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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 51491 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 26, 2009, 10:36:15 am »

26/6/2009
 
Il tredicesimo apostolo
 
IGOR MAN
 
Una volta ancora Padre Pio ha sconfitto il diavolo», dice la gente di San Giovanni Rotondo. «Papa Benedetto ha rinunziato al comodo viaggio in elicottero per quello in aereo e ancora per treno pur di raccogliersi in preghiera nella cripta dove riposa “San Pio”». Cinquantamila persone hanno sfidato la tempesta per celebrare, col Papa, la Messa e infine il cielo s’è schiarito. Se il frate cappuccino fosse stato vivo, nessuno avrebbe osato gridare al miracolo» «Il tempo dei miracoli passò», ipse dixit Padre Pio. Il Vecchio Cronista ebbe modo di incontrare Padre Pio a tu per tu. Esattamente il 10 febbraio 1949.

Stringendo le sue mani protette da mezzi guanti di lana, piano, incredulo, quasi inorridito sentii il mio pollice affondare nel palmo di Padre Pio e mi sconvolse una vertigine improvvisa. Fu un attimo. «Ne’ guagliò, come siamo messi con la fede?». Ero giovanissimo allora: «Va, viene...», dissi. «Guagliò, guardami attento: certum est quia impossibile», scandì il frate piagato: «Tu aggrappati a ’sta zattera e vivrai in grazia di Dio. E mo’», sorrise, «inginocchiati che ti benedico. Felice viaggio di vita». Si vuole che nel rivestirlo i frati accertassero, sconvolti, la scomparsa delle cinque stigmate dal corpo di Padre Pio.

Santo o stregone? Straziato come Francesco d’Assisi dalle cinque piaghe di Gesù ovvero isterico, malato di protagonismo oppure Talpa del Sacro venuta dal buio del Medioevo per rivelarne la luce che nessuno (o pochi) ammette abbia rischiarato quel tempo remoto? Ora che Giovanni Paolo II l’ha fatto santo nonserve porsi certi interrogativi. Alla vigilia della proclamazione della Santità di colui che oserei chiamare «il tredicesimo apostolo», papa Wojtyla ebbe la bontà di ricevermi nel suo studio in Vaticano, insieme con mia moglie.

In fatto il Santo Padre non fece che interrogarmi su Padre Pio. Una «intervista» inimmaginabile, incalzante, venata da un filo di tenerezza tesa a legare stupore e devozione. In ultimo dissi al Papa che, all’indomani dell’incontro col cappuccino dalle cinque piaghe, assistetti (all’alba) alla sua lunghissima, sfibrante Messa. Le mani che reggevano calice e patena non erano ricoperte dai rozzi mezzi guanti di lana, sicché le stigmate, impietosamente scarlatte, spiccavano contro i candidi pizzi del rocchetto. Sembravano di cera del ’600, le sue mani: così belle e martoriate. Un ex voto ricalcato sulla Croce. Gocce di sudore gli tormentavano la fronte siccome spine del Calvario.

E lui, Padre Pio da Pietrelcina, sembrava in trance, lo sguardo fisso a interrogare Gesù in croce al sommo dell’altare. Non oso immaginare che Padre Pio peccasse di superbia spirituale, solo che, divorandolo l’ascesi, egli si isolava dal mondo. Dolorosamente. E quella sublimazione condita di pena fisica era un fatto intimo, nonsi poteva spartirlo con gli altri. Scrutando il Papa polacco avido di sapere di Lui, del frate sannita, a chi scrive è sembrato di cogliere nello sguardo di Giovanni Paolo II lo stesso intimo «contatto» di Padre Pio con il Cristo e forse ho capito quel che i due Santi, Karol e Pio, sanno da sempre: si attinge la Grazia anche attraverso la cruna stretta del dolore.
 
da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:45:27 pm »

10/7/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Saremo tutti africani
 
IGOR MAN
 
Si parva licet, il Vecchio Cronista affascinato dal nutrito inserto dedicato all’Africa, colmo di personaggi e di ricordi, dedica questa puntata della sua rubrica all’Africa. Il mio interminabile giro del Mondo principia, tanti anni fa, proprio in Africa. Quell’Africa ch’è il terzo mondo del terzo mondo l’ho amata per la sua bellezza e per il suo strazio, subendo il suo fascino misterioso alla stregua di una pena necessaria. Al tempo dei Mau-Mau la figlia di Jomo Kenyatta mi disse che «insigni studiosi» avevano localizzato il Paradiso terrestre in Africa. «Ebbene, ci siamo autoespulsi dal Paradiso vendendo l’anima al Faust colonialista», concluse.

Fu allora che scoprii, giovine com’ero, e per tanto certamente presuntuoso, come per capire, per riuscire ad ascoltare - magari un solo momento -, il cuore profondo del Mondo non bastasse aver letto un bel mucchio di libri e viaggiare «ad occhi aperti»: serve ma non basta.

«Si affidi ai missionari», mi disse la figlia di Jomo Kenyatta, «loro sanno». Fu così che passo dopo passo scoprii quell’incessante fiume carsico ch’è la Missione. Non soltanto in Africa, bene inteso, giacché i missionari sono dappertutto, dovunque ci sia una persona che cerchi Dio magari senza saperlo. Ma cosa spinge un ragioniere di Cuneo a mollare tutto «per dare una mano» nel più remoto villaggio dell’Angola o del Sudan? Tanti e tanti anni fa ebbi l’ardire di rivolgere codesta domanda a padre Alex Zanotelli. Era «in pausa» a Roma in attesa di tornare una volta ancora in Africa e una sera venne alla redazione romana de La Stampa. Aveva un libro per Vittorio Gorresio, Vittorio non c’era, così affidò il libro a me. Diventammo amici e gli sono grato dei suoi infiniti racconti sulla vita in missione.

Che, in fatto, è apostolato. Duro. (Con Alex ci siamo persi di vista, ahimè, ma non è facile stare appresso a un missionario). Come ha ben scritto l’anglista Claudio Gorlier, «le ferite della colonizzazione stanno sotto la pelle dell’Africa: il mondo globalizzato e internettizzato è ben lontano dall’aver risolto i suoi problemi primordiali \ ricorrenti conflitti riportano indietro l’orologio della Storia». A mezzo secolo, grosso modo, dalla esaltante stagione dell’indipendenza in Africa muoiono ogni anno quaranta milioni di persone, di cui diciotto milioni bambini. L’Aids è in difficoltà grazie anche alla abnegazione di «missionari laici», come i ragazzi della comunità di Sant’Egidio. (Molti di loro trascorrono le vacanze laggiù). L’Aids è in difficoltà, ma un male antico si è rifatto vivo: la Tbc. La siccità (non piove da tre anni nelle zone più colpite) sta portando carestia, morte. Il 90 per cento dei fiumi è oramai senza acqua, l’80 per cento del bestiame è già morto.

