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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 51469 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:30:46 am »

2/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Diavoli, angeli e la buia notte di Roma
 
IGOR MAN
 

Quando il buio cala su Roma («la capitale meno illuminata d’Europa») l’Urbe diventa un’Indianapolis alla vaccinara sferruzzata com’è dalla furia mobile di sciagurati automobilisti a caccia dell’uomo-pedone. Di conserva con gli epigoni della Banda della Magliana, fatti di coca, complice il buio, compaiono quelli della notte, i clochards. Questo accade da almeno vent’anni ma l’infaticabile sindaco Alemanno sperava che l’operazione-sicurezza, vale a dire «la presenza sul territorio» di circa mille fra soldati, poliziotti, carabinieri, vigili urbani, unitamente all’apertura notturna della metropolitana avrebbe dato «una ripulita» alla notte romana. «Ripulita» indispensabile per avviare una bonifica. «Nemmeno l’esercito è riuscito a sconfiggere le bidonvilles» ha sconsolatamente titolato il Messaggero. A Castelfusano, scrive Giulio Mancini, mille ettari di pineta compongono una favela mediterranea. Sono un migliaio gli «invisibili» che l’abitano, dividendosi in accampamenti puntiformi composti ciascuno da cinque-sei baracche. Proprio tre giorni prima del «capodanno blindato», è andata a fuoco una baracca bruciando vivi una ragazza romena e il suo bambino di tre anni.

Va subito detto come sia difficile gestire i clochards. Hanno paura della polizia poiché pur essendo a Roma da trent’anni (è il caso di C. e di F., due sorelle), sono senza documenti. «Ce li hanno rubati». Chi? «Che importanza ha: ce li hanno rubati e qui finisce». Una carrozzina fa da abitazione mobile, le due sorelle ogni sera preparano un giaciglio nei giardinetti di Termini. A pochi metri dal giaciglio c’è il dormitorio della Caritas, ma le due sorelle «non si fidano». Di chi, perché? Sorridono furbe dopo aver rifiutato l’offerta di una pizza e mezza fojetta di vino dei Castelli (cfr. G. Giuliani). C. e F., rispettivamente 66 e 70 anni, frequentano, tuttavia, la mensa allestita dalla Comunità di Sant’Egidio, la rinomata «Onu di Trastevere». Su Avvenire Popotus ci informa che a Roma ci sono settemila persone, d’ogni età e lingua, «senza dimora». Cinquemila dormono ogni notte per strada.

Il vecchio cronista ha avuto, una notte, la ventura di porre a un «barbone» una domanda seria: perché e come si diventa clochards. «Improvvisamente t’accorgi che dentro s’è rotto qualcosa. Dentro di te c’è un pezzo che s’è fuso e non si può sostituire. Così si decide di cambiare: la vita».

Nel buio di Roma accanto ai diavoli camminano gli angioli della notte, i «ragazzi» di Sant’Egidio. Hanno imparato a rispettare i «barboni» che, per esempio, non amano essere toccati. Gli angioli sanno porgere una coperta o l’aspirina senza umiliarli. E non importa se i «barboni» puzzino di piscio o di vino pessimo: «L’anima non puzza», dicono i ragazzi di Sant’Egidio che poi sono docenti universitari o semplici ragazzi-bene, non boyscout.

L’«Onu di Trastevere» ha realizzato la pace in Mozambico e per la pace si spende, come in questi terribili giorni di stragi in Terra Santa. Ho chiesto cosa li affatichi di più: servire i poveri o aiutare gli uomini di pace. Risposta: «Noi distribuiamo 1500 pasti al giorno e francamente non è facile imboccare un vecchio vecchissimo, per di più inappetente. Ma non c’è difficoltà più aspra che convincere i politici che la pace è ineluttabile».
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:12:25 am »

4/1/2009
 
Sangue senza fine
 
 
IGOR MAN
 

E’ un momento grave. L’anno nuovo, segnato dalla spedizione punitiva di Israele a Gaza, cavalca l’incognita del «dopo» - e cioè tutto finirà quando Hamas sarà in ginocchio ovvero il blitz accenderà un nuovo fronte, in Libano, dove Hezbollah sarebbe in pre-allarme? L’interrogativo verosimilmente cadrà nelle prossime quarantott’ore, allorché sarà possibile capire se l’operazione «Piombo fuso» avrà raggiunto l’obiettivo fissato dallo stato maggiore di Tzahal, obiettivo oggi difficile da individuare. Al Cairo quegli esperti puntano l’attenzione sul consenso popolare in Israele, alto.

L’80% della popolazione appoggia «Piombo fuso», solo il 4 per cento si oppone. Detto una volta ancora che Israele s’è mosso per difesa davvero legittima, sarà utile ricordare che gli accadimenti mediorientali non possono misurarsi col metro occidentale. C’è una «previsione» sul risultato del blitz israeliano sulla quale occorre per altro riflettere. A formularla è stato un leader di Hamas, il giuresperito Nizar Rayan, esattamente quattro giorni fa. Dopo aver dettato la «previsione» alle agenzie di stampa, il dottor Rayan è morto: nelle macerie dell’Università islamica rasa al suolo dall’aviazione israeliana. «Qualsiasi cosa faccia Israele ad Hamas, Hamas vincerà. E questo perché se ci uccideranno diventeremo martiri - se non ci uccideranno consacreranno la nostra vittoria». Ipse dixit uno dei più popolari uomini di Hamas. Se le sue parole saranno percepite dai miliziani, sarà estremamente difficile per Israele bonificare Gaza. Certamente i soldati di Israele potrebbero distruggere (nel senso di tabula rasa) Hamas magari in pochi giorni ma l’esercito di Tel Aviv non è un esercito di lazzaroni. Ci sono regole che solo banditi di passo potrebbero violare; c’è un’etica che va rispettata ancorché sia fatta di sangue e odio. Va detto altresì che gli uomini di Hamas sapevano che la pazienza di Israele si era esaurita, la pioggia di razzi sulle città israeliane invalidava un Paese intero. Israele è territorialmente piccolo, è una sorta di «piccola provincia» dove un po’ tutti si conoscono, come da noi nel Sud; ogni persona o soldato ha nome cognome e indirizzo. Tutto il Paese chiedeva da tempo che finisse l’incubo dei razzi di Hamas. Va detto ancora che le formazioni politiche sono sul piede di guerra in vista di prossime elezioni. Ed è possibile che la dura reazione israeliana alla sistematica provocazione dei «guerriglieri di Dio» sia stata anticipata in vista, appunto, della consultazione elettorale.

C’è, poi, un risvolto interno nella tragedia. La guerra è sempre una tragedia e non risolve: è dal 1947 che Israele ha fatto, fa guerre. Per resistere al crescente stillicidio di colpi di mano, conflitti e tregue, insomma per sopravvivere. Israele, oggi, è una minuscola nazione nucleare, ha l’aviazione più forte del mondo e ci precede nel campo della ricerca. E’ diventata un Paese piccolo e felice che tuttavia non ha saputo rassegnarsi a considerare il dramma di un altro popolo, quello palestinese. C’è stato un momentum che la pace con l’eterno nemico sembrava possibile: sul tema della pace ad ogni costo, Rabin, e con lui il partito laburista, vinse le elezioni proponendo agli israeliani un futuro «normale». Ma un giovinetto forse pazzo volle leggere nella Torah che Rabin era un «rinnegato», e come tale passibile di morte. E lo uccise. Da quel momento Israele ha camminato su due piani: la pace ma non ad ogni costo - la pace con tutti i nemici, quindi anche con Hamas, con Hezbollah. Queste due opzioni han finito con l’annullarsi ed oggi, paradossalmente, Israele a dispetto della sua potenza è in difficoltà.

