LA-U dell'OLIVO
Marzo 28, 2024, 12:40:14 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: L’Unità ieri e oggi Una Storia continua  (Letto 5360 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Agosto 02, 2007, 05:58:18 pm »

Cultura
 
L’Unità ieri e oggi Una Storia continua
Bruno Gravagnuolo


Un’altra Unità. Quella di ieri, a fare da pendant con quella di oggi, per capire quanto siamo cambiati, e quanto siamo ancora figli della lunga storia da cui veniamo. E poi per capire quanto la storia d’Italia e del mondo, dal dopoguerra ad oggi, si rifletta nell’avventura quotidiana chiamata l’Unità. E così da dopodomani 4 agosto al 19, i lettori troveranno in edicola, assieme al giornale, la riproduzione in quattro pagine di alcuni dei «numeri-storia» del loro giornale di ieri: quelli che hanno marcato le date chiave del nostro tempo. Dall’Unità del 4 giugno 1946, annunciante in prima e seconda edizione straordinaria la vittoria della Repubblica al Referendum istituzionale, a l’Unità «aperta» dalla scomparsa di Giovanni Paolo II il 2 aprile 2005.
Passando per altri avvenimenti salienti, come la tragedia del Vajont, l’omicidio Kennedy, lo sbarco sulla Luna, l’uccisione di Allende, l’omicidio Moro, Tien an Men, il crollo del Muro di Berlino, le Twin Towers. E inclusi i giorni che hanno marcato la riscossa del quotidiano: la manifestazione del G8 a Genova, numero in data 24 luglio 2001. A un anno esatto dalla chiusura della redazione, riaperta nel marzo con Furio Colombo direttore.

E quello fu davvero un ritorno in grande. Non solo perché quel giorno l’Unità fu puntuale e trascinante, contro Berlusconi e il centrodestra reinsediati. Anticipando in tutto e per tutto le verità nascoste da un’ottusa gestione dell’ordine pubblico, a lungo denegate prima di venir riconosciute dalle inchieste giudiziarie (dalle circostanze della morte di Giuliani ai pestaggi). Ma anche perché esso era la prova che questo giornale era davvero vivo e insostituibile. Del tutto in linea con la sua funzione storica e civile, come ai tempi di Portella delle Ginestre, del Vajont, degli scandali di Agrigento, del luglio 1960 contro Tambroni. E dunque pronto a rimettersi in marcia, proprio seguendo la falsariga che ne ha fatto scudo di diritti. Vettore di denuncia e progresso civile, e anche simbolo di «appartenenza». Non soltanto al Pci che lo inventò, ma a un più vasto campo di emozioni e di lotte. Quello della libertà di tutti e di ciascuno, inseparabilmente legato all’emancipazione delle classi subalterne in Italia, come «motore».

Scommessa vinta, anche quella di fine luglio 2001 (e in molti non ci credevano!) come dimostra il successo editoriale di quella stagione che fece da «start» all’opposizione nascente contro Berlusconi, e che ci ha condotti fin qui.

Ma che storia è questa nostra? Che giornale è il nostro? Certo, è stata raccontata tante volte, per sommi capi e in dettaglio, dagli uomini e dalle donne che l’hanno fatta, e persino dai manuali di giornalismo. E lo sappiamo, nasce da Gramsci nel 1924, nel vivo di una battaglia politica contro Bordiga e nel seno della lotta per la formazione del gruppo dirigente del Pcd’I, che doveva condurre ad un partito altro e diverso da quelli comunisti del 900. Si trasfondeva in quei nuovi fogli, compressi dalla clandestinità e dalle repressioni poliziesche, l’idea di un partito che fosse voce di un blocco sociale in movimento. Perciò predisposto alle alleanze, alla cultura, al senso comune, alle notizie, almeno quelle politiche all’inizio. E in questo agiva l’esperienza dell’Ordine Nuovo: un partito che fosse prefigurazione viva del domani. E già in questo «mass-media». Capace di operare come agenzia di opinione molecolare, su tutto l’arco delle questioni su cui si condensa egemonia e consenso.