«Il Sudan sta morendo», ammoniscono i volontari del Cesvi la cui opera pietosa rasenta l’eroismo. E padre Zanotelli, missionario scomodo, dov’è, come sta? Le ultime notizie ci dicono che prega e digiuna «affinché la beata speranza non muoia». Lo stesso vale per padre Gian Mario che quand’è a Roma dice Messa in Santa Maria in Monticelli. Ben Bella, africano-patriarca, dice che «l’Africa ha bisogno, anche, di tenerezza». Un giorno piuttosto prossimo, un essere umano su cinque sarà africano: se non sapremo dargli attenzione ci odierà. «O Dio, perché hai creato / due manghi diversi: / un mango bianco / un mango nero?», ha scritto il poeta congolese Martial Sinda.

da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 17, 2009, 05:09:07 pm »

17/7/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Il male bianco dell'Africa
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Col suo passo atletico, sorridendo convinto, il giovine presidente americano con la sua visita in Ghana ha (anche) voluto esplicitare l’attenzione del mondo industrializzato all’Africa. Il Ghana è uno dei pochi Stati africani dove la vita non è un inferno e lo sviluppo non s’arresta. «Aiutati che Dio ti aiuta», dove quell’aiutati comprende un ragionevole sviluppo in sano sposalizio con la lotta, coraggiosa, alla corruzione (con l’Aids la peste che svena l’Africa si chiama corruzione).

Africa parla è il titolo d’un film che il Vecchio Cronista vide bambino, una sorta di versione cinematografica della Capanna dello Zio Tom. A differenza del più problematico Trader Horn, un cult movie in fatto, il primo presentava i negri (allora non si diceva Neri) divisi fra selvaggi cattivi e selvaggi buoni, domati e protetti dal sahib, il Bianco eroico, saggio, generoso perché civilizzatore.

Durante lunghi anni la nostra visione del Continente Nero è stata, in definitiva, quella di Africa parla; poi è venuta la stagione dell’anticolonialismo pagata a caro prezzo dai Neri, e infine quella, esaltante, dell’Indipendenza. Oggi il macello in Somalia, quella guerra-non guerra mix micidiale di intrallazzo e di primordiale violenza, ci fan riflettere, quarant’anni dopo, se l’Indipendenza fu davvero un avvio stentato verso il Nulla ovvero un coraggioso decollo verso la libertà. Il sanguinoso caos somalo ci dice altresì che il destino dell’Africa ci tocca da vicino poiché l’Africa «è dentro di noi» occidentali, nella nostra coscienza che alberga non pochi rimorsi. Il cosiddetto Terzo Mondo è una vasta polveriera che disordinatamente esplode qua e là. E non importa se Osama bin Laden sia vivo grazie alla dialisi ovvero sia in Paradiso: il seme da lui sparso contro l’Occidente trova in Africa la buona terra - ma non solo in Africa.

Il deficit dell’Occidente è un «vizio cartesiano» poiché quegli accadimenti esulano dal pragmatismo, non collimano con la nostra visione del mondo.

Gli accadimenti somali (per citare i più recenti) sono un saggio perfetto di quella che chiameremo l’Utopia politica islamica. Una utopia (negativa) che non va ristretta alla unicità: essa infatti abbraccia l’insieme di quell’assemblaggio ricco-e-povero che chiamiamo Terzo Mondo. Nello spazio di codesta utopia ogni contraddizione viene annullata. E la vittoria e/o la sconfitta sono entrambe viste come parentesi della Storia. Di più: lo status del terzomondista qualunque è parossisticamente legato alla fede: per tanto esso, sia pure a livello inconscio, non conosce confini fuori di quelli che separano il Dar al-Harb cioè l’islam dal mondo degli infedeli.

L’Utopia sconfigge la realtà e in forza della assabya, cioè il modo di analizzare la società non in base al singolo individuo bensì nel suo complesso, lo Sceicco della Morte non morirà mai. Sarà l’invito eterno a «mortificare» l’infedele, sarà il «martire vittorioso» che vinca o perda sul terreno. Jacques Berque, con il nostro Gabrielli, ha scritto che nessuno ha capito che le guerre coloniali hanno una particolarità: «vincerle è peggio che perderle. E più la vittoria è schiacciante più diventa inutile».

Qualcuno in Africa sostiene che son gli africani stessi gli artefici della propria disgrazia. Ciò è forse eccessivo ma tradisce l’impotenza della intellighentzia africana di fronte alle sette piaghe del Continente Nero (con rare eccezioni): corruzione - clientelismo - nessuna pianificazione - finanza parallela - sclerosi del potere - sfinirsi delle istituzioni - evasione fiscale. Gli ex colonizzatori sono in larga misura i responsabili della deriva africana. Occorre rivedere ogni forma di cooperazione, bisogna aiutare quei paesi che vogliono sperimentare la democrazia. Che s’accompagni alla meritocrazia. Non esiste corrotto senza corruttore, anche in Africa, l’altra faccia nel nostro malessere.

 
da lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 07, 2009, 11:49:36 am »

7/8/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La movida de nojantri
 
IGOR MAN
 
Com’è bizzarra Roma, com’è bizzarra: un sito storico, Campo de’ Fiori, subisce sera dopo sera, oltre la notte lunga, una movida babelica di importazione. Una incessante poltiglia di consonanti sommerge il corrucciato volto di Giordano Bruno, posteggiatori allegri intonano romaneschi aritornelli, fanciulle in fiore dell’Hudson accettano innocenti birre alla spina da abbronzati (eccessivamente) pischelli di periferia. Corretti carabinieri sorvegliano un melting-pot de nojantri e spesso, per non dire ogni sera, ci scappa la scazzottata, se non addirittura l’arresto. Ma quando a finire in manette è un pischello di 12 anni ci si domanda, una volta ancora, se non sia il caso di chiudere un occhio e affidarsi a «santa pupa». Anche Piccadilly Circus e St-Germain-des-Prés conoscono l’invasione notturna dei turisti con quel che può comportare; ma cent’anni di intruppamenti festosi hanno allenato francesi e foresti ad assalire festosamente giardini e fontane, senza far danni. E qui il Vecchio Cronista confessa d’aver provato disagio in Campo de’ Fiori: dopo la mezzanotte la festa giovine cambia volto e scopri che la mutazione l’han portata ragazzotti non proprio innocenti: son loro a spacciare?