Rimane solo da augurarsi che gli innocenti che fatalmente questo blitz frantuma non siano morti invano. I morti non risolvono il dramma dei vivi: la guerra è un vicolo cieco. Ma la Storia ci dice che sempre dal grembo insanguinato della guerra è nata la pace.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 09, 2009, 01:17:04 pm »

9/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Nel kibbutz per capire Israele
 
IGOR MAN
 

Sono giornate devastanti quelle che scorrono in Medio Oriente e il Vecchio Cronista una volta ancora ricorda l’incontro, nel 1959, con Berta Grinstein. Non la vedevo dal 1939 (io fanciullo, lei signora di mezza età), allorché venne cacciata, con la famiglia, dall’Italia in forza delle leggi razziali. Ci vedemmo a Waterbury (Co) e fu lei a procurarmi l’intervista con Ben Gurion, suo mezzo parente. Alla lettera di presentazione, Berta aveva accluso un bigliettino per me: «Se vuoi capirci, se vuoi capire Israele, devi, devi visitare Lahomei Haghetaot. Shalom, shalom». È un kibbutz dove gli scampati alla strage di Varsavia (3 agosto 1944) in soli trenta metri hanno allestito un museo della Memoria. L’impatto è forte. L’ambiente è scabro, fiero, ma niente affatto retorico; evidente è l’intenzione di far parlare «in diretta» la Storia affinché la Memoria duri. Sui muri spiccano le macchie gialle delle stelle di pezza imposte da Hans Franck agli ebrei; gli stampati con la scritta Jood da affiggere sulle botteghe; una svastica e un documento che ci riporta, sgomenti, nell’Italia repubblichina: «Questura di Roma - oggetto: traduzione ebrei al concentramento di Carpi, in numero di 38 (trentotto). Pregasi di rilasciare al funzionario latore relativa ricevuta. Firmato: il Questore Pietro Caruso. Roma addì 25 febbraio 1944, XXII».

Quel che colpisce è «relativa ricevuta»: cose erano, povere cose gli ebrei in «traduzione». Cose destinate a finire nel gas nazista. Cose. Che tuttavia risorgeranno: come ci dicono i disegni dei bambini ebrei condannati a morte perché ebrei. Capovolgendo la realtà (siamo, in fatto, al Presagio) quegli innocenti disegnavano gli adulti: il papà, lo zio, l’amico che, armati di lunghi fucili, mettevano in fuga le SS. Inconsciamente quei bimbi ebrei si ribellavano al cliché dell’ebreo rassegnato, eterno perdente. Quei disegni reclamano il diritto d’esser dichiarati profetici. Essi anticipano la mutazione degli sfiniti reduci dai campi di sterminio in soldati vincenti: quelli che hanno costruito Israele, anzi il Nuovo-Israele, paese democratico, prima potenza militare del Medio Oriente, primatista nella Ricerca.

Quello che i Padri fondatori hanno creato in Palestina è certamente da ammirare ma paradossalmente il suo limite è la Supremazia. Un ebreo d’antica famiglia, Gad Lerner, ha citato su Repubblica il «Giobbe» di Joseph Roth: «Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Magari ne serbassero memoria gli Israeliani, esclama Gad. «Esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo-risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia». Insomma, dice Gad: la guerra non risolve. Ancorché sempre vittorioso, Israele è tuttora accerchiato da nemici che ne sognano la distruzione. Guerre brevi assicurano lunghi periodi di pace ma a ogni vittoria Israele vede crescere l’odio dei vicini. Esiste una dicotomia geopolitica alla base dell’eterno limbo in cui (coraggiosamente) Israele vive. Nell’arengo mondiale è un paese come gli altri, nell’ambito regionale è «un corpo estraneo» condannato a morte dall’islam militante; al tempo stesso è la testimonianza d’una superiorità che esaspera il complesso d’inferiorità dei suoi (frustrati) vicini. Temo che questo scenario non muterà mai. Voglio ricordare che nel 1956 i soldati israeliani cantavano: «Sempre in tre saremo: io, tu e la prossima guerra».
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 23, 2009, 12:53:44 pm »

23/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Gaza come a Baghdad
 
 IGOR MAN
 

I bambini palestinesi nati a Gaza sotto le bombe omicide, diventeranno terroristi? È questo il destino che li aspetta? Non si riesce a immaginare altro destino per chi col latte succhia odio. La spedizione punitiva chiamata «piombo fuso» si è fermata: non sappiamo ancora se per un’ingannevole tregua ovvero per l’ennesimo «tavolo» affidato a scettici sherpa incaricati di abbozzare una messa in scena sulla falsariga di Annapolis. Israele, in forza della sicurezza, aveva vietato alla stampa mondiale di «coprire» la spedizione punitiva che ancorché non fosse «la guerra» bensì un frullato maledetto di battaglie, ha seminato lutti e danni, distrutto case e speranze, ma soprattutto ha seminato irriducibile odio. Epperò Israele, paese democratico, alla fine ha aperto alla stampa. E accade che l’ascensore della memoria conduca il Vecchio Cronista al 14 di febbraio del 1991, in piena (prima) Guerra del Golfo. Vediamo. Alla tv di Amman lo speaker piange sulle immagini venute da Baghdad: è «la strage del bunker» che ha sfranto il mito giovine della «guerra chirurgica». «Fermate il genocidio...», urla lo speaker. È il telegiornale delle 19, il più seguito al di qua, al di là del Giordano. La guerra pressoché senza immagini ha ora un’immagine antica: la morte degli innocenti.

Sarebbe importante sapere se quel bunker fosse davvero un obiettivo militare centrato con precisione chirurgica da una «bomba intelligente» ovvero un rifugio destinato ai civili, insomma un bunker non intelligente. (Ancora oggi il massacro è la sola realtà che abbiamo).

Nemmeno Dario Argento avrebbe potuto inventare immagini tanto crudeli da apparire mostruose più di quelle cinematografiche: il tronco d’un ragazzo pietrificato dalla morte subitanea, il capo riverso, la bocca spalancata dall’urlo dello spasimo finale (ancora una volta ritorna l’Urlo di Munch a far da logo), le mani a cercare le gambe incenerite. Due mani di donna giovine, due mani soltanto a galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di antracite. Allora, nel 1991, quella bomba intelligente, l’ordigno perfetto guidato dal laser, attraversò due spessi strati di cemento e di acciaio giungendo con tragica precisione al punto prestabilito «trovato pieno di donne e bambini». Quell’ordigno stragista non colpì al cuore lo spumeggiare un po’ fatuo del linguaggio di guerra. Triple A (la contraerea), target of opportunity (bersaglio grosso), CD (collateral damage, cioè vittime civili). Ancora pochi giorni fa, a Gaza, sinistramente volavano ordigni portatori di collateral damage: donne e bambini che Israele sosteneva fossero diventati parabersagli per il satanico volere dei miliziani di Hamas.

