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Autore Discussione: VITTORIO SABADIN Il cappio e il dollaro  (Letto 2309 volte)
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« inserito:: Marzo 25, 2009, 08:49:49 am »

25/3/2009
 
Il cappio e il dollaro
 
 
VITTORIO SABADIN
 
La Cina, che mantiene l’ordine interno con quasi 1800 esecuzioni capitali all’anno, ha deciso di essere protagonista delle scelte che il mondo dovrà fare per uscire dalla crisi al vertice del G20 che si terrà la prossima settimana a Londra.

E questa volta nessuno dei suoi interlocutori farà troppe obiezioni sulla salvaguardia dei diritti umani. Rispetto a qualche mese fa lo scenario è completamente cambiato. Barack Obama deve avere ormai capito che gli slogan necessari a diventare presidente degli Stati Uniti sono molto meno utili quando si tratta di governare. Il suo video pieno di buone intenzioni inviato all’Iran è servito solo ad irritare Israele e anche il suo annuncio che al G20 l’America tornerà protagonista nella gestione delle crisi mondiali sarà accolto senza troppo entusiasmo. Le ricette della Casa Bianca e del Tesoro americano non hanno finora prodotto grandi risultati e l’Europa non ha alcuna intenzione di seguire le stesse politiche stampando banconote e usando a piene mani i soldi dei contribuenti.

Il premier inglese Gordon Brown ha già replicato che a guidare il mondo fuori dalla recessione sarà invece la vecchia Europa. Ma entrambi i leader probabilmente si sbagliano e dovranno fare i conti proprio con la Cina, che si annuncia il vero protagonista del G20. Pechino aveva chiesto qualche giorno fa che il vertice di Londra fosse l’occasione per stabilire nuove regole per le relazioni commerciali e finanziarie globali, come si fece a Bretton Woods nel 1944. E per chi non avesse capito, il governatore della Banca Centrale, Zhou Xiaochuan, ha cominciato a spiegare di che cosa si tratta: Pechino vuole una riforma del sistema valutario mondiale, ora fondato sulla supremazia del dollaro, sostituendo la moneta americana con un nuovo sistema, basato sui Diritti Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale, inventati proprio per sostenere il rapporto dei cambi fissi deciso a Bretton Woods.

La scorsa settimana, anche la Russia aveva avanzato una proposta analoga, ma senza che nessuno se ne accorgesse. La richiesta del «grande timoniere» della Bank of China è finita invece sulla prima pagina del Financial Times perché molti analisti la leggono come un importante segnale ad Obama: i tempi sono cambiati e, quando Pechino parla, ora anche tu devi imparare ad ascoltare. La Casa Bianca aveva infatti completamente ignorato la richiesta cinese di non adottare politiche economiche che potessero avere un impatto negativo sul Paese: stampando dollari e iniettandone in grande quantità nel sistema per salvare l’America, Obama e il suo ministro del Tesoro Geithner rischiano di mettere in seria difficoltà Pechino, che ha nei suoi forzieri 2000 miliardi di riserve valutarie in dollari, che valgono sempre meno a causa delle politiche inflative della Casa Bianca.

La Cina non ha altre scelte e quei dollari dovrà tenerseli ancora a lungo, così come dovrà continuare ad acquistare i buoni del Tesoro americani come ha annunciato di volere fare: nessuno ucciderebbe il proprio principale debitore, rischiando poi di fare la stessa fine. Ma il clima è davvero cambiato. Dopo le accuse di Geithner alle autorità monetarie cinesi di «manipolare il cambio» dello renminbi, una penitente Hillary Clinton è andata a Pechino di fatto per chiedere scusa, dimenticandosi anche di fare quelle domande, così abituali fino a poco tempo fa, sulla pena di morte, sul rispetto dei diritti umani e della sovranità del Tibet.

Alla vigilia di un vertice decisivo per delineare una azione comune contro la crisi, la Cina sembra dunque avere deciso di esercitare un ruolo da protagonista nelle strategie mondiali. Come tutti, non sopporta più le manchevolezze del Fondo Monetario Internazionale, ma chiederà giustamente di destinargli maggiori risorse a sostegno delle economie dei Paesi emergenti, quelle che se lasciate a se stesse potrebbero trascinare anche i Paesi ricchi nel baratro. Subito dopo si occuperà di come uscire dalla propria crisi, che è nascosta dalla vastità del Paese ma è pesante forse più di quella degli altri: già 20 milioni di disoccupati, migliaia di fabbriche chiuse, rischi di disordini sociali elevati che potrebbero fare cadere molte teste nel governo.

La crescita inarrestabile del Paese è durata più di dieci anni ed è coincisa con uno speculare declino delle vecchie potenze economiche. Nel 1999, tra le prime sette banche del mondo quattro erano americane e due inglesi, ora ai primi posti ci sono solo banche cinesi. Agli occhi di Pechino, ha scritto l’Economist, l’Europa è un’insignificante macchiolina sulla carta geografica che si trastulla con il Dalai Lama e i diritti umani; il Giappone non conta più nulla e gli Stati Uniti sono nel panico, incapaci di individuare una via d’uscita. Eppure la Cina dovrà trovare un interlocutore da qualche parte, e questo interlocutore non potrà alla fine che essere l’America.

Il G20 di Londra ha buone possibilità di trasformarsi nel vertice del G2 tra Obama e Hu Jintao e la possibilità che i due non si capiscano è molto elevata. Il primo sta tentando di risollevare un Paese che attraversa la più grave crisi della sua storia, cercando nello stesso tempo di mantenere il ruolo egemone che gli Stati Uniti hanno avuto per decenni. Il secondo sa che la bilancia del potere politico ed economico si è già spostata verso Oriente, è poco disposto ad ascoltare lezioni o indicazioni di percorso e vuole contribuire a riscrivere le regole mondiali. La cosa peggiore per tutti sarebbe che, a forza di discutere chi deve avere l’ultima parola in questo mondo profondamente cambiato, si tornasse anche da Londra senza avere deciso nulla di importante. Purtroppo, è lo scenario più probabile.
 
da lastampa.it
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