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Autore Discussione: Ferruccio DE BORTOLI  (Letto 23623 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 20, 2011, 09:31:16 am »

LA SCELTA PER VIA NAZIONALE

Come pasticcio un capolavoro

Una vicenda surreale. La nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia non solo non è stata sottratta a un vergognoso gioco di veti incrociati della politica italiana, ma rischia di concludersi con l'indicazione di un candidato agevolata da un ultimatum del presidente francese. Questo senza nulla togliere alle qualità indiscusse di Lorenzo Bini Smaghi, membro della Bce che - secondo gli accordi italo-francesi - avrebbe dovuto dimettersi dall'incarico prima dell'arrivo di Draghi a Francoforte. Ma non lo ha fatto, eccependo fondate ragioni legate alla indipendenza dell'organismo. È lecito chiedersi se, senza il diktat di un irascibile Sarkozy, l'esito sarebbe lo stesso. Certo, l'Eliseo non accetta l'idea di avere dal primo novembre un consiglio con due italiani e nessun francese. Ma qualcuno forse potrebbe far notare a Sarkozy che tra l'uscita di Noyer dalla Bce nel giugno del 2002, destinato alla Banque de France, e l'arrivo di Trichet alla presidenza, trascorse un anno e mezzo. Difficile però tener testa a un leader che nel momento in cui ha appoggiato ufficialmente Draghi, si è rivolto sprezzante, e non contraddetto, a Berlusconi dicendogli: «Spero che questa nomina non dispiaccia troppo al suo ministro dell'Economia». L'avversione di Tremonti per Draghi era già di pubblico dominio e quel dualismo ha indebolito la nostra posizione all'estero al pari dell'irrilevanza dell'esecutivo sulle principali questioni europee, immagine a parte.

Il presidente della Repubblica ha seguito questa procedura di nomina con attenzione e preoccupazione. Nei limiti del suo ruolo. Ne ha parlato per la prima volta con il premier il 22 giugno. Da allora ha sollecitato una decisione autonoma e personale (così prevede la legge del 2005) da presentare al consiglio superiore della Banca, che ha potere consultivo, nel rispetto della continuità e dell'autonomia di un'istituzione di garanzia così importante per il Paese. Ma, soprattutto, ha suggerito una decisione veloce. Se il premier non si fosse baloccato fra spinte diverse - Tremonti che voleva a tutti i costi il suo direttore generale Grilli, le sollecitazioni per una scelta interna, Saccomanni -, non avremmo assistito a una sguaiata lite su un ruolo così delicato, in cui tutti i politici si sono sentiti autorizzati a dire la loro mentre a Bruxelles, dove si decidevano i destini dell'euro, eravamo semplicemente assenti. Bossi è arrivato addirittura a indicare Grilli solo perché milanese.

Fonti del governo sostengono che la scelta cadrebbe su Bini Smaghi anche per l'impossibilità di trovargli una collocazione di pari dignità. Un incarico che possa accettare per dimettersi dalla Bce, senza dare l'impressione di un'ingerenza della politica in un organo la cui indipendenza è garantita da un trattato. Insomma, un enorme groviglio. Una procedura pasticciata. Una plateale dimostrazione di mancanza di leadership e persino di dignità nazionale. Oggi vedremo quale sarà l'esito finale. Un risultato è già acquisito, purtroppo. Chiunque sarà il nuovo Governatore dovrà rimontare uno spiacevole vulnus di immagine derivato della tempestosa e farraginosa procedura di nomina. Il timore è anche quello di una serie di dimissioni (da Saccomanni a Visco) da via Nazionale, gesto estremo, sconsigliabile a funzionari dello Stato, che farebbe precipitare la farsa della nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia in un dramma istituzionale di difficile ricomposizione.

Ferruccio de Bortoli

20 ottobre 2011 08:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_20/come-pasticcio-un-capolavoro_c15fece0-fad9-11e0-b6b2-0c72eeeb0c77.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:24:57 pm »

LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA VERA

Mettere il Paese davanti a tutto

Prima il Paese. L'Italia non è la Grecia. È la settima economia al mondo, la seconda industria manifatturiera d'Europa. Ha più patrimonio che debiti. È ricca il doppio della Spagna. È perfettamente solvibile. Fine. Non merita ironie e sarcasmi. Ma il rispetto deve conquistarselo. E poi pretenderlo. Le misure che l'Europa ci chiede sono sempre state necessarie. Ora lo sono anche per gli altri, per la salvezza dell'euro. Le avessimo adottate per tempo, non correremmo il rischio di confezionarle in fretta e male. Da commissariati. Qualcuno dice: no al diktat di Bruxelles. Bene, ma non scordiamoci che: siamo un Paese fondatore dell'Unione europea; che chiediamo ogni anno 200 miliardi in prestito; che viviamo di export e moriremmo di autarchia (è già accaduto). Il resto sono chiacchiere in libertà e perniciose illusioni.

Sarà anche ingiusto, ma oggi siamo percepiti come il lato debole dell'Europa. Perché non siamo più credibili. Abbiamo annunciato per mesi provvedimenti poi smentiti o non attuati. Varato sì una manovra da 59,8 miliardi, di cui 20 però incerti, ma per la crescita, che rende sostenibile il debito, non è stato fatto finora nulla. Alesina e Giavazzi, sul Corriere , hanno proposto misure concrete. Discutiamone. Non basta una lettera d'intenti (Tremonti l'ha firmata?) per dimostrare agli altri, dopo mesi di ondeggiamenti, che facciamo finalmente sul serio. Berlusconi sembra voler sopravvivere a se stesso. Ma se non è in grado di adottare, per l'opposizione della Lega, provvedimenti seri ed equi, non solo sulle pensioni, ne tragga le conseguenze. E in fretta. Vada da Napolitano e rimetta il mandato. Esiste in Europa, piaccia o no (a noi non piace perché vi vediamo anche un pregiudizio anti-italiano) un problema legato alla persona del premier, più che al governo. E la colpa è solo sua. Il Cavaliere, con il quale la storia sarà meno ingenerosa della cronaca, è anche uomo d'azienda. Sa valutare il momento in cui è necessario mettersi da parte per salvare la sua creatura, il partito e le future sorti del centrodestra italiano. Ma prima ancora viene il Paese. Una volta tanto.

E la soluzione quale potrebbe essere? Non è semplice. Più volte, su queste colonne, si è invitato il premier a fare come Zapatero: chiedere le elezioni anticipate e dire che non si ricandiderà. L'avesse fatto, saremmo fuori dal mirino della speculazione. Come la Spagna. Oggi, davanti alla palese dissoluzione di una maggioranza, che vota la fiducia ma non governa, l'esito non potrebbe essere che quello di elezioni ravvicinate, imposte dagli eventi. Un eventuale governo Letta o Schifani, o tecnico (improbabile) di cui si parla in queste ore, si troverebbe comunque nella scomoda necessità di dare una risposta economica credibile ai mercati. E di fare scelte impopolari e costose in termini di consensi. Una proposta utile potrebbe essere quella di considerare il «pacchetto Europa» di un eventuale nuovo esecutivo come un programma bipartisan, aperto al contributo e al voto di tutti. Un'opposizione responsabile, se si trovasse al governo, non potrebbe fare diversamente su molti temi oggi in discussione. E non avrebbe più l'alibi della presenza ingombrante di Berlusconi. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di queste ore, sembrano prevalere populismo e opportunismo. Le malattie italiane sono tante, purtroppo.

Ferruccio de Bortoli

26 ottobre 2011 22:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_26/mettere-il-paese-davanti-a-tutto-ferruccio-de-bortoli_bc8b4710-ff92-11e0-9c44-5417ae399559.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:12:28 am »

Un Paese alla deriva
 
Fermare la deriva

Un Paese alla deriva È questa l'impressione che diamo all'Europa e ai mercati che continuano, come ieri, a punirci. Ricordiamoci che, con i titoli al 7 per cento, la Grecia e l'Irlanda sono saltate. Ieri a New York e a Londra erano in molti a scommettere su un nostro fallimento. Dobbiamo fare il possibile per evitarlo. Tutti insieme. L'Italia che lavora e fa il proprio dovere non lo merita.

Il governo ha le sue responsabilità. Gravi.
Anche se la crisi è globale. Dal 5 agosto, quando venne inviata la lettera della Bce all'Italia, nulla è stato fatto sul versante della crescita. L'effetto della manovra di 59,6 miliardi è in parte svanito per l'esplosione del costo del debito, in parte è ancora da realizzare. Troppi gli annunci, molte le marce indietro. Numerosi i litigi. Inspiegabili i comportamenti. Il premier straparla sull'euro, poi si corregge. Dare la colpa alla Grecia non basta, anche se Atene sceglie un referendum scellerato. Il ministro dell'Economia, Tremonti, non scrive la lettera d'intenti all'Ue e ostenta un visibile distacco. I suoi colleghi di governo e di maggioranza ne chiedono ogni giorno la testa. E chi la lettera l'ha scritta (Brunetta) si compiace dell'emarginazione del collega-rivale. Bossi blocca ogni riforma della previdenza e si inventa, alla sagra della zucca, le gabbie pensionistiche regionali. I destini personali prevalgono su quelli generali. La paura di perdere voti su quella di perdere il Paese.

L'opposizione, salvo rare eccezioni, è apparsa nei giorni scorsi più preoccupata delle idee di Renzi e della forma bizantina delle primarie che di dimostrare con proposte concrete di avere una cultura di governo europea. Le reazioni, ieri sera, all'appello alla responsabilità nazionale del capo dello Stato, sono apprezzabili. Ma non c'è un elemento della lettera della Bce che trovi totalmente d'accordo la triade di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendola).