Senza dubbio però fino al dopo guerra e oltre l’Unità fu organo di combattimento politico, nascosto nei confessionali e nelle cascine, copiato a mano e riprodotto con ciclostili di fortuna. Con le parole d’ordine salvifiche di linea, o dell’insurrezione partigiana tanto attesa. Ma l’Unità quella moderna e in cui viviamo pur tra mille strappi, nasce dopo. E trova il suo baricentro in una vocazione peculiare e che la metteva avanti a tanta altra stampa più blasonata. Eccola quella vocazione, trattegiata da Togliatti: «Dovete essere il Corriere della Sera del proletariato». Magari farà sorridere lo slogan un po’ ferrigno. E però, in quello slogan che i più vecchi ci hanno tramandato, c’era una formula vincente. Essere un giornale nazionale, completo, attrezzato. Multimediale e con generi e scritture variegate. Mescolanti alto e basso, così come mescolata è la vita globale di tutti i giorni. Dove un fatto di cronaca diventa la cifra di una condizione universale. E dove un fatto politico deve essere sviscerato e spiegato come evento di tutti, perché riguarda la vita di ciascuno. E dove un film, come tanti film del neorealismo, o un romanzo, possono indicare svolte di costume. E dove una gara sportiva, come il Giro d’Italia, diviene per forza una saga popolare convissuta, persino «alfabetizzante», sul terreno dell’etica quotidiana. L’Unità del dopoguerra, oltre che formidabile macchina anti reazionaria in quell’Italia, nacque da questa intuizione in anticipo sui tempi, da tanti «plagiata», e oggi ordinaria. E viene anche dalla fantasia di far scrivere su tutte queste cose gente come Italo Calvino, Massimo Mila, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Cesare Pavese, Lalla Romano, Elio Vittorini e tanti altri. Sguinzagliati a raccontarci del paese reale fuori dal Parnaso, e con linguaggio da Parnaso rinnovato a contatto con i fatti. Innovazione linguistica e civile, s’è detto. Ma guardate questi numeri della vecchia Unità. Vi accorgerete della modernità di impianto grafico. Apertura forte su due righe, editorale, spalla, centropagina, corsivi, riquadrati, pubblicità a spezzare. Notizie, ragguagli, pezzi d’appoggio a fare il punto. Comunicazione capillare insomma, a dare una sintesi del mondo in tempo reale. Come un puzzle in perpetuo movimento, con l’impronta dei cambi di marcia, delle ribattute, delle notizie d’ultima ora. Non solo puntute riflessioni di linea per rassicurare o spremere le meningi dei «compagni», sparsi in una penisola fatta allora di spazi e storie incomunicanti. Ma un’«immagine mondo» solidificata in modo convulso a contatto con gli eventi e però in grado di «bucare lo schermo» (non le notizie!) specie nei momenti topici, come quelli che vi riproponiamo. Come ha raccontato una volta Pietro Ingrao, uno dei direttori storici: «La cosa più difficile per me che ero un lento per natura e amavo rimuginare sulle cose, era l’irrompere delle notizie che spesso costringeva a buttare tutto all’aria e rifare daccapo il giornale sull’onda quotidiana dei fatti. Ma alla fine imparai questa ginnastica. L’Unità ti dava l’impressione eccitante di stare al centro della vita del paese. E vivevo giornalismo e politica come un tutt’uno...». Una lunga citazione che il lettore ci perdonerà. E che tuttavia rende il clima e il senso che perdura, di questa cosa chiamata Unità. L’istinto vitale di una fatica che ti costringe ogni giorno a cambiare opinioni e abitudini, perché ogni giorno è Storia diversa. Con la lealtà delle idee. E senza chiedere il permesso a nessuno. Anche perché non ne avremmo il tempo.

Pubblicato il: 02.08.07
Modificato il: 02.08.07 alle ore 10.01   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:41:35 pm »

50 anni fa: su l'Unità l'addio di Calvino al Pci

Alessia Grossi


È il 7 agosto 1957. Italo Calvino si dimette dal Pci. «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito». Con questa lettera lo scrittore piemontese si univa alle fila dei fuoriusciti. Per lui, come per altri arriva immediata la stroncatura del partito. In questi stessi giorni, a cinquant'anni di distanza da allora l'Unità pubblica un inserto con le pagine storiche del giornale. Momenti salienti come questo in cui la storia d'Italia e degli uomini che l'hanno fatta si incrociano sulle pagine del nostro giornale.

