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Autore Discussione: Ci voleva la mano di cinquecento bambini per dirci che la storia dell'orrore...  (Letto 3084 volte)
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« inserito:: Agosto 03, 2007, 04:45:30 pm »

ESTERI

La distrazione dell'Occidente

Un richiamo disperato alla nostra indifferenza

di GABRIELE ROMAGNOLI


Ci voleva la mano di cinquecento bambini per dirci che la storia dell'orrore non ha tempo né luogo.

È un pozzo universale dove cadono le vittime dei massacri, unite dalla stessa catena. Dai villaggi del Darfur a quelli della Bosnia, dagli accampamenti degli indiani d'America alle città sudamericane saccheggiate dai conquistadores, la stessa linea di sangue e un unico tratto di matita. Metti che i disegni consegnati come materiale probatorio dalla Corte internazionale di giustizia fossero finiti sulla scrivania di qualcuno chiamato a interpretarli senza conoscerne la provenienza, che cosa avrebbe potuto dedurne?

Che siamo davanti all'ennesimo capitolo troppe volte già affrontato e solo a parole superato. È accaduto qualcosa di terribile ("morte" "morti", scrivono in didascalia sotto i cadaveri). Le vittime abitavano in villaggi, in case semplici come la vita che conducevano. I massacratori venivano dalla città. Le prime si muovevano a piedi. I secondi avevano quanto meno cavalli, ma anche veicoli a motore, carri armati, elicotteri, addirittura aerei per quanto dagli allegri colori. Le une, se reagivano, lo facevano tirando frecce dagli archi. Gli altri disponevano di armi tecnologicamente avanzate. E, ah sì, inevitabilmente, gli aggressori avevano la pelle più chiara, gli aggrediti la pelle scura. Sono rispettate in pieno le condizioni di base del massacro modello.

Ma ci sono anche le modalità ulteriori. Un disegno mostra un edificio le cui porte sono sprangate (benché da ingenui lucchetti), probabilmente dopo averci rinchiuso dentro centinaia di persone e in attesa della spianata dei bulldozer, come accadeva durante il conflitto etnico in Ruanda. Un altro, l'elicottero che uccide dal cielo, come in Vietnam, dove era "piacevole l'odore del napalm al mattino". In un terzo il fiume trascina i cadaveri, come avveniva negli insediamenti dei pellerossa spazzati via dai soldati con la giubba. I massacratori si portano via le donne come bottino di guerra, torturano i bambini, decapitano i morti. Come in Bosnia. E altrove.

Questa dei bambini del Darfur è veramente una galleria universale. Lo specifico è dato soltanto dai tetti di paglia delle capanne, dalla pancia gonfia di donne e bambini denutriti, dalle scritte d'accompagnamento, che qualcuno ha tracciato in arabo, altri in francese. O forse c'è anche qualcosa di più e d'altro, ma noi non siamo in grado di accorgercene perché a quel che accadeva in Sudan abbiamo prestato un occhio disattento, appena distraendoci dall'Iraq o da Gaza (a essere ottimisti e a non dire da Corona e Ricucci), quando il grido di dolore veniva levato non tanto dagli orfani, quanto da Angelina Jolie (per i più coscienziosi, anche da Emma Bonino).

A ben pensarci, la sensazione di orrore più profonda che questi disegni comunicano è proprio la nostra capacità di riconoscervi qualcosa che abbiamo già visto altrove e con questo abbassare la nostra soglia d'attenzione e di ribrezzo. Gli analoghi disegni dei bambini americani dopo l'11 settembre ci stupivano perché ci riproponevano qualcosa di inedito e (forse, speriamo) irripetibile. E perché ci trasmettevano la loro forza di reazione (Superman ferma gli aerei prima che arrivino alle Torri) derivante dalla mancanza nel Dna di ogni precedente trauma da massacro.

Questi disegni ci raccontano qualcosa che conosciamo e che in fondo, cinicamente, pensiamo sia inevitabile debba ripetersi, in luoghi lontani dai nostri riflettori e dai nostri interessi economici. Sono una prova, non solo di quanto accaduto nel Darfur, ma anche della nostra indifferenza passata e futura.

(3 agosto 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 03, 2007, 04:46:30 pm »

ESTERI

Così il realismo dell'innocenza serve a inchiodare i carnefici

di ANTONIO CASSESE

 
Le testimonianze orali o scritte di bambini sono generalmente poco attendibili come prova contro o a favore di singoli imputati. Si sa che i bambini sono facilmente influenzabili e spesso tendono a non distinguere tra realtà e fantasia. Ricordo che all'Aja, al Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia, ascoltammo la testimonianza di un giovanissimo adolescente bosniaco, ma solo perché ci confermasse che il bambino steso al suolo, che vedevamo nel filmato girato dalle truppe britanniche accorse subito dopo un massacro di musulmani, fosse proprio lui, sei anni prima.

