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Autore Discussione: ENRICO SALZA Non torniamo allo stato banchiere  (Letto 2207 volte)
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« inserito:: Marzo 27, 2009, 11:47:14 am »

27/3/2009
 
Non torniamo allo stato banchiere
 
ENRICO SALZA*
 
Se c’è una cosa che ci insegna la crisi attuale è che la finanza non deve perdere il legame fondamentale con l’economia reale di cui è strumento: più è globale la finanza, più occorre che il legame con gli attori chiave dell’economia sia forte localmente. Troppo spesso in passato ci è stata data una rappresentazione in cui la globalizzazione era in contrapposizione con la dimensione locale, quasi che l’una escludesse l’altra. In realtà Locale e Globale in futuro dovranno essere due concetti sempre più coniugati. E noi agiamo in questa direzione. Per questo è importante l’incontro di oggi, che vuole promuovere un dialogo tripartito tra i rappresentanti dei governi, del sistema finanziario e del mondo delle piccole e medie imprese.

L’auspicio è che questi lavori agiscano da input per le imminenti riunioni del G20 e del G8. In area Ocse, le piccole e medie imprese con meno di 250 addetti contribuiscono all’impiego di oltre la metà dei lavoratori del settore privato. Nell’Ue superano il 99% del totale. Il caso italiano è ancora più estremo. Le micro imprese con meno di 10 addetti sono circa 4,2 milioni, il 94,9% del totale, e occupano quasi 8 milioni di addetti. Per una banca come la nostra, fortemente radicata nel Paese, è evidente che il segmento delle piccola e medie imprese è più che un semplice target di mercato: è il cuore della nostra attività. Questa crisi è una crisi grave e anche utile. È grave perché, partendo dalla finanza, ha contagiato l’economia reale dei Paesi sviluppati, si è estesa ai Paesi emergenti e rischia di persistere. È grave, anche se diversa — e a mio avviso si rivelerà assai meno lunga - della depressione del 1929. È utile perché mette l’attenzione sul fatto che «gli uomini contano». Per troppo tempo abbiamo pensato a costruire organizzazioni perfette, capaci di operare con strumenti perfetti. Ma le organizzazioni sono gestite da uomini. Non c’è scienza manageriale che possa negarlo. E c’è la crisi a sottolinearlo. La crisi è stata prodotta da errori degli uomini: errori di valutazione, di comportamento, omissione di controlli. Non è frutto dei capricci dei mercati, ma la conseguenza di comportamenti discutibili, scorretti: errori. La finanza è un mestiere più delicato di altri. Permette alle famiglie di realizzare il sogno della casa, alle imprese d’investire, ai risparmiatori di garantire un reddito ai risparmi. La finanza non può essere terreno di conquista per persone ambiziose, guidate unicamente dall’ossessione del risultato trimestrale e dell’incasso dei bonus, quale ne sia il costo. La finanza serve agli uomini e dev’essere presidiata da professionisti, non da arrivisti. Questa crisi aiuterà banchieri e uomini di finanza a vedere le loro imprese diversamente e a mettere la questione degli uomini e dei principi che li muovono in primo piano. Sara l’inizio di un rinnovamento... con qualche ritorno a principi che si erano un po’ impolverati, ingiustamente. È utile, poi, perché mette a nudo una questione: fino a qualche anno fa sembrava che il motivo principale della privatizzazione dei sistemi finanziari fosse la loro efficienza, l’abbassamento del costo del servizio agli utenti. Che i servizi si siano evoluti velocemente non c’è dubbio, ma adesso qualcuno incomincia a suggerire che i rischi della concorrenza in finanza sono le crisi che non si possono sostenere. Torniamo al passato? Allo Stato-banchiere? Speriamo di no. Ho una convinzione: non si eliminano i fallimenti concentrando tutti i rischi di errori su una sola istituzione. Anzi, si amplificano. Ed è più probabile che i fallimenti si limitino se c’è una sana dialettica tra il sistema finanziario e il sistema di governo. Solo che questa crisi ha messo in evidenza che la capacità di autocontrollo e di autogoverno della finanza sono inappropriati e insufficienti. Non individuano i problemi tempestivamente, non li risolvono autonomamente.

Un’altra ragione per cui questa crisi può essere utile è perché finalmente tutti hanno capito che i debiti, quando sono troppi, fanno male. Fanno più male al creditore che al debitore. Oggi in molti Paesi vengono salvati i sistemi finanziari e si sostiene la domanda interna ricorrendo al debito pubblico, ossia al risparmio che le famiglie ci mettono a disposizione. È un risparmio da salvaguardare. Prezioso oggi, da restituire con gli interessi domani. Sottolineerei infine che questa crisi può essere utile e che essa renderà più rapido il disinvestimento dai settori meno redditizi e il reinvestimento in quelli redditizi. Il capitalismo si rinnova nelle e con le crisi. Anche attraverso questa, nella quale i governi devono salvaguardare doverosamente i più deboli, avverrà una quota del rinnovamento delle imprese. Rinnovamento che, forse, se in passato non avessimo troppo assecondato la loro domanda di credito, sarebbe già avvenuto. li studiosi di imprenditorialità sostengono che la differenza tra gli imprenditori bravi e i meno bravi risiede nel fatto che i primi apprendono dai propri errori, e non che non li commettano. Ci ricorderanno come bravi banchieri, o bravi imprenditori, se apprenderemo dagli errori commessi prima di questa crisi. Che passerà, speriamo presto, ma che deve indurci a cambiare i comportamenti per un tempo assai più lungo.


*dall’intervento del presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo che ieri a Torino ha aperto la tavola rotonda Ocse sull’impatto della crisi globale sulle piccole e medie imprese

 
da lastampa.it
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