Ora supponiamo (è facile) che «piombo fuso» abbia centrato tutti gli obiettivi indicati dallo stato maggiore. Il problema è un altro. Antichissimo. Il problema è, sarà, vincere la pace. Jacques Berque ha scritto: «Nessuno ha capito che le guerre coloniali hanno una particolarità: vincerle è peggio che perderle. E più la vittoria è schiacciante, più diventa inutile». La lunga guerra, gravida di infinite vittorie ma laboratorio di odio indotto, questo eterno combattimento di sopravvivenza che Israele persegue (e vince) non è proprio una guerra coloniale ma per il resto penso che Jacques Berque abbia ragione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 30, 2009, 02:54:45 pm »

30/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Che cosa ne direbbe l'Avvocato
 
IGOR MAN
 

I 24 di gennaio (scorso) «fa sei anni» ch’è morto l’Avvocato.

Ma «sembra ieri». È questo un modo di dire affatto italiano per manifestar rimpianto, per dirsi che il tempo trascorso, ancorché lungo e gonfio di accadimenti, ha soltanto scolorito il dolore che la scomparsa di «quella» persona provocò in noi. «Sembra ieri». Secondo quella che chiameremo la filosofia del vecchio cronista, tutti i Personaggi, una volta chiusi gli occhi definitivamente, entrano nel tunnel. Del silenzio. Non se ne parla più, o poco, verosimilmente perché i giorni corsi fra la Morte e il Suffragio hanno divorato le moltissime parole, scritte e dette, in lode del Personaggio. Insomma, il barile della pietas è stato raschiato sino in fondo. Sicché fermiamoci su di un interrogativo che circola e nella Fabbrica e nell’Italia tutta: come avrebbe affrontato Gianni Agnelli l’attuale «crisi»? «Mi raccomando la Fiat», sussurrò a Umberto prima di chiudersi nel silenzio che lo avrebbe guidato sino all’ultima tappa.

Gianni Agnelli, lui che aveva vissuto l’esperienza crespa della «moderna tragedia economica» (sono parole di Guido Carli), nel Ferragosto del 1971 quando Nixon annullò i cambi fissi; l’Avvocato rischiò d’esser preso in contropiede nel 1969-operaio uscendone tuttavia alla grande. Oggi è (tutto) molto più difficile poiché viviamo, ricchi e poveri, italiani e no, un tempo boreale. Osiamo immaginare che ancorché privo di galloni pubblici, l’Avvocato avrebbe parlato all’Europa, esortando quei dirigenti a far squadra, sistema. E all’Europa come grande approdo al benessere pensava addirittura Giovanni Agnelli I, il mitico nonno dell’Avvocato: «La ricostruzione deve porre le premesse d’un allargamento: il bersaglio grosso è oltre le Alpi, oltre il mare. La priorità alla Patria, certamente, ma poiché l’Italia finirà col starci stretta è ai grandi mercati nuovi che dobbiamo puntare, una volta fatto ordine in casa». «Anziché avvilirsi, mio nonno - chiosava l’Avvocato - disegnava scenari affascinanti, incredibilmente parlava da europeista».

Di più: nella sua introduzione al libro con cui l’Avvocato si racconta con le interviste date alla Stampa, Marcello Sorgi dà testimonianza dell’intuito politico di Agnelli citando una sua frase che anticipa «due problemi-base»: «C’è un bisogno d’Europa tutto nuovo, moderno, che nasce dai problemi di oggi. Uno è l’immigrazione che ha favorito la nascita dei nazionalismi. E con l’immigrazione c’è la grande questione dell’islamismo: credo che in futuro noi avremo più problemi dall’Africa (Agnelli si riferisce all’Egitto, all’Algeria, alla Libia) che non dall’Europa dell’Est, e ciò proprio per il problema dell’islamismo». Su codesta incandescente materia sono stato lungamente interrogato dall’Avvocato. Lo stesso accade, ora, con l’erede-delfino che l’Avvocato definiva: «Attento, metodico, rapido, responsabile, ironico quel tanto che basta per lavorare senza trascurare la joie de vivre».

Qualcuno ha detto e scritto che per uscire dal guado la Fiat avrebbe bisogno di un Valletta postmoderno. Ma ce l’ha: non porta la cravatta. Giovanni Agnelli, l’Avvocato, «fa sei anni» ch’è svanito. Si è spento all’aurora, nel momento ch’egli definiva magico, allorché, come diceva, «Dio ti regala un giorno ancora».
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 06, 2009, 09:59:52 am »

6/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Re Gheddafi e la tela del potere
 
IGOR MAN
 

Per la buonanima di Sadat, Gheddafi era un pazzo pericoloso. Il tunisino Burghiba lo definì uno scippatore cinico.

Durante lunghi anni il Colonnello venne marchiato dagli Stati Uniti alla stregua d’un volgare terrorista. «Manca solo che gli attribuiscano il potere di scatenare i terremoti», ironizzò Andreotti che per altro non si è mai stancato (da ministro degli Esteri, da presidente del Consiglio) di esortare Gheddafi a star coi piedi in terra. C’è voluta la strage di Lockerbie, e il bombardamento su Tripoli ordinato da Reagan: maldestre, fuori bersaglio le bombe e tuttavia drammaticamente recepite, per sedarlo. La Libia (o Jamarija) è un gigante economico, grazie al gas e al greggio, ma è un nano politico. Il Colonnello ha sfidato ostinatamente i marosi del panarabismo, nella convinzione d’essere l’uomo del destino, il deus ex machina del riscatto palestinese. Facts are stubborn, i fatti sono ostinati, dicono gli inglesi, e finalmente Gheddafi ha capito che il panarabismo era finito in cantina e bisognava puntare al bersaglio grosso «per dare una mano alla Storia», come ebbe a dirmi quando mi ricevette nella sua tenda vera, piantata nel deserto della Sirte. Il «bersaglio grosso» è l’Africa. È chiaro che capi e capetti africani, quelli bravi, quelli cattivi, i ladri e gli onesti, non gradivano che Gheddafi facesse, in Africa, al Qaid, la guida. Così ogni vertice panafricano si concludeva con un bel niet al Colonnello smanioso di costruire un impero, con la terra degli africani.

Ma da buon beduino, Gheddafi sa invecchiare mantenendo giovani i sogni e il vertice panafricano di Addis Abeba finalmente l’ha incoronato re; gli ha conferito un ruolo «sovrano» che Gheddafi ha definito «re dei re». Il beduino spesso «erratico» ha tessuto una tela di potere degna d’un Andreotti diremo abbronzato. Ha personalmente scritto a ben 52 presidenti, esplicando i punti cardinali del suo, a lungo meditato, riscatto dell’Africa. E alla fine gli han dato una cambiale non proprio in bianco ma garantita da lui stesso, il Colonnello.

