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Autore Discussione: Antonio Gramsci Jr. - Gramsci e Schucht Amore e rivoluzione  (Letto 6499 volte)
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« inserito:: Giugno 08, 2007, 05:21:22 pm »

Gramsci: l’«Inferno» dantesco per parlare al Pci

Adriano Guerra


Gramsci in carcere a Turi, Togliatti a Mosca, dove c’è con la famiglia Schucht la moglie Julia coi figli. E dove c’è Stalin. In Italia c’è Mussolini, e c’è il «Tribunale speciale» al lavoro. Siamo nel pieno del secolo «grande e terribile», coi suoi momenti di gloria, di generosità e di solidarietà, ma anche di paure, di incomprensioni, di tradimenti, ed è questo il quadro entro cui va collocata la ricerca di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, appena pubblicata da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp.245, euro 19.00).

Negli anni della guerra fredda - come si sa - i tentativi di custodire ma anche di preservare dalla curiosità altrui piccoli e grandi segreti famigliari e di partito, hanno portato a stendere veli su verità dolorose. Così è nata la «questione Gramsci». Non pochi di questi veli sono stati rimossi grazie alle ricerche di numerosi studiosi. Altri lo sono con questo libro, che è un’opera «aperta» e dunque - come sempre accade quando un tema viene affrontato da più autori - con interpretazioni non sempre collimanti e in qualche caso anche contraddittorie. Ma, vivaddio, questa è la ricerca. E quel che di nuovo veniamo a sapere impone di modificare vecchie convinzioni. Ora sappiamo ad esempio, che Gramsci scrivendo in carcere centinaia di pagine su Benedetto Croce, sul fordismo, su Macchiavelli, non intendeva (soltanto) lavorare für ewig (per l’eterno), ma anche condurre una vigorosa e quotidiana lotta politica all’interno del partito e del movimento comunista.

Che sin dai giorni dell’arresto egli fosse in contrasto con Togliatti era noto. Quel che era meno noto, e per certi aspetti, del tutto ignoto, è rappresentato da una parte dall’ampiezza e dalle forme nelle quali il confronto fra i due dirigenti ha continuato a svolgersi e dall’altra, e soprattutto, dai contenuti reali del confronto stesso. Su questi punti il libro di Rossi e Vacca dice cose nuove che riguardano intanto il ruolo reale svolto da Piero Sraffa. A differenza di quel che si riteneva, il famoso economista non ha ricoperto nella vicenda il ruolo di semplice strumento di contatto, quasi anodino e neutrale, fra i due, soltanto perché amico di Gramsci e di Togliatti, e soprattutto del primo, ma ha agito per volontà e vocazione propria. Perché Sraffa era un intellettuale comunista, un uomo di partito, sia pure «senza tessera» (e «senza tessera» per potersi muovere liberamente, o quasi, fra Londra, Parigi e il carcere di Turi).

Nuovo è poi quel che Rossi ha scoperto sui «codici letterari» impiegati da Gramsci per riprendere nel 1931 la discussione iniziata con Togliatti nel 1926 sui pericoli che sarebbero nati qualora la maggioranza di Stalin non si fosse accontentata di vincere la sua battaglia contro la minoranza di Trotskij, ma avesse teso a «stravincere». Gramsci ha utilizzato a questo proposto vari testi: uno scritto su Benedetto Croce e il materialismo storico, il Canto X dell’Inferno, (quello di Farinata degli Uberti, ma Gramsci per far sapere al partito il suo pensiero sulle posizioni del Comintern ha posto al centro la figura di Cavalcanti), e, ancora, una finta recensione alla Storia d’Europa di Croce. Quel che viene fuori, attraverso il lavoro di decodificazione delle «lettere» e l’analisi di alcuni documenti sin qui inediti - prima di tutto il Rapporto steso da Gennaro Gramsci che era stato incaricato dal partito di informare il fratello sulle ultime scelte del partito - è il quadro complessivo delle divaricazioni che si erano progressivamente venute a creare fra il prigioniero e il Pci.