Verosimilmente. Ma sarebbe comunque spaccio diremo casereccio, poca roba. Va detto ancora che le «forze dell’ordine» agiscono con prudenza, discretamente e infatti l’estate notturna che dal Campo straripa in piazza Farnese, nella sublime piazza Navona, s’arresta al limite della città diremo impiegatizia.

Com’è bizzarra Roma, com’è bizzarra. Il caldo, in certe ore feroce, non ferma il viavai dei turisti. Drappelli di uomini e donne, di fanciulli animosi seguono capi-pattuglia sui generis: son le guide autorizzate che in decente inglese o in francese d’occasione spiegano Roma a gente del Nevada o di Lione. I romani escono quel tanto che serve e con affanno, i turisti sfidano allegramente la callaccia. Il Vecchio Cronista, appreso che un nutrito drappello di giovani turisti era diretto a Valle Giulia per visitare la storica Galleria d’Arte Moderna, ha chiesto e ottenuto di partecipare alla visita.

Grazie all’ascensore della memoria, Palma Bucarelli, «Palmina» per gli amici (della Domenica), la bella Sovrintendente dagli occhi azzurri è apparsa sullo schermo del passato. Un miracolo: Maria Vittoria Marini Clarelli, l’attuale sovrintendente, ha allestito una mostra di impareggiabile importanza. Affidandosi a opere firmate da Guttuso e da Savinio, da Burri a Viani, da Turcato a Colla, a Giacometti e via così, splendidamente. Chi scrive ebbe in sorte, nella Roma che rifaceva se stessa dopo la Liberazione, di essere ammesso alla «libera università» di Mario Pannunzio, partecipando, così, all’intrepido cammino di «Palmina» che incredibilmente portò a Valle Giulia i grandi pittori astratti e no, gli Artisti del mondo, che l’Italia ignorava. Incredulo, seguendo i visitatori (non solo giovani) mi sono ripassato un lacerto di Storia della Pittura, della Scultura. In quel lontano dopoguerra Campo de’ Fiori di notte era buio, niente movida. Si viveva modestamente ma con un immenso tesoro dentro: il futuro. Palma Bucarelli è una nuvola (deliziosa) del passato.

La mostra a lei dedicata non è soltanto un accadimento artistico; è uno scatto d’orgoglio e la speranza che fino a quando ci sarà un pittore, un quadro, una statua il mondo potrà salvarsi.

da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 14, 2009, 11:30:17 am »

14/8/2009
 
Un po' di pietà Agente Orange
 
IGOR MAN
 
Le temps s’écoule rapidement comme l’ombre d’un cheval blanc qui passe vite devant une fenêtre»: il tempo scorre rapidamente come l’ombra d’un cavallo bianco che passa veloce davanti a una finestra. La finestra della Storia spalancata sul mare infinito dei ricordi. Oggi il vecchio cronista vuole aggiungere qualche riga al suo articolo sul cosiddetto «Agente Orange», il defoliante alla diossina lanciato dagli americani (per la prima volta) in Vietnam, il 10 di agosto di quarantotto anni fa.

Tiziano Terzani diceva che i giornalisti-inviati si dividono in due categorie: quelli che hanno «fatto» il Vietnam e tutti gli altri. Lo diceva non senza sofferenza, le sue parole non le dettava l’albagia bensì la pietas. Chi scrive ha «fatto» il Vietnam, dolorosamente, e dunque può esser d’accordo con Tiziano. Sia come sia, chi c’è stato, laggiù, durante quella guerra fosca e inutile, non riesce a liberarsi d’un bagaglio invero pesante. Anche se è andato armato soltanto di taccuino e biro, senz’armi addosso. Ho destinato alla mia rubrica del venerdì, il libro dei ricordi del vecchio cronista, giustappunto, non pochi flash vietnamiti - e vedo dai messaggi dei lettori che quella guerra lontana fa ancora notizia, come usa dire.

La finestra della Storia, dicevo: nata per sgonfiare la pressione del comunismo cino-vietnamita-sovietico sul Vietnam del Sud fieramente cattolico ma debole, la guerra degenerò in un conflitto assolutamente coloniale pareggiato militarmente, perduto politicamente.

«La vittoria sul campo è importante ma rischia di fare un buco nell’acqua se non riusciremo (noi americani) a conquistare il cuore e la mente del popolo vietnamita»: mi disse quel grande soldato-intellettuale che fu l’ammiraglio Maxwell Taylor, presago proconsole in Vietnam.

Per combattere quel comunismo l’americano seminò lutti, distribuì frigoriferi nei millenari villaggi senza energia elettrica, arò campi e risaie, intossicò con l’Agente Orange antiche boscaglie.

Guardando il filmato della drammatica sfilata dei reduci deformati dalla diossina, nel fatidico 10 di agosto, ho improvvisamente visto sullo schermo della memoria lo strazio di due bambine e di un maschietto scuoiati, letteralmente, dalla diossina. Accadde in un remoto villaggio della ricca provincia di Chuong Thien. Era con me, a guidarmi, il caro Sam P. Dieli, uomo di punta del Field services center. Allestì un immediato pronto soccorso, ma quei bambini non la sfangarono. Oggi altri innocenti sfregiati dall’Agente Orange, penosamente cresciuti, invalidi i più, sfilano per le strade coloniali di Saigon implorando (sommessamente) un po’ d’attenzione, il sospirato «sussidio di guerra». La loro discreta sfilata, applaudita da fanciulle in fiore, è corsa in tutta la vecchia capitale.

Da un mondo incerto, avvinghiato alla campagna, scaturisce il Genio del villaggio. Egli è la Storia ma altresì il Tempio.

Né i comunisti del Nord, atei puri e duri, né i credenti del Sud (cristiani, buddisti, taoisti) osano negare il Genio. Ho Chi Minh diceva pressappoco quello che ripeteva il vescovo cattolico di Saigon: «Non è il Genio una leggendaria divinità d’un mondo qualunque, bensì la base della Ragione e per conseguenza della Religione». Il Genio principesco è la Storia ma anche il Presente ed è il Futuro creato dalla fantasia del desiderio (desiderio di pace).

da lastampa.it
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 21, 2009, 11:22:37 am »

21/8/2009
 
Mala Capri e Malaparte
 
IGOR MAN
 
Ha fatto centro la notizia dei liquami di fogna nella Grotta Azzurra, méta romantica di turisti italiani e foresti. In altri tempi non sarebbe accaduto, dicono in Piazzetta signori napolitani che si gloriano d’esser cresciuti con Capri; era il segreto di Pulcinella, proclamano gli aficionados dell’Isola. Il vecchio cronista, con tutto il rispetto, non scommetterebbe un soldo bucato sull’efficacia d’una «condanna esemplare» da infliggere agli spurgatori della Grotta. «Vengono puniti non ravveduti», scrisse Goethe di un Cardinale conosciuto nel suo viaggio in Italia, famoso per la spazzatura che lo «inseguiva» persino in camera da letto. «Viene ma poi se ne va», (la spazzatura) secondo quel Principe di romana chiesa. E qui sia concessa a chi scrive qualche divagazione.

