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Autore Discussione: BRUNO TINTI Il Pm italiano lo fa meglio  (Letto 2845 volte)
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« inserito:: Aprile 21, 2009, 11:32:44 am »

21/4/2009
 
Il Pm italiano lo fa meglio
 

BRUNO TINTI
 
Il Foglio ha pubblicato un articolo in cui si narra di un senatore americano, il repubblicano Ted Stevens che, accusato di aver accettato favori da un imprenditore (lavori di ristrutturazione per 250 mila dollari), è stato condannato per non averli dichiarati. La condanna, pochi giorni prima delle elezioni, gli è costata il seggio.

Successivamente, per iniziativa del dipartimento della Giustizia la condanna è stata annullata: si è scoperto che i pm che avevano sostenuto l’accusa contro Stevens avevano nascosto prove decisive che ne avrebbero provato l’innocenza; sapevano che era innocente ma l’hanno fatto condannare lo stesso. Spiega il Foglio che succede quando la giustizia è politicizzata e i magistrati militanti esercitano l’influenza negativa sul corretto processo democratico; e che tutto ciò non è solo una prerogativa dell’intreccio politico e giudiziario italiano. L’episodio dovrebbe indurre a riflessioni di natura assai più ampia. Prima di tutto bisognerebbe riflettere sul fatto che i pm americani sono eletti con l’appoggio dei partiti o nominati dal partito al potere; mentre i pm italiani vincono un concorso pubblico. Gli americani conservano un forte vincolo con i santi protettori soprattutto perché, alla scadenza del mandato, dovranno affrontare nuove elezioni o guadagnarsi nuove nomine; mentre gli italiani non debbono niente a nessuno e sono sicuri di ricevere la loro busta paga a fine mese per tutta la vita. Se il partito che ha fatto eleggere il pm americano gli chiede di fare un processo in un modo piuttosto che in un altro, qualche problema il poveretto finirà con l’averlo; mentre il pm italiano non riceve richieste del genere, visto che non ha padroni né protettori.

La seconda riflessione capisco sia un po’ più complessa, soprattutto per chi è frastornato dalla propaganda. Il punto è che il pm americano è un avvocato, come vorrebbe Berlusconi: è l’«avvocato della polizia». Invece il pm italiano è un giudice. Il pm americano ha un obbiettivo preciso: vincere il processo, come ogni avvocato che si rispetti. Per il pm americano vincere il processo significa far condannare l’imputato, come per l’avvocato difensore vincere significa farlo assolvere. Tutti e due, il pm avvocato della polizia e l’avvocato difensore, faranno carriera quanti più processi vinceranno. Nessuno dei due si chiede se l’imputato che si tirano di qua e di là come due cani su un osso sia colpevole o innocente; non gliene importa, lo deciderà la giuria. Loro faranno l’impossibile per convincerla della loro tesi, faranno l’impossibile per vincere. E se poi la giuria crederà all’avvocato sbagliato, condannerà l’innocente o assolverà il colpevole, non ha importanza; uno dei due avvocati avrà «vinto» e, se ha vinto il pm, farà carriera, sarà rieletto, sarà candidato a senatore, sindaco, governatore, magari alla presidenza degli Stati Uniti.

Al pm italiano non importa di far condannare l’imputato; vuole far condannare il colpevole. In ogni momento del processo si chiede: siamo sicuri? Quel teste dice la verità? Quel documento è genuino? Quella confessione sarà stata estorta con un po’ di sberle? O con promesse (quando uscirai dopo esserti assunto la colpa di quello che ho fatto io ti darò migliaia di euro) o minacce (accusati del reato che ho commesso io se no tua moglie e i bambini...)? Il pm italiano non deve «vincere» il processo; deve far condannare il colpevole e far assolvere l’innocente. Come un giudice, che deve emettere una sentenza «giusta», non importa se di assoluzione o di condanna. Ecco perché la «separazione delle carriere» è una sciocchezza: pm e giudici fanno lo stesso lavoro, cercano di capire quale sia la verità; e adottano lo stesso tipo di decisione: colpevole, innocente. Solo che il giudice traduce questa decisione in una sentenza; e il pm in una richiesta al giudice di emettere una sentenza. Ma il lavoro che c’è dietro, il modo di ragionare, la cultura e l’atteggiamento psicologico sono gli stessi.

Ecco perché finisce per essere abbastanza normale che un pm americano, un avvocato della polizia, trascuri qualche prova che non va d’accordo con la sua tesi, nasconda qualche documento, cerchi d’imbrogliare un po’ la difesa: lui deve solo far condannare l’imputato, a farlo assolvere deve pensare l’avvocato difensore; se non è abbastanza in gamba, peggio per lui (e per l’imputato); il pm americano deve «vincere». Un pm italiano nemmeno concepisce un comportamento del genere; e, soprattutto, al di là dell’aspetto etico, questo modo di lavorare non gli è di alcuna utilità: stipendio e carriera non dipendono da quanti processi ha «vinto» ma da come li ha fatti, da quanto approfondite, imparziali sono state le indagini; da quanto «giuste» sono state le richieste. Il Foglio fa bene a preoccuparsi di quanto pericoloso sia per un Paese democratico l’intreccio tra politica e giustizia; e di come i magistrati politicizzati (quelli eletti dai partiti o nominati dai vertici della politica) possano destabilizzarlo. Quello che non si capisce è perché non si rallegri di vivere in un Paese in cui esiste una Costituzione che impedisce che tutto ciò possa avvenire.
 
DA lastampa.it
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