Proprio in concomitanza con l’annuncio regale, Italia e Libia hanno finalmente firmato quel «trattato» che dovrebbe disciplinare l’afflusso degli immigrati in Italia. L’accordo c’è, all’Italia costerà una tombola ma dovrebbe infine sanare la piaga dei disgraziati che sbarcano a Lampedusa in cerca di pane. Molti, fra politici ed esperti, hanno ironizzato sui «vertici» di Libia, osservando che Gheddafi è lunatico e cerchiobottista. Hanno trascurato il fatto che Gheddafi ha di fronte uno come il Caw, non un distratto burocrate qualsiasi. Il Vecchio Cronista è stato ricevuto spesso da Gheddafi: ho tratto la convinzione che il beduino dalle sette vite e dalle settecento divise (le ordina a un sarto italiano) è tutt’altro che erratico. Se la politica è un bazar, diremo che Gheddafi ha fatto un buon affare poiché il trattato premia la Libia e sfuma il ricordo d’un passato crespo. Laggiù l’Italia portò verde e benessere ma anche violenza, lacrime. Il Colonnello ha demonizzato l’Italia persino pateticamente. Ma con uno come il Caw non c’è partita per al Qaid. Anzi: la partita c’è fra Libia e Italia ma le carte, questa volta, sono intonse. (C’è solo da augurarsi che il «nuovo giocattolo», la carica di Re dei Re d’Africa, non distolga il Colonnello dagli impegni solennemente sottoscritti).
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Febbraio 13, 2009, 10:42:32 am »

13/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Salvador il miracolo di San Romero
 
IGOR MAN
 

C’è un tempo per la guerra /c’è un tempo per la pace», recita l’Ecclesiaste: nel piccolo Salvador dopo anni di martirio la guerra prolongada s’è spenta; nei giardini all’inglese che abbracciano il Camino Real, albergo inn quant’altri mai, al mattino più non si contano i cadaveri con la testa mozzata seminati dagli squadroni della morte. Fioriscono fiori veri e rinasce la speranza che in Salvador regni finalmente la pacifica convivenza. Il Fronte Farabundo Martí di Liberazione (Fmln) ha vinto le elezioni, finisce lo stradominio dei «fascisti» di Arena, degli epigoni sanguinari di Bob d’Abuisson contro i quali i muchachos della guerriglia, sostenuti dalla Dc contadina di Napoleón Duarte, «martire laico», si sono battuti. Ma la partita non è chiusa. Bisognerà attendere le elezioni presidenziali il 15 marzo: ci diranno se finalmente il Salvador avrà pace e lavoro. Il timore è lo stesso da più di 30 anni. Le «14 famiglie» che gestiscono il Salvador accetteranno le regole democratiche, cadranno pali e paletti che imbarbariscono la vita politica?

A modo di scongiuro, la Dc - un partito proletario, non una «balena bianca» - ha ha mobilitato un po’ tutti gli iscritti. Han risposto anche i muchachos: la guerra prolongada ha imbiancato i capelli e scavato rughe indelebili; fuori e dentro. Ma qualcuno ha conservato tratti e sorriso fissati da un modesto pittore su una tela nella disadorna cattedrale di San Salvador. Il Vecchio Cronista si riferisce a monsignor Oscar Romero, nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977: tre anni prima d’essere assassinato. Vediamo: 24 marzo del 1980. All’Elevazione, dal fondo della cappella partì un colpo di Uzi: tranciò la vena giugulare del sacerdote che rimase («miracolosamente») in piedi, le mani levate a mostrare l’ostia consacrata. Poi crollò sull’altare e la particola s’intrise del suo sangue contadino. Così un commando di tre sciagurati al soldo delle «14 famiglie» ammazzò monsignor Romero.

Qualche giorno prima, all’Omelia, l’arcivescovo aveva implorato: «Americani e russi: voi mettete le armi, noi mettiamo i cadaveri. Basta. Basta in nome di Dio: lasciateci soli e usciremo dal tunnel della violenza omicida. Lasciateci soli». Ma la guerra di guerriglia serviva alla borghesia compradora per consolidare un dominio antico insidiato da los comunistas. Fra i quali contavano monsignor Romero, reo d’aver «tradito» schierandosi coi poveri, con la Dc di Duarte. La profezia di monsignor Romero s’è avverata? (Forse). Una volta lasciati soli, i salvadoregni han smesso di ammazzarsi e ora, in parlamento, seggono ex guerriglieri ed ex pirañas. Di più: su preciso mandato di papa Wojtyla, monsignor Vincenzo Paglia, l’attento, infaticabile vescovo di Terni, è stato nominato postulatore della causa di beatificazione di Romero. Come viatico gli han consegnato la croce pettorale del martire. «Postuli pure la causa, noi l’aiuteremo con le nostre incessanti preghiere - gli ha detto -, ma sappia che il popolo salvadoregno ha già fatto santo monsignor Romero».

Ora, con tutto il rispetto, chi scrive vorrebbe porsi un interrogativo. Non è che la «piazza» con il suo straripante amore nuoccia ai processi di beatificazione? Tutti ricorderanno il corale grido-ruggito: «Santo, subito santo, subito», che esplose in Roma ai funerali di quel Papa unico che fu Giovanni Paolo II. Ebbene, il processo di beatificazione di Wojtyla segna il passo. Niente più corsia preferenziale?
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 20, 2009, 03:46:30 pm »

20/2/2009
 
Apprendisti stregoni della paura
 
IGOR MAN
 

Un italiano su 4 non si sente sicuro quando esce di casa. Aumentano le rapine, dilaga il traffico di stupefacenti.

Risulta dal Rapporto annuale sulla criminalità in Italia. È di 500 pagine e porta la data del 22 giugno 2007. L’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, definì «impressionanti» i dati sui reati contro le donne. Il 31% delle italiane ha subìto almeno una violenza. Di più: il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal partner (amante o marito) e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. Con tanti saluti alla famiglia «fiore all’occhiello della società italiana». Oggi non sono disponibili dati «aggiornati» sull’ordine pubblico.

Ma chi di dovere può anticipare che se uscisse, in questo dannato momento, il Rapporto (aggiornato) sulla criminalità, ci sarebbe da preoccuparsi. E questo perché il Rapporto dice che la famiglia è in crisi. Non da oggi. Paradossalmente a mano a mano che il benessere s’allargava cresceva la domanda non già di rapporti intimi gratificati dallo scambio di «affettuosità», cresceva la domanda di beni. Beni banali utili per figurare diversi, cioè «più ricchi» e quindi «più importanti». Oltre il 74,7% degli italiani confonde il consumismo col successo, vede negli status symbol l’imprimatur della promozione sociale.

Negli anni (felici?) dell’immediato dopoguerra, trionfava la modestia, il risparmio (anche feroce) era costume di vita, garanzia di sicurezza. I valori erano valori, la famiglia faceva blocco, ci si aiutava tra parenti e anche amici. Non esisteva l’attuale filosofia perversa che papa Ratzinger denunziò, quand’era cardinale, vale a dire il Relativismo. Epperò, a dispetto delle apparenze, dati certi ancorché non ufficiali smentiscono il presunto crescendo della violenza: il delitto comune è in ribasso. Ma se la violenza reale in fatto è diminuita come si spiega che venga percepita in aumento, che un po’ tutti ci si senta immersi nel pericolo permanente: rapine, omicidi, stupri? La risposta l’affidiamo a un giornalista-umanista, Marco d’Eramo. Ci spiega che la percezione della violenza è aumentata anche con la diffusione di «fattacci» via radio e tv. È il prezzo che esige la democrazia nel rispetto della libertà d’espressione. Sulla spinta dei media, il fattaccio più remoto (un delitto in un borgo lucano ovvero la strage in un college americano) gonfia le agenzie di stampa, rapidamente veicolato nei giornali. Il delitto entra nelle case. Creando allarme, paura.