Nella storia del nostro dopoguerra spicca Palmiro Togliatti. Il partito comunista c’è già, secondo lo statista, ma va «completato»: occorre «mettere accanto all’operaio l’intellettuale per una reciproca infusione culturale». Ipse dixit Palmiro Togliatti a Paolo Alatri e al sottoscritto nel febbraio del 1947, nella sezione del Pci di via dei Giubbonari. Citerò qui qualche passo biografico attingendo al Malaparte illustrato di Giordano Bruno Guerri. L’incontro di Malaparte con Togliatti avvenne nell’aprile del 1944 a Capri: «Togliatti si guardò intorno e disse: “Lei ha un Dufy, laggiù”. Un capo comunista che riconosce un Dufy a trenta passi è certamente uno di quei mostri che spaventano i borghesi. Per quel che mi riguarda, mi incantò», confessò Malaparte. Il futuro sindaco comunista di Napoli, Valenzi, ricordava come Togliatti non avesse nessuna intenzione di sbarrare le porte agli intellettuali ex fascisti, rendendosi conto che la nuova Italia non poteva reggersi su poche migliaia di ex fuorusciti o confinati.

Togliatti tornò nella villa di Malaparte e concesse a Curzio di seguire l’avanzata degli Alleati, firmando Gianni Strozzi cinque articoli invero memorabili. Ma Alicata scoprì che Gianni Strozzi era Malaparte e Togliatti dovette ingoiare il rospo di quella che Malaparte definì «prassi fascista»: l’epurazione. Vien fatto di domandarsi se, «non disturbato», Curzio sarebbe diventato una «penna comunista» o no. Io ricordo Malaparte nello studio di Angiolillo con le dita sempre in movimento sulla tastiera della Olivetti e il pensiero a galoppare in groppa alla giumenta del tempo, così falsa e bugiarda e tuttavia innocente come la memoria.

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« Risposta #66 inserito:: Agosto 28, 2009, 11:30:23 am »

28/8/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Boat people
   
IGOR MAN


Boat people, gente di barca, dice niente questo appellativo? Non passa settimana senza che nel Canale di Sicilia si consumi una tragedia umana: barconi da pesca come quello dei Malavoglia, più recenti gommoni, rappezzati, approdano nell’Italia che confina con l’Africa, scaricando da battelli di fortuna persone stupefatte di vivere ancora: boat people.

La gente di barca (sino a qualche tempo fa) una volta sbarcata a Lampedusa o in qualche altra ansa dell’Italia insulare riusciva ad eludere leggi e regolamenti e subito cominciava a rifarsi una vita. A casa nostra. Ovvero, guadagnati i soldi necessari alla bisogna si trasferiva in altri Paesi d’Europa. C’era da smazzare, da subire instancabili soprusi ma in ultimo il già professore del Senegal o il cuoco eritreo si sistemavano: il pizzaro egregio che frequento, a un passo da Campo de’ fiori, dopo sette anni è riuscito a far venire a Roma la famiglia. Ahmed il pizzaro sostiene che il nostro Paese non ha saputo distinguere fra il profugo per necessità e il briccone travestito da migrante. E questo perché «sotto sotto siete degli ipocriti». La nostra colpa, «celata dal sorriso», sarebbe quella di assoldare manodopera a prezzi stracciati ingrossando così le già nutrite file dei clandestini. Il pizzaro sostiene che solo quelli «che pagano» sbarcano a Lampedusa dove vengono presi in carico dai «mercanti di carne umana». Insomma, in Italia esisterebbe una Spectre ben più potente di quella dei film di James Bond.

L’ultima tragedia: lo sterminio in mare di settantatré migranti eritrei - superstiti cinque, sull’orlo dell’agonia - ha turbato vacanze per altro precarie e ne è seguito il solito scambio di accuse, tipico d’una classe dirigente in visibile crisi di identità. Il rimpallo delle responsabilità coinvolge un Paese amico (Malta) e tutti quei Paesi che dalla Croce del Sud s’arrampicano verso il mondo ricco delle ex colonie. La tragedia è terribile, riesuma il famoso quadro La Méduse di Théodore Géricault ch’è in fatto l’ultimo fotogramma di quella strage datata 2 di luglio del 1816: 139 cristiani, fra passeggeri e equipaggio, finirono alla deriva perché la zattera affollata di disperati, infine, colò a picco. Alessandro Baricco nel suo Oceano racconta, magistralmente, quella sciagura del mare che «somiglia» a quest’ultima ingorda d’orrore.

Tutto questo ci fa ricordare un’altra immensa tragedia del mare, intitolata Boat people: perduta la guerra i vietnamiti «collaborazionisti» fuggirono da Saigon anche su vascelli precari. Era il 26 di luglio del 1979 allorché la Vittorio Veneto col Doria e lo Stromboli recuperano i primi 128 boat people. Il 21 agosto sbarcano a Venezia 907 profughi vietnamiti: ne sbarcheranno tremila in Italia «trovando l’integrazione più puntuale». Trent’anni dopo, a Jesolo, s’è svolta una manifestazione direi pudica in onore di quel fatto strepitosamente civile. Solo che manca la spinta di allora. Colpì il vecchio cronista la rude tenerezza dei nostri marinai: un marò fu scoperto cantare con trepida voce la ninna-nanna a tre fagottini vietnamiti. Che, trent’anni dopo, dicono sommessamente «grazie». In italiano.

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« Risposta #67 inserito:: Settembre 04, 2009, 07:47:28 pm »

4/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Addio a Elvira la partigiana
   
IGOR MAN


La temutissima, a Roma, callaccia s’è portata via Elvira Sabbatini Paladini che durante lunghi anni fu direttrice del Museo storico della Liberazione. Il vecchio Cronista la ricorda coraggiosa staffetta partigiana durante l’occupazione tedesca di Roma. Ricca d’una bellezza antica, trinciava Roma in bicicletta distribuendo a giovani compagni bombe a mano e giornali clandestini che riportavano le notizie degli Alleati. Lascia due libri, Il cammino della Libertà e La lezione di via Tasso – che qualche politico farebbe bene a leggere –, affida al tempo un mix straordinario: la bellezza coniugata col coraggio.