Il tempo di Berlusconi è finito.
La resistenza del Cavaliere non ha più senso. Rischia di travolgere il suo partito - che dovrebbe spingerlo a lasciare - e soprattutto il Paese. La crisi è economica, ma anche politica legata alla sua persona. Doveva annunciare prima che non si sarebbe ricandidato e chiedere elezioni anticipate. Come la Spagna. Oggi ha davanti a sé una sola strada. Presentarsi al G20 di Cannes con provvedimenti eccezionali, immediati, ma soprattutto credibili. Con atteggiamenti individuali di governo all'altezza della drammaticità di queste ore. Dimostrare che siamo una nazione capace di onorare i propri impegni, perfettamente solvibile, affidabile. Comportarsi, insomma, da statista. Almeno all'ultimo miglio. Dall'esito, deludente, del vertice di ieri sera non si direbbe. Oppure rendere possibile subito, con un gesto responsabile, un esecutivo di emergenza - anche a guida di un esponente della maggioranza - che concordi con l'opposizione i tempi e i modi per scongiurare il pericolo di un fallimento e l'onta internazionale di vedere il Paese con il cappello in mano.

Ferruccio de Bortoli

02 novembre 2011 16:22© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_02/20111102NAZ01_14_9268bc18-051b-11e1-bcb9-6319b650d0c8.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 10, 2011, 11:33:17 pm »

Possiamo farcela

La nomina, a sorpresa, di Mario Monti a senatore a vita prelude alla sua designazione, appena sarà approvata in tutta fretta la legge di stabilità, alla guida di un esecutivo di emergenza nazionale. Una mossa che sottrae il nome dell'economista milanese alla contesa politica e ne sottolinea le qualità super partes . È significativo che la scelta di Napolitano abbia la controfirma, non necessaria, di Berlusconi. Il premier uscente, è bene ricordarlo, ebbe il merito di proporre, nel '94, il presidente della Bocconi come commissario europeo. Il pensiero di Monti è noto ai lettori del Corriere. Il prestigio internazionale è indiscusso. La sua bussola è l'Europa. Non è un freddo tecnocrate, è un italiano appassionato, disposto a svolgere il ruolo di civil servant senza mire personali. È portatore di idee, non di interessi.

Una svolta clamorosa. Indispensabile e indifferibile dopo quello che è accaduto ieri sui mercati: il crollo della Borsa, lo spread fra i nostri Btp e i Bund tedeschi a 553 punti, lo spettro di un default alla greca. La regia del presidente della Repubblica è stata saggia e ferma, agevolata anche dal senso di responsabilità di parte dell'attuale maggioranza. Ma il cammino è terribilmente in salita. Le incognite numerose, a cominciare dalle forze politiche che potranno appoggiare un eventuale esecutivo tecnico.
Il Paese ha vissuto ieri una giornata drammatica. I mercati hanno mostrato di non avere più fiducia in noi. Oltre il 7 per cento nel rendimento dei titoli pubblici, uno Stato entra in una sorta di inferno del debitore. Nessuno o quasi è più disposto a fargli credito. I mercati hanno sempre ragione? No, speculano e si accaniscono sul più debole. Ma ci puniscono perché non siamo credibili e in più ci fanno pagare anche le colpe degli altri. Dobbiamo smetterla di fare il loro gioco. È ora di pensare, veramente, all'Italia. Uno scatto d'orgoglio.

Il segnale dev'essere forte, immediato, comprensibile agli stranieri infastiditi dalle nostre alchimie e dai nostri ritardi. Un esecutivo di emergenza nazionale, con una guida autorevole, può convincere gli investitori esteri che facciamo sul serio. Ridare fiducia a famiglie e imprese. Restaurare l'immagine di un Paese che è solvibile, ricco di primati, valori e talenti. Le forze politiche più consapevoli possono appoggiarlo nel nome dell'interesse comune, disposte a rinunciare al piccolo cabotaggio dei veti incrociati, alla bassa speculazione elettorale. Un tempo sospeso, o una fase di neutralità, consentirebbe ai partiti di riprendere i termini di una normale contesa politica, avviandosi anche alle elezioni, dopo aver messo in sicurezza il Paese. Non si può minimamente pensare di uscire da una crisi di credibilità finanziaria così profonda senza accettare sacrifici, purché questi siano equi e proporzionali, trasparenti e utili per tornare a crescere, creare lavoro e reddito. Ma a una condizione: l'esempio lo deve dare subito la politica, tagliando i suoi costi. E non per finta.

Ferruccio de Bortoli

10 novembre 2011 09:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_10/debortoli_possiamo-farcela_5eb5c08c-0b60-11e1-ae33-489d3db24384.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 12, 2012, 06:30:37 pm »

LA CORRUZIONE DOPO MANI PULITE

Anni perduti scelte urgenti

Vent’anni dopo, il ricordo di Mani Pulite è un insieme di immagini sbiadite. Colpisce l’ammissione dell’ex giudice Gherardo Colombo sui magri risultati delle inchieste contro la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti. I protagonisti di allora sono critici severi dell’eredità civile, e non solo giudiziaria. Gli eccessi e gli errori non furono pochi. Con i partiti fu spazzata via un’intera classe politica. Troppe le sentenze mediatiche; non sempre adeguata la tutela delle garanzie individuali. Eppure quella stagione ebbe il merito di sollevare un velo sull’Italia del malaffare. Più di tremila gli imputati. Ogni dieci di loro, calcola Luigi Ferrarella, quattro i condannati, quattro i prescritti, due gli assolti.

Quel velo, rumorosamente alzato, è tornato a coprire, negli anni successivi, pratiche illecite diffuse in tutta la società. Le denunce sono crollate. Un fatalismo pernicioso è diventato sentimento comune. «Tanto non cambia nulla». «Anzi, oggi è peggio ». La corruzione hamutato pelle ed è penetrata in profondità nella nostra società. Ha un carattere più individuale, trasversale, minuto e non genera — amara considerazione — lo sdegno e l’istinto di ribellione che mossero l’opinione pubblica ai tempi di Mani Pulite. Il costo per l’Erario è stimato dalla Corte dei Conti fra i 50 e 60 miliardi l’anno. L’Italia è al 69˚posto nella classifica Transparency International. La corruzione è una tassa occulta, frena gli investimenti esteri, distorce i mercati, umilia il merito e calpesta la cittadinanza.

Rileggere gli avvenimenti del ’92 con spirito critico è necessario e costruttivo. Ma al di là del dibattito storico, sarebbe opportuno rispondere a una domanda. Che cosa è indispensabile fare per combattere efficacemente il fenomeno? Il governo Monti, che non disdegna una certa inclinazione pedagogica, ha davanti a sé una grande occasione. Agire senza indugi contro un morbo che frena la crescita più di tante liberalizzazioni mancate. Una commissione ministeriale ha già formulato delle proposte. Ne aggiungiamo alcune. Il reato di corruzione fra privati in Italia non esiste. Nemmeno quello di autoriciclaggio dei proventi illeciti. Dopo la riforma del 2001, il falso in bilancio non è di fatto più perseguito. Non si capisce perché l’Italia, unico fra i Paesi aderenti, non abbia mai ratificato la convenzione internazionale sulla corruzione del ’99. L’evasione è fenomeno connesso. Ma l’Agenzia delle Entrate trasmette le informazioni alla magistratura dopo cinque anni. E la prescrizione è certa. La Banca d’Italia non comunica alla stessa Agenzia i movimenti anomali dei capitali ma solo alla Guardia di Finanza.

La risposta non può essere esclusivamente di carattere penale o di contrasto all’evasione o premiando (curioso) chi si comporta bene. Se la società non infligge anche un costo di reputazione a chi infrange le sue regole, se trascura istruzione e formazione, se banalizza le virtù civiche ed elegge i furbi simpatici a modelli di vita, non c’è norma che tenga. L’Italia ne ha persino troppe. All’apparenza severe. Ma solo sulla carta. Straccia.

Ferruccio de Bortoli

12 febbraio 2012 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_12/de-bortoli-anni-perduti-scelte-urgenti_846661ba-5548-11e1-9c86-f77f3fe7445c.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:01:43 pm »

REALTÀ, PREGIUDIZI E NOSTALGIE

Una trincea ideologica


La riforma del mercato del lavoro è molto più ampia della revisione dell'articolo 18. Estende gli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente escluse, riduce la precarietà. Aspira a stabilizzare e a rendere più facili le assunzioni definitive. È emendabile, ma va nella direzione giusta. Un licenziamento dovuto a ragioni disciplinari, per il quale il giudice può ordinare il reintegro, è aggirabile con una motivazione economica e il solo risarcimento da 15 a 27 mensilità? Certo, lo è. L’abuso va contrastato con norme chiare e rigorose.

Le reazioni sindacali sono tutte comprensibili. Meno i ripensamenti di Bonanni e Centrella che al tavolo con il governo dicono una cosa e poi se la rimangiano, magari dopo aver ascoltato un esponente dell’episcopato. Il travaglio interno del Pd è da rispettare. La dialettica fra laburisti e liberali vivace e salutare. Colpiscono, però, sia la durezza di D’Alema, che parla del governo come un «vigilante di norme confuse», sia di Bersani che teme l’esautorazione delle Camere. Il Parlamento, ai tempi della concertazione, ratificava soltanto gli accordi tra le parti sociali. Il segretario del Pd se ne è uscito anche con la seguente frase: «Non morirò monetizzando il lavoro». Nobile e curioso. Solo l’1 per cento delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri. E poi: gli accordi sui prepensionamenti e sugli esodi incentivati che cosa sono se non una monetizzazione di posti di lavoro che spariscono?