L'articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale, allora organo del partito comunista. Il titolo esplicativo è già un anatema: «Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino». Subito sotto, in basso a destra, la risposta del comitato direttivo. Il tono più che di condanna è di recriminazione. In quegli stessi mesi, dalle pagine di Città Aperta e di Rinascita, Calvino e Ferrara polemizzano con racconti ambientati nel mar delle Antille.

La decisione di Calvino di abbandonare il Pci arriva in agosto, ma sono già in molti ad aver lasciato il partito dagli ultimi mesi del '56. Sono gli anni della diaspora, segnati dai fatti di Ungheria, dalla lettura che di quegli avvenimenti dà il Pci e anni in cui il dibattito aperto dalla questione ungherese si riflette necessariamente per scrittori e giornalisti, sulle pagine dell'Unità. Coloro che come Calvino, Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri, Eugenio Reale così come i 101 intellettuali che firmano il manifesto di dissenso, solo per citare qualche esempio, prendono le distanze dalla linea di Togliatti e del Pci. «I compagni e gli avversari» devono sapere, dice lo scrittore piemontese e non solo lui.

E con lo stesso criterio i dirigenti accusano i rivoltosi di voler dare spettacolo della crisi del partito dandola in pasto con i loro articoli alla stampa borghese. Il fatto è che dopo la rivolta d'Ungheria, il 1957 per molti intellettuali e militanti doveva essere l'anno della svolta. La svolta rinnovatrice che sarebbe dovuta uscire dall'VIII congresso del Pci . Coloro che rimasero delusi dal congresso, i cosiddetti rinnovatori, non videro altra possibilità che quella di uscire dal partito. Entrambe le parti, fuoriusciti e militanti, misero bianco su nero le rispettive delusioni. Da parte di entrambi la speranza di un possibile rincontro.

Nel caso di Calvino questi anni difficili e questi avvenimenti, contrariamente alle sue dichiarazioni iniziali, segneranno un lento ma progressivo allontanamento dalla politica .


La lettera di dimissioni di Calvino

Italo Calvino si dimette dal Pci. Come altri compagni chiede che la sua lettera venga pubblicata sul L'Unità. Le ragioni della sua fuoriuscita sono chiare: «La via seguita dal Pci [...]» dichiara Calvino dalla settima pagina dell'Unità del 7 agosto 1957 «attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, m'è apparsa come la rinuncia ad una grande occasione storica». La delusione dello scrittore è evidente. Il suo dissenso, oltretutto, sarebbe solo d'ostacolo alla sua partecipazione politica. Astenersi da «ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa» per evitare una «nuova infrazione disciplinare» non è più un comportamento plausibile per lo scrittore piemontese.

Per Calvino, entrato nel Pci dopo aver combattuto contro i nazifascisti, iniziato alla scrittura con la collaborazione con Il Politecnico e L'Unità quello di voler essere un intellettuale indipendente resta una desiderio insindacabile. «Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d'opinione non direttamente impegnato nell'attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro» spiega nella lettera ai compagni. Ma lo scrittore sa benissimo come il termine indipendenza, per lui tanto necessario non verrà accolto in modo benevolo dal partito. E, si affretta a spiegare, «non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone nel cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. E continuerò ad esserlo» Così Calvino saluta i compagni. «Non rinnego il passato» dice «vorrei rivolgere un saluto anche ai compagni più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi, al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente e a tutti; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano dei quali continuerò a considerarmi il compagno».


La stroncatura del comitato direttivo di Torino

«Il Comitato direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione». La risposta del direttivo è inevitabile. Calvino aveva chiesto la pubblicazione della lettera di dimissioni per sottrarsi ai colloqui previsti dallo statuto che - aveva detto lo scrittore - non avrebbero fatto che «incrinare la serenità» del suo commiato. Il partito non accetta il tacito accordo e replica immediatamente. «Nessuno contesta a Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l'unica misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave conclusione di lasciare il Partito» - tuona il comitato direttivo da Torino. Calvino è accusato di aver preso le distanze «dal metodo di valutazione marxista, per il quale dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive del Partito». Così stando le cose le ragioni dello scrittore sono in contraddizione l'una con l'altra. Parla di indipendenza, reagiscono dal comitato. «Indipendente da chi e da cosa?», si chiedono. Le formule di Calvino su un nuovo tipo di partecipazione alla vita del partito sono solo «formule che propongono una inaccettabile rinuncia». Il tono di recriminazione non cessa. «Proprio nel momento attuale» continua la lettera, la decisione dello scrittore denota «un cedimento rispetto alle sue responsabilità».