La compagna Elvira fu spalla indomita del partigiano Arrigo Paladini che arrestato dai nazisti superò con incredibile stoicismo torture orrende nella turpe via Tasso. Subito dopo la Liberazione, a un reporter americano che si stupiva del suo stoicismo, disse: «Un buon soldato della Libertà ha il dovere di essere coraggioso quand’è il momento. Non è facile, quasi impossibile resistere alla tortura, ma uno ci prova».

Elvira e Arrigo sono stati una coppia sui generis: ancorché «de sinistra» non si vergognavano di prendere la Messa; Elvira ha avuto i conforti religiosi nella chiesa dei Santi Angeli Custodi. Una scelta ragionata poiché diceva sempre, con un filo di ironia rispettosa, che se lei e Arrigo non avessero avuto angeli custodi eccezionali non sarebbero riusciti a sfangarla.

A distanza di tanti anni, in un mondo che perde come stracci «Patria, Fede, Libertà», si tende a dimenticare nel parco dei buoni sentimenti la guerra di liberazione combattuta pressoché a mani nude contro un nemico che non faceva sconti. Arrigo Paladini, confortato dalla sua compagna di vita e di ideali, sognava per le nostre scuole (pubbliche e private) «corsi regolari di antifascismo: dalle elementari a tutte le superiori». E guai a sfotticchiarlo in merito: anche la Resistenza, ragionava, battuta in partenza, riuscì a ribaltare la Storia.

Più realista la sua sposa-compagna si spendeva con tenero impegno spiegando la Resistenza nelle scuole «di frontiera» di Roma. Nonostante il fastidio che i suoi corsi sulla Resistenza provocavano in qualche Preside, forte del suo passato davvero carismatico, Elvira Paladini, sino all’ultimo, ha «raccontato la favola vera del riscatto italiano, ha confortato i vecchi partigiani» che cercavano gratitudine e rispetto: faceva riflettere la presenza in via Tasso di animosi vegliardi che si intruppavano coi ragazzi delle scuole, per ascoltare Elvira.

Era un modo civile di ritrovare se stessi con la guerra partigiana: giovani di forza antica, sognatori di un Paese onesto combattemmo con poche munizioni ma con impegno. Quello di far risorgere il nostro Paese. Ma i giorni belli sembrano oggi lontani e riesce difficile tornare al passato: anche col semplice ricordo. Addio Elvira, anzi: Bella ciao.

da lastampa.it
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« Risposta #68 inserito:: Settembre 08, 2009, 07:11:57 pm »

8/9/2009

Un bluff per celare le divisioni tra gli ayatollah
   
Le strane aperture del presidente


IGOR MAN

Parliamo di pace», sfida il controverso Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran, in un suo «appello» all’Occidente. Parlare di pace non comporta, però, sempre secondo Ahmadinejad, un tavolo sull’atomica. Il programma di ricerca e di perfezionamento nucleare «andrà comunque avanti» poiché, afferma il persiano, quel programma corrisponde «a un diritto ovvio, innegabile del popolo iraniano». Teheran continuerà a sviluppare il suo «programma nucleare» (come da «sacrosanto diritto») ma «in stretta collaborazione con l’Aiea» (l’Agenzia dell’Onu per l’energia nucleare). Insomma, l’Iran propone un discorso «profondo e aperto» sul nucleare in un «quadro giusto e logico». Codesto discorso, chiarisce un Ahmadinejad in «versione agnello», va affrontato «serenamente, pragmaticamente» nell’ambito del cosiddetto Gruppo 5+1: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna con l’aggiunta della Germania.

Ma sia ben chiaro, dice Ahmadinejad, che l’Iran non accetta compromessi. «Qualcuno, dice Ahmadinejad, ha minacciato nuove sanzioni» (se l’Iran continuerà a lavorare sul nucleare), «ma questo è un linguaggio non più compatibile col mondo di oggi». Ora, per quanto abituati alle bombastiche uscite del famelico (di successo) leader iraniano, facciamo difficoltà a decifrare il discorso del pupillo dell’ayatollah Khamenei. Se «tradotto» nel linguaggio di tutti i giorni, quello che ascoltiamo, o/e leggiamo, sembra un discorso a due facce. La prima e più ruffiana sfodera un sorriso accattivante: «Parliamo di pace», dice al mondo. La seconda, a modo di postilla, chiarisce:... «purché trionfi il nostro “logico” diritto; quello di lavorare in piena libertà al test atomico». Per dirla in soldoni il presidente iraniano ribadisce il «diritto logico» secondo il quale il suo Paese «può e deve» dedicarsi all’energia nucleare. Una cosa, sembra dire Ahmadinejad, è l’atomica (e non si tocca), altra «la politica di buon vicinato», che comporta doveri, non solo diritti.

Dal testo iraniano del suo intervento non risulta quella «disponibilità a logiche aperture» che si potrebbe dedurre dal paper fatto pervenire alla stampa. Poco male: è nel costume dei leaders islamici rivolgersi a nuora affinché suocera intenda - o viceversa. La truffa elettorale, con lo strascico tragico che ne è seguito, è una ferita tuttora aperta. Una censura invisibile ma efficace smussa una realtà aperta a sbocchi cruenti: l’Iran attraversa uno dei momenti più drammatici della sua Storia. Tuttavia sarebbe forse un errore respingere il pacco al mittente.

In un Paese islamico e - attenzione - sciita, una situazione pericolosamente cangiante come quella vissuta oggi dal popolo iraniano ripropone un concetto di merito ben chiarito da Gilles Kepel nel suo utilissimo Fitna (Laterza). Due poli opposti, spiega, hanno regolato il flusso e riflusso della civiltà nata dall’Islam: il jihad e la fitna. Il primo è connotato positivamente ed è, in fatto, il «motore» di propagazione della fede, che si afferma «con la spada e con il Corano». Il secondo termine, fitna, è meno conosciuto fuori dall’universo islamico e possiede una connotazione del tutto negativa - è a un gradino dal caos. Quanto è accaduto in Iran, in giugno, con la truffa elettorale e il suo seguito di morte e galera, le stesse «aperture» finte e bugiarde ammoniscono a non fidarsi. Epperò l’invito al dibattito con Obama gettato lì, nell’orazione di Ahmadinejad, può essere il timido primo passo verso un porto d’acqua serena. Ovvero l’ennesimo bluff d’un regime in difficoltà.