I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale. Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. Come se adesso le aziende in crisi, e non sono poche purtroppo, non riducessero l’occupazione e non vi fosse il dramma di tanti lavoratori abbandonati in cassa integrazione o senza sussidi e possibilità di un reimpiego. E come se l’Italia non fosse ricca di tantissime realtà, grandi e piccole, in cui il lavoro è difeso e rispettato. E, ancora, tanti imprenditori e dipendenti non condividessero le stesse ansie e lo stesso amore per ciò che producono e per i valori comuni di cui sono portatori. Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori.

Scrive Guido Viale su il manifesto: «I capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro annunciando: appena passa l’abolizione dell’articolo 18 siete fuori!». Davvero è questo il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio? O è una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico, una trincea fra capitale e lavoro, la costruzione artificiosa di un nemico di classe?

Lo Statuto dei lavoratori fu, nel 1970, un’importante conquista sociale. Sono passati 42 anni, la società è cresciuta, i diritti sono meglio protetti. Ma in parti del sindacato e della sinistra la nostalgia per quegli anni di lotte operaie e studentesche è forte. La storia andrebbe riletta, anche per risparmiarci le code spiacevoli e le derive violente di cui dovremmo coltivare la memoria.

Ferruccio de Bortoli

24 marzo 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_24/una-trincea-ideologica-ferruccio-de-bortoli_760646f2-7579-11e1-88c1-0f83f37f268b.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 05, 2012, 10:27:32 am »

I PARTITI E IL FINANZIAMENTO PUBBLICO

Guardandosi allo specchio


L'antipolitica è una pratica deteriore che mina le fondamenta delle istituzioni. L'idea che una democrazia possa fare a meno dei partiti è terreno fertile per svolte autoritarie. Le inchieste di Rizzo e Stella, pubblicate dal Corriere , sui costi (scandalosi) della politica sono state lette da più parti con fastidio e disprezzo. Eppure non erano e non sono animate da un pernicioso qualunquismo, ma da una seria preoccupazione per l'immagine pubblica degli organi dello Stato e per la dignità dei rappresentanti della volontà popolare.

Il bene costituzionale della cittadinanza si riflette nell'orgoglio per i simboli repubblicani, nella rispettabilità degli organi elettivi, nel prestigio delle istituzioni e nella serietà e dirittura personale di coloro che temporaneamente ne reggono le sorti. Una buona legge sui partiti avrebbe fatto scoprire prima, o addirittura evitato, sia il caso Belsito, ex sottosegretario leghista alla Semplificazione ( sic ), sia l' affaire del senatore Lusi, ex della Margherita, che dimostra come i partiti, a differenza dei cittadini, incassino anche da morti. Se i parlamentari avessero affrontato con maggiore serietà, e non con sacrifici episodici, il tema dei loro emolumenti e del costo complessivo di funzionamento delle istituzioni, la loro popolarità non avrebbe raggiunto livelli così bassi. Se il referendum del 1993, che vietava il finanziamento dei partiti, non fosse stato aggirato con una legge truffa sui rimborsi elettorali, il discredito non sarebbe stato così devastante.

Difficile dimostrare a famiglie alle prese con tasse crescenti e salari magri che sia vitale per la democrazia una leggina del 2006 che, oltre a consentire l'anonimato dei contributi ai partiti sotto i 50 mila euro, non ha risolto il problema dei controlli sui rendiconti delle spese. I cittadini tirano la cinghia, soffrono, ma il finanziamento pubblico ai partiti in dieci anni è lievitato del 1.110 per cento. Se tutte le voci di spesa pubblica avessero seguito la stessa dinamica saremmo già in bancarotta. I rimborsi sono dieci volte più alti delle spese, ma nessuno si è mai sentito in dovere di restituire ai cittadini quanto incassato in più grazie a una legge troppo generosa. Sarebbe stata una forma di immediato rispetto per i molti che vengono pagati in ritardo, o non pagati affatto, per i tanti che si vedono ritirare i fidi dalle banche e non hanno la fortuna di ottenere rimborsi superiori alle loro spese. Nella vita reale, fuori dal Palazzo, se qualcuno incassa di più di quanto gli spetta, generalmente restituisce. Ha promesso di farlo Rutelli, ma solo dopo l'esplosione del caso Lusi. Non prima.

A parole tutti vogliono cambiare la legge sui rimborsi elettorali. Sono una quarantina le proposte di riforma. Nessuna delle quali è all'ordine del giorno dei due rami del Parlamento. Non è un caso che ieri Enrico Giovannini, capo dell'Istat, si sia dimesso dall'incarico di presidente della commissione incaricata di studiare come ridurre i costi della politica e allinearli alla media europea. Regole scritte male, missione impossibile. Il capo dello Stato è intervenuto, ancora una volta e autorevolmente, per sollecitare decisioni immediate. Forse sarebbe opportuno che i presidenti del Senato e della Camera chiedessero al governo di concordare un decreto legge da approvare in fretta. Per dimostrare che i partiti sanno guardarsi allo specchio. Conservano il senso della responsabilità nazionale e sapranno contrastare al meglio la deriva dell'antipolitica che si nutre di scandali e di microinteressi. E che conosce un solo antidoto: il buon esempio.

Ferruccio De Bortoli

5 aprile 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_05/guardandosi_allo_specchio-debortoli_d4491b34-7edb-11e1-a959-e67ffe640cb1.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 29, 2012, 03:23:24 pm »

SPESA PUBBLICA, SPRECHI E IPOCRISIE

I contribuenti da rispettare

Maggio sarà un mese decisivo per il governo. L'esecutivo Monti ha fatto in gran parte bene, ma si è indebolito: ha bisogno di nuovo slancio.
Se la crescita è l'obiettivo primario, è necessario che già dalla prossima settimana il governo dia segnali concreti. Non generici impegni a ridurre la spesa o discorsi cattedratici sulle virtù della spending review , che tradotto vuol dire: cerchiamo di capire almeno dove finiscono i soldi pubblici.

Come prima cosa, andrebbe detto che la pressione fiscale, oggi vicina al 45 per cento, non aumenterà più. Anzi, diminuirà appena possibile, specie sul lavoro, scrivendolo a chiare lettere nel prossimo disegno di legge delega sulla riforma fiscale. Poi: che la clausola di salvaguardia, introdotta già dal precedente governo (si alza l'Iva a ottobre se la spesa non si è ridotta), sarà semplicemente rovesciata.
Il pareggio di bilancio d'ora in poi si raggiungerà solo con la compressione delle uscite. Impossibile? No. La spesa pubblica è stata pari nel 2011 a quasi 800 miliardi (50,5 per cento del Pil). Tolti stipendi, pensioni e interessi passivi, restano circa 200 miliardi in acquisti di beni e servizi e varie.

Ognuno applichi la propria percentuale di risparmio pensando a una famiglia o a un'impresa. Il gettito atteso dal prossimo ritocco dell'Iva per il 2012 è di 4 miliardi, l'intera Imu ne vale 21. Come hanno spiegato su queste colonne Alesina e Giavazzi, le tasse hanno un effetto recessivo, i tagli mirati alla spesa pubblica no. Certo, hanno costi politici e personali più elevati. I destinatari dei tagli hanno nomi, facce e corporazioni. I contribuenti sono tanti e senza volto. Gli italiani sopportano sacrifici rilevanti e non capiscono perché l'azienda Stato, che spesso non paga gli arretrati, non riesca a risparmiare come l'impresa nella quale lavorano, avvertendone peraltro tutti i dolorosi segni, o come il loro stesso nucleo familiare.

Il ministro Giarda si sta dando da fare, ma siamo sicuri che tutti nel governo e nell'alta dirigenza si comportino allo stesso modo?
La Ragioneria, che forse detiene i libri e conosce i conti, è convinta e coinvolta? E negli enti locali, responsabili di metà della spesa, vi è un uguale senso dell'urgenza o molti si difendono guardando in casa dell'altro e intanto adeguano le addizionali?

A volte si ha la sensazione che la spesa pubblica sia un immenso fiume carsico del quale si intuisce a malapena la portata, ma, peggio, che sia considerata una sorta di res nullius , della quale disporre a piacimento. Qualcosa di cui alla fine non si deve rendere conto a nessuno.
Tanto è sempre andata così, ci si poteva indebitare e scaricare l'onere dell'inefficienza, attraverso le tasse, sulle famiglie e le imprese.
Metà delle pratiche pubbliche sono inutili se non dannose. Con quelle non si fa crescita. Intere regioni, come hanno dimostrato le inchieste del Corriere , non sanno nemmeno quanto spendono per la sanità. Lo scandalo è tutto drammaticamente qui: nell'incapacità ipocrita e nella volontà apparente con cui ci si misura con quell'immensa discarica abusiva dei nostri difetti nazionali che è la spesa pubblica.

Ferruccio de Bortoli

29 aprile 2012 | 11:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_29/contribuenti-da-rispettare-editoriale-de-bortoli_60b4adde-91c1-11e1-af61-83f104d3d381.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 24, 2012, 10:38:35 am »



Il dolore e l'impegno

Mai avremmo pensato che la ferocia della criminalità si spingesse a tanto. Credevamo di aver visto tutto. Ci eravamo persino illusi che nelle società del crimine, di cui questo Paese è sciaguratamente ricco, esistesse almeno uno straccio di codice, un brandello di regole, scritte magari su un pizzino o tatuate su un braccio. Le scuole no, i ragazzi no. Invece sì. Si può concepire di mettere un ordigno, davanti a una scuola, probabilmente frequentata dagli amici dei propri figli, e decidere di farlo esplodere a distanza in modo da causare morte sicura. Usando forse un telecomando, come accadde nella strage di Capaci, giusto vent'anni fa, quando morì accanto al marito Giovanni Falcone anche Francesca Morvillo, alla quale è intitolato l'istituto di Brindisi, segnalatosi per una coraggiosa battaglia in nome della legalità e contro le mafie. Un gesto di barbarie inaudito. La minaccia di una criminalità, che pur essendo stata in questi anni combattuta anche con successo, esprime una baldanza violenta, una furia inarrestabile e, nello spargere sangue, sembra tracciare il segno della propria invincibilità.