Queste divaricazioni riguardavano soprattutto il giudizio sul fascismo e sulla tattica per combatterlo: erano ancora valide le Tesi di Lione del gennaio 1926 nelle quali, seppure entro il quadro di una situazione italiana definita «prerivoluzionaria», si poneva al centro la questione dell’unità classe operaia- proletariato agricolo-contadini, con le scelte politiche conseguenti (dialogo e intesa con socialisti e socialdemocratici per dar vita al «fronte unico») oppure occorreva far propria la linea del Comintern (1928) e soprattutto del X Plenum (luglio 1929) sulla «Terza fase», con le parole d’ordine della «crisi generale del capitalismo», della «classe contro classe» e del «socialfascismo»?

Gramsci si pronunciò sempre per la validità delle tesi di Lione e dunque contro il Comintern e contro la «traduzione italiana» della «terza fase» avviata dal Pci nel 1929 con la «svolta», e alla fine parlò dell’Assemblea Costituente, e dunque di una battaglia da condurre per obiettivi democratico-borghesi nelle condizioni del pluralismo e del pluripartitismo politico, come di un obiettivo valido non già dopo la caduta del fascismo ma negli anni stessi del fascismo, utilizzando le occasioni fornite dal confronto che si era aperto sui temi del corporativismo.

A dare organicità alla lotta politica di Gramsci c’era - va ancora detto - una concezione dell’egemonia che si distaccava fortemente dai moduli, allora imperanti, della «dittatura del proletariato», e - ancora - c’era una esplicita dichiarazione di condanna del marxismo sovietico considerato alla stregua del «teologismo medievale». Rottura netta, insomma, col Comintern e col Pci che è diventata anche grave e irreparabile rottura personale con Togliatti, ma che non ha però impedito a quest’ultimo - come i due autori riconoscono ampiamente - di guardare a quel che Gramsci produceva in carcere come ad un patrimonio prezioso da salvaguardare per il futuro, e non solo per il partito.

La svolta verso la rottura radicale ha preso avvio - come si sa - con la «famigerata» lettera di Grieco del 1928 interpretata da Gramsci, per il fatto che con essa il partito lo indicava come il capo del Pci, come il momento di avvio di una iniziativa diretta, consapevolmente o inconsapevolmente, a trattenerlo in carcere. Ed è continuata, sempre secondo Gramsci, col ritardato e in più di un caso il mancato sostegno da parte del partito alle diverse vie - ultimo il «tentativo grande» - studiate e tentate da Gramsci per ottenere la liberazione.

Per quel che riguarda l’impatto che le differenzazioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime fascista hanno avuto sulla questione della liberazione di Gramsci è presto detto: scartata sin dal primo momento la via della richiesta di grazia, l’unica possibilità per uscire dal carcere consisteva per Gramsci nel puntare sul riavvicinamento che si stava verificando fra l’Urss e l’Italia fascista, entrambe preoccupate per l’ascesa di Hitler. Trattativa diretta fra due Stati impegnati nella preparazione di un «Patto di non aggressione» dunque, tenendo all’oscuro il partito, tanto più che quest’ultimo stava in quella fase chiedendo la liberazione dei prigionieri politici dalle carceri fasciste attraverso manifestazioni e campagne di stampa. Con iniziative cioè che - pensava Gramsci - non avrebbero potuto che irrigidire le posizioni di Mussolini.