Ma la stroncatura arriva sul finale, apparentemente incoraggiante. «È da respingere con fermezza l'opinione che il Pci sia andato attenuando i propostiti rinnovatori in un sostanziale conservatorismo». Da qui la rimarcata intenzione da parte del direttivo di restare sulle sue posizioni e il vuoto augurio a fine lettera che «Calvino riesca a ritrovare la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante quale Calvino dichiara ancora di voler essere». Fermo restando la condanna del suo gesto e la critica dei suoi errori da parte del Pci.


Pubblicato il: 07.08.07
Modificato il: 07.08.07 alle ore 14.35   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Agosto 11, 2007, 08:43:40 pm »

Presentazione oggi in anteprima nel paese dove è nata la chimica italiana del volume «Il villaggio de l’Unità»

Bussi «la rossa» e le feste del Pci

Lalla D'Ignazio


Greco racconta «i comunisti più comunisti degli altri»  Pennellate amare, pennellate affettuose, pennellate politiche, pennellate nostalgiche, pennellate che graffiano: per il suo affresco delle Feste dell’Unità nella sua «rossa» Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara, Pino Greco ha usato tutti i colori che la memoria restituisce ricordando avvenimenti vissuti con passione e il suo libro è dunque testimonianza sincera di una forte esperienza collettiva.
«Il villaggio de L’Unità» (Melampo editore, 91 pp. 8,50 euro) è dedicato «a quanti hanno vissuto l’essenza vera di quelle feste de L’Unità. E cioè: l’autenticità delle aspirazioni ideali e l’altruismo senza guadagni».

E’ già da questa dichiarazione dell’autore sulla prima pagina si coglie la sotterranea (ma neanche troppo) vena polemica che percorre il volume quando emerge il confronto tra «quella sinistra», operaista e generosa, e gli eredi, più acculturati più distaccati, meno altruisti. E la riflessione politica su quel che è stato, quel che è quel che sarà si fa largo tra i ricordi. Riprende questo filo Achille Occhetto, che firma l’introduzione del libro intitolata: «Ai compagni chiamati a costruire il nuovo, con il loro cuore antico».

«Nel leggere il libro di Pino Greco», scrive l’ex segretario del Pci artefice della svolta della Bolognina che vide la nascita dal Pds, «ho avvertito la sua esigenza di andare oltre la testimonianza di un periodo storico vissuto con la passione e la generosità della comunità di Bussi e la nostalgia per un vissuto di idee, progetti e utopie che animavano milioni di militanti impegnati nelle feste de L’Unità, veri e propri villaggi aperti alle comunità più ampie delle tante città italiane.

Si percepisce nel lavoro di Pino Greco la necessità di pubblicare oggi un libro scritto sedici anni fa per rinfocolare emozioni e per coprire il vuoto, nella politica attuale, delle apirazioni ideali e dell’altruismo senza guadagni personali di cui si parla diffusamente nel «Villaggio de l’Unità».
Il volume sarà presentato ufficialmente l’8 settembre al Festival Nazionale dell’Unità di Bologna, ma a Bussi l’autore ha voluto donare una anteprima: questo pomeriggio alle 18, nel cortile dell’ex scuola elementare della cittadina si parlerà dunque del libro e di quel che racconta, in una occasione unica per confrontare i ricordi e le voci del personaggi narrati con quelli del narratore, che sarà presente, le nostalgie dei vecchi militanti con le curiosità dei giovani.

Pino Greco è nato a Bussi 62 anni fa, laureato in lettere, insegnante e poi preside vive sul lago di Garda, a San Felice del Benaco.
Ma all’Abruzzo è rimasto legato - per Rai 3 Abruzzo è stato consulente di archeologia industriale - e le sue ultime pubblicazioni, dopo una lunga attività come documentarista, si sono concentrate proprio sulla cittadina della Val Pescara: nel 2003 ha scritto per D’Angelo i testi di «Tirino, la memoria del fiume», premiato alla sezione Ambiente della Fiera del Libro di Francoforte.