Le indagini ci diranno, speriamo presto, qual è l'origine e chi sono i responsabili. Scioglieranno l'interrogativo che avanza, a caldo, un grande esperto come Nicola Gratteri: perché un atto, con modalità tipiche del terrorismo, contro una scuola? Le mafie organizzate, nell'analisi di uno dei magistrati più esposti nella lotta al crimine, non rischiano, colpendo alla cieca, di perdere il consenso popolare che pensano di avere. Una criminalità deviata, dunque? Una scheggia, ancora più spietata, della Sacra Corona Unita? O qualcosa di peggio: un'azione destabilizzante, di altra matrice?

Nel piangere Melissa e nel guardare negli occhi, atterriti, i suoi compagni e, idealmente, tutti i ragazzi d'Italia, oggi abbiamo un compito in più. Investigatori e magistrati sono chiamati a moltiplicare gli sforzi contro ogni tipo di criminalità e illegalità. Ne fanno già tanti, non bastano. E non vanno lasciati soli, come Falcone e Borsellino. Ma gli strumenti efficaci nel contrasto dei fenomeni mafiosi, e non soltanto, sono molti altri: una coscienza civile vera e diffusa, una maggiore coesione sociale, un più vivo spirito di legalità, un forte senso dello Stato. Governo e partiti devono constatare, ancora una volta, come sia inderogabile dare risposte immediate sul versante della lotta alla criminalità, alla corruzione e al malaffare e sul piano dell'etica pubblica e della certezza del diritto. Prove di responsabilità e unità nazionale indispensabili per riscattare l'immagine di un Paese ad alto tasso criminale. E necessarie come esempio per le prossime generazioni. Altrimenti non ha alcun senso dare un premio alla legalità, come quello che ottenne la scuola Morvillo Falcone di Brindisi. Un riconoscimento motivo di orgoglio per Melissa, Veronica e le loro compagne. Oggi sono tutte figlie nostre. Abbracciamo commossi le loro famiglie. Ma senza risposte concrete, anche i migliori sentimenti, di cui questo Paese è generoso, appaiono vuoti ed effimeri.

Ferruccio de Bortoli

20 maggio 2012 (modifica il 22 maggio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_20/dolore-impegno-de-bortoli_410594f4-a241-11e1-bfa6-752e370d244b.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 10, 2012, 11:23:52 pm »

CLASSE DIRIGENTE E FUTURO DEL PAESE

I leggendari poteri forti

Non vi sono vere élite o egemonie di qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature corporative

La settimana più difficile del governo si chiude con la scelta, coraggiosa, dei nuovi vertici Rai. Ora speriamo che un analogo colpo d'acceleratore sia impresso alle misure, assai tormentate, del pacchetto sviluppo. Monti fa bene ad andare avanti senza guardare in faccia nessuno e a cogliere le critiche (anche di questo giornale) con spirito costruttivo. La parte responsabile del Paese, che crediamo maggioritaria, sa che non vi sono alternative a questo governo, al di fuori del caos greco. Elezioni anticipate sarebbero semplicemente una sciagura nazionale e tutti dobbiamo guardare, con ragionevole fiducia, all'appuntamento europeo di fine mese. Se l'Europa si sveglierà dal proprio torpore autodistruttivo, salvando l'euro e se stessa, dovrà ringraziare anche il nostro premier.

La polemica domestica, sull'influsso che i poteri forti avrebbero sulla vita nazionale, ci offre l'occasione per parlare della classe dirigente, soprattutto privata, di questo Paese. Alla politica non diamo tregua, è vero. Ha ragione D'Alema, che non cede alla tentazione nazionale di vedere complotti ovunque, a lamentarsene. Ma perché la vorremmo migliore. I partiti sono indispensabili alla vita democratica, per questo li sferziamo quotidianamente. Del cosiddetto establishment , il mondo dell'industria, della finanza, della classe dirigente privata, ci occupiamo poco. Una lacuna. Da colmare. Ma la realtà, amara, è ben diversa dalla mistica della tecnostruttura esclusiva, un po' opaca, più incline a rinchiudersi in alberghi di lusso che ad accettare la sovranità popolare. È grave invece che nel nostro Paese abbia perso di significato - non del tutto per fortuna - il concetto di una classe dirigente responsabile, preoccupata anche dell'interesse generale, in grado di esprimere un indirizzo, un'idea di società, come quella che nel Dopoguerra rese possibile il miracolo economico. Insomma fiera di dirigere, non sfacciata nell'esigere. Dedita per prima a dare il buon esempio.

Esistono élite di grande livello cui il governo ha fatto abbondante ricorso anche in questi giorni: le migliori università, la Banca d'Italia e non solo. Un tempo ve n'erano di più: raffinate culture d'impresa di grandi gruppi, anche bancari, privati e pubblici. È rimasto ben poco. Pallide eredità, epigoni incapaci di assicurare stabili governance alle loro società, figuriamoci se in grado di suggerire metodi di governo generale. Gli esempi sono pessimi. La stessa Confindustria appare appesantita dalle proprie contraddizioni. Chiede di tagliare la spesa pubblica e di eliminare le Province e non riesce nemmeno a ridurre i propri costi di struttura. Comunque, stiamo parlando di realtà positive, di qualità. Microcosmi, però, che non hanno attecchito nella cultura generale. Qualche volta anche per colpa loro, per via di una certa arroganza intellettuale e di un senso di estraneità alle sorti del Paese.

La nostra storia è ricca di anti-italiani o italiani per caso. Un vezzo culturale sintomo di un'appartenenza debole. Poi ci sono altre élite , se possiamo chiamarle così, non certo nell'accezione che Wright Mills usò per quelle americane. Le più diffuse sono sprovviste di regole e valori. Circoli di potere, cordate, alleanze trasversali, blocchi corporativi, alti burocrati, persino magistrati, cerchi magici di varia natura, spesso casereccia. Tutto meno che nuclei di una moderna classe dirigente.

I più recenti studi sulla composizione delle élite italiane ci dicono che la struttura è ancora quasi essenzialmente maschile. Nove su dieci sono uomini. Sette su dieci in Francia, sei nel Regno Unito. L'età media delle persone di potere cresce e ormai ha superato i 60 anni; le élite italiane sono forti nel consenso e deboli in competenze; viaggiano meno e sono più provinciali di quelle estere; conoscono poco le lingue; sono centro-nordiste e metropolitane, pressoché assenti al Sud, il ricambio avviene ancora troppo per cooptazione. Insomma, una classe dirigente a sesso unico, provinciale e autoreferenziale. Riluttante nell'immagine impiegata da Carlo Galli. Interprete del fenomeno sociale descritto nei suoi libri da Carlo Carboni: il passaggio dal familismo amorale all'individualismo amorale.

Un'altra scomoda verità: ci eravamo illusi che il privato con le sue virtù cambiasse il pubblico. Dobbiamo constatare che molto più frequentemente i difetti del pubblico hanno contagiato il privato. Eravamo convinti che le privatizzazioni in Italia avrebbero esaltato i comportamenti virtuosi e isolato le pratiche peggiori. Hanno premiato, salvo pochi casi, le consorterie opache e diffuso la convinzione perniciosa che una relazione conti più di un risultato, che l'amicizia prevalga sul merito. Il mercato per troppi è ancora un luogo dello spirito, una selva oscura dalla quale difendersi. Con ogni mezzo.

Le privatizzazioni italiane non sono state decise nel giugno di vent'anni fa, a bordo del panfilo Britannia, sul quale la finanza anglosassone avrebbe irretito la nostra, come insiste un'altra vulgata sui poteri forti. Ma hanno visto la tendenza sistematica del grande capitalismo privato italiano a trovare rifugio negli ex monopoli pubblici o nel sistema delle concessioni statali quando non a realizzare solo un maledetto e immediato guadagno. La vendita o la svendita del patrimonio pubblico non è stata accompagnata da una decisa apertura alla concorrenza e raramente ha coinciso con un reale processo di internazionalizzazione degli acquirenti. La borghesia produttiva, che tanti meriti ha avuto in questo Paese, ha mostrato segni di stanchezza, difendendosi dalla globalizzazione anziché aggredirla. A dispetto di un passato glorioso e in contrasto con un tessuto di piccole e medie imprese che si batte ogni giorno per la sopravvivenza. Certo, esistono casi di straordinario valore, marchi di risonanza mondiale, storie personali di eccezionale successo. E meno male. Ma colpisce che spesso si dica che sono emerse nonostante, non grazie al nostro Paese. E che i loro artefici si sentano sempre meno italiani.

L'ultima amara realtà è che non vi sono vere élite o egemonie di qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature corporative, una miriade di casellanti muniti di veto. Chi teme i poteri forti può stare tranquillo. Chi ha a cuore il futuro del Paese, la formazione di una classe dirigente di qualità, le riforme e il ritorno alla crescita, ha molto di che preoccuparsi.