Se si prende in considerazione nel suo insieme l’atteggiamento tenuto dal Pci nei confronti del problema della liberazione di Gramsci si può ragionevolmente pervenire alla conclusione, come fanno i due autori, che le preoccupazioni e anche i sospetti di Gramsci, erano in parte giustificati. Se però si guarda a come si sono svolti i fatti non si può non rilevare il peso che hanno avuto, insieme alle divergenze, le incomprensioni dovute all’accumularsi senza tregua di equivoci, di informazioni parziali o del tutto errate che non hanno consentito alle parti di avere incontri chiarificatori. Basti dire, nell’ordine, che la «famigerata» lettera di Grieco che tanti sospetti ha generato in Gramsci, non ha avuto nessun peso nel determinare la condanna (non figura neppure negli atti processuali) e, per quel che riguarda il suo contenuto, non è certo attraverso di essa che gli inquisitori hanno appreso che gli imputati che avevano di fronte erano i dirigenti al massimo livello del partito. A spingere poi il Pci a far propria la campagna avviata a Parigi, sulla base di documenti che illustravano le condizioni di salute di Gramsci, per la liberazione dei prigionieri politici in Italia, non è stata una scelta di Togliatti, ma un complesso di circostanze che hanno preso il via da un’iniziativa della Concentrazione antifascista.

Va infine ricordato che anche Togliatti pensava che le Tesi di Lione (delle quali era stato coautore) non avessero perso di significato dopo il X Plenum del Comintern e, come Vacca ha ampiamente dimostrato già in un libro precedente, la sua analisi del fascismo presenta indubbie affinità con quella di Gramsci. Quel che soprattutto ha distinto i due dirigenti è stato l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Urss. Da una parte c’era il «realismo» di Togliatti che ha spinto quest’ultimo a schierarsi con l’Urss di Stalin anche quando diverse da quelle imposte da Mosca erano le sue convinzioni. E questo perché non vedeva altra scelta nel momento in cui in Europa si trattava di fronteggiare il fascismo. Dall’altra parte c’era il «non realismo» (ma forse, proprio perché fondato su una scelta non di «campo» ma di collocazione ideale eticamente oltreché politicamente fondata, è possibile parlare di «realismo» altro, superiore) di Gramsci.

Del tutto oziosa, almeno nel momento in cui siamo di fronte al problema di ricostruire una vicenda, è chiedersi adesso chi avesse ragione.

La gestione di Togliatti della «questione Gramsci» non è certo - come si è visto - esente da critiche. Non si può però dimenticare che - come è ricordato nelle ultime pagine del libro - a decidere sulla sorte di Gramsci sono stati Mussolini e Stalin. Poco prima che Litvinov giungesse a Roma per la firma del «Patto», Gramsci era stato portato - e forse perché Mussolini si proponeva di utilizzare la carta della liberazione dell’uomo che aveva fatto condannare a 20 anni di reclusione - da Turi al carcere presentabile di Civitavecchia. Ma per Stalin Gramsci era evidentemente ancora quello della lettera del 1926, un «trotskista». Meglio lasciarlo in carcere in Italia. Avvenne così che quando il ministro degli esteri sovietico incontrò Mussolini non fece cenno della questione. E quest’ultimo non aggiunse verbo.

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.36   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 28, 2007, 04:33:06 pm »

Così hanno fatto morire mio padre
Antonio Gramsci Junior


Ormai tutto è passato, sento la voce di papà che mi dice: «Lascia stare, figliolo!» e io gli rispondo: «Scusa, babbo, su certe cose non posso tacere». Questo scambio di repliche accadeva spesso nella nostra lunga vita insieme. Lui, con la sua anima dolce, incapace di odiare niente e nessuno, quasi sempre frenava i miei violenti impulsi di ribellione alle ingiustizie.

Quando è stato portato nel primo ospedale (ospedale clinico centrale del Ministero delle ferrovie) non lo volevano accogliere subito perché non erano ancora arrivati i documenti con la conferma del prepagamento. Vedevo quegli sguardi freddi e annoiati del personale dispiaciuto per il fatto che avevano portato un malato così grave proprio a loro. Il mio babbo intanto disidratato (un giorno prima aveva perso la capacità di ingoiare) e con la febbre aspettava la clemenza dei medici nel corridoio freddo e umido a due passi dal reparto rianimazione ben attrezzato. Circa mezz’ora dopo i documenti sono arrivati e il corridoio si è illuminato subito di sorrisi gentili e compassionevoli dei medici.