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« Risposta #69 inserito:: Settembre 11, 2009, 11:09:47 am »

11/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il carcere parla col ponentino
   
IGOR MAN


La callaccia, un mix di scirocco e di nuvole basse, è stata sconfitta dal ponentino, un vento antico che concilia la pennichella. Ma il ponentino per i romani che gravitano nell’ampio spazio occupato dalla struttura ottocentesca del carcere di Regina Coeli, è un mezzo di comunicazione affidato, nel pomeriggio, al vento che viene di lontano, giustappunto il ponentino. Dall’alto del Gianicolo i parenti dei carcerati affidano al vento messaggi ma anche tenerezze destinati ai famigliari o agli amici in prigione. Sapendo ben raccogliere l’ala del vento, Marcello dichiara il suo amore a Patrizia che a sua volta, con vetusta tecnica eolica, dichiara amore e fedeltà «all’omo mio». Nei vicoli stravecchi di Trastevere i bambini sfortunati (come pietosamente li chiamano) imparano presto come, in che modo, quando è possibile colloquiare coi propri cari reclusi in quel carnaio che in fatto è l’ottocentesco carcere. I detenuti di Regina Coeli, costruito nel 1891, affidano al vento notizie importanti: l’ultima è la morte terribile d’un detenuto del carcere di Pavia; sì, Pavia: il ponentino sfida per celerità ogni distanza - c’è un «comitato ad hoc» che seleziona le notizie del giorno e le diffonde, in grazia del ponentino.

Nelle carceri c’è la tv, non mancano le radio e dunque le notizie, tutte le notizie, arrivano sicché diremo tranquillamente che il ponentino è «un telefono a due sensi - andata e ritorno» per citare Giuseppe Adinolfi, medico penitenziario di Regina Coeli. «Adinolfi coniugava la competenza dello storico e la passione per la medicina e per questo ricorda alcuni ricercatori ottocenteschi che univano il sapere scientifico e quello umanistico, sorretti da un reale interesse per l’essere umano» (cfr. A. Borzacchiello). Al tempo di «Mani pulite» mi fu concessa una full immersion in San Vittore. Un’esperienza dura come l’ossidiana: le carceri sono un luogo di pena, questo non va dimenticato - quegli accadimenti ci dicono però che c’è una sola «medicina», la speranza. I detenuti sono uomini, anche i più trucidi, questo non va dimenticato ancorché non sia facile. Il discorso che mi fece, allora, il direttore di San Vittore Luigi Pagano, è tragicamente «attuale». In breve: il tunisino Sami Mbarka Ben Gargi, chiuso nel carcere di Pavia, si è suicidato. Con un’arma insolita: lo sciopero della fame. Si è lasciato morire giorno dopo giorno. Sembra che tutti gli sforzi per fargli accettare il cibo siano stati vani. La mia, ha detto il tunisino, è la protesta di un innocente, di un uomo derubato nel suo unico bene: l’onore.

Appresa la notizia della morte-suicidio del tunisino Ben Gargi i carcerati hanno protestato vigorosamente ma, dicono i responsabili, una volta chiarito che quello del tunisino è un suicidio, insomma che non ha subìto violenze, l’ordine è tornato dietro le sbarre. Ora il vecchio cronista si chiede se e quando il ministro Alfano riuscirà a dare più spazio ai detenuti, se il pianeta galera conoscerà infine una pena severa ma non infame.

Oggi le carceri scoppiano: la capienza complessiva ammonta a 45 mila reclusi. Le carceri ne ospitano oltre 63 mila. 20 mila sono gli stranieri. Che fare?

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« Risposta #70 inserito:: Settembre 18, 2009, 11:55:08 am »

18/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Dall'Africa infelix una lezione di giornalismo
   
IGOR MAN


La strage degli innocenti continua, sembra inarrestabile, ma c’è chi, alla stregua del bambino della leggenda olandese, con un dito impedisce che la diga crolli cancellando la vita. Nel caso del Vecchio Cronista «l’Olanda» è l’Africa. Massacrata dalla fame in Etiopia, sacrificata nei suoi bambini in Somalia, mortificata in Kenya, in Ruanda eccetera. E il dito che impedisce la mortale tracimazione del Male (con la maiuscola) è, sinteticamente, il lavoro veramente cristiano dei padri missionari. Ho girato l’Africa quando ancora non era «di moda» durante anni lunghi. Al tempo dei Mau-Mau incontrai la figlia di Jomo Kenyatta. Mi disse: «Vuole ascoltare parole di verità? Ebbene, vada a trovare i padri missionari. Essi sanno». In verità essi sanno. Disperatamente soli sanno e dicono «cosa» accade laggiù. «Facciamo informazione», spiegano. Se non ci fossero loro, poco o nulla sapremmo dell’Africa. Dobbiamo in particolare a padre Zanotelli, a padre Kizito (due «tosti») se l’interminabile tragedia africana sia coraggiosamente monitorizzata «affinché giustizia sia fatta».

«Avete soltanto un’ora e mezza per poter rientrare in Kenya», dicono un giorno a padre Kizito. «Ok». Dal Kenya al Sudan sono cinque ore di volo. Il missionario ha portato la videocamera («regalo di amici italiani»), gira otto minuti di orrore. Un bimbo che urla impazzito agitando un braccio che non ha più la mano - la suora che cerca di rimettere al loro posto gli intestini d’un uomo espulsi da una scheggia. Otto minuti di immagini senza paragoni e tuttavia cariche di pietà. Alla polizia fanno storie: «Le bombe son cadute su un campo di ribelli, dove dovevano cadere», dicono i doganieri. «No, non mi arrendo; nessun campo militare. Tutti debbono sapere cosa sta veramente accadendo ai piedi delle montagne Nuba», scandisce padre Kizito.

Chi scrive, allorché riceve posta dall’Africa infelix, ogni volta capisce cos’è, come dev’essere il giornalismo. Un servizio. E si rende conto come la serenità con cui i padri missionari raccontano non sia soltanto civile understatement bensì lezione. Alta lezione di carità, di amore. Nel nome di Gesù, vittima della lotta di potere. Perché sono i Romani a decidere (non senza riluttanza) della sorte di Gesù? Perché non vogliono che nella Palestina da loro governata saltino i precari equilibri fra l’establishment giudaico e Roma. Gesù è giustappunto l’agnello (tre volte innocente) sacrificato sull’altare del compromesso politico. Il suo sacrificio riassume, duemila anni dopo, l’incessante tragedia dei capri espiatori.

P.S. In lingua kiswahili Amami significa Pace. Amami ha una sede anche a Milano in via Gonin 8 - CAP 20147, tel. 02/489.511.49. Chiedere di Andrea, Ilario, Attilia. Quando può padre Kizito manda una lettera agli amici. Credenti e no. Perché tutti «son figli di Dio e fratelli di Gesù». Anche se lo ignorano.