Ferruccio De Bortoli

@DeBortoliF
10 giugno 2012 | 10:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_10/de-bortoli-poteri-forti-classe-dirigente_8b7c6c56-b2c2-11e1-8b75-00f6d7ee22cc.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 05, 2012, 12:00:23 pm »

NOVITÀ EUROPEE, SCELTE ITALIANE

Il dividendo del professore

L'Italia non è solo una grande squadra. È un grande Paese. E forse sarebbe sufficiente, tanto per non avvelenarci la vita, che tutti ne fossero più consapevoli e orgogliosi. Nella notte in cui gli occhi erano puntati su Varsavia, a Bruxelles abbiamo ritrovato quel ruolo da protagonisti nell'Unione Europea che si era perso in tanti anni di pallide apparizioni. Il merito è di Mario Monti. E forse coloro che hanno pensato in questi giorni di togliergli la fiducia, dovrebbero riconoscere che chiunque al suo posto non avrebbe ottenuto nulla di più della personale cortesia dei partner. Un'Europa con un'Italia più ascoltata, anche se non ancora più forte, può affrontare meglio la crisi dell'euro. Non l'ha ancora risolta, ma per la prima volta ha mostrato ai mercati, sorprendendoli, una determinazione che tanti summit falliti rendevano quasi inimmaginabile. La reazione positiva delle Borse lo testimonia, anche se è prematuro illudersi. Un inedito asse mediterraneo tra Francia, Italia e Spagna ha costretto la Germania a guardare la cartina geografica e le statistiche economiche da una prospettiva diversa. Non è poco. Il volto scuro della signora Merkel non era solo quello di una tifosa delusa.

Il patto per la crescita impegna 120 miliardi: l'effetto moltiplicatore dell'occupazione e del reddito non sarà decisivo ma nemmeno trascurabile. Con l'incognita di quanti siano veramente i capitali freschi a disposizione. La vigilanza unica bancaria, con il coinvolgimento della Bce, la banca centrale europea, e il finanziamento diretto degli istituti spagnoli in difficoltà da parte del fondo Esm ( European Stability Mechanism ) possono interrompere, o quantomeno allentare, il circolo vizioso tra debiti sovrani e debiti privati che è alla base della patologia della moneta unica. A Deauville, nell'ottobre del 2010, Merkel e Sarkozy fecero l'errore di coinvolgere i privati nella crisi greca e da lì il contagio sui mercati fu inarrestabile.

Lo scudo anti-spread è la novità più rilevante, ed è mal digerita dai tedeschi, sempre contrari a qualsiasi forma di condivisione del debito altrui, eurobond compresi. Sulla funzionalità di questo meccanismo, che dovrebbe intervenire acquistando titoli pubblici dei Paesi virtuosi per ridurne i rendimenti eccessivi, è opportuno mantenere alcune riserve. In particolare sull'ammontare della dotazione, sulle relative garanzie, sull'interpretazione dei trattati e sulla loro condizionalità. Monti, che lo ha fortemente voluto, assicura che l'Italia non se ne avvarrà, almeno per ora. E spiega che i richiedenti non saranno costretti a cedere sovranità, come avviene per chi si rifugia tra le braccia strette del Fondo monetario, creditore privilegiato che impone un duro programma di risanamento (il consiglio che fu dato caldamente a Berlusconi e a Tremonti al drammatico, per noi, vertice di Cannes dello scorso anno).

Al di là degli aspetti tecnici e dei dubbi della Bce e dello stesso Draghi, il significato politico più importante di questa misura è l'affermazione dell'ineluttabilità della moneta unica che va protetta anche da eccessivi divari nel costo del denaro pagato dagli Stati membri. Un passo avanti sulla strada tracciata dell'unione politica e fiscale. Un dividendo prezioso per l'Italia, che non può essere disperso con il solito atteggiamento accidioso e particolaristico di partiti e corporazioni. Il cammino delle riforme, non solo economiche, è ancora lungo. I compiti non sono finiti, il tempo quasi.

Ferruccio de Bortoli

30 giugno 2012 | 20:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_30/dividendi-del-professore-debortoli_9766977a-c272-11e1-a34b-90a1f1a78547.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 08, 2012, 10:23:54 am »

PARLA IL GOVERNATORE DELLA BANCA d'ITALIA

Visco: «Ecco le condizioni per crescere»

Due progetti-Paese. No a terapie choc sul debito

Contro la crisi servono spirito civile e condivisione

di FERRUCCIO DE BORTOLI


Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, 62 anni, coltiva un gramsciano ottimismo della volontà, senza nascondersi difficoltà e ostacoli. Il governo è sulla strada giusta e nell’aggredire i mali dell’economia italiana bisogna avere due eccezionali qualità: uno spietato coraggio e il senso grave delle svolte storiche. Nulla è facile, nulla è impossibile. La nostra conversazione avviene in una sala di palazzo Koch, a Roma, dominata da tre arazzi con le gesta di Alessandro il Grande, che ospita la collezione delle monete preunitarie. In quelle teche vi finirà un giorno l’euro?

Dopo la storica riduzione dei tassi allo 0,75 per cento da parte della Bce sembrerebbe che i mercati abbiano smesso di credere alle banche centrali? «Quelle decise giovedì — risponde Visco — sono misure convenzionali di politica monetaria che tengono conto di una congiuntura internazionale che si sta deteriorando. Non vanno male solo i Paesi del Sud dell’Europa, tra cui noi, rallenta la Germania, la stessa Cina. E gli Stati Uniti hanno di fronte la vera grande incognita dell’economia mondiale, il fiscal cliff». Ovvero il pacchetto di tagli alla spesa e nuove tasse di fine anno. «Vale quattro punti di prodotto lordo, detto brutalmente».

Il quadro è cambiato così rapidamente? «La caduta dei prezzi delle materie prime e il rallentamento dell’export tedesco hanno convinto il Consiglio direttivo della Bce a dare un ulteriore segnale di accomodamento con la riduzione del costo dei finanziamenti che la banca centrale concede alle banche, anche quelli già erogati, al livello più basso dall’istituzione della Bce. L’inflazione nell’eurozona diminuisce rapidamente; scenderà al di sotto del 2 per cento nei prossimi mesi». E per l’Italia che cosa cambia? «Si avrà un impulso positivo, ma non si riduce certo l’esigenza di proseguire nell’opera di risanamento e riforma strutturale». Previsioni? «L’anno scorso pensavamo di crescere nel 2012 all’1 per cento, oggi le previsioni di consenso indicano che il Pil scenderà grosso modo del 2. Allora dobbiamo chiederci il perché di questi tre punti persi. La crisi è stata ed è grave. La restrizione del credito ha pesato per mezzo punto. Gli spread più alti, un altro mezzo punto. Un punto l’effetto restrittivo delle manovre di rientro. E siamo a due. E poi mezzo punto per la congiuntura internazionale e un altro mezzo per la caduta di fiducia di famiglie e imprese». Eccoci a tre punti. Troppi. E quando torneremo a crescere? «Il 2012 sarà negativo, ma penso che se la situazione non peggiora ulteriormente, se il rischio sui tassi si riduce, se la soluzione della crisi è condivisa a livello europeo, alla fine dell’anno potremo rivedere una luce in fondo al tunnel». E rischiamo ancora il commissariamento? «Lo abbiamo rischiato al vertice di Cannes, l’anno scorso. Quando un Paese riceve la solidarietà non la può ottenere senza contropartite. La condizione che possiamo offrire oggi è quella di fare fino in fondo il nostro dovere. Il fiscal compact non è una camicia di forza. È interesse di tutti non lasciare ai nostri figli un debito eccessivo. Non c’è cessione di sovranità. Il pareggio di bilancio non può essere criticato da chi dice che Keynes non l’avrebbe sottoscritto. Keynes era per il pareggio di bilancio depurato dagli effetti del ciclo economico».

John Maynard Keynes negli anni '40John Maynard Keynes negli anni '40
L’euro può resistere a lungo con dinamiche così divergenti fra i Paesi membri? «I tassi d’interesse sui Btp sono quattro volte superiori a quelli tedeschi. Il sistema finanziario dell’area dell’euro è frammentato, e la politica monetaria così non può avere successo. L’attuale spread di 470 punti base tra Btp e Bund per due quinti è "colpa" nostra, del nostro debito pubblico, della nostra scarsa competitività, della bassa crescita potenziale; il resto è un premio al rischio che lo Stato italiano paga per il timore del sottoscrittore dei suoi titoli che a un certo punto la moneta unica non ci sia più. Ed è come se la Germania ricevesse un sussidio dagli investitori internazionali. Con un tasso d’interesse a lungo termine dell’1,5 per cento e una crescita doppia, Berlino ha una condizione esattamente opposta alla nostra. Ciò crea una grave forza centrifuga nell’area dell’euro. All’ultimo summit europeo la valutazione dell’eccessivo livello degli spread è stata pienamente condivisa. Tre, a mio avviso, le ragioni del successo di Bruxelles, purtroppo comunicate male. La prima: una sorveglianza bancaria comune, che non fa scomparire ma si fonda su quelle nazionali. Seconda: l’avvio di una soluzione concreta al problema delle banche spagnole. Un problema che le nostre banche non hanno, sia chiaro. Da noi la bolla immobiliare non c’è stata. Nessuna bulimia di prestiti a fini immobiliari. Il nostro rapporto fra mutui e valore di mercato delle abitazioni è inferiore al 70 per cento. In altri Paesi è vicino, se non superiore, al 100. Terza ragione: la presa di coscienza che le differenze nei tassi d’interesse riflettono un malessere comune di fronte al quale occorre utilizzare tutti gli strumenti esistenti». Utilizzando in maniera appropriata le risorse a disposizione dell’Efsf (European Financial Stability Facility) e dello Esm (European Stability Mechanism), i cosiddetti fondi salva Stati. Le resistenze, non solo tedesche, e gli interrogativi non mancano, però.

«Le incertezze — spiega il Governatore — sono di due tipi: quale capacità operativa, non sappiamo; la dimensione delle risorse, insufficiente». Vi è poi incertezza circa la possibilità che il fondo permanente, l’Esm, che sostituirà l’Efsf, debba avere o no una licenza bancaria, cioè maggiore libertà di finanziarsi a sua volta. Ma le soluzioni possibili non mancano. Certo, se il fondo potesse essere usato come garanzia contro eventuali perdite di operazioni condotte dalla Bce, con l’effetto leva si potrebbero mobilitare anche duemila miliardi. Solo ipotesi, per carità. «Ma vi sono posizioni contrarie, non solo quella di Weidmann, cartesianamente ineccepibile. La Bundesbank condiziona tutto all’unione fiscale e, in una prospettiva ancora più lunga, politica, che fa scomparire le differenze di rischio in un singolo bilancio».