E con il suo ultimo lavoro torna a scegliere Bussi, che «non è un paese come tanti», scrive. «Bussi è il paese dove è nata la chimica italiana. Il paese che ha prodotto esplosivi e fertilizzanti, detersivi e veleni, additivi per la benzina e gas di ogni specie. Per esempio l’idrogeno per le esplorazioni polari e l’yprite per gli Abissini. Ultimamente perfino la discarica più grande e più tossica d’Italia. Bussi ha anche prodotto coscienze e comportamenti che una volta definivano la classe operaia. E anche un sindacato incazzoso, anarcoide, incostante, ma prodigiosamente vivo. (...) Quella di Bussi è una vicenda singolare. Era scontato che ne fossimo un po’ presi. Al punto da crederci più comunisti degli altri».
La festa dell’Unità non poteva non risentire di tutto questo, che non comportava che fosse più sfarzosa o affollata delle altre «semplicamente era la festa dei comunisti di Bussi. Ecco la differenza».

«Il villaggio de l’Unità» racconta «quei comunisti», tra foto in bianco e nero di comizi e tavolate, insomma non reduci del ’68, ma ancora «tutti impegnati sulla linea del fuoco». Racconta quando «le utopie non erano zavorra» e c’era «più gusto a essere che ad avere».(10 agosto 2007)

espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Agosto 16, 2007, 12:21:04 am »

Vi spiego la protesta a sinistra

Nicola Tranfaglia


Escono in questi giorni sonnacchiosi di mezza estate e sembrano fatte apposta per dare il via nell’ormai prossimo settembre a una nuova disputa sul programma e sull’agenda del governo Prodi. L’intervista di Franco Giordano al «Corriere della Sera» fa seguito a quella uscita ieri del ministro del Lavoro Cesare Damiano. Sono state precedute da alcune, sconsiderate dichiarazioni dell’ex leader dei no-global Francesco Caruso.

Il quale ha definito «assassini» il senatore Tiziano Treu della Margherita e il professor Marco Biagi assassinato dalle Brigate Rosse. Una dichiarazione quest’ultima che non dovrebbe avere posto nel linguaggio e nelle idee di un parlamentare che ha libertà di critica ma non può scambiare le differenze ideali all’interno dell’una o dell’altra coalizione (qui si tratta, dovrebbe ricordare Caruso, della medesima, quella di maggioranza) come discriminanti tra il bene e il male, le vittime e i carnefici.

Nel caso specifico, Caruso dimentica anche che la cosiddetta legge Biagi non è stata espressione diretta del lavoro del giuslavorista modenese ma un adattamento politico di alcune idee discutibili ma non certo criminali compiuto dalla coalizione berlusconiana.

Tutti i partiti, occorrerebbe ricordarlo ai giornali che fingono di dimenticarlo, della sinistra hanno condannato quelle parole e il giudizio in esse contenuto a dimostrazione di una cultura e mentalità diverse da quella di Caruso. Ma per i quotidiani che si rifanno al forte desiderio di far cadere l’attuale governo di centro-sinistra prima ancora che termini la quindicesima legislatura, si tratta di un ottimo pretesto per preparare un autunno caldo almeno a livello mediatico, se non reale.

In realtà le cose stanno diversamente e basta leggere le risposte di Giordano alla cronista del quotidiano più diffuso del paese per rendersene conto.

Che i sindacati, in particolare la Cgil, non siano soddisfatti del protocollo sulle pensioni e il Welfare è un fatto difficile da negare. Lo stesso Epifani, segretario generale del maggior sindacato nazionale, ha parlato di una firma con riserva, di fronte a un governo che ha cambiato le carte in tavola all’ultimo momento e con la minaccia di far cadere il governo. Quanto al gabinetto Prodi, quattro ministri si sono dissociati dal testo siglato e hanno affermato che nei mesi successivi, attraverso il lavoro parlamentare, cercheranno di modificare l'accordo per ora raggiunto.

Da questo punto di vista non ci si può meravigliare che i leader legati al progetto di unificazione della sinistra decisa a non confluire nel partito democratico, pur continuando a far parte della coalizione di centro-sinistra e del governo, useranno gli strumenti parlamentari (mozioni, emendamenti, interpellanze e interrogazioni) per modificare parzialmente quella scelta e correggerla in alcuni punti essenziali.

La piattaforma, a differenza di quel che sostiene il ministro Damiano, sta nel programma Prodi e non in improvvise velleità pseudo-rivoluzionarie.

