«Alemanno faccia chiarezza sulla memoria: le Foibe furono un’altra cosa»
di Paola Natalicchio
Scarpe comode, impermeabile scuro, berretto in testa. Piero Terracina, 81 anni, ancora una volta non si risparmia. E torna a camminare in mezzo agli studenti lungo i campi di sterminio in cui fu deportato ancora adolescente, in occasione del viaggio della memoria organizzato dal presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. «Lo sai che sono stato qui anche la scorsa settimana? Con i ragazzi della provincia di Viterbo», racconta, fermandosi un attimo e allargando le braccia, mentre guadagna una panchina in cui prendere fiato, a pochi metri dall’ingresso del campo di Auschwitz.
«Mi hanno liberato a pochi metri da qui, era il 27 gennaio del 1945. Arrivavo dal vicino campo di Birkenau, dove ero stato per otto mesi e dove è morta tutta la mia famiglia. I tedeschi l’avevano abbandonato da pochi giorni, perché i soldati russi erano alle porte. Così mi sono nascosto, aspettando che arrivasse qualcuno», dice. E indica uno dei padiglioni rossi sullo sfondo, oggi adibiti a museo, dove intanto gli studenti entrano in fila di due. «Bevevo acqua pressando la neve e aspettavo che arrivasse qualcuno. Circondato da pochi sopravvissuti e molti cadaveri. Poi finalmente si aprì la porta e vidi un soldato. Quello che salvò Primo Levi era a cavallo. Il mio, lo ricordo ancora, era tutto vestito di bianco». Prende fiato, dopo una sveglia all’alba, una mattinata sotto la pioggia insieme al gruppo di 240 studenti e 60 docenti che lo segue fedele da due giorni, come fosse un pastore: lungo le vie di Cracovia, in sinagoga, nei padiglioni, davanti ai forni crematori, nei corridoi del Novotel, fin davanti all’ascensore.
Il no ad Alemanno «Sono un po’ stanco», sussurra, alzando appena le sopracciglia grandi e disegnando un sorriso gentile, che sembra spettinare un attimo la barba curata in ogni minimo dettaglio. È qui che si toglie il berretto, come a chiede scusa. E lo ripete ancora: «È vero. All’ultimo viaggio del Comune di Roma non sono venuto. Con il sindaco Alemanno proprio non era possibile. Non lo vedi che bel clima c’è adesso?». Poi inclina la testa, si sfiora il mento, si tocca la fronte. Prova ad argomentare, pesando le parole con prudenza, ma senza ipocrisia. «Certo, ha fatto qualche passo avanti rispetto al passato, non lo nego. Ma a me non basta. Devo essere convinto al 100% e ancora non lo sono. Mi manca un pezzo: il ripudio assoluto del passato». Quel viaggio mancato, un po’ ancora gli brucia. Per il timore, timido, di aver tradito i ragazzi. «Non vengo qui per me. Non sono masochista. Tornare qui, parlare di quello che mi è successo, mi fa male. Ma vedo che a loro serve». Solo che allora, nonostante questo, ha passato la mano. «Quando Alemanno tornò da Auschwitz, lessi le sue dichiarazioni ed erano molto belle. Subito dopo, però, ha nominato un delegato alle memorie. Plurale. E poi ha organizzato quel viaggio alle Foibe. Dove però non si è fermato neanche alla risiera di San Saba. Erano 5 chilometri di distanza, in fondo».
Le Foibe e la Shoah Sulle foibe, però, non è solo questo. «Io contesto la comparazione che viene proposta, in questo modo, tra Foibe e Shoah, che sono eventi completamente diversi. Lo sono nei numeri. I cinquemila morti delle Foibe sono cinquemila vite umane perse e, quindi, cinquemila tragedie. Ma rispetto ai sei milioni di morti nei campi di sterminio nazisti, la cosa è diversa. E lo sono per ragioni politiche. La Shoah è stato un evento a cui l’Italia fascista ha dato il suo notevole contributo ed è stata l’istituzionalizzazione dello sterminio di chi si riteneva diverso. Gli ebrei, i Rom e i Sinti e così via. Le Foibe sono un fatto assolutamente condannabile, non giustificabile, ma plausibile e spiegabile se pensiamo a quello che hanno fatto i fascisti italiani in quei territori. Ci furono perdite, vessazioni. Le origini di quell’evento si possono capire». Quella verso il sindaco non è una preclusione ideologica. E per spiegarlo Terracina usa l’esempio più efficace. «Con Gianfranco Fini è diverso. L’ho incontrato, gli ho anche stretto la mano, quando è venuto in visita alla comunità ebraica di Roma e quando sono stato da lui alla Camera, lo scorso settembre, per il settantesimo anniversario delle leggi razziali. Lui sta facendo un percorso, anche recentemente lo ha continuato. E io lo rispetto. Intendiamoci, per me è un avversario. Ma non un nemico. Alemanno, però, è un’altra cosa».
La sua storia Gli occhiali grandi e marroni. Quella voce, poi. Con un nodo alla gola perenne. Eppure ferma, decisa. E le parole eleganti, d’altri tempi, che usa con i ragazzi come un pifferaio magico con le rughe. Capace di incantarli, togliere il fiato e strappare applausi in una sala d’albergo gremita come quella di domenica sera. «Il mio abisso verso il campo di sterminio è iniziato nel 1938, con le leggi razziali. Abitavo a Roma, nel quartiere Monteverde, con i miei genitori, i nonni, i miei tre fratelli e mia sorella. Andavo a scuola pubblica, ma mi dissero che dovevo cambiare. Persi tutti gli amici. Fu il mio primo, grande dolore». Ne seguirono, di lì a poco, molti altri. «Con l’ingresso in guerra, nel ’40, mio padre iniziò a perdere il suo lavoro, come rappresentante di commercio. Iniziammo a vivere tra mille difficoltà». Poi arrivò il 16 ottobre del 1943, gli arresti degli ebrei in tutta Roma. «Quella volta la scampammo. Ero al tabaccaio, a comprare le sigarette per mio padre. Lui ebbe una soffiata. Venne a prendermi e ci nascondemmo da amici».
Poi, però, il 7 aprile del 1944, l’agguato. «Una spia indicò alle SS dove eravamo nascosti. Arrivarono alle nove di sera, davanti alla porta, armati fino ai denti. Non fu possibile opporre nessuna resistenza».
Prima il carcere, allora. Poi, un viaggio che passa per Fossoli, Monaco, fino all’arrivo a Birkenau. «Arrivammo stremati. Separarono subito me e i miei fratelli da mia madre e mio nonno. Che andarono a morire nelle camere a gas. Polvere e cenere. Negli otto mesi successivi, rividi mia sorella una sola volta. Poi persi anche mio padre e i miei tre fratelli. Quando tornai a Roma, nel dicembre del ’45, dopo essere stato in ospedale per mesi e poi arruolato nell’Armata Rossa, ero rimasto solo». E poi? «Poi si ricomincia. Sono stato molto fortunato, sai?». Molto fortunato. Dice davvero così. «Non mi sono mai sposato, ma ho lavorato con soddisfazione, fino a diventare dirigente in un’industria di bottoni. E poi eccomi qua, in mezzo ai ragazzi».
pnatalicchio@unita.it31 marzo 2009
da unita.it