Contestatori contro Bob Diamond, l'ad di Barclays, dopo lo scandalo dei mutui gonfiati (Zumapress)Contestatori contro Bob Diamond, l'ad di Barclays, dopo lo scandalo dei mutui gonfiati (Zumapress)
Lo scudo antispread è indispensabile? «Se le condizioni economiche di fondo dei Paesi sono positive — continua Visco — non serve e fa bene Monti a dire che l’Italia non lo chiederà. Diciamo che se fosse dotato di capacità di intervento adeguata la sua stessa esistenza aiuterebbe a non usarlo. Ma, soprattutto, spezzerebbe le aspettative della speculazione, le scommesse contrarie, taglierebbe le unghie a chi volesse uscire dall’euro guadagnandoci, dato che, anche per lo scudo antispread, non riuscirebbe a trarne profitto. Ma poi c’è un altro luogo comune che va sfatato». Quale, Governatore? «Che sia la Germania a pagare per tutti. Un falso. Il nostro peso nell’area dell’euro è del 18 per cento, quello della Francia del 20, quello tedesco del 27. I salvataggi sono stati di diverse modalità: interventi diretti sul bilancio pubblico (Grecia) o attraverso l’Efsf (Portogallo e Irlanda), o partecipando all'Esm». Totale per noi? «A fine anno saranno stati versati dall’Italia circa 45 miliardi, e non ci si è agitati tanto. La Finlandia, che pesa per meno del 2 per cento, si è fatta sentire di più». Dopo il summit di Bruxelles ha ancora senso il ruolo dell’Eba (European Banking Authority), l’organismo di vigilanza presieduto dall’italiano Enria? «Se si va nella direzione di un controllo comune delle banche nell’area dell’euro andrà rivisto, non c’è dubbio. C’è poi un problema di rapporto fra i 17 Paesi dell’eurozona e i 27 dell’Unione, molto delicato». Perché? «Perché gli istituti di credito che hanno una rilevanza sistemica dovranno essere trattati tutti allo stesso modo. I nostri gruppi, ma anche quelli tedeschi o francesi, sono molto diversi da quelli inglesi. E poi vi è un altro attore di cui non si parla mai, la Commissione europea». Che ha svolto un ruolo nel sistema bancario non all’altezza delle attese? «Il suo ruolo nella definizione di regole comuni è sicuramente importante. Nell’anno passato abbiamo però avuto qualche problema nell’individuazione della giusta sequenza di interventi e si è finiti per iniziare dalla fine, con l’esercizio di ricapitalizzazione delle banche, in un contesto ciclico avverso, deciso dall’Eba». Qual è il pensiero del governatore sul caso Barclays, il colosso inglese accusato di aver manipolato il tasso interbancario (Libor ovvero London Interbank Offered Rate) cui è legato il costo dei mutui? «Il soft touch, la vigilanza leggera adottata in altri Paesi, non funziona: bisogna essere severi. E trasparenti. Spesso noi siamo considerati un po’ troppo invasivi, ma data anche la percezione dello scarso rispetto delle regole nel nostro Paese, meglio così. La Banca d’Italia non è "catturata" dagli intermediari su cui vigila, questo è sicuro. E il mondo anglosassone della finanza non ci venga a insegnare nulla, perché non è il caso».

A cinque anni dallo scandalo dei subprime, i prestiti senza garanzie, la lezione è servita? «Diciamo che c’è stata una reazione, con una regolamentazione da alcuni ritenuta eccessiva, anche se ho dubbi sul reale funzionamento della Dodd-Frank (la legge americana del 2010 sui mercati finanziari, ndr). Accadde così anche dopo il caso Enron (il colosso energetico Usa fallito nel 2001, ndr)». Si è rotto però, o almeno allentato, il rapporto fiduciario fra cittadino e sistema finanziario, fra cliente e banca, a volte salvata con il denaro dei contribuenti. C’è una grande questione di reputazione. Anche in Italia dove non ci sono stati salvataggi bancari con i soldi pubblici. Per esempio, nel risparmio gestito, continuano a essere collocati certificati rischiosi. «Intendiamoci bene — risponde Visco — io ho sempre pensato che il cassiere in banca dovrebbe avere dietro di sé un grande cartello, con scritto che "i", che sta per il tasso d’interesse, deve essere inferiore al quattro o cinque per cento. Se è di più vuol dire che si stanno vendendo prodotti rischiosi e bisogna che chi li acquista ne sia pienamente consapevole».

Quello della banca universale è un modello in crisi, da più parti si invoca un ritorno allo spirito del Glass-Steagall Act, la legge americana del ’33 che separava l’attività bancaria da quella d’investimento? «Se ne parla. In Europa nel fare un’unione bancaria dobbiamo mettere insieme istituti di natura diversa, credo che molto stia nei dettagli. Secondo alcuni aver separato la banca d’investimento dalla banca commerciale, come è accaduto in America, ha creato le condizioni per la nascita di giganti mondiali d’investimento che sono stati all’origine della crisi. Lehman Brothers ottemperava al Glass-Steagall Act, come anche Merrill Lynch, poi finita in Bank of America. Meglio la trasparenza e l’assenza di commistioni fra attività di trading e di prestito». E le paghe dei banchieri, i bonus allegri? «Per un certo periodo si è venduta la favola che una banca potesse avere un return on equity (Roe), un profitto, doppio rispetto a una impresa commerciale, e da lì sono discesi alti stipendi e bonus principeschi. È il caso inglese, la finanza si è sviluppata a danno dell’industria. Insostenibile». Secondo cartello da apporre in banca.

Tommaso Padoa-SchioppaTommaso Padoa-Schioppa
Rischi eccessivi, veduta corta, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa. Ma la veduta corta ce l’hanno anche gli imprenditori? «Sicuramente. Il problema centrale della nostra economia è la bassa crescita della produttività. Nell’Unione monetaria si sopravvive con investimenti e innovazione. Spesso gli imprenditori italiani sono rimasti indietro, hanno mantenuto dimensioni aziendali insufficienti per competere, hanno mostrato talora scarso coraggio. Hanno utilizzato una flessibilità cattiva del mercato del lavoro unicamente per ridurre i costi, continuando a vivere alla giornata». Una delle ragioni che la spingono, Governatore, a dire che la riforma del mercato del lavoro è buona? «Certo, non è il massimo, ma confrontata con la situazione preesistente è un grosso passo avanti. L’attenzione si è concentrata troppo sull’articolo 18. Ritengo che alcune reazioni, di imprese e sindacati, siano state eccessive, contribuendo a non metterne in luce, anche nei confronti dell’estero, gli aspetti più positivi. Credo che sia stato un errore».

La terapia del governo è corretta? I tagli alla spesa giusti? «Il governo si è trovato nella difficile condizione di dover operare dal lato della struttura produttiva in un momento di crisi e allo stesso tempo intervenire con misure di stabilizzazione. Molte tasse, quindi, troppe perché l’economia non ne risenta. Forse non si poteva fare altrimenti e già il precedente governo si era mosso in questa direzione con una delega fiscale che comportava l’aumento dell’Iva, già in parte avvenuto. Ma la lotta all’evasione fiscale è positiva. L’iniezione di concorrenza è apprezzabile, il sostegno all’innovazione delle imprese importante, la riforma del lavoro potrà avere effetti significativi, oltre all’intervento sulle pensioni, necessario. Intenti e misure condivisibili, ma con risorse modeste. Sulla spending review bisogna insistere il più possibile, perché solo così potremo ridurre le tasse, specie sul lavoro, oltre a non alzare l’Iva. Va detta una verità. Il bilancio pubblico è rilevante, ma è nella media europea se si pensa che ogni anno oltre il 5 per cento finisce per pagare gli interessi sul debito. Non pregiudichiamo però il futuro: su scuola, formazione e ricerca bisogna investire di più».

E il pubblico impiego, gli statali? «I risparmi consistenti verranno da una azione capillare, micro, da quello che in inglese si chiama enforcement, ma non bisogna commettere un errore». Quale? «Considerare l’impiego pubblico un peso morto, un’area di negatività. Vanno premiate le pratiche migliori, le tante persone che fanno bene il proprio lavoro, occorre muovere nella direzione di aumentare gli investimenti in questo Paese, rallentati dalla corruzione e dal malaffare». E come si possono rilanciare gli investimenti, non solo esteri, in questo Paese? «Due grandi aree. Un ampio progetto di manutenzione immobiliare dell’Italia, di cura del territorio, una terapia contro il dissesto idrogeologico.
I soldi, mi creda, si trovano. Si diano gli incentivi giusti, soprattutto a chi ha cura della messa in sicurezza dell’ambiente e della sua estetica. I terremoti, purtroppo, insegnano. Si faccia un piano, pubblico e privato, con il concorso dei fondi europei».
E la seconda? «Per attrarre gli investimenti è necessario avere uno sportello unico che aiuti a risolvere problemi di ordine amministrativo, legale, tributario e dia garanzie agli imprenditori singoli, più che alle multinazionali, contro la burocrazia e la corruzione». Una sorta di Mister Italia, un consulente ad hoc? «Esatto, un facilitatore, ma non basta. Per portare avanti questi progetti ci vuole anche qualcosa che non costa nulla, ma nel nostro Paese è assai raro, uno spirito civile, da civil service»

L’investitore estero che sottoscrive i nostri titoli di Stato si pone anche la domanda di chi verrà dopo Monti. «L’interrogativo c’è tutto, io non posso rispondere, ma mi auguro che la classe politica dia prova di consapevolezza e responsabilità, mostri l’ambizione di costruire ideali, di disegnare prospettive di crescita, non solo economica. Un nuovo spirito italiano. Non ci si impegni subito in una lunga ed estenuante campagna elettorale. Vede, io sono membro della Bce e a Francoforte opero per la stabilità dell’eurozona. Ma come Governatore della Banca
d’Italia lavoro in ogni momento per il mio Paese, un Paese che ha un eccesso di debito e una carenza di Stato».