I loro volti rispecchiavano la spiritualità e la profondità dell’anima russa così ben descritta dai nostri classici e di cui nessun altro popolo si permette di vantarsi.

Adesso sapevano che dei quattrini ne avrebbero avuti. Giuliano ha cominciato a ricevere tutte le cure necessarie. Dopo quattro giorni di ricovero nel reparto della terapia intensiva il babbo ha cominciato a sentirsi meglio: la febbre è passata, le funzioni vitali si sono stabilizzate. Si è deciso di ricoverarlo nel reparto psicosomatico dell’ospedale clinico centrale dell’apparato del presidente per concentrarsi sui suoi mali di questa natura. Durante il trasferimento nell’autoambulanza Giuliano si è sentito male: a Mosca faceva caldo e il viaggio nel lettino per le famose strade russe con grande velocità non è un’esperienza piacevole. Quando la macchina è arrivata a destinazione si è ripetuta la stessa storia orripilante: i medici dell’ospedale aspettavano impassibili l’arrivo della documentazione necessaria (si trattava come prima della conferma di prepagamento) e non hanno fatto nulla per salvare Giuliano (quelli dell’ambulanza lottavano coraggiosamente per la sua vita ma non avevano tutte le attrezzature necessarie).

Questa volta il babbo non ha resistito. È morto soffocato a pochi metri dall’apparato della respirazione artificiale e di altre attrezzature di cui aveva tanto bisogno. Io purtroppo lo aspettavo in un altro reparto seguendo le indicazioni sbagliate dell’agente d’assicurazione.

Ho trovato il babbo appena esalato l’ultimo respiro giusto in tempo per chiudergli gli occhi. Il personale dell’ospedale ha preferito non farsi vedere. L’agente di assicurazione responsabile del disordine con la documentazione mi ha dato indicazioni brevi su dove portare il corpo e poi è partito in gran fretta. I poveri medici dell’autoambulanza, brava gente, si sono assunti tutte le responsabilità dell’incidente e hanno provveduto a portare Giuliano nell’obitorio più vicino. L’agente a cui dovrei consegnare 1600 euro per la cura di quattro giorni precedenti è sparito e non si è fatto ancora vivo.

Così funziona la sanità nel nostro Paese di cuccagna. Le cose impossibili e impensabili nell’Unione Sovietica sono diventate norme di vita nella Russia odierna dove il popolo sotto l’occhio vigilante del nostro bravo governo al ritmo di una marcia vivace sta recuperando la spiritualità ortodossa. Io non voglio fare l’inchiesta perché sono stanco e non posso resuscitare mio padre. Mi conforta un po’ il pensiero che il babbo è stato furbo a scegliere il momento giusto per spirare quando nessuno poteva disturbarlo perché era stufo delle innumerevoli manipolazioni con il suo corpo.

Adesso ha finalmente ritrovato la pace che ha ambito in questi ultimi due mesi di sofferenze.

A nome di tutta la nostra famiglia voglio ringraziare con il cuore riconoscente la cara amica Sandra Amurri, il partito e il suo segretario Fassino che ci ha sostenuti in questo difficile momento e in particolare Massimo D’Alema che ha seguito personalmente la vicenda. Voglio ringraziare ancora gli amici Giorgio Cisbani e Stefano Angelini che hanno organizzato l’aiuto immediato a mio padre. Voglio esprimere la massima riconoscenza anche a Vittorio Torrembini e all’ambasciata italiana a Mosca.

La loro disponibilità mi ha fatto sentire vicina la mia tanto amata Italia in questi giorni di strazio.


Pubblicato il: 28.07.07
Modificato il: 28.07.07 alle ore 11.57   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 18, 2007, 06:25:52 pm »

Gramsci: «Cara Julca l’avversario va salvato»

Antonio Gramsci Jr.