Qui il Vecchio Cronista vorrebbe fermarsi sulla demagogia di chi cerca, scientemente, di attizzare quella che d’Eramo definisce «l’ansia securitate». È importante rifarsi alla Storia. Che ci dice come l’arma di chi pratica e predica «sicurezza», consista nel sobillare le peggiori paure del (vulnerabile) uomo della strada. Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine». E c’è un modo egregio di farlo: leggere, ascoltare, riflettere. Sceverare il grano dal loglio. Vedere se le parole corrispondano ai fatti, oppure cerchino di contrabbandare leggi all’apparenza benefiche ma in fatto repressive, lucide anticamere dello Stato autoritario.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 27, 2009, 10:17:27 am »

27/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I bambini che vivono di guerra
 
IGOR MAN

 
Convinto che nessuna guerra sia «giusta» anche se qualcuna è imprescindibile (quella contro il Nazismo), più volte il Vecchio Cronista s’è posto l’interrogativo che con dolorosa civiltà postulò Norberto Bobbio: «Ma avranno le previsioni sulla pace la stessa credibilità delle previsioni sulla guerra?». A quelli della mia generazione dicevano che la guerra «è un male necessario». Oggi è diverso. «La pace, fermando la corsa della morte, salva la vita, dona la speranza della giustizia», non si stancava di ripetere Giovanni Paolo II: «La guerra non risolve nulla». È vero davvero? Non lo so. Sono soltanto un soldato della notizia che ha scarpinato per il mondo inciampando di continuo nella guerra: anche se tutte le volte che l’ho attraversata ho incontrato un’immensa domanda di pace. Armato soltanto di taccuino e di biro ho fatto tutte le guerre mediorientali; ho raccontato la lunga guerra intestina che ha trasformato il Libano da produttore di benessere in produttore di cadaveri; ho testimoniato dell’orrore del Vietnam e delle infinite guerre di guerriglia che hanno sferruzzato il mondo da sessant’anni, ovunque e comunque ho visto invocare la pace. Soprattutto da chi combatteva o era costretto a farlo. Con una lacerante eccezione: la guerra bambina.

Stime attendibili ma da aggiornare, ci informano che nel mondo esistono 250 mila soldati-bambini (cfr. L’esercito invisibile di R. Casadei). E si teme che, travolti dalla sindrome pachistana, codesti impuberi guerrieri, in fatto votati alla morte, si affaccino in quel disgraziato paese ch’è l’Afghanistan. Ma cosa spinge un fanciullo a imbracciare il kalashnikov? Per non pochi adolescenti la guerra è «normale condizione di vita» e questo perché non hanno conosciuto la pace. Per molti altri è un modo efficace di sottrarsi alla fame ma un po’ tutti i soldati-bambini prendono il fucile mossi dal cosiddetto «bisogno d’aiuto» che provano perché «fisicamente o emotivamente separati dai loro genitori naturali». I sociologi del Salvador spiegano che pressoché tutti i più giovani muchachos del Frente Farabundo Martí «erano bambini che avevano visto i propri genitori catturati e/o torturati, persino assassinati dall’esercito, le loro case incendiate dai campieri di Orden. In cerca di protezione erano entrati nella guerriglia». Fra il 1945 e oggi son milioni incalcolabili con precisione i morti in guerra. Sappiamo che questi «ignoti» sono in massima parte civili, in stragrande maggioranza bambini. Da sempre l’Unicef denuncia «un universo di efferatezze»: soltanto negli ultimi 15 anni oltre 3 milioni di corpicini dilaniati dalle bombe, arrostiti dal napalm. Una sterminata legione di orfani.

Gli asceti russi si dicevano convinti che il volto di un uomo «in buona fede» risplende d’una luce tutta sua. «Mi piace il tuo volto», dice uno dei fratelli Karamazov ad Alioscia. Il Che (Guevara) aveva il volto irregolare d’un soriano. «Comandante, dissi, Dio: ci crede, ci ha mai creduto?». «Non mi sono mai posto il problema, disse. E tuttavia, ecco, siccome sono un argentino provinciale e mia madre mi portava a Messa da piccolo, ebbene se Dio esiste come sempre mi ha ripetuto mia madre, se Dio esiste mi piacerebbe pensare che nel suo grande cuore ci sia un posto, piccino, per il comandante Ernesto Che Guevara». Quando morì per mano d’un sergente boliviano ubriaco, il Che, forse, avrà saputo in quel preciso momento che quel posto, per lui, c’era.
 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 03, 2009, 04:53:31 pm »

3/3/2009
 
Aziz, l'incantatore dell'Occidente
 
IGOR MAN
 
Quella che il presidente Obama chiama «normalizzazione» compie, in Iraq, un passo in avanti: Mikhail Yuhanna, nome di battaglia Tareq Aziz, ministro degli Esteri e vice premier iracheno, è stato assolto dal tribunale speciale che mandò a morte Saddam Hussein. Tareq Aziz, cristiano-caldeo, 72 anni sempre portati male, ancorché sotto giudizio anche per «omicidio-politico», sarebbe già ai «domiciliari», in una villetta della «zona verde» di Baghdad. A differenza della maggior parte dei paesi islamici (arabi in particolare) gli iracheni sono faticatori e attenti alla politica. Non erano pochi quelli che si è usi definire «intellettuali-frondisti»: Saddam non era amato ma rispettato lo era. Governava col bastone (la tortura) e la carota (sussidi in contanti), lasciava le briglie sul collo degli scatenati del clan di Tikrit (città natale del raîss) ma una sorta di casereccio Welfare rabboniva gli iracheni sino alla rassegnazione. Invaso l’Iraq, accusato di possesso del nucleare (una «bufala») gli americani commisero due errori. Fatali.

Sciolsero immediatamente l’esercito iracheno col risultato di creare un’armata brancaleone fonte di disastri senza fine (l’Iraq è tuttora un fiammifero acceso allo sbocco del greggio). Sciolsero il partito unico Baas volendo ignorare (o ignorando davvero?) che non era una cattedra ideologica bensì la macchina (dalla scuola al fornaio, dal traffico all’università) che faceva funzionare il paese. Come sappiamo, il vuoto bruscamente creato da epurazioni improvvide solo adesso sta riducendosi, e faticosamente. L’opinione pubblica sta scoprendo la realtà delle cose, la pace interna germoglia dopo una lunga parentesi d’orrore e di errori. La «grazia» concessa a Tareq Aziz porta l’impronta del presidente Obama. Nel giusto momento (il conto alla rovescia è già cominciato) i GI lasceranno l’Iraq a se stesso, con l’intenzione di giuocare la partita decisiva sul tavolo rosso (perché insanguinato) di quel dolcissimo ma disgraziato paese chiamato Afghanistan. (Che Dio assista i nostri soldati in servizio laggiù: non sarà una passeggiata).

In fatto la crisi mesopotamica nasce con la folle invasione del Kuwait nell’agosto del ’90 – dopo un estenuante braccio di ferro; la reazione americana arriva il 17 di gennaio del ’91: Desert Storm. A ridosso della guerra, il 10 di gennaio del 1991, si incontrano a Ginevra il segretario di Stato Baker e Tareq Aziz. «Si parla di pace con le pistole senza sicura», dirà Baker. Tutta la stampa internazionale è a Ginevra, si giuoca la dernière chance della pace. Di giusta statura, i capelli candidi, baffi neri (tinti) che spiccano sul volto pallido, gli occhiali spessi, Tareq Aziz sembra la controfigura di Groucho Marx. Ma la somiglianza è solo esteriore. L’unico non musulmano del regime iracheno è un uomo freddo, duro come l’ossidiana, l’ideologo inflessibile del Baas. Dicono che abbia «spiegato» lui a Saddam il socialismo arabo ideato dal siriano Michel Aflak, anch’egli cristiano. Dicono che lui e Saddam giuocano al poliziotto buono, al poliziotto cattivo – cambiandosi le parti a seconda del momento.