"Sì - ci disse -, quel bambino sono io ferito, che faccio finta di essere morto, e quel corpo che vedete più avanti è di mio padre, ucciso all'inizio dell'attacco".

Ma in questo caso i 500 disegni raccolti in Darfur non verranno consegnati alla Corte Penale Internazionale come prova contro i due sudanesi accusati di crimini contro l'umanità. Verranno trasmessi come testimonianza efficacissima dei massacri nel Darfur ad opera delle milizie arabe (i Janjaweed) e delle truppe governative. Essi cioè potranno servire per illustrare visivamente e corroborare altre testimonianze circa il quadro generale in cui si collocano i crimini imputati ai due sudanesi. La loro fresca immediatezza, il loro realismo e il fatto che ce ne siano centinaia, e che tutti rappresentino gli stessi fatti (gli attacchi di miliziani ai villaggi, l'uso di elicotteri e aerei da parte del Governo, l'uccisione di donne e bambini), ne fanno un attendibile complemento nella ricostruzione giudiziaria di ciò che è avvenuto (e continua ad avvenire ancora ogni giorno).

Se guardate quei disegni, vi rendete subito conto che traducono fedelmente in immagini i resoconti delle atrocità che potete leggere in tanti rapporti sul Darfur, e soprattutto nel più approfondito ed autorevole, quello prodotto nel 2005 dalla Commissione internazionale di inchiesta istituita dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. La violenza si svolge sempre nello stesso modo. All'alba appare un aereo, un Antonov (serve per il trasporto di truppe, ma viene invece riempito di bombe); lancia una o due bombe, soprattutto per terrorizzare la popolazione (un pilota di questi aerei, interrogato da noi della Commissione di inchiesta, ci disse che sganciava le bombe sulla base di coordinate che gli fornivano i superiori, e poi si allontanava senza neanche sapere cosa avesse colpito). Tutti gli abitanti scappano, ma si trovano circondati dai Janjaweed a cavallo o su cammelli, armati di fucili e mitra, e appoggiati da "pick-up" governativi su cui sono installati mitragliatrici e mortai. I villaggi sono subito preda delle fiamme. I civili cercano di salvare le loro povere cose, fuggendo all'impazzata quanto più lontano possibile. I miliziani armati radunano le donne e le violentano. Finiscono di bruciare le case ancora intatte, saccheggiano, uccidono quanti più uomini possibile. Sono aiutati da truppe governative in tute mimetiche o verde oliva, truppe che però di solito restano fuori del villaggio, a sparare e uccidere da lontano. Intanto uno o due elicotteri mitragliano dall'alto chi fugge. Chi si salva, quando torna qualche ora dopo trova il villaggio devastato e inabitabile. Comincia così la processione dei profughi, che si trasferiscono negli enormi centri di raccolta, dove sopravvivono solo grazie alla generosità delle organizzazioni umanitarie internazionali.

Tutto ciò i disegni così realistici dei bambini, con i loro colori vivacissimi, lo illustrano assai bene. Sembra di vedere una traduzione in immagini del rapporto della Commissione di inchiesta sul Darfur. Un'ennesima prova di quel che avviene da quattro anni, e che il Governo sudanese si ostina con assurda pervicacia a negare. E che invece corrisponde esattamente a quel che tantissimi testimoni e vittime ci hanno detto, quando noi della Commissione Onu di inchiesta li abbiamo interrogati. Così come corrisponde a quel che ci hanno detto vari ex piloti di elicottero o di aereo, ora in carcere per essersi rifiutati di continuare ad
uccidere.

La violenza della guerra fa vedere ai bambini cose che dovrebbero conoscere solo da adulti: la morte, concreta in tutto il suo orrore; il sangue; il terrore di chi fugge. Quella violenza traumatizza non solo chi la vive, ma anche chi sta lontano. Serbo ancora quattro belle poesie sulla guerra in Bosnia mandatemi all'Aja, nel 1994, quando presiedevo il Tribunale per l'ex Jugoslavia, da un ragazzo di Sant' Anastasìa, in provincia di Napoli. Una di esse diceva: "Quando un giorno/si scaverà/nella vecchia miniera/di Omarska/non ferro/troverete/ma/riccioli neri". Se noi adulti facciamo tanto poco per porre fine alla violenza, speriamo che almeno le sofferenze, l'angoscia e lo stupore dei fanciulli scuotano gli animi.

