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Autore Discussione: VITTORIO SABADIN Pulitzer, carta batte Web  (Letto 2776 volte)
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« inserito:: Aprile 22, 2009, 04:11:52 pm »

22/4/2009
 
Pulitzer, carta batte Web
 
VITTORIO SABADIN
 
Quando l’anno scorso si decise che al premio Pulitzer, il riconoscimento americano più prestigioso per il giornalismo, avrebbero potuto partecipare anche siti Internet indipendenti, gli esperti abituati a fasciarsi la testa prima del tempo avevano preconizzato un altro brutto momento per i giornali di carta. Il premio per la fotografia sarebbe sicuramente stato vinto da uno studente che aveva ripreso con il BlackBerry un incidente ferroviario e quello per il Breaking News Reporting da qualche turista che aveva inviato su Twitter il primo resoconto degli attentati di Mumbai. Ma non è andata così: con orgoglio, il New York Times annotava ieri che nel primo anno in cui Internet ha partecipato all’assegnazione dei premi, nessuno dei nuovi siti d’informazione comparsi sul Web è riuscito a vincerne uno. Per i vecchi media statunitensi, afflitti dalle perdite economiche e martoriati dai tagli e dai licenziamenti, quella di ieri è stata un po’ la giornata dell’orgoglio.

L’ultimo canto del cigno, secondo i pessimisti che considerano i giornali di carta vecchi dinosauri comunque destinati all’estinzione. O invece la prova che non tutto è ancora perduto, visto che quando si tratta di premiare la qualità dell’informazione, niente può ancora superare i quotidiani. I Pulitzer assegnati nel 2009 confermano la tesi di Rupert Murdoch, il più grande editore del mondo, secondo il quale molti siti Web concorrenti dei giornali vivono solo grazie agli articoli che scaricano gratuitamente dai giornali stessi: non possono permettersi gli alti costi della qualità che solo le grandi organizzazioni editoriali riescono ancora ad affrontare e vivono succhiando il sangue degli altri. Quando si tratta di valutare il materiale che producono autonomamente, è così scarso da non meritare quasi mai troppa considerazione.

Nel leggere i commenti dei giornali americani si percepiva ieri una grande soddisfazione celata fra le righe, come impone il loro rigoroso stile. Ben cinque Pulitzer sono andati al New York Times, un giornale che per poter pagare i debiti ha ridotto gli stipendi del 5% a tutti i dipendenti, licenziato centinaia di giornalisti e venduto il grattacielo nel quale ha gli uffici. Altri premi importanti sono stati assegnati a giornali locali che nonostante tutte le difficoltà continuano a fare il loro dovere: al Las Vegas Sun, che ha denunciato l’alto tasso di mortalità degli operai addetti alle costruzioni sullo Strip, il viale centrale della città; al Detroit Free Press, che ha scoperto le bugie del sindaco Kwame Kilpatrick, poi arrestato per spergiuro; all’East Valley Tribune, che ha denunciato come le indagini su molti crimini fossero state abbandonate perché lo sceriffo di Mesa, in Arizona, era ossessionato dal problema dell’immigrazione. E al fotografo Patrick Farrell del Miami Herald (un giornale in vendita al miglior offerente), per le straordinarie e commoventi immagini scattate a Haiti dopo il passaggio dell’Uragano Ike, la disperazione di un’umanità dolente che nessun telefonino avrebbe potuto documentare con la stessa efficacia.

È vero, il premio è da tempo molto contestato e porta il nome di Joseph Pulitzer, l’editore che inventò la peggior forma di giornalismo, quella poco accurata e sensazionalista. Ma leggendo le motivazioni dei riconoscimenti assegnati quest’anno sembra quasi che la giuria abbia voluto lanciare un segnale positivo in un periodo caratterizzato da paure e incertezze: a fare sopravvivere i giornali saranno soltanto il mantenimento della qualità e il ritorno a quello spirito di servizio pubblico per il quale sono nati e grazie al quale sono riusciti a sopravvivere per secoli. Una caratteristica che, in America, non sembra interessare più a molti editori: Paul Giblin, il giornalista autore del servizio sullo sceriffo dell’Arizona, è senza lavoro da ottobre. Il suo nome è finito tra gli «esuberi» prima che si sapesse che si stava licenziando un premio Pulitzer. E probabilmente saperlo non avrebbe cambiato nulla.
 
da lastampa.it
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