Ma Tareq Aziz col suo elaborato inglese condito non senza civetteria di citazioni da Shakespeare e Milton quando non da Cervantes (sa pure lo spagnuolo) coi suoi modi garbati e quella sfumatura di sorriso ironico sulle labbra d’ostinato fumatore di sigari cubani, ha sempre incantato la stampa internazionale che gli ha subito appiccicato l’etichetta di moderato. Il resto lo ha fatto il Vaticano che, oggi, dopo cinque dolorosi anni, lo vede tornare a casa. Non senza commozione. Tareq Aziz è l’uomo che ha condotto la grande accostata del battello iracheno dall’approdo (ideologico) sovietico verso il più pragmatico porto americano, quando la guerra con l’Iran aveva messo in ginocchio il regime di Baghdad. E infatti, allorché Saddam invase il Kuwait, di Tareq non si seppe più nulla durante giorni e giorni. Poi ricomparve accanto al raîss smentendo le voci che lo volevano finito sulla forca. Purgò ai «domiciliari» la sua sbornia di americanismo. Fu Tareq a «suggerire» che poiché si era in guerra bisognava indossare la divisa ch’è, poi, la copia conforme di quella dei vecchi padroni inglesi. Tareq e compagni partirono per la Svizzera infrasciamati nell’uniforme kaki. Si cambiarono in volo due ore prima di Ginevra. Indossarono gli abiti borghesi fatti al Cairo da un sarto di origine triestina (israelita), coi pantaloni sbracati e la giacca che sbecca sul collo.

Dopo l’inutile conferenza stampa, lunga, estenuante, con Baker, lo sentimmo dire a un suo tirapiedi: «La cioccolata per mia moglie, i sigari per me, mi raccomando. Se perdo questa occasione dove la trovo più?», e sorrise come un vecchio ragazzo triste che l’ha fatta grossa. Il corrispondente di Le Monde, quello di Newsweek e chi scrive, bloccarono Tareq Aziz mentre stava eclissandosi per la porta della cucina. Protestò d’aver detto «tutto il possibile per la pace» ma infine si arrese alle nostre insistenze. Fissando un punto lontano, sopra le nostre teste, sillabò: «Gli americani non hanno capito che non sarà un film. Sarà una guerra interminabile e sanguinosa».

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 06, 2009, 05:23:35 pm »

6/3/2009
 
Poveri ma belli nell'Italia a pezzi
 
IGOR MAN
 
Acquisti ragionati, debiti indispensabili. Questo raccomandate, voi vecchi, in vista della crisi globale: così dicono i ragazzi d’un liceo romano al Vecchio Cronista, con un preoccupato interrogativo: «Come sbarcavate il lunario nell’Italia a pezzi?». Durante l’occupazione tedesca di Roma la scelta era secca: contro i nazisti e dunque inchiodati alla fame o coi tedeschi e dunque ricchi d’ogni cibo. La Liberazione ci colse dimagriti (ci fu chi soggiacque alla Tbc) ma felici. Nove mesi di stampa clandestina, la morte sfiorata ripetutamente ci aiutarono a trovar subito lavoro nei giornali fioriti dalla Liberazione. Gli stipendi erano modesti, il sindacalista Di Vittorio, un comunista all’antica, lottò a lungo per farci avere il Contratto con gli editori. Che, ancorché sparagnini, ci davano una mano: a un passo da Monte Citorio, Renato Angiolillo direttore de Il Tempo trovò un negozio d’abbigliamento molto elegante disposto a concederci l’acquisto di indumenti (belli) da pagare a rate.

Non prendevamo il tram se non di rado, al cinema non si pagava. Al mattino ci bastava un cornetto col cappuccino «al vetro». A mezzodì andavamo a mangiare da «Colombo», in via Alibert angolo via Margutta. Colombo, già cameriere di Nino (via Borgognona), aveva lanciato il «pasto felice», 330 lirette: primo, secondo, frutta, un generoso bicchier di vino. A mense sciolte la trattoria diventava un «salotto»: Marlon Brando si faceva indirizzare la posta da «Colombo», dove l’attendevano Novella Parigini, intrigante seguace di Leonor Fini e la prosperosa Ursula Andress che già sognava Hollywood. Era la meta pomeridiana di Germi che, accompagnato da una diafana Cosetta Greco, si fumava un robusto toscano. Turcato pagava i suoi pasti e quelli della dolcissima Orietta Fiume con quadri astratti che han fatto ingrassare non pochi mercanti d’arte. Giancarlo Vigorelli, direttore della Fiera Letteraria, indisse un referendum: «Gide o Claudel?»; premiata con 50 lire la risposta di De Chirico: «Mi piace Gide: apprezzo anche Claudel / a entrambi preferisco / la crème caramel».

Giuseppe Berto veniva da «Colombo» carico di dolcetti per Emanuela, che sposò. Pasquale Festa Campanile leggeva a voce alta le sue sceneggiature al pittoresco Peppino Amato, produttore di Gene Tierney. Eravamo di buon appetito, il menù di Colombo tuttavia ce lo facevamo bastare; il condimento era straordinario: Vittorio de Sica, Rossellini, Zavattini. Ci appassionavano i detti dei Maestri, la sera ci bastava un uovo. In un ritaglio della tipografia de Il Tempo avevano arrangiato un cucinino-menù fisso: un uovo all’occhio, un bicchierino di vino al posto del latte che - dicevano - annacquasse il veleno dell’antimonio sprigionato dal piombo delle linotype, nere ed altere come nordiche cattedrali.

Con duemila lire in contanti e due chili di cambiali, Angiolillo aveva fondato Il Tempo che presto, irrobustito da una coraggiosa campagna acquisti (Moravia, Missiroli, Cecchi, Brancati, Zingarelli, la Manzini...) divenne il quotidiano leader in quegli anni che Carlo Laurenzi definì «fiduciosi». Eravamo giovani, ci sentivamo veramente liberi, facevamo una vita austera, ma eravamo strepitosamente felici. E una sera Alberto Arbasino ci portò in via Veneto, da Mario Pannunzio. Ma questa è un’altra storia.

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« Risposta #41 inserito:: Marzo 13, 2009, 09:08:16 am »

13/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Sabaudia con la Callas innamorata
 
IGOR MAN
 

Una barca di 38 metri ha gioiosamente messo in crisi Sabaudia raggiungendo dal lago il centro cittadino grazie a un marchingegno inventato dagli operai del cantiere Rizzardi. La barca è destinata al solito sceicco, ma il ricavo è un’ampia boccata d’ossigeno per il cantiere e il conseguente indotto, come ha detto Maurizio Lucci, il giovane f.f. Sindaco. E, secondo Gaetano Benedetto, presidente del Parco nazionale, la partita si vince allargando l’alta stagione: turismo tutto l’anno. Due scuole di pensiero si fronteggiano. Una postula un turismo da spiaggia non più riservato a pochi privilegiati, quelli delle ville sulle dune, per intenderci. L’altra mira a coniugare lago e mare, facendo di Sabaudia un immenso porto turistico. Codesto faraonico progetto presuppone tuttavia la distruzione della diga romana per consentire, appunto, il viavai delle barche anche da 38 metri.