Il debito pubblico sfiora il 123 per cento del Pil, gli interessi ci strangolano. Abbatterlo con un’operazione straordinaria? «Diciamo subito che c’è una parte di debito che non è calcolata: gli arretrati di pagamento della pubblica amministrazione. Saldare questi arretrati vuol dire emettere nuovi titoli. Le terapie anti debito possono essere di due tipi. Il primo: un intervento di privatizzazione di poste patrimoniali, immobili o partecipazioni in imprese. Quello che è possibile, non tanto per la verità. Si potrebbe ad esempio provare a ridurre il debito di un punto percentuale di Pil all’anno. Il secondo: il colpo secco. Sono state avanzate diverse proposte. Anche noi le esaminiamo, ma sembrano molto difficili da attuare. Non si possono approvare progetti validi solo sulla carta. Consideriamo ad esempio un fondo le cui quote siano acquistate dai cittadini mediante conferimento di titoli pubblici. Con un patrimonio costituito da varie attività, specie locali. Ma per identificarle e valorizzarle, individuarne la disponibilità sul piano giuridico amministrativo, ci vuole tempo, molto tempo. Poi se vogliamo usare la ricchezza privata per far fronte ai titoli pubblici, incentivandone la sottoscrizione, bisogna ricordarsi un particolare. Quando noi diciamo agli italiani, comprate più titoli di Stato, implicitamente li sproniamo a dismettere altre attività. L’equilibrio generale non è chiaro.
Dunque, cautela». A meno che non si usi a garanzia l’oro della Banca d’Italia? «Non ne parliamo, se l’oro, le riserve della Banca d’Italia fossero trasferite al settore pubblico sarebbe finanziamento dello Stato, si violerebbero i trattati: esse sono il nostro contributo alla stabilità e all’integrità dell’Unione monetaria, in ultima istanza alla stabilità del nostro stesso sistema».

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7 luglio 2012 (modifica il 8 luglio 2012)
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 01, 2012, 02:59:59 pm »

L'EMERGENZA CHE RITORNA

Il tempo zero della politica

Alle elezioni (si voterà il 7-8 aprile?) mancano sei mesi abbondanti. Non sappiamo con quale legge voteremo, chi si presenterà, e se la sera degli scrutini conosceremo la coalizione di governo. La metà degli italiani non esprime nei sondaggi alcun orientamento. E non possiamo quindi stupirci se la stragrande maggioranza degli investitori, nell'incertezza assoluta, si astenga dal considerare il Paese un'opportunità.

In undici mesi scarsi, il governo Monti ha fatto molto per rimediare a un'immagine internazionale disastrata. Ma rimane assai arduo dimostrare a un osservatore straniero quale sia il vero volto del Paese: la serietà e l'operosità o lo scialo e la corruzione? Noi siamo convinti che il primo aspetto sia assolutamente prevalente sul secondo, escrescenza di abitudini miserabili, purtroppo trasversali e non solo della politica. E che l'Italia perbene stia pagando un prezzo elevatissimo. Ma il nostro amico straniero non si capacita del perché una legge contro la corruzione tardi ad essere approvata, non si spiega come ci si possa dimettere e firmare delle nomine il giorno dopo, rafforzando il sospetto che passati gli scandali tornino vecchie e inconfessabili abitudini. Sui circuiti internazionali hanno avuto più successo (ahinoi!) le immagini del corpulento Fiorito (che si ricandida) di quelle dello stesso Monti impegnato a spiegare i sacrifici degli italiani. Rischiamo di tenerci una pessima legge elettorale (il cui nome Porcellum ora richiama anche recenti feste pagane). Non abbiamo una normativa moderna per la trasparenza degli affari e Angel Gurria dell'Ocse ci ha cortesemente richiamato, nel suo ottimo italiano, a vergognarci di essere la pecora nera dell'Occidente.

La tela delle riforme (conoscendo moderni Ulisse lasciamo stare Penelope) intessuta con fatica e qualche errore dal governo tecnico, rischia di essere strappata dall'irresistibile demagogia di ogni campagna elettorale. Nel frattempo lo spread torna a salire e la spiegazione che sia tutta colpa della Spagna è pericolosamente consolatoria. Se Madrid dovesse chiedere gli aiuti, l'attenzione dei mercati si riverserebbe su di noi, trovandoci impreparati e distratti.

Il tempo zero della politica è la peggiore risposta che si possa dare ai mercati. Dà l'impressione che l'enorme sforzo di risanamento fin qui compiuto, pagato soprattutto dalle famiglie e dal ceto medio, sia frutto di episodiche virtù. E avvalora la convinzione che dopo l'aprile del 2013 tutto possa tornare come prima. È comprensibile che la politica rivendichi il proprio ruolo, essenziale in una democrazia compiuta, e si ribelli all'ipotesi di commissariamento. Ma nell'ignavia del tempo zero si avvicina il momento in cui il Paese sarà costretto a chiedere l'aiuto europeo o a sottoporsi a un programma del Fondo monetario con una resa poco onorevole. Lo spazio per evitare questo scenario, considerato inevitabile da molti, che svilirebbe il voto e darebbe fiato all'antipolitica e al qualunquismo, è assai limitato. Avrebbe invece un suo particolare significato - specie dopo la disponibilità ad esserci, se necessario, espressa ieri da Monti - una sorta di patto pre-elettorale tra le principali forze politiche (che non significa precostituire alcuna grande coalizione), sulla condivisione delle regole del gioco, a cominciare dalla legge elettorale, la conferma del percorso di risanamento, la moralizzazione della politica e la riduzione dei suoi costi. A condizione che non resti, come altri solenni impegni, desolante lettera morta.

Ferruccio De Bortoli

28 settembre 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_28/tempo-zero-della-politica-debortoli_fb2515ea-0929-11e2-8adc-b60256021bbc.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 06, 2012, 04:55:31 pm »

L’INCERTO DESTINO DEL CENTRODESTRA

La zattera della Medusa


Il centrodestra assomiglia sempre di più alla zattera della Medusa di Gericault. Alla deriva. I naufraghi s’ammazzano l’un con l’altro. Gli elettori, e sono ancora tanti, guardano sgomenti, e non meritano un tale spettacolo. Alle elezioni mancano al massimo quattro mesi. Berlusconi sembra deciso a sfidare il vincitore delle primarie del Pd. Il Cavaliere fu abilissimo nel ’94 a riempire il vuoto della politica dopo Mani Pulite. Oggi quel vuoto lo crea lui con le sue goffaggini e le sue indecisioni. Fu straordinario nell’usare, e controllare, i mezzi di comunicazione. Oggi ne è vittima, anche di chi lo sostiene. Eccezionale nel trasformare le contese elettorali in plebisciti su se stesso. Oggi il plebiscito lo vedrebbe perdente. E Bersani giustamente gongola all’idea di averlo come avversario. A ciò si aggiunge che quel che resta del Pdl fa di fatto, con i propri litigi, campagna elettorale per gli avversari. Incredibile.

Il destino del centrodestra riguarda tutti. Anche quelli che non lo votano. Una domanda di rappresentanza politica, fino a ieri maggioritaria, rischia di non incontrare alle prossime politiche un’offerta adeguata e sufficiente. Chi ha a cuore la solidità di una democrazia non può essere indifferente di fronte al disagio di una parte di elettorato tentata dall’astensione o dal voto di protesta. Anche a sinistra i più avveduti temono un bipolarismo Bersani- Grillo. I moderati di quello schieramento, cattolici per primi, guardano con preoccupazione allo sfaldamento del polo avversario e al suo arroccamento in difesa di Berlusconi, perché ciò finirebbe per spostare ulteriormente verso Vendola e la Cgil il baricentro di un futuro e assai probabile governo a guida Pd.

Berlusconi sembra deciso a non consentire una riforma della legge elettorale per portare in Parlamento fedelissimi, amazzoni e pretoriani. La saggezza dovrebbe indurlo a fare un passo indietro. A garantire un’evoluzione dell’intero movimento— che a lui si richiama e continuerà a richiamarsi— verso il Partito popolare europeo, lasciando perdere tentazioni lepeniste e antieuropee. Monti in Europa, sarà bene ricordarlo, ci andò grazie a lui. Solo così quella che appare, in base ai sondaggi, la prossima opposizione potrà candidarsi autorevolmente a essere alternativa di governo.

Ma qui si affaccia nel centrodestra il discorso più delicato. Se c’è, come crediamo, un gruppo dirigente liberale e democratico all’altezza del compito, ma soprattutto responsabile, deve avere la forza di separare il proprio destino politico dalla deriva solitaria e resistenziale del proprio capo. Appoggiando subito la riforma della legge elettorale. E mostrando coraggio nel non candidare chi è stato condannato in modo definitivo. Un gesto dettato forse più dalla disperazione che dal coraggio, ma assolutamente necessario e non più rinviabile.

Un taglio netto riapre i giochi nell’arco politico che si oppone a Bersani e ai suoi alleati. Riduce la forza di attrazione che la sinistra esercita nei confronti del centro moderato. Rende possibili future collaborazioni su alcuni aspetti dell’agenda Monti e nell’indicazione di candidati, non solo alla premiership, nuovi e più credibili. L’incerta democrazia italiana dell’alternanza ne avrebbe un sicuro beneficio. Così la zattera della Medusa troverebbe finalmente un approdo. E il ventennio berlusconiano passerebbe al vaglio degli storici. Con un’uscita di scena più dignitosa, il giudizio non potrà che essere più articolato e imparziale.