In quel programma si dà un giudizio assai negativo della cosiddetta legge Biagi e ci si impegna a sostenere l’urgenza e la necessità di modifiche di fondo. Si può dire che il protocollo di luglio vada chiaramente in quella direzione? A me pare assai difficile rispondere in maniera positiva.

Non si è distinto il piano della spesa pensionistica da quella previdenziale come pure molti hanno auspicato.

Non si è data, attraverso il nuovo meccanismo contributivo, così come è stato organizzato, la speranza ai lavoratori spogli della protezione del contratto a tempo indeterminato di costruire una pensione finale corrispondente al sessanta per cento dell'ultimo salario, essendo questa una mera possibilità assai difficile da conquistare attraverso i calcoli oggi possibili.

E a questi aspetti altri si aggiungono che disegnano un panorama che non è quello della legge Biagi ma non è neppure quello di una legislazione del lavoro che tuteli la maggior parte degli attuali precari, dei lavoratori a progetto, a tempo determinato, interinali e così via dicendo.

Di fronte a una scelta politico-economica di questo genere, c’è da stupirsi che le forze politiche che hanno al centro del loro programma la questione del lavoro e dello sviluppo economico per le masse popolari protestino e si preparino a lavorare in Parlamento per modificare i termini dell’accordo di luglio? In una situazione nella quale la popolarità del governo Prodi è bassa e si distanzia per più di dieci punti dalle aspettative di voto dell’opposizione di centro-destra, pur con l’improbabilità dei sondaggi a lungo termine?

Chi può aspettarsi che l’approvazione dell’accordo da parte della Confidustria e dell’opinione pubblica moderata rappresentata dai giornali degli imprenditori possano annullare il forte disagio economico e di vita di milioni di giovani, di pensionati, di persone che continuano a non arrivare alla fine del mese?

Non si tratta, per queste forze politiche, di sostituire il governo Prodi con governi di larghe intese o gabinetti istituzionali, magari aperti a pezzi della destra? Sarebbe un errore inaccettabile.

Ma questo non può significare attuare solo quella parte del programma elettorale che piace alle imprese e al mondo finanziario di questo Paese e metter da parte la parte che può migliorare la vita delle masse popolari, dare speranze ai giovani, render più difficile il conflitto di interessi, allargare le libertà e l’eguaglianza degli uomini e delle donne, introdurre un effettivo pluralismo nell’orizzonte radiotelevisivo come in quello giornalistico ed editoriale.

Altrimenti che senso avrebbe porsi di fronte al centro-destra come competitori capaci di contrastarne la vittoria nelle prossime elezioni?

Pubblicato il: 15.08.07
Modificato il: 15.08.07 alle ore 7.32   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Agosto 16, 2007, 12:21:57 am »

Quando col Muro crollò il socialismo reale

Achille Occhetto


Stiamo sicuramente parlando dell’evento degli eventi del XXI secolo. Un evento che dal punto di vista geopolitico chiude la storia del secondo millennio. Il secolo breve si era aperto con l’altro atto straordinario che ha dettato per settanta anni l’agenda politica del pianeta: i dieci giorni che sconvolsero il mondo della Rivoluzione di ottobre.

Dieci giorni che fecero del comunismo il fulcro centrale di ogni altro avvenimento, che coagularono in fronti contrapposti due mondi separati e avversi, e che, tranne durante la indimenticabile pagina della resistenza al nazismo, si contrastarono senza esclusione di colpi. Lo scontro per molto tempo non fu solo tra destra e sinistra, ma anche tra comunismo e anticomunismo. Fu tra un’idea di uguaglianza senza libertà e una idea di libertà senza uguaglianza. E sulla contrapposizione tra queste due belle parole che la Rivoluzione francese aveva unite sulle sue bandiere libertarie e insieme egualitarie si era aperto l’abisso della violenza nel quale scorreva il sangue di crimini indicibili. Il terrore, la tortura, il dispotismo divennero, in ambo i campi, strumenti leciti per combattere una guerra senza esclusione di colpi.

Nello stesso tempo i democratici sinceri, che avevano fatto della libertà l’inizio e la fine di ogni agire umano, e che militavano in entrambe le parti, non riuscivano a prevalere, se non in alcuni casi di grande rilievo come quello della promulgazione della Costituzione democratica e antifascista su cui si fonda lo Stato italiano, quello dello Stato sociale della grande tradizione socialista e democratica europea e, per alcuni aspetti, quello del kennedismo negli Usa e del messaggio di pace e di tolleranza di Papa Giovanni.

