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Autore Discussione: Tra coalizione e lista-pigliatutto così il referendum spaventa la Lega  (Letto 2466 volte)
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« inserito:: Aprile 13, 2009, 03:06:15 pm »

Se si fosse votato con la normativa che uscirebbe da una vittoria del "sì"
Nel 2008 il Pdl avrebbe conquistato da solo la maggioranza

Tra coalizione e lista-pigliatutto così il referendum spaventa la Lega

I promotori vogliono ottenere una spinta formidabile al bipartitismo.

Le forze minori diventerebbero ininfluenti

di SEBASTIANO MESSINA

 
 ROMA - Qualunque data, tranne il 6-7 giugno. Su questo, sussurranno al Viminale, il ministro Maroni è irremovibile. Ma perché il referendum sulla legge elettorale allarma così tanto il governo, al punto da spingerlo a mettere in calendario - cosa mai successa prima - perfino tre domeniche al seggio una dopo l'altra, con il trasparente obiettivo di far passare agli elettori la voglia di andare alle urne? E' davvero così importante, la posta in gioco?

Andiamo a vedere cosa ci sarà scritto nella scheda del referendum, anzi dei referendum perché i quesiti sono tre. I primi due sono identici, ma uno riguarda la legge elettorale della Camera e l'altro quella del Senato. Propongono di assegnare il "premio di maggioranza" in seggi non alla coalizione vincente ma al partito che ottiene più voti. Ora, quando le richieste di referendum vennero depositate (2007, governo Prodi) il centro-sinistra era composto da 15 partiti e il centro-destra da 14. Nelle politiche del 2008 la situazione è drasticamente mutata: i tre partiti pro-Berlusconi (Pdl, Lega e Mpa) contro i due partiti per Veltroni (Pd e Idv), più l'Udc di Casini. Si potrebbe dedurne che il principale obiettivo del quesito referendario, quello di sfoltire il numero dei contendenti, sia stato raggiunto, e che a questo punto assegnare i seggi-premio a un solo partito anziché a due o tre non cambierebbe granché. Non è così. La vittoria del Sì rappresenterebbe il passo decisivo verso una democrazia non più bipolare, ma bipartitica.
Se si fosse votato con il meccanismo referendario, nel 2008, il Pdl di Berlusconi e Fini avrebbe ottenuto da solo la maggioranza parlamentare (340 deputati) garantita dal "premio" in seggi. Se però Veltroni e Di Pietro avessero presentato una lista unica, anziché due apparentate, avrebbero conquistato loro quei 340 seggi, sia pure con un vantaggio risicatissimo sul Pdl (37,6 per cento contro 37,4). E' comunque probabile che di fronte a questa prospettiva anche Bossi e Lombardo avrebbero accettato una confluenza in una lista unica del centro-destra, e in questo caso non sarebbe cambiato nulla rispetto all'attuale composizione del Parlamento. Salvo un dettaglio, non proprio marginale: oggi a Montecitorio ci sarebbero tre soli partiti: centro-destra, centro-sinistra e centristi.

Il principale effetto dei referendum sarebbe dunque quello di dare una formidabile spinta verso il bipartitismo. Nulla, sia chiaro, impedirebbe la formazione di liste-contenitore destinate a sciogliersi subito dopo il voto, come avvenne nel 1994 con la lista "Progressisti" a sinistra e con quelle del "Polo del buongoverno" e del "Polo della libertà" a destra. Ma i referendari spiegano che "quei partiti che si sono presentati agli elettori come un soggetto unico alla fine diventano una cosa sola", e si trasformano inesorabilmente in un unico partito. Come dimostrano del resto l'esperienza di Forza Italia e di An da una parte, e quella di Ds e Margherita dall'altra.
Si capisce che la prospettiva del bipartitismo non piaccia affatto a chi dovrebbe accettare una confluenza forzata, come Bossi e Lombardo, mentre Di Pietro - che del bipartitismo è stato in passato un appassionato sostenitore - potrebbe forse approfittare del suo crescente peso elettorale per rinegoziare da posizioni di forza una fusione con il Pd.

Un effetto secondario dei primi due quesiti sarebbe poi quello di rendere definitivamente impossibile l'aggiramento della soglia di sbarramento (4 per cento alla Camera, 8 per cento al Senato) oggi consentito ai piccoli partiti come l'Mpa che entrano nelle coalizioni maggiori.

C'è infine il terzo quesito. Prevede il divieto di candidarsi in più di una circoscrizione, una novità che non inciderebbe sulle dinamiche di partito ma sulla selezione della classe politica. L'anno scorso Berlusconi e Fini si candidarono in tutte le 27 circoscrizioni, ma anche Veltroni, Casini, Bossi e Di Pietro aprirono le liste dei rispettivi partiti in molte regioni. Nomi-richiamo che poi sono stati rimpiazzati, in Parlamento, dai "primi dei non eletti", candidati spesso semi-sconosciuti.