Il lago a ridosso di Torre Paola, benedetto da un mare cristallino, appartiene da secoli alla Famiglia Scalfati. Divisa sulla sua sorte, Anna Scalfati, la bella inviata del Tg3, condanna «assurde speculazioni». Suo fratello Alfredo spinge per il porto turistico. Italia Nostra è stata allertata. Vedremo.

Sabaudia avrà 75 anni presto; sorse per dar posto a un’area protetta nel parco del Circeo (8.500 ettari). «L’agro redento diede nuove terre da coltivare a sessantamila coloni veneti, friulani, romagnoli e fece sorgere città nuove di zecca» (cfr. L. Colonnelli, Corsera). Sabaudia la disegnò un team guidato dal Piccinato: esempio unico di città a misura d’uomo. Il Vecchio Cronista scoprì Sabaudia grazie a Paolo Monelli. Moravia vi costruì una villa spartana che fu studio di pittori veri come il Tornabuoni, di giornalisti e scrittori: dalla dolcissima Dacia Maraini a Flaminia ed Enzo Siciliano, da Bernardo Bertolucci a Dario Bellezza. Quando si trattò di scrivere la biografia-intervista di Moravia, fu scelto il più giovane di tutti: Alain Elkann. Per anni lunghi e fecondi la casa di Moravia albergò, tra i tanti, Pasolini che vi portò anche la Callas (vanamente) innamorata del regista di Medea. «... quanto abbiamo riso noi intellettuali dell’architettura del regime - scrisse PPP -, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso queste città le troviamo assolutamente inaspettate...». Non senza coraggio Carla Fendi ha completato la villa disegnata da Lucio Costa, uno dei campioni del Razionalismo italiano.

«Sabaudia ha Sabaudia», rispondeva Moravia quando gli chiedevano della città cara al suo cuore scontroso. «Sabaudia ha Sabaudia»: venti chilometri di spiaggia bianca, quindici miglia di mare. Zona protetta quant’altra mai, Sabaudia vede nidificare le cicogne, vede il volo solenne degli aironi rossi, degli aironi cinerini; vede nella riserva di Caprolace ricrearsi nei «punti d’inferno» l’habitat caro agli uccelli acquatici. Non c’è una ciminiera che lordi il cielo di ceramica e quando il suono lungo delle campane annuncia l’invasione poderosa del tramonto, i cormorani tornano al nido. E il lago si tinge di rosso e il mare si sfinisce nell’ansia di accogliere il sole. «Sabaudia ha Sabaudia».

 
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:38:06 am »

20/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I cani infelici e la gallina del duce
 
IGOR MAN
 
Se siete ricco o povero: ignorante o istruito / peccatore o santo / siete il suo compagno e ciò gli basta. Egli sarà accanto a voi / per confortarvi, proteggervi / e dare se occorre / per voi la sua vita / Egli vi sarà fedele nella fortuna / come nella miseria: / è un cane» (1983-1995). Codesto epitaffio l’abbiamo letto a Roma, in via dell’Imbrecciato, dove da tre generazioni la famiglia Molon gestisce una sorta di Spoon River all’italiana, insomma un cimitero per cani e gatti. Un luogo unico in Italia, non fosse altro perché ospita la gallina di Benito Mussolini (cfr. F. Sansa, Messaggero). Un giorno di primavera del 1936, il veterinario Antonio Molon venne convocato a Palazzo Venezia. «I miei figli giuocavano con la mia gallina. Ma è morta e i miei la piangono. Non mi va di gettarla nella spazzatura», disse Mussolini e Molon ritirò la gallina defunta dalle mani di donna Rachele, correndo a seppellirla nel vasto giardino che aveva ai Colli Portuensi. Nel tempo quell’anomalo cimitero si è allargato ospitando cani e gatti vegliati da lapidi invero struggenti.

Va detto subito come la strage del branco che ha sconvolto paesi buoni e civili di Sicilia non abbia alterato il sentimento di dolenti padroni di cani e/o gatti. Nelle elementari, i bravi maestri spiegano (non è facile ma ci riescono) perché e come cani in selvaggio branco abbiano ucciso e seviziato innocenti persone. Spiegano che il processo di ritorno all’«animalità» di bestiole «abitualmente docili» nasce e matura in conseguenza dell’abbandono. Fra i tanti guasti del consumismo (scambiato per successo sociale) va denunciato l’acquisto, da parte delle famiglie italiane, d’un cane, di razza possibilmente. La bestiola conosce un’estate stupenda ma finite le ferie del padrone, viene abbandonata. A se stessa. Istintivamente si unisce a cani che hanno subito la stessa sua sorte: e nasce il branco che altro non va cercando se non «vitto e alloggio». Secondo la Lega antivivisezione, in Italia abbiamo un milione di animali allo stato brado: un cane abbandonato ogni tre minuti. Il nostro Carlo Grande ha chiesto all’etologo Enrico Alleva: «Esistono cani-killer?». «Non esistono, il branco è fatto di cani abbandonati, di ritorno allo stato brado. È la Caporetto dell’italiano medio che, storicamente, in una società agricola ha sempre gestito i cani, sapeva cosa farne. Oggi non più».

Il Vecchio Cronista prega per gli innocenti sbranati dai cani (anch’essi innocenti) e andando su e giù con l’ascensore della memoria ricorda Cuè, cane lupo di possente stazza, terrore dei ladruncoli che all’epoca (Anni 30) insidiavano le ville tuffate nel verde di Cibali. Cuè ubbidiva soltanto a mia madre e, paradossalmente, al fanciullo ch’io ero. La morte precoce di mia madre scatenò un’inedita depressione nel nostro cane che avendo ostinatamente rifiutato di nutrirsi, infine morì. Su quel quotidiano-digest, il Foglio del Lunedì, confezionato con felice misura da Giorgio dell’Arti, ho letto la citazione d’un articolo di Alleva e Gallavotti sui cani «in lista d’abbandono». I cani abbandonati cadono in preda a feroci sensi di colpevolezza; credono infatti che l’abbandono sia la conseguenza d’una loro colpa. Su Sette Antonio d’Orrico ci dice perché, secondo Freud, si può voler bene ai cani: «Per il loro affetto privo di qualsiasi ambivalenza - per la bellezza d’una esistenza perfetta in se stessa».
 
da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:11:24 am »

23/3/2009 - OBAMA E L'IRAN
 
Il castello di carta
 
IGOR MAN
 

Finché si parla non si spara», diceva Churchill. Dopo trent’anni di male parole, di reciproche minacce persino rodomontesche, gli Stati Uniti d’America e l’Iran si parlano.

