Ilaria, 15 anni senza verità
di Gabriel Bertinetto
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono assassinati nell’auto in cui erano appena rientrati a Mogadiscio da un viaggio di lavoro compiuto per Rai3 nel nord della Somalia.
Non fu un agguato casuale. La vettura fu costretta a fermarsi. Il commando omicida scelse con cura i bersagli. L’autista e l’interprete somali furono risparmiati. I colpi di kalashnikov alla testa dell’inviata del Tg3 e del suo cameraman.
Eppure nell’arco degli anni, più volte è affiorata l’ipotesi che gli assalitori non mirassero necessariamente ad Ilaria e Miran, che l’attentato fosse una generica dimostrazione di odio nei confronti della stampa straniera e italiana in particolare all’epoca dell’intervento internazionale per riportare la pace tra le fazioni somale in guerra.
Il 23 febbraio 2006 la relazione finale dei lavori condotti dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato di Forza Italia, Carlo Taormina, sosteneva che il doppio omicidio fosse la tragica conclusione di un fallito tentativo di sequestro da parte di abitanti della capitale somala che nutrivano risentimenti verso il popolo italiano. L’ineffabile Taormina due settimane prima aveva addirittura adombrato l’ipotesi che Alpi e Hrovatin in Somalia avessero trascorso «una settimana di vacanze».
Ancora oggi sul doppio assassinio del 20 marzo 1994 non si conosce la verità. Ma le ipotesi che si fanno sono inquietanti. Una delle più accreditate è che Ilaria si fosse imbattuta nelle prove di un traffico di veleni, rifiuti tossici e materiali radioattivi e che le sue scoperte potessero mettere in grave imbarazzo grossi personaggi legati a quell’intrigo internazionale, fra cui personalità si spicco del mondo economico italiano. Per questo vollero tapparle la bocca per sempre.
È un fatto che il taccuino con gli appunti presi da Ilaria durante il viaggio e in particolare sui contatti avuti con il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogar, sparì e non fu mai ritrovato. Inizialmente il sultano fu indagato come mandante del delitto. Poi la sua posizione venne archiviata.
Intanto però l’idea del delitto non mirato che, non si capisce bene in base a quali elementi, la commissione Taormina avrebbe successivamente avallato, veniva smontata dalle perizie compiute fra il maggio ed il giugno del 1996 sulla salma di Ilaria. Gli esperti conclusero che si era trattato di una vera e propria esecuzione.
Pochi mesi dopo, nel novembre 1996, la Procura della Repubblica di Asti, che si occupava di commerci clandestini di rifiuti tossici in partenza e in transito dall’Italia, trovò piste che portavano verso la Somalia e altri Paesi dell’Africa costiera orientale, ma non riuscì ad andare oltre.
Con estrema lentezza la magistratura tentava di far luce sulla morte dei due giornalisti. E venne il momento in cui, lungi dal trovare i mandanti, ci si illuse di avere scovato uno dei sicari. Un certo Hashi Omar Hassan, venuto a Roma per testimoniare davanti alla commissione che indagava sulle denunce di violenze compiute dai soldati italiani in Somalia, fu arrestato e processato. L’autista di Ilaria disse di averlo riconosciuto fra i sette membri del commando assassino. L’accusa chiese l’ergastolo, la corte l’assolse. Due anni dopo però in appello fu condannato a 26 anni ed è tuttora in carcere.
Per la famiglia Alpi, Hashi non è che un «capro espiatorio». Luciana, la mamma di Ilaria, non può credere che dopo avere rischiato di finire in galera nel primo processo, Hashi, che era tornato in Somalia, sia stato così ingenuo da venire nuovamente a Roma quando fu incriminato una seconda volta.
«Se fosse stato colpevole -afferma Luciana Alpi-, se ne sarebbe rimasto laggiù. Invece venne in Italia volontariamente. L’hanno condannato senza avere prove sufficienti.
Viene il sospetto che qualcuno abbia voluto sacrificare lui per tacitare noi. E comunque, dove sono i mandanti»?
Ilaria aveva 32 anni, Miran 45. Lui aveva lavorato come operatore televisivo in molte zone di guerra. Lei era alla sua settima missione in Somalia. Era stata assunta alla Rai per concorso. Oltre all’inglese ed al francese parlava e scriveva molto bene l’arabo, che aveva studiato tre anni e mezzo al Cairo, da dove nel 1988 e 1989 scrisse alcuni articoli per l’Unità. Il mondo musulmano era la sua passione. Si era laureata in Lettere dopo avere seguito i corsi di lingue e cultura islamica presso il dipartimento di Studi orientali all’università romana della Sapienza.
gbertinetto@unita.it20 marzo 2009