Dei tre quesiti, questo è quello che piace meno a Berlusconi. Gli altri due non gli dispiacciono affatto, perché gli aprirebbero la strada verso la conquista del 51 per cento. Ma questo il premier non può dirlo, perché non vuole assolutamente irritare Bossi e rischiare una crisi di governo. Fini è invece apertamente a favore dei referendum, essendone stato uno dei primi firmatari. E' probabile dunque che il Pdl eviti di schierarsi, lasciando libertà di voto ai suoi elettori, mentre a fare campagna per il Sì - con Segni e Guzzetta - resterebbero solo il Pd e forse Di Pietro.
Bossi, Casini, Ferrero, Storace e gli altri irriducibili avversari del bipartitismo puntano naturalmente sull'astensione, e questo spiega perché Maroni - ministro leghista dell'Interno - si sia finora opposto con tutte le sue forze all'inserimento del referendum nell'"election day" del 7 giugno, che sarebbe la soluzione più razionale. Una decisione che costerebbe allo Stato, secondo i referendari, 400 milioni, però renderebbe più seducente per molti italiani l'invito di Bossi a disertare le urne referendarie per andare al mare. Lo stesso consiglio che il senatùr diede 18 anni fa, alla vigilia del referendum sulla preferenza unica. Allora, però, gli andò male.

(11 aprile 2009)
da repubblica.it



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« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2009, 12:37:55 am »

Il compromesso tra Pdl e Lega lascia una ferita non rimarginata

15 aprile 2009
 

Su un punto nessuno ha dubbi. Non ci sarà, è ovvio, una crisi di governo sulla data del referendum. I margini per un compromesso nella maggioranza sono abbastanza evidenti: il 21 giugno, quando si voterà per il secondo turno delle amministrative, ci si esprimerà anche sul quesito Guzzetta-Segni. Si risparmierà qualcosa, comunque meno di quanto si sarebbe ricavato dall'altra ipotesi: fissare il referendum nei giorni (6-7 giugno) in cui si voterà per le europee. Che era poi la soluzione gradita al comitato referendario, non tanto per via dei milioni da destinare all'Abruzzo terremotato, quanto per la garanzia che il voto europeo avrebbe trainato in alto, come un ascensore, il "quorum" indispensabile per rendere valida la consultazione.

In altre parole, si è giocata e ancora si sta giocando una partita tutta politica. Il risparmio del pubblico denaro c'entra poco. O meglio, c'entra come argomento forte di cui i politici in questo momento di desolazione devono tener conto. Ma le carte sparse sul tavolo raccontano un'altra storia. Peraltro, una storia non banale in cui ogni soggetto ha recitato una parte ben definita. Perché in palio ci sono il futuro immediato della legislatura e l'assetto del sistema bipolare.

Il Pd di Franceschini si è inserito bene nelle contraddizioni del rapporto fra Lega e partito berlusconiano. Lo aveva già fatto con successo nella faccenda delle ronde e dei centri per gli immigrati. Alzando la bandiera dei 400 milioni da risparmiare ha messo in qualche difficoltà Berlusconi proprio nei giorni in cui il premier godeva della massima popolarità per lo zelo dimostrato tra le macerie dell'Aquila. Non che il Pd sia appiattito sulla linea del comitato Guzzetta-Segni: al contrario, il referendum suscita entusiasmi limitati, più che altro nella minoranza prodiana e tra gli ultimi seguaci di Veltroni. Ma Franceschini l'ha usato come arma politica contro il centrodestra e i fatti gli hanno dato ragione.

Berlusconi, dal canto suo, ha avuto la tentazione di sfruttare il referendum per assestare un colpo mortale alla Lega. Il sogno di un Popolo della Libertà da solo al 51 per cento, annunciato con fare vagamente minaccioso al congresso, si avvicinerebbe di colpo se passasse la modifica elettorale propugnata da Segni. Una vittoria del quesito referendario renderebbe la Lega ornamentale e offrirebbe un ottimo argomento per un anticipo delle elezioni nel giro di un anno. Ma si tratta, appunto, di sogni. Se il premier avesse voluto realizzarli, gli sarebbe bastato insistere per un accorpamento del referendum con le europee del 6-7 giugno. La Lega non avrebbe retto il colpo e si sarebbe andati alla resa dei conti. Con il coltello dalla parte del manico nelle mani del presidente del Consiglio.

Naturalmente questo non accadrà, per varie ragioni. La principale è che Berlusconi, in fin dei conti, è un uomo prudente, meno disponibile alle avventure di quanto non si pensi. Il suo obiettivo era ed è quello di fare un po' di paura a Bossi e Calderoli, dimostrare loro chi comanda nel centrodestra. Non aveva e non ha intenzione di procedere contro il Carroccio a una guerra di annientamento, il cui risultato tra l'altro non sarebbe sicuro nelle regioni settentrionali. La vicenda si conclude quindi con un compromesso, ma la ferita tra il Pdl e la Lega resta. E non è destinata a rimarginarsi. Anche perché il Popolo della Libertà è ormai un partito meno "nordista" di quanto non fosse Forza Italia al suo esordio. Ora il resto della partita è nelle mani degli elettori. Ma il "quorum" del 50% è avvolto nelle nebbie. Almeno quanto l'illusione di realizzare in un attimo il perfetto bipartitismo in Italia.
 

da ilsole24ore.com

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