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Autore Discussione: FILIPPO CECCARELLI Addio alla fiamma tricolore simbolo dell'epopea missina  (Letto 2521 volte)
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« inserito:: Marzo 21, 2009, 12:02:44 pm »

Si spegne oggi il marchio di fabbrica del partito di Fini.

Da D'annunzio a Pasolini ecco la sua storia.

E un giorno La Russa disse: "Abolirla è come tagliarsi gli attributi"

Addio alla fiamma tricolore simbolo dell'epopea missina

di FILIPPO CECCARELLI

 

AH, STAVOLTA è andata sul serio. Meglio tardi che mai, o peggio presto che sempre. Comunque, è fatta: la fiamma tricolore se ne va. E pur con tutto il rispetto che si deve ai simboli, e consapevoli che le insofferenze dei cronisti valgono ancora meno delle loro modeste fatiche, varrà la pena di esprimere qui un certo sollievo per il sospiratissimo "espianto", come un lontano giorno volle definirlo il professor Fisichella, preclaro ideatore di An, senza alcuna ironia.

Sollievo dunque per la "sfiammata" su cui ormai un paio di generazioni di giornalisti si sono incautamente esercitati. Ma non solo loro, per la verità. Se infatti lo stesso Fini, all'apice del tormentone, si provò invano a sostenere che la faccenda della fiamma appassionava "solo i politologi", sarebbe ingiusto quest'oggi dimenticare ciò che nel 2003 rispose 'Gnazio La Russa al temerario operatore dell'informazione che l'aveva interrogato sull'opportunità di rimuovere o meno quel simbolo: "Ma lei sarebbe disponibile a tagliarsi i propri attributi?".

Bene. Ora che il triste e doloroso adempimento è stato compiuto, e in congruo ritardo rispetto alla rimozione della falce e martello e dello scudo crociato, ci si limita a segnalare il nesso indicibile che in un partito iper-machista lega la simbolica identitaria alla genitalità.

Fu infatti il padre del neofascismo italiano, Giorgio Almirante, a disegnare la fiammella, ispirandosi a un distintivo combattentistico. Era la fine del 1946 e per dire i riferimenti culturali a uno dei convenuti nello studio di Arturo Michelini, il napoletano Roberti, vennero in testa i seguenti versi di D'Annunzio: "Solo alla morte l'anima sovrasta/ congiunta ancora al carcere dell'ossa/ come fiamma si radica in catasta".

Non era insomma, già in partenza, un quadretto allegro. Circostanza confermata dalle strofe, pure di conio almirantiano, dell'inno del Msi, da titolo: "Siamo nati in un cupo tramonto". Non solo, ma nella leggenda vetero-missina, impregnata com'era di retorica hard-core, codici occulti e fantasie necrofile, il successivo trapezio da cui si sprigionava la fiamma, raffigurava una bara. Di chi fosse, a quei tempi, non c'era neanche bisogno di chiederselo. Ben si prestava oltretutto ad indicarlo l'acronimo del nuovo partito, Msi, leggibile come "Mussolini Sei Immortale", ovvero, secondo una più sorvegliata formula, "Mussolini Sempre Immortale".

In quella specie di Bibbia o di Treccani che è il libro di Luciano Lanna e Filippo Rossi, "Fascisti immaginari" (Vallecchi, 2004) si trova anche scritto che nel bianco tra quelle tre lettere c'era chi riusciva a intravedere addirittura la sagoma di un nodoso manganello. In ogni caso si comprenderà come negli ultimi anni l'intero gruppo dirigente di An abbia speso tesori di tempo e fatica per smentire tali suggestioni.

Ma intanto si teneva stretto quel simbolo che nel corso dei decenni ha conosciuto un paio di ritocchi fatti in casa e diverse peripezie di natura grafico-contudente da parte degli avversari, o nemici che fossero. La prima, eseguita con largo anticipo sulla teoria situazionista del detournement risale ai primi anni sessanta e narra di alcuni spericolati comunisti della capitale che dopo aver scalato un palazzo riuscirono a montare sopra la gigantesca fiamma una enorme padella con due uova al tegamino.

Il secondo sfregio, negli anni settanta, si deve al disegnatore satirico di Lotta Continua Zamarin che raffigurò il suo eroe, l'operaio-massa Gasparazzo, che spegneva la fiamma missina facendoci la pipì sopra. In compenso l'emblema compare in una poesia, "Comizio", che Pier Paolo Pasolini comprese ne "Le ceneri di Gramsci": "Una smorta folla empie l'aria/ d'irreali rumori. Un palco sta/ su essa, coperto di bandiere,/ dal cui bianco il bruno lume fa/ un sudario, il verde acceca, annera/ il rosso come di vecchio sangue. Arista/ o tetro vegetale guizza cerea/ nel mezzo la fiammella fascista".

E comunque, in estrema e colorita sintesi: già prima di Fiuggi, l'astuto addetto al marketing Jannarilli, cugino ciociaro della moglie di Fini, l'aveva rimpicciolita sui portachiavi, nonché sublimata in un due pupazzi di peluche significativamente appellati "Fiammino e Fiammetta". Ma sempre donna Assunta vigilava: "Non si spegnerà mai, brilla nel cielo come una stella". Diceva Fini: "Mica è il fascio littorio". E intanto la fiamma attraversava indenne le allegoriche traversie dell'elefantino e della coccinella, e le richieste di Publio Fiori, gli odg di Palmesano, l'ingresso nel Ppe, la visita in Israele.

Come se non bastasse si trattava anche di difenderla dai famelici scissionisti della galassia nera, e furono epiche battaglie legali con Pisanò, poi con Rauti, fondatore del Msi Fiamma Tricolore, con quindi con il Mse del camerata Bigliardo, e poi ancora con la Mussolini, con il Nuovo Msi di Gaetano Saya e infine anche con la Destra di Storace che, inibito dall'uso della fiamma, alle elezioni si accontentò di emblematizzare una torcia - tanto che al congresso fondativo, al culmine dell'entusiasmo, Buontempo diede fuoco a un quotidiano accartocciato.

C'era quel giorno pure Berlusconi a gustarsi la scena. Ancora l'altro giorno alcuni militanti di Roma volevano "giurare sulla fiamma" sotto l'Altare della Patria. "Carnevalate" ha buttato lì Alemanno. Riti e simboli se ne vanno, si sa: però a volte se le vanno pure a cercare.

(21 marzo 2009)
da repubblica.it
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