Ferruccio de Bortoli

6 dicembre 2012 | 14:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_06/debortoli-zattera-medusa_980e814c-3f6d-11e2-823e-1add3ba819e8.shtml?fr=box_primopiano
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 09, 2012, 09:59:43 pm »

Il racconto di una giornata drammatica

Monti: «In politica? Ora sono più libero»

Il Quirinale ora non lo ritiene impossibile.

Le dimissioni: «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti»


(FdB) Questa è la cronaca di ore drammatiche nella vita del Paese che mai avremmo voluto scrivere. Un governo muore così. Nella Festa dell’Immacolata, a mercati chiusi, ma a occhi ben aperti di una comunità internazionale che non capisce e da lunedì ci farà pagare un prezzo assai alto. La ridiscesa in campo del Cavaliere aveva già prodotto, dalla convulsa serata di mercoledì, un terremoto inarrestabile, ma sono state le parole di Alfano pronunciate venerdì alla Camera a far cadere le ultime resistenze del Professore. Ricorda un dispiaciuto presidente della Repubblica al termine del lungo colloquio di ieri, nel quale il premier uscente gli ha manifestato, con cortesia e fermezza, la propria volontà di dimettersi, che tutto è cominciato alla fine del Lohengrin alla Scala nella serata di Sant’Ambrogio, dopo quella prima alla quale, forse con anziana preveggenza, aveva deciso di non partecipare.

«Ci siamo sentiti subito dopo », dice Napolitano. Ed era già evidente, seguendo il filo del racconto del presidente, il disagio, il disappunto, non la rabbia perché quella non fa parte del vocabolario di un professore abituato a misurare le parole, a dosare aggettivi e mosse, la sua volontà di porre termine a un anno di governo, che per lui è stato pari a un decennio, di sofferenze, ma anche di soddisfazioni, specie internazionali. Quando Monti parla con Napolitano in una saletta della società del Giardino, antico circolo milanese, sede del ricevimento scaligero, non ha ancora avuto modo di leggere con attenzione le parole pronunciate alla Camera dal segretario Alfano poche ore prima. Conosce i titoli e il senso dell’intervento, ma non lo ha ancora letto né tantomeno soppesato. Le cinque ore trascorse nel Piermarini ad assistere alla rappresentazione wagneriana, la leggenda dell’eroe romantico in una terra percorsa da liti e contrasti, non devono averlo appassionato molto. Parla poco, Monti, rilascia solo una enigmatica dichiarazione sul Re Sole, ovvero Berlusconi, che si è allontanato da lui. Ma forse vede accanto al cigno bianco di Lohengrin anche quello nero del suo governo, recapitato dal duo Berlusconi-Alfano, con una musica certamente più sgradevole.

Il colloquio telefonico di venerdì sera con Napolitano è il prologo di quello ben più drammatico di ieri sera. La moglie Elsa, incontrata in una sala della società del Giardino, appare turbata. «Mario? È su che sta telefonando». Chi la conosce da tanti anni capisce che qualcosa sta succedendo. E veniamo alla giornata di oggi. Monti racconta di essere stato a Cannes. «Non ho risposto per tutta la giornata alle molte domande che mi venivano poste, soprattutto dagli stranieri. Ho colto il loro sbalordimento per la situazione italiana ». Il Professore racconta di essere andato a Cannes dopo aver letto e riletto la dichiarazione di Alfano e di essersi convinto che quella era la vera mozione di sfiducia nei confronti del suo governo. Sprezzante sui risultati ottenuti, violenta nei toni, profondamente ingiusta. E si domanda perché non siano stati più coerenti i rappresentanti del Pdl, partito per lunghi mesi responsabile e disciplinato di quella che un tempo era, per sua definizione, una «stranamaggioranza», a votargli subito la sfiducia. Sarebbe stato preferibile. E non si capacita il Professore che le parole liquidatorie e persino insultanti, le abbia pronunciate un segretario del Pdl «sempre gentile e premuroso» e improvvisamente trasformatosi in un tribuno duro e tagliente. «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti così». Ho cercato in questi mesi, confessa un amareggiato ma non piegato premier, di non cedere al mio carattere, di essere meno suscettibile, ebbene avrei preferito che staccassero la spina direttamente, con un voto di sfiducia, non in quel modo. Di ritorno da Cannes, Monti si dirige verso Roma, dove lo attende Napolitano. Ha già deciso di dimettersi, con dignità, quella dignità ferita dalle parole di Alfano e dalle pronunce ripetute a Milanello del Cavaliere, ridisceso in campo con quella baldanza che molti osservatori esteri non si spiegano o, peggio, non tentano nemmeno di spiegarsi. «Ho preferito farlo subito, a mercati chiusi». Sì, presidente, ma lunedì riaprono. «Già».

Quando arriva al Quirinale, nella serata di ieri, il presidente della Repubblica che lo ha fortemente voluto alla guida di un governo tecnico che ha salvato l’Italia dalla bancarotta del novembre scorso, sa che il finale è già scritto. I due hanno caratteri diversi, ma la stima e l’amicizia sono profondi. Il capo dello Stato sa che non può fare più nulla. Discutono a lungo della posizione del Pdl e soprattutto della nota di Alfano. Napolitano condivide lo sdegno per le parole del segretario del Pdl, ingiuste nel bilancio di un anno di lavoro del governo tecnico che pur ha avuto alti e bassi, riforme positive e altre meno, ma che ha ridato immagine e rispettabilità al Paese in giro per il mondo. Capisco e condivido, dice in sintesi Napolitano, il senso di dignità personale e istituzionale che ha mosso il premier ad annunciare le proprie dimissioni. Confessa Napolitano di aver faticato non poco a convincerlo a rimanere per l’approvazione della legge di stabilità, per la legge di variazione di bilancio. Ma entrambi si sono trovati assolutamente d’accordo nell’evitare al Paese l’onta di un avvilente esercizio provvisorio. Napolitano fa ricorso, e si rende conto che il paragone è tutt’altro che esaltante per Monti, al novembre scorso quando convinse Berlusconi a dimettersi e questi lo fece dopo l’approvazione della allora più che incerta e sofferta legge di stabilità. Un paragone che Monti con sense of humor accetta.

La discussione tocca anche la ridiscesa in campo di Berlusconi, che il capo dello Stato giudica, nei toni e negli argomenti, esaltata e pericolosa. Anche per lo stesso Cavaliere. Lo scenario che si apre è, dunque, il seguente. Il giorno dopo l’approvazione della legge di stabilità, e ci vorranno presumibilmente sei o sette giorni, il presidente della Repubblica scioglierà le Camere. È escluso, anche se Napolitano afferma di prendersi una pausa di riflessione sulle modalità, che il governo venga rimandato alle Camere. Il discorso di Alfano è suonato alle orecchie di Monti come una sfiducia conclamata. Dunque, meglio evitare un nuovo e imbarazzante passaggio formale. Ma la questione resta aperta. Si voterà a questo punto a febbraio. Ciò comporterà, probabilmente, anche le dimissioni anticipate di Napolitano che più volte ha ripetuto di non voler essere lui a conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo della prossima legislatura. Il finale di questa, morente nel modo peggiore, è stato ben diverso da quello che il Quirinale si aspettava. Anche Napolitano non si persuade di come sia stato possibile un cambiamento così repentino della scena politica. Anche lui, come Monti, aveva incontrato il «gentile e attento» Alfano e non immaginava una svolta oratoria, alla Brunetta, di tale asprezza. Si aspettava che i moderati e i liberali del centrodestra facessero sentire la propria voce e invece, nelle sue parole, appare forte l’apprensione per la svolta, definita a tratti di bestiale egocentrismo, che il Cavaliere ha impresso alla politica italiana.

Lo sguardo è su quello che accadrà lunedì, sui mercati e nelle cancellerie internazionali che torneranno a considerare l’Italia una fonte di contagio, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. Il governo resterà in carica per l’ordinaria amministrazione, ferito a morte, in una campagna elettorale che si annuncia tra le più difficili e tormentate del Dopoguerra. «Doveva avere il coraggio di staccarmi la spina, sapendo che l’avrei potuta staccare anch’io », ripete Monti in tarda serata, con l’aria sollevata e, conoscendolo, con molta amarezza in corpo. E forse anche una sottile emalcelata aria di rivincita. E ora presidente, lei è libero di prendere qualsiasi decisione, anche di candidarsi alle politiche, ormai la necessità di essere super partes è caduta o no? Il silenzio dell’interlocutore è significativo, è chiaro che ora si sente libero di decidere. Ci sta pensando, molti lo spingono a fare un passo. E anche il presidente della Repubblica, crediamo, non lo ritiene più impossibile. In poche ore muore il governo tecnico, il paese corre alle urne, in un confronto così radicale che schiaccia moderati e liberali che guardano a Monti con rinnovata speranza. Forse Alfano non sapeva che con le sue parole ha fatto cadere un esecutivo ma non ha tolto di mezzo un leader. La pressione dei centristi su Monti si intensificherà. E lui non tornerà di certo alla Bocconi. Il Lohengrin della Scala è finito negli applausi. La tragedia italiana continua. Il libretto è tutto da scrivere, la musica pure, la platea assicurata e mondiale, ma purtroppo assai poco disposta nei confronti degli interpreti. Il sipario non scende mai.

Ferruccio de Bortoli

9 dicembre 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_09/de-bortoli-monti-lascia-crisi-aperta_9c66ad96-41cf-11e2-ae8d-6555752db767.shtml
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