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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:28:47 pm »

2/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA


Khomeini come Saturno
   
IGOR MAN

Roma non è soltanto ruderi e cinecittà, è anche cassa di risonanza di accadimenti internazionali. Accanto alla Roma ufficiale vive una variegata «colonia» di uomini politici stranieri, gli Esuli, che periodicamente si riuniscono per seguire le ricorrenti crisi del proprio e di altri paesi (del Terzo Mondo). Non pochi Esuli sono alti professionisti ma non mancano i venditori di tappeti. Queste che scorrono sono giornate roventi per la diaspora iraniana che non si riconosce nella rovinosa «intossicazione nazionalista» del premier Ahmadinejad. Gli Esuli sono dichiaratamente pessimisti. Il dottor K, distinto odontoiatra, dice che se è vero che «il lupo di Teheran» è stato preso in contropiede dalla mossa, obbligata per altro, degli Stati Uniti sull’uranio nascosto, è altrettanto vero che Ahmadinejad, battuto sul tempo da un affaticato Obama, vede crescere il consenso dei «senza scarpe», i sanculotti iraniani. Il commerciante AZ sostiene che a ben vedere nell’angolo si trovano gli Stati Uniti, altri ricordano il 1936 quando sanzioni furono imposte all’Italia fascista che aveva invaso l’Etiopia: fu il preludio dell’ultima guerra mondiale. Gli Esuli sono drammaticamente pessimisti. Non vedono soluzioni sul piano diplomatico, paventano una «azione di forza» di Israele sottoposto a una continua provocazione da Ahmadinejad. I razzi mirati a sfiorare obiettivi israeliani li ha lanciati Hamas.

Dà un passaggio al Vecchio Cronista il medico A. che al tempo di Khomeini era assistente del ministro degli Esteri Sadegh Ghotbzadeh, fucilato nell’aprile del 1982 dai «senza scarpe». Per il medico A. nessuno avrebbe dimenticato Ghotbzadeh, veglie funebri clandestine lo celebrano spesso. Khomeini lo definiva «la pupilla dei miei occhi» il che non gli impedì di mandarlo davanti al plotone di esecuzione. «La rivoluzione, come Saturno, divora i suoi figli», scrisse Ghotbzadeh dal carcere di Evin, luogo di immonde torture. Ebbi in sorte di intervistarlo, nel palazzo bonapartesco degli Esteri, che lasciò per andare a morire.

Da vagabondo politico quale era, teneva i vestiti e le sue adorate orribili cravatte americane in una valigia. Mi diede l’intervista in piena crisi degli ostaggi. Un cupo sospiro concluse il suo lungo discorso: «I veri ostaggi siamo noi e quelli non lo capiscono». In fatto quelli (i radicali) tenevano in ostaggio Bani Sadr e lui stesso, «Sadegh l’Americano». Bani Sadr fugge a Parigi, lui, «figlio del Profeta», come amava definirsi, volle rimanere. Quando lo arrestarono, prese con sé una copia del Corano e una del suo adorato Voltaire, un tappetino da preghiere e la sua pipa preferita. «Sciocchi, pregherò per voi», disse al plotone di esecuzione (aveva 46 anni).

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« Risposta #72 inserito:: Ottobre 02, 2009, 06:01:02 pm »

25/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA


Regina Coeli odiato-amato
   
IGOR MAN

L’aver accennato, di sguincio, al vetusto problema delle carceri, in particolare Regina Coeli, ha provocato non poche lettere al Vecchio Cronista. Tutte - dico, tutte - rivelano, paradossalmente, una sorta di «fascinazione» per il carcere più odiato d’Italia, Regina Coeli, giustappunto. Gaia e strafottente, crapulona, cinica questa l’immagine corrente di Roma. A crearla potrebbero aver contribuito gli stornelli a dispetto. Ma i meno conosciuti aritornelli antichi suggeriscono una diversa immagine di Roma popolana, se non più autentica certamente più drammatica. Gli aritornelli che in queste sere afose qualche vecchio intona in Trastevere, in via della Scala o al Mattonato, sono frammenti della lunga storia, senza radicali mutamenti, del «popolino» romano, romantico e sanguinario, che fu plebe oppressa e che rimane sottoproletariato, se non altro culturalmente. Amore e tradimento, la morte augurata al nemico, all’amante spergiuro, il coltello come simbolo della virilità e del comando, il Tevere nel suo implacabile fluire, la galera.

Per quasi un secolo (si cominciò a edificarlo nel 1870, fu inaugurato nel 1881) Regina Coeli ha esercitato un ruolo emblematico nella storia di Roma. Costruito secondo il sistema detto «panottico», rivisto da Jeremy Bentham (1748-1832), il filosofo del Beccaria, il Coeli ha otto «raggi» a raggiera e due rotonde, finestre a bocca di lupo, e celle simili a sepolcreti: 17 mattonelle per 8. In tanto avaro spazio s’ammucchiano in media due persone. Fra le sue antiche mura sono stati rinchiusi uomini e gentiluomini, assassini e innocenti, Arsenio Lupin di borgata, monsignori e uomini politici. Nei «bracci» dei politici, il terzo e il sesto, hanno sofferto i patrioti torturati dalle bande nazifasciste, da Regina Coeli son partiti i martiri delle Ardeatine. È difficile che si nasca delinquenti, più facile morire criminali. Secondo alcuni sociologi, nel cuore della malavita romana ci sono i germi del nichilismo da disperazione. Può sembrare assurdo, ma il detenuto che s’è comportato ingiustamente non può sopportare l’ingiustizia, spiegano.

In fatto la società ignora i detenuti figli tuttavia delle sue stesse contraddizioni. Molti rapinano e uccidono, persino, non tanto per protesta contro la società affluente, quanto per potersi integrare. Certi delinquenti, insomma, sarebbero tutto sommato «dei grossi conformisti». Una volta chiuso in cella, il carcerato, subito il trauma della immatricolazione che comporta la violenza dell’ispezione corporale, diventa Recluso e come tale avverte il peso d’una condizione umana degradata. Un ex recluso del Coeli, Er nasone, dice: «Fin quando la società continuerà ad allecare rejetti la criminalità non morirà mai. Bisogna avere il coraggio di rifare tutto daccapo».

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« Risposta #73 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:12:00 pm »

7/10/2009 - IL CASO

Un velo politico sul Cairo
   
IGOR MAN


H. Abukir: dall’alto di queste Piramidi...» (Lesseps) - son parole di tutti i giorni, in Egitto; una sorta di mantra dedicato al popolino del più grande e problematico dei Paesi arabi. L’esortazione ad arrangiarsi è antica. Ma va detto, per onestà di cronista, che il Nilo non è soltanto turismo.