Finora non han fatto se non scambiarsi feroci rimproveri e severe minacce. Tre giorni fa, per la prima volta, han dialogato. Non faccia a faccia, è vero, ma lo han fatto. Niente minacce, non più insulti. Obama ha socchiuso il pugno ma non è andato oltre questa apertura simbolica. Il discorso di Obama gli somiglia e a dar retta ai nostri interlocutori «su piazza» nella Repubblica islamica (nelle vesti di brasseur d’affaires), avrebbe «spiazzato» Khamenei, Guida suprema della Teocrazia persiana - in fatto l’inappellabile successore, designato dal corrucciato imam Khomeini, il vecchio ayatollah («presenza di Dio») in pantofole. Costui con la sua esaltata rivoluzione a mani nude spodestò lo Scià, potente e ricco, vezzeggiato amico della Casa Bianca. Sbalorditi, noi corrispondenti stranieri vedemmo gli scimmieschi «moschettieri dell’imperatore» arrendersi a fanciulli, a donne inermi: si arresero in mutande, coi pantaloni della gallonata divisa ripiegati sull’avambraccio in segno di resa. Khomeini aveva viaggiato, seppur poco, aveva però letto Aristotele e Platone ma non certamente Bodin dal quale tuttavia mutuò il ruolo del dominus assoluto, «padrone del cuore e della mente del popolo». La «fissa» è rimasta

Khamenei non risulta che abbia messo il naso fuori del suo per molti versi grande paese (islamico). Nel tempo tuttavia codesto personaggio ha acquistato scioltezza, le sue orazioni han preso smalto ma la «fissa» è rimasta. La «fissa» ha un nome storico: Israele. Ogni occasione è buona per accusare gli Usa di «complicità» con Israele «bubbone cancerogeno» da estirpare. Nella complicata panoplia orale dell’imam spiccava il «compito supremo», vale a dire Gerusalemme ai palestinesi. Ogni anno, secondo il lascito di Khomeini, l’Iran dedica corrusche giornate volte a rinnovare una sorta di «consegna» al popolo: lottare con ogni mezzo per «cancellare dalle mappe Israele».

Come s’è visto, contro tutte le previsioni, Khamenei ha subito risposto all’apertura di Obama. «Fatti, non parole», ha detto in un comizio-festa del capodanno iraniano di primavera. Ha monotonamente elencato le presunte minacce degli Stati Uniti, chiedendosi retoricamente come «qualcuno» potesse pretendere un dialogo costruttivo di pace quando questo «qualcuno» - l’America, lo stesso Obama - aiuta, protegge Israele «Stato sionista». Questo passo del discorso era scontato: fa parte della routine oratoria iraniana, la novità consisterebbe nella mancata sequela di insulti e minacce di solito rovesciata sul nemico da Khamenei, con a ruota il «suo» presidente Ahmadinejad famelicamente impegnato in una estenuante campagna in vista delle elezioni di giugno. Il voto come spartiacque

Ecco lo spartiacque: la prossima consultazione elettorale. Se dalle urne (come sempre manipolate dalla cupola in turbante) uscisse il nome d’un diciamo «moderato», vorrà dire che Teheran ha deciso di scendere dall’asino di Satana per imboccare, passo dopo passo, il sentiero (non facile) della ragionevolezza, magari soffermandosi anche sulla Bibbia... Sia come che sia, far pronostici ad ampio raggio prima delle prossime elezioni d’estate in Iran sarebbe lo stesso che interrogare una Sibilla di Cuma sorda spaccata. Epperò, poiché oltre alla Siria e a Hezbollah (in pratica il Libano) l’Iran aiuta e protegge Hamas, corre l’obbligo di registrare una dichiarazione interessante. A parlare è un personaggio brutalmente politico, il titolato Hamas Meshaal, il leader di Hamas esule in Siria. Ha testualmente detto ad Alix Van Buren: «Dal presidente Obama viene un linguaggio nuovo. La sfida, per tutti, è che sia il preludio d’una stagione nuova della politica americana ed europea. In quanto alla apertura ufficiale ad Hamas è solo questione di tempo».

Lo scambio di messaggi fra il trasparente Obama e il criptico Khamenei, maestro della taqqya, la dissimulazione, può con qualche sforzo definirsi incoraggiante. Ma è un castello di carta quello che ci sembra di vedere. Non è un mistero che fra le poche opzioni Israele (che si sente sempre più assediato, tanto che prima della pace vuol sicurezza) progetti un blitz sui siti atomici dell’Iran. Questo, Khamenei lo sa. Ma sa anche che l’Occidente per sanare l’Afghanistan deve «dialogare» con quei miliziani oltranzisti. Incrociamo le dita.
 
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:48:31 am »

27/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Eroi di ieri e nuovi scatti d'orgoglio
 
IGOR MAN
 
Nel 65° della strage delle Ardeatine, la pietà, il ricordo, la gratitudine han celebrato un eroe italiano, con un convegno in Monte Citorio. L’eroe ha un nome nobile, fiero: il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Aiutante dell’effimero governatore di «Roma Città Aperta», generale Calvi di Bergolo, Montezemolo riuscì a sottrarsi alla cattura in forza del suo sangue freddo. Era il 23 settembre 1943, nasceva la Repubblica di Mussolini; i tedeschi circondarono il Viminale, arrestarono il generale Calvi, il generale Tabellini, il generale Maraffa. «Ti ordino di darti alla macchia per il bene dell’Italia», sussurrò Calvi. E Montezemolo: «Comandi», rispose. Entrò nel suo ufficio, distrusse documenti «sensibili», vestì un abito, grigio, da borghese, e uscì a passo lento. «Nessuno badò a quel signore sui quarant’anni, magro, biondo che si avviò con l’aria indifferente verso le Quattro Fontane», (P. Monelli, Roma 1943 ). Il tempo scorreva amaro e ingrato, Roma trascinava un’esistenza precaria, giorno dopo giorno; fu irrisoria città aperta. I tedeschi razziavano uomini e cose, spedivano il meglio in Germania mentre i loro ruffiani, sciagurati ragazzi intossicati da una propaganda implacabile, imparavano a torturare «antifascisti giudaicomassoni», in feroce concorrenza con via Tasso dove Kappler torturava con fantasia nibelungica.

Sotto un’apparente indifferenza, il popolo romano resisteva. «Nessuna città fu meno prona di Roma ai nuovi tirannelli. I fatti, i decreti, le gesta nefande del nuovo governo fascista sembravano cose di un altro mondo, ne giungeva la notizia tarda e ottusa» (ibidem). Il processo di Verona, la fucilazione di Ciano, i «diciotto punti», la socializzazione delle aziende, gli appelli alle armi, tutto questo appariva irreale, assurdo. Ma era vero e i romani sapevano che bisognava resistere cancellando il vergognoso: «Francia o Spagna - basta che se magna». Infine, la strage delle Ardeatine voluta da Hitler nel segno della rappresaglia per l’attentato di via Rasella; «atto di guerra», secondo la Resistenza, «azione criminale» per i nazisti. Da punire, con la morte, tot italiani, non importa se colpevoli o no. Trecentotrentacinque uomini, d’ogni età e condizione, furono tratti dal carcere senza preavviso, spogliati, legati con le mani sul dorso, trasportati in autocarri alle Ardeatine. Fra codesta umanità condannata selvaggiamente a morte, il Colonnello di Montezemolo. Il giorno stesso dell’arresto di Calvi, Montezemolo cominciò a organizzare una banda interna ed esterna con compiti di sabotaggio, di informazioni agli Alleati, di guerriglia. I tedeschi lo cercavano: «è l’uomo più intelligente e preparato, il nostro più pericoloso avversario», diceva Dollman. Fu arrestato alla fine di gennaio e subito torturato. «Scientificamente» ma invano. Sinché gli aguzzini, disperando che parlasse, vollero che morisse «perduto nella turba dei 335 martiri». Il «Vecchio Cronista» che fu partigiano citerà il Presidente Fini che, ricordando l’eroe di Montezemolo, ha affermato la continuità fra Risorgimento e Resistenza. Ciampi, il Presidente degli italiani, aveva già colto questo aspetto unico nel suo compiersi ma che l’abbia proposto il presidente della Camera è un fatto non da poco, considerati certi suoi trascorsi politici. È troppo sperare (e operare) una resistenza alla deregulation, uno scatto d’orgoglio per (di nuovo) risorgere?

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