Devo confessare che prima del crollo dell’Unione Sovietica non nutrivo un interesse particolare per mio nonno. Nell’Urss si prestava poca attenzione alla figura di Antonio Gramsci. Tutti conoscevano Palmiro Togliatti che impersonava la leadership storica del movimento comunista italiano. Nei libri scolastici a Gramsci erano dedicate solo poche righe dove lui veniva presentato piu’ come martire del regime fascista e molto meno come pensatore e dirigente politico. In Russia sono state pubblicate solo poche opere di Antonio Gramsci, soprattutto i suoi scritti politici del periodo precarcerario. Io, tipico ragazzo sovietico, essendo già allergico all’abbondante propaganda ufficiale non potevo interessarmi ad argomenti del genere. In quell’epoca non conoscevo l’italiano e non potevo leggere le sue lettere che mi avrebbero permesso di sentirlo come un membro della nostra famiglia.

Tutto cambiò dopo il ’91, l’anno cruciale per la mia vita perche coincise con due grandi eventi - il centesimo anniversario della nascita di Antonio Gramsci e la disgregazione dell’Unione Sovietica. Il mio viaggio in Italia del ’91, durato quattro mesi, organizzato dalla Fondazione Gramsci, lo si puo confrontare con il primo viaggio della stessa durata che effettuò mio padre Giuliano nel ’48 quando lui aveva piu o meno la mia stessa età. Anch’io come mio padre in questo periodo pieno di eventi di ogni genere mi sono fatto permeare dalla cultura italiana e mi sono reso conto dell’importanza del nonno.

Poi negli anni successivi il mio interesse per il suo pensiero crebbe sempre piu anche perche attraverso le sue opere ho cercato di capire che cosa fosse successo nel il mio Paese. Non sono diventato studioso di Gramsci occupandomi in primo luogo di musica, pero la mia base mentale e’ sensibilmente cambiata.

Per quanto riguarda invece la famiglia Schucht cioè la famiglia di mia nonna Giulia, preziosa compagna di Antonio, ho avuto un’altro percorso per conoscerla meglio.

Tre anni fa è cominciata la mia collaborazione con la Fondazione Gramsci che mi ha chiesto di cercare nuovi documenti che riguardassero la storia del Pci negli anni venti e il carteggio di Tatiana Schucht degli anni trenta. Scavando nel nostro archivio famigliare e imbattendomi in documenti interessantissimi ho riscoperto la mia famiglia. I miei antenati erano molto puntigliosi nel conservare tutte le carte e così man mano che le mie ricerche andavano avanti, al mio sguardo si apriva una saga epica i cui limiti temporali si proiettavano oltre il settecento e di cui anch’io ho sentito di essere uno dei protagonisti. Un materiale così affascinante non poteva che suscitare una forte ispirazione e così ho cominciato a scrivere la storia famigliare. La prima versione è stata pubblicata nel secondo numero di quest’anno della rivista Italiani Europei. Non voglio parlare ora di questo mio scritto che potrete leggere. Vorrei solo sottolineare un aspetto originale del mio saggio: ho fatto uscire dall’ombra la figura di mia nonna perche in tutte le biografie di Gramsci il personaggio di Giulia rimane sempre sfocato a causa di una carente conoscenza della sua vita e una interpretazione non veritiera, a mio parere, di alcuni tratti della sua personalità.

Poco tempo fa ho trovato una raccolta di brutte coppie delle lettere che Giulia ha mandato ad Antonio, la maggior parte delle quali è sconosciuta. Queste lettere anche se non sono tante come nel caso del carteggio di Tatiana, sono particolarmente importanti perche sembra che a tutte quante mio nonno abbia risposto. Così le lettere di Antonio Gramsci a Giulia alcune delle quali sono molto famose acquistano una nuova risonanza e permettono di capire meglio la sua personalità e il suo pensiero.

È molto curiosa una delle prime lettere, forse addirittura la prima, dove lei lo chiama «professore». Giulia è ancora molto indecisa, vuole essere brava nella scrittura e spiritosa. Stende ben tre brutte copie prima di scrivere la lettera che purtroppo non si è conservata.