(3 agosto 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 03, 2007, 10:45:39 pm »

Allestiti presidi mobili per le località raggiungibili solo a dorso d'asino

Con gli sfollati del Darfur, tra fame e malattie

La clinica di Medici Senza Frontiere è l'ultima rimasta in funzione in un'area di 10 mila chilometri quadrati.

Distrutti gli altri ospedali
 

FEINA (Darfur, Sudan) - Su un piccolo altopiano spazzato dal vento che si trova sulle montagne del Jebel Marra, nel Darfur centrale, Medici Senza Frontiere (Msf) ha aperto una nuova clinica. Questa regione è popolata prevalentemente da persone della tribù Fur. Negli ultimi quattro anni la popolazione è aumentata per l’arrivo di 45.000 sfollati in fuga dai bombardamenti e dagli attacchi di terra.

L'UNICA CLINICA - La clinica di Msf, situata nel villaggio di Feina, è l’unica struttura sanitaria funzionante in un’area di 10.000 chilometri quadrati. A causa del conflitto tutte le altre cliniche dell’area sono state distrutte o danneggiate e il personale sanitario è dovuto scappare. Oltre a visitare le persone affette da diarrea, affezioni respiratorie, problemi oculari e altri disturbi (in media 130 al giorno), nella clinica vengono curate le donne in gravidanza. Avendo riscontrato preoccupanti segni di malnutrizione nei neonati e nei bambini, dovuti probabilmente alla mancanza di acqua potabile e di cibo, il team ha avviato anche un centro alimentare. A un mese dall’apertura, nella clinica sono stati già ricoverati 89 bambini gravemente malnutriti.

VILLAGGI BOMBARDATI - Nella regione del Jebel Marra, la gente tradizionalmente vive in piccoli insediamenti sparsi tra le montagne. Anziché raccogliersi nei grandi campi sfollati, come in altre aree del Darfur, gli sfollati si sono insediati qua e là nella regione. In questo modo si sentono più al sicuro dagli aerei che hanno bombardato i loro villaggi. Metà degli sfollati sono arrivati nell’area nel dicembre scorso, provenienti dalla parte più orientale del Jebel Marra che è stata oggetto di ripetuti attacchi. Per raggiungere questa zona più sicura hanno viaggiato per giorni a piedi o a dorso d’asino.

SENZA PIU' NULLA - Gran parte degli sfollati ha perso tutto ciò che possedeva: case, effetti personali e animali. Sono costretti a dipendere in tutto e per tutto dalla ospitalità e generosità delle popolazioni dei villaggi nei quali si sono rifugiati. Devono condividere con i loro ospiti il cibo, i ripari e a volte anche le terre. Gli sfollati cercano inoltre di guadagnarsi da vivere raccogliendo erba, acqua e legna da vendere al mercato oppure cercandosi un lavoro giornaliero come muratori, braccianti, operai o vendendo il tè.

TERRENO ACCIDENTATO - A volte, per raggiungere la clinica di MSF, la gente viaggia a dorso d’asino per più di dodici ore. In questo accidentato terreno di montagna non ci sono strade ma solo sentieri sterrati. Per accorciare le distanze tra questa gente e le cure sanitarie di base e anche per fronteggiare la malnutrizione che colpisce prevalentemente i bambini più piccoli, il team di Msf ha avviato delle cliniche mobili in diverse località che distano dalla clinica anche otto ore a dorso d’asino.

«SIAMO TRA LA GENTE» - Anche uno degli infermieri che lavora con Msf da un mese è uno sfollato. E’ contento della formazione che sta facendo sul lavoro. «Perché adesso posso aiutare di più la gente a combattere le malattie. Sono in grado di dare consigli alla mia gente in merito alla loro salute. Msf deve stare tra la gente. In caso di emergenza, siamo pronti a intervenire».

MSF E GLI SFOLLATI - In Darfur, Medici Senza Frontiere fornisce assistenza umanitaria e medica a tutti i gruppi vittime della violenza: popolazione residente, persone sfollate e nomadi. Con circa 2mila operatori che lavorano in tutta la regione, quello in Darfur è il più grande intervento attualmente condotto da Msf. Nei suoi centri sanitari, Medici Senza Frontiere assiste 500mila persone sfollate. Di seguito le testimonianze di alcuni degli sfollati del Darfur.

02 agosto 2007
da corriere.it
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