Grazie al quale, tuttavia, il regime sistema ogni anno i conti d’un Paese dove nasce un bambino ogni trenta secondi. Per annosa deficienza strutturale, l’Egitto vive da sempre la stagione della speranza: che finiscano le ruberie dei bajumi, costruttori di falansteri eretti con annacquato cemento. Nell’attesa d’una svolta culturale che vorrebbe cancellare anni lunghi in precario equilibrio sul filo dell’abisso, il Presidente Mubarak, sollecitato e sorretto da una moglie che ai cenoni dei nuovi ricchi preferisce cibo da caserma, il raiss duramente contestato, ha sciolto un nodo invero «storico». Il grande imam dei sunniti, Sheik Mohammad Tantawi ha parlato chiaro e semplice affinché potessero capirlo i fellah che spesso vanno a letto, la sera, saltando il pasto solitario d’una giornata miserabile. Lo Sceicco ha testualmente detto: «Il nikab, il velo che copre il volto delle donne (con l’eccezione di quelle occidentalizzate), è una tradizione del tutto estranea all’islam (...). Emanerò una direttiva che proibisce l’uso del velo in tutte le scuole gestite da Al Azhar (la celeberrima “cattedrale islamica”)».

«Finalmente il Rettore di Al Azhar, suprema autorità della Sunna (in contrasto secolare con gli sciiti), ha chiarito che le donne mussulmane hanno diritto alla loro identità.

«Il velo è del tutto estraneo alla tradizione islamica», dice una radiosa Saltamartini, responsabile delle Pari Opportunità del Pdl. A Montecitorio è in corso l’esame delle proposte di legge per vietare il velo. (Sbaglierò ma è piuttosto difficile che passi - E poi?).

Le dichiarazioni dello Sceicco han fatto sortire bandierine di carta e stenti lumini nei quartieri più poveri di Cairo. Il lettore si chiederà il perché di questa euforia, proveremo a spiegarlo, anzi a tentar di spiegarcelo. Al tempo di Nasser, raiss laico ma credente, la preoccupazione della gente era quella del pane che scarseggiava. Nasser col suo sogno della diga di Assuan trascurò per forza di cose quello che chiamava «il mio villaggio». La parentesi di Sadat aspetta ancora un critico schietto, la libertà di nikab, voluta dal raiss in carica ha due facce. Vediamo. Non è un mistero che l’Egitto stia passando momenti difficili: l’economia è in (timida) ripresa ma a crucciare gli effendi è uno stato d’allarme permanente: l’immenso groviglio di posti di frontiera non basta ad assicurare una vita decente. Sharm el Sheik è sempre gremita di turisti a prezzi stracciati ma s’è fatto il calcolo che per proteggerli si spendono cifre paradossali.

Qui è da fare una domanda. Sheik Tantawi era contrario alla «condanna» del velo. Come mai e perché. Risposta: «I changed my mind, ho cambiato idea». Troppo poco, in un Paese dove comanda uno solo: lui, Mubarak. Mentre in Iran (altro immenso spazio religioso, però sciita) i pasdaran, le forze di polizia, sono autonomi (gli ordini li danno, non li prendono), in Egitto gli ulema li prendono: sono ufficialmente alla greppia governativa. Mubarak, scaltro, tenace, coraggioso, se ne serve e, finora, al momento giusto. Gli egiziani son «brava gente», lasciamoli seminar ottimismo, poi si vedrà, si sarà detto, una volta ancora, Mubarak. In un Paese obbligatoriamente mite, la sua «mobilitazione» dei credenti è una gran mossa. Forse solo psicologica. Dice un vecchio aforisma beduino: «Puoi picchiare la tua giumenta tutta la vita ma non stupirti se un giorno ti morderà».

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« Risposta #74 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:12:46 pm »

9/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Missionari tra i pischelli di Roma

 
IGOR MAN
 
C’è da stupirsi: Campo de’ Fiori è, una volta tanto, una vasta fioriera; a piazza del Popolo è sorto il Villaggio dello Sport (gestito dal Csi) ad abbracciare il Villaggio della Gioia; a piazza Navona c’è il Villaggio dell’Incontro. Frotte di giovani, discretamente, danno il benvenuto agli studenti che in numero di tremila hanno invaso il cuore di Roma: è la Festa dei missionari. Una scampagnata archeologica? No, siamo qui per annunciare il Vangelo, rispondono al Vecchio Cronista - perché il Vangelo «annuncia il tempo della verità». E’ il sesto anno consecutivo che vengono a Roma, adolescenti e anziani, per scambiarsi il «segno di pace» nel ricordo di Papa Giovanni Paolo II. Questo raduno che intimidisce i bancarellari usi a pittoresche invettive ha un titolo ch’è un mix di pietà e di speranza: «Gesù al centro»: della vita, della missione. I giovani che accolgono i coetanei, turisti ovvero «de borgata», confessano ai missionari che una volta ancora sentono dolorosamente l’assenza di Papa Wojtyla. «E’ un vuoto difficile da colmare». Chi scrive onora Giovanni XXIII ma nel cuore suo s’è annidato il Papa polacco che gli concesse una lunga udienza. Un inedito «tu per tu» indelebile.

I missionari s’accostano ai giovani che riempiono luoghi non solo storici di Roma e parlano loro di Gesù. Gesù oggi, a Roma, in Africa, dovunque. Qualche ragazzo, «figlio del branco» che notte dopo notte invade il centro storico folleggiando: risse, sbornie, scazzottate, chiede di scambiare «due parole» con un missionario (spesso più giovane di lui). «E’ tutto uno sfogo, questi ragazzi sono assetati di normalità». Da quando i missionari hanno conquistato il centro antichissimo di Roma, è crollato il numero dei pischelli che si sbronzano o, peggio, sniffano. «Il pudore uno se lo porta dentro, il problema è farlo emergere». Ma perché questa ennesima (la sesta) pastorale dei missionari? Risponde don Maurizio Mirilli, infaticabile patron d’una festa che è preghiera corale. «Per dar luogo ai tanti giovani che si impegnano nelle nostre realtà ecclesiali». Codesta missione, discreta, persino gioiosa coinvolge il «ragazzo della strada». E quelli di venti scuole e in più tremila «contattati». Non manca la musica in piazza che Papa Benedetto dedica ai «fratelli missionari», lontani geograficamente, vicini spiritualmente. Sabato il raduno si conclude, i missionari torneranno alla loro lontana fatica: molti andranno all’Aquila, altri dalla città straziata son venuti a Roma guidati dal vescovo Molinari e da Luigi Accattoli. Padre Z, in partenza per l’Africa, chiede d’esser fotografato ai piedi del corrucciato Giordano Bruno di bronzo. «Ci sono momenti in cui quale che sia il movimento del corpo, l’anima è in ginocchio».

 
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