«Professore, ho “trovato il sole” oggi. Da quando sono ritornata ad Ivanovo fa un tempo brutto, grigio... Dieci giorni!... Mi sono anche trovata alla conferenza provinciale della gioventù comunista (nel paese delle mummie vivono dei giovani).

Che cosa ho fatto altro? Niente. Lei avrà lavorato oggi... Al Comintern, su un articolo, o a Serebjanyi Bor ad una ruota? Sarei contenta di vedere come, per costante eroismo del coltello e del compagno Gramsci, scricchiolano due ruote coi raggi... uniche al mondo, da quando e’ mondo e crollano stati borghesi...». Un altro documento testimonia la prima lezione politica che ha ricevuto Giulia, la giovane bolscevica dal dirigente comunista italiano. «Lui» (Antonio Gramsci) dice: «Nella società convivono contemporaneamente elementi giovani, maturi e vecchi e conformemente a questa convivenza noi vediamo in essa partiti radicali, liberali, conservatori e assolutisti. Con ciò predominano quelli i quali s’avvicinano di più al carattere e al temperamento del popolo. L’esistenza di tutti questi partiti è inevitabile; la vita dello stato deve seguire la risultante delle forze da essi sviluppate ed il politico ragionevole anche lottando contro di essi non deve mai cercare di annientare assolutamente qualcuno di essi perche una tale meta è inaccessibile e la sua realizzazione non può che ricacciare la malattia nell’interno dell’organismo... La scienza borghese non dà una giusta definizione della parola “partito”». Poi ci sono bellissime lettere degli anni 23-25, il periodo piu felice per la coppia e quelle struggenti e malinconiche del periodo carcerario dove Giulia descriveva minuziosamente le vicende della famiglia e i progressi dei bambini. Ne cito alcune.

11.04.24
«Oggi sento che il mio amore non è più quello di una bambina la quale ha bisogno di una mano che le accarezzi gli occhi per nasconderle il mondo grande e terribile e farle dimenticare le sue angosce, perche questa mano mi dà coraggio e coscienza per vincerle».

10.02.25
«Ho saputo che i giorni sono nuovamente diventati delle settimane... perdo il senso della realtà, so che avrò delle forze sufficienti per aspettare, per vivere, per lavorare, ma ho bisogno di gioia...».

15.03.34
«Giuliano dice che quando sarà grande, diventa giardiniere ed io sarò sempre sua mamma e vivrò insieme con lui, coi suoi fiori e le sue mele... Qualche giorno fa abbiamo comprato con lui un giacinto e lui lo portava, tutto contento, a casa...

Antonio, quali fiori hai tu vicino, o forse anche nella camera? Scrivimi, ti abbraccio stretta, Giulia».
14.08.35

«Delio poco prima di mezzanotte si è svegliato... mammina, che ora é?...sono quasi le cinque...dunque, ho undici anni! Giuliano, svegliati, tieni! E le mele, i confetti volavano».
27.09.35

«So che sono cambiata, meno bambina... Lo sento quando ascolto la musica... Delio una sera ha messo una fotografia sotto il cuscino: “Forse lo vedrò nel sogno”. Cerca di trovare un contatto con te e tu gli dici sempre che fa male, va male... È molto sconfortato... Tu gli sembri un’autorità».

14.01.37
«Giuliano era contento di avere una lettera, voleva mandarti un regalo, scrivere... Ma quando gli hanno detto che tu vuoi sapere che cosa egli sa fare, ha sospirato e disse: “Non mi piace fare cose serie”...».

L’altro ritrovamento interessante, anche se di minore portata, sono le lettere di mio padre Giuliano a mio nonno Antonio, che pure hanno avute risposte.

Tutte queste lettere ed anche altri documenti importanti tra cui le bellissime memorie di Eugenia Schucht sui rapporti della famiglia con Lenin faranno parte dell’appendice del libro che avrà il titolo La Russia di Gramsci. L’album famigliare degli Schucht. Lo sto scrivendo insieme al direttore della Fondazione Gramsci professore Silvio Pons e spero sarà pubblicato all’inizio del prossimo anno.