Il 9 novembre del 1989 venne ancora una volta dalla Russia una notizia che chiudeva quella pagina insieme appassionante e dolorosa che si era aperta proprio in quel paese. Dico dalla Russia perché la caduta del Muro suggella la fine del generoso tentativo gorbacioviano di riformare il socialismo reale, dimostrando in modo inequivocabile l’irriformabilità di quei regimi.

Con la caduta del muro di Berlino crollava tutta l’impalcatura bipolare su cui per decenni si era fondata la politica internazionale e interna di tutti, o quasi tutti, i paesi del mondo. Segnava la fine della spartizione del mondo in due blocchi contrapposti, faceva uscire dalla storia il cosiddetto socialismo reale, apriva la strada al crollo definitivo dell’Urss, mutava la configurazione dello scontro politico all’interno dei vari stati nazionali, modificava le alleanze e i blocchi politici, apriva la strada a una scomposizione e ricomposizione delle forze in campo, ridisegnava la mappa delle diverse aree geopolitiche. Soprattutto, metteva fine alla guerra fredda e al rischio di una guerra calda tra i blocchi combattuta con le armi termonucleari, con la conseguente distruzione della civiltà umana. La liberalizzazione di Gorbaciov è stata, dal punto di vista della sicurezza e della pace, un merito storico di cui non gli si darà mai sufficientemente atto.

La caduta del Muro faceva cadere tanti altri muri politici, morali, ideali che avevano diviso tra di loro le diverse forze della democrazia e della sinistra.

Per questo quel indimenticabile ‘89 ha assunto un valore paradigmatico per la stessa politica italiana e per ciascuno di noi che in quel crocevia della storia ha avuto funzioni di grande responsabilità politica.

Capimmo subito che non ci trovavamo dinnanzi ad un evento da commentare dall’esterno, ma che ci trovavamo al cospetto di un avvenimento che coinvolgeva direttamente il nostro agire politico e il nostro stesso modo di essere.

Io ho avuto modo di vivere l’evento a Bruxelles, al parlamento europeo, dove mi ero recato per incontrare Kinnock, il segretario laburista che più d’ogni altro aveva rinnovato il suo partito. L’incontro s’inquadrava nella mia instancabile missione per porre il problema della nostra entrata nell’Internazionale socialista. Nel mezzo di quell’incontro arrivarono le notizie della caduta del muro di Berlino. Guardai assieme al leader britannico le immagini trasmesse dalla televisione. Le picconate, le urla di gioia, le danze, l’esultanza di migliaia di giovani che saltavano di là e di qua del muro. C’era commozione e incredulità nelle strade di Berlino. Il mondo era stupito, come si intravede dalla stessa prima pagina dell’epoca ripubblicata da l’Unità.

Ai giornalisti che mi interrogarono a caldo risposi: «Siamo di fronte ad un mondo profondamente diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere dal 1945 in poi». E aggiunsi: «Ora l’epoca della guerra fredda è per davvero finita. Fino ad oggi l’equilibrio mondiale si è fondato sull’incontro e scontro tra i due blocchi. Oggi si devono trovare nuovi equilibri e si tratta di governare i tumultuosi processi in corso».

Ma ben presto si capì che non era sufficiente l’interpretazione politologica.

Le solite parole sulla necessità di un rinnovamento suonavano ridicole. Si rendeva ormai necessaria una politica non ideologica ma positiva, da parte di tutte le forze democratiche occidentali, perché le trasformazioni erano così radicali che non investivano più solo l’Est ma tutto il mondo, e l’Europa in particolare. Per questo dissi a caldo, davanti a Kinnock, che annuiva, che saltavano tutti gli assetti del dopoguerra e tutte le forze più avvertite erano ora obbligate a ridefinirsi. Era l’annuncio del nuovo inizio e del concetto che la campana del nuovo inizio avrebbe suonato per tutti.

Il problema che si apriva con la caduta del Muro non era dei soli comunisti, ma di struttura generale del mondo, di destino delle grandi forze storiche.

Sotto questo profilo si può storiograficamente dire che la caduta del Muro ha coinvolto la politica interna italiana più di ogni altro paese dell’Europa occidentale. Naturalmente se si elude, su un terreno del tutto diverso, l’unificazione tedesca.

