduto la fiducia e il rispetto senza i quali gli era praticamente impossibile adempiere alla sua funzione di educatore, di trasmettitore di valori e di conoscenze. Di più: li ha persi non solo agli occhi dei propri alunni, ma anche a quelli degli stessi genitori e dei filosofi rivoluzionari che, come l’autore di Sorvegliare e punire, identificavano nel maestro uno dei sinistri strumenti di cui - proprio come gli agenti di custodia delle carceri e gli psichiatri dei manicomi - l’establishment si serve per mettere le briglie allo spirito critico e alla sana ribellione di bambini e adolescenti.

Molti maestri, in perfetta buona fede, credettero a questa degradante demonizzazione di se stessi e contribuirono, gettando benzina sul fuoco, ad aggravare la rottura facendo proprie alcune delle più avventate affermazioni dell’ideologia del Maggio ’68 nel settore dell’insegnamento come, per esempio, considerare anormale rimproverare i cattivi studenti, far loro ripetere l’anno e, persino, dare voti e stilare graduatorie tra gli allievi in base al rendimento scolastico perché, attraverso tali «distinguo», si diffonderebbero l’infausto concetto di gerarchia, l’egoismo, l’individualismo, la negazione dell’idea che tutti siamo uguali, e il razzismo.

È vero che queste estremizzazioni non sono riuscite a infettare tutti i settori della vita scolastica, ma una delle conseguenze perverse del trionfo delle idee - delle dispute e delle fantasie - del Maggio ’68 è stata la brutale accentuazione della divisione tra classi a partire proprio dalle aule di scuola. L’insegnamento pubblico è stato una delle grandi conquiste della Francia democratica, repubblicana e laica. Nelle sue scuole e nei suoi collegi, di altissimo livello, le ondate di studenti godevano d’una uguaglianza di opportunità che correggeva, in ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi legati alla famiglia d’origine o alla classe sociale d’appartenenza, aprendo ai bambini e ai giovani dei settori meno fortunati la strada del progresso, del successo professionale e del potere politico.

L’impoverimento e il disordine sofferti dall’insegnamento pubblico, sia in Francia sia nel resto del mondo, hanno attribuito all’insegnamento privato - al quale, per motivi economici, ha accesso solo un settore sociale minoritario d’alto reddito, meno toccato dalle distruzioni della presunta rivoluzione libertaria - un ruolo preponderante nella formazione dei dirigenti di oggi e di domani nell’ambito della politica, delle professioni e della cultura. Non è mai stato così vero il detto: «Nessuno sa per chi lavora». Credendo di lavorare alla costruzione di un mondo davvero libero, senza repressioni, mancanza di diritti e autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi incoscienti discepoli hanno, in realtà, lavorato molto alacremente perché, grazie alla grande rivoluzione da loro propiziata nel campo dell’istruzione, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi, ricchi, e gli atavici detentori del potere seguitassero a tenere la frusta nelle loro mani.

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