Pubblicato il: 18.10.07
Modificato il: 18.10.07 alle ore 13.10   
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 17, 2007, 03:28:19 pm »

Gramsci e Schucht Amore e rivoluzione

Antonio Gramsci Jr.


Ogni volta, quando passo vicino al Mausoleo di Lenin, cerco di accelerare i passi e di allontanarmene al piu presto possibile. Non sono riuscito mai in tutta la mia vita a sopraffare un senso di ribrezzo e di orrore. Nel vedere come - esposti agli sguardi spietatamente curiosi - giacciano i resti inermi di quello che una volta era il caro amico della nostra famiglia. Tutto comininciò nel lontano 1887, quando nella casa penale di San Pietroburgo si incontrarono due donne, Otillija Winterchalter e Maria Uljanova. La prima era la madre di Apollo Schucht, mio bisnonno. La seconda, quella di Aleksandr Uljanov, fratello di Vladimir, futuro Lenin. I due giovani rivoluzionari reclusi, erano strettamente legati alla «Narodnaja Volja», ma i loro impegni in questa organizzazione sovversiva erano diversi. Aleksandr apparteneva all’ala terroristica che fra l’altro preparava l’attentato allo zar Alessandro III. Apollo si occupava della propaganda marxista nei circoli rivoluzionari militari, alla cui formazione egli si dedicò all’inizio degli anni ottanta durante gli studi nel ginnasio militare. L’obiettivo di questi circoli lo ha descritto molto chiararamente lo stesso Apollo nelle sue memorie: «Poiché dopo il 1881 Narodnaja Volja non poteva seguire lo stesso percorso (in quell’anno fu ucciso lo zar Alessandro II, dopo di che il governo scatenò la rappresaglia contro i rivoluzionari), tutti quelli che volevano continuare la lotta comininciarono a cercare altre vie. Una di queste consisteva nella ricerca tra i quadri militari delle persone giuste. Dopo la loro preparazione adeguata si poteva sperare che al momento giusto (la rivoluzione) essi avrebbero sostenuto la nostra causa...».

Dopo il processo sommario Aleksandr fu impiccato, Apollo invece fu condannato all’esilio in Siberia dove lo seguì la moglie Giulia con due figlie. Dopo tre anni di esilio la famiglia si trasferì a Samara, una bellissima città sul Volga, dove gia abitava Vladimir Uljanov con sua madre e sorelle. Tra le due famiglie nacque subito una calorosa amicizia. Nel 1893 gli Schucht emigrarono, però non persero i contatti con gli Ulianov. Lenin veniva spesso a trovare Apollo in Svizzera. Vedeva crescere mia nonna Giulia e le sue sorelle. Di una di esse, Asja era stato addirittura il padrino. La sorella maggiore di Giulia, Eugenia, forse «la più bolscevica» di tutta la famiglia, ricorda nelle sue bellissime memorie le monellerie infantili dello «zio Vladimir» durante la festa nazionale a Ginevra nel 1905. Quest’immagine di Lenin mascherato da orso che cosparge i bambini di confetti e li fa crepare dalle risate è discordante con quell’altra, scoperta nelle «nuovissime ricerche» dei nostri bravi storici, di una persona tetra e completamente priva del senso di umorismo. Nel 1916, probabilmente su richiamo di Lenin, Apollo ritornò in Russia dall’emigrazione. Essendo un bravo amministratore diventò ragioniere nella sezione del Partito a Mosca. Subito dopo la rivoluzione Lenin lo nominò commissario responsabile della nazionalizazione delle banche. E lo stesso Apollo ricorda che «a tutti i dipendenti che acconsentivano di collaborare con le nuove autorità, furono concessi gli stessi incarichi che avevano prima». Lenin a differenza da Stalin trattava sempre con il massimo rispetto i vecchi specialisti disposti a collaborare.