E la svolta della Bolognina fu l’evento più significativo di quell’anello che congiungeva, nell’interpretazione del valore della caduto del Muro, politica internazionale e politica interna. Una interpretazione esclusivamente internazionale di quell’evento è, a mio avviso, estremamente limitata e parziale, così come una interpretazione solo nazionale della svolta sarebbe molto provinciale.

Fin dalle prime interpretazioni e giustificazioni della necessità di un nuovo inizio si capì che con la caduta del Muro di Berlino la situazione politica generale aveva subito un’accelerazione di proporzioni incalcolabili, e che non ci trovavamo solo davanti ad eventi che tendevano a cambiare la configurazione degli assetti mondiali così come erano scaturiti dalla seconda guerra mondiale. Si trattava di qualcosa che chiamava in causa la spartizione di Yalta, e che avrebbe aperto la strada all’esigenza di un diverso governo del mondo, a partire dal riconoscimento della autodeterminazione dei popoli. Non a caso ponemmo subito il tema della unificazione tedesca, come obiettivo politico immediato. Nello stesso tempo incominciava ad apparire chiaro che ciò che era accaduto a Berlino si presentava come il catalizzatore di un processo già in corso che, in un certo senso, avrebbe sgretolato un mondo, colpito non solo nell’immagine, ma anche nella possibilità di presentarsi come una realtà che, sia pure attraverso vie autoritarie, avrebbe potuto, in qualche modo, costituire una tappa, per quanto terribile, verso il socialismo. Ne conseguiva che il processo da cui aveva preso il nome il comunismo internazionale si trovava a fare i conti con uno sconvolgimento che presentava tutte le caratteristiche di una crisi storica.

Era il crollo di quel collettivismo burocratico che aveva finito per negare e offuscare gli ideali del socialismo democratico e per recare un danno inestimabile a tutte le forze che volevano mantenere aperta la via del rinnovamento delle società capitaliste, anche attraverso un profondo, ma democratico, mutamento del modello di sviluppo.

Nello stesso tempo il crollo del muro di Berlino non avrebbe dovuto sostituire i due centri del governo del mondo della guerra fredda, quello di Mosca e quello di Washington, con l’unilateralismo degli Usa ma con una nuova forma di democrazia planetaria che avesse al proprio centro una Organizzazione delle Nazioni Unite profondamente riformata. Purtroppo siamo ancora molto lontani, se si esclude l’unica vera grande novità rappresentata dalla costituzione della Unione europea, da una effettiva riorganizzazione democratica delle relazioni internazionali.

In buona sostanza, per non rimanere sotto le macerie del socialismo reale la via obbligata non era quella di uscire dal crollo del comunismo da destra; si poteva ancora tentare una fuoriuscita da sinistra, senza regalare la parola libertà alla destra.

Non a caso il richiamo che nel momento della svolta io feci alla sinistra diffusa e sommersa segnava le prime note di una sinfonia più ampia, quella della costituente di una nuova forza della sinistra e dell’ulivismo.

Il crollo del Muro poteva riunificare quelle forze democratiche e di sinistra che fino a quel momento si erano combattute perché si erano collocate ai lati opposti della barricata. Per questo dicemmo che ci doveva guidare una grande visione, la visione di una grande forza democratica che rispondesse alle esigenze della nazione. «Solo rispondendo all’esigenza oggettiva di fornire al paese una sinistra capace di affrontare la grande questione democratica che ci sta dinnanzi, assolveremo anche ad una funzione più generale di ricomposizione della sinistra»: così dicemmo con la svolta. E così dobbiamo ancora fare.

Per questo quell’evento non recava con sé solo la distruzione ma anche la possibilità di raccogliere energie nuove, la possibilità di mettere in moto le forze disperse di una sinistra diffusa, di una sinistra sommersa e scoraggiata.

Questa potenzialità è stata colta solo in parte e oggi molte cose sono da rifare. Rimane per fortuna la fine di una contrapposizione micidiale che avrebbe portato l’umanità verso la catastrofe.

A patto che non si costruiscano ad arte, come purtroppo sta avvenendo, altri muri, che non si passi dalla guerra ideologica a quella di religione, dai muri di pietra agli scudi stellari. Ma questi sono problemi di altre prime pagine che verranno commentate fra qualche anno e da altri.


Pubblicato il: 15.08.07
Modificato il: 15.08.07 alle ore 7.32   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!