Nel 1919 Lenin scrisse la raccomandazione per Eugenia Schucht per la sua iscrizione al Partito. In seguito lei diventò segretaria di Krupskaja nel Comissariato (ministero) dell’Istruzione popolare. Dopo la morte di Lenin Apollo e Eugenia continuarono i rapporti con le sue sorelle, soprattutto con Anna Uljanova che spesso aiutava gli Schucht nei momenti difficili. Insieme ad Anna, Eugenia cominciò a tradurre le opere di Lenin in italiano. Negli anni trenta, quando Stalin si liberò di quasi tutti gli amici di Lenin, la famiglia Schucht invece fu risparmiata, probabilmente grazie alla parentela con Antonio Gramsci (il trattamento della famiglia Schucht da parte di Stalin, è esaminato nel libro di Giuseppe Vacca e Angelo Rossi Gramsci tra Mussolini e Stalin).

Anche mio nonno Antonio Gramsci ebbe occasione di conoscere Lenin personalmente. Stranamente questo fatto della vita di Gramsci sembra essere sconosciuto ai suoi biografi italiani. La notizia sul loro incontro si trova invece in un volume delle cronache biografiche su Lenin. In quel tempo nonostante la grave malattia Lenin seguiva con attenzione le vicende italiane e non rinunciava a qualche colloquio su questioni internazionali di cui desiderava informazioni dirette dai compagni da lui particolarmente stimati. Non gli potè sicuramente sfuggire il fatto che Gramsci aveva conosciuto i suoi vecchi amici Schucht. L’incontro avvenne il 25 novembre del 1922, alle ore 18, nell’ufficio di Lenin al Cremlino. Su questo incontro abbiamo un’altra testimonianza importante riferita nella lettera del 1972 di Camilla Ravera a mio padre Giuliano: «Caro Giuliano, circa l’incontro di Gramsci con Lenin a cui accenni, e di cui desideresti qualche particolare, non posso dirti molte cose. Gramsci si riferì spesso a quell’incontro nel corso delle lunghe conversazioni che io ebbi con lui durante la mia permanenza a Mosca, ma sempre accennandovi in rapporto alle questioni politiche di cui in quel momento particolarmente ci occupavamo. Non ricordo, ad esempio, se mi disse la data precisa di quell’incontro; o altri particolari circa il luogo e il modo, che dovettero essere poco diversi da quelli dell’incontro con Lenin che nei primi giorni del novemre potemmo avere Bordiga ed io... Durante quelle nostre conversazioni Gramsci mi disse di aver espresso a Lenin il suo profondo dissenso con Bordiga, non soltanto sul problema dei rapporti con il Partito Socialista, ma sul giudizio del fascismo, della situazione italiana, delle sue prospettive... «Lenin, mi diceva Gramsci, conosce le cose nostre assai più di quanto supponiamo»...Lenin volle conoscere direttamente il pensiero di Bordiga sui nuovi avvenimenti italiani....Ascoltò con evidente meraviglia le sue opinioni, rigide ed astratte (invece due anni prima Lenin sanzionò la rottura a sinistra ideata da Bordiga) ...Forse, da quella conversazione avuta con Gramsci e dalla seguente con Bordiga, può essere derivata - in Lenin e nell’Internazionale - la decisione, presa dopo breve tempo che Gramsci, non rientrasse in Italia, ma si riavvicinasse al Partito, trasferendosi a Vienna, con un proprio ufficio, e là riprendesse la pubblicazione della rivista L’Ordine Nuovo; e quel lavoro verso i compagni che - svilluppato poi successivamente nell’azione politica in Italia - portò al superamento del bordighismo...». Da questa testimonianza possiamo supporre che Lenin, con il suo intuito infallibile, dando piu ragione a Gramsci, decise di promuoverlo al leader del Partito Comunista Italiano.

Pubblicato il: 17.12.07
Modificato il: 17.12.07 alle ore 8.51   
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