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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 48551 volte)
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« inserito:: Agosto 02, 2007, 05:44:44 pm »

2/8/2007 (9:14) - C'ERA UNA VOLTA...

Così provammo a uccidere Jfk
 
Un'immagine dell'attentato al presidente Kennedy, il 22 novembre del 1963.
 
Dallas 1963: pochi giorni dopo l’attentato tre giornalisti ricostruiscono gli spari di Oswald

IGOR MAN


Il 22 di novembre dell’anno di grazia 1963, a Dallas, ammazzarono John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Quel delitto «sconvolse il mondo». Radio Mosca, data la notizia, annullò tutti i programmi irradiando musica classica. Aveva 46 anni il presidente cattolico che un po’ tutti chiamavamo Camelot immaginando la Oval Room come una replica postmoderna della Tavola di Re Artù. Quarantotto ore dopo il delitto, attribuito immediatamente a «un poco di buono», Lee Harvey Oswald, un ex marine, chi scrive arrivava a Dallas. Mi aspettavo una città in gramaglie mentre, invece, quegli abitanti (se non tutti senz’altro la maggioranza) lietamente si affannavano a preparare il Thanksgiving Day, il giorno del ringraziamento. Il Carousel Lounge, il locale di Ruby, sì, l’assassino di Oswald, non accettava più prenotazioni, tutti i tavoli esauriti diceva un cartello. In verità Dallas era squassata da un isterico vento di follia: c’era chi non si curava di nascondere la gioia per la morte di JFK, colpevole, agli occhi dei neoconservatori texani d’essere un «bostoniano comunista», una «testa d’uovo» wanted per tradimento come affermavano manifesti che ritraevano, di fronte, di profilo, il presidente, in simbolica foto segnaletica. C’era chi manifestava composto dolore, come il signor John L. Block. Nel punto in cui Kennedy è stato ucciso, ai lati della strada che va in discesa, si aprono due verdi prati: sull’erba la pietà di pochi ha improvvisato un sacrario. Accanto a una corona di fiori, un mucchietto di lettere. Ne ricordo una: «...gli Stati Uniti hanno perso il Presidente della Nuova Frontiera, io ho perduto mio fratello». Firmato John L. Block. Il quale signor Block ha avuto il torto di adoperare la carta intestata, con l’indirizzo eccetera. «Ignoti» hanno bussato alla sua porta, si sono fatti aprire per infine massacrarlo di botte. Ricordo come fosse oggi quanto mi disse un costernato reverendo metodista, il dottor Jimmy R. Allen: «Se è vero che il delitto poteva accadere dovunque, è un fatto come nessuno si sia sorpreso che sia avvenuto a Dallas». Ma perché il Vecchio Cronista scrive di JFK quarant’anni «dopo»? Vediamo.

Ai primi di luglio l’agenzia Ansa ha dato rilievo a un singolare test eseguito a Terni dal Comando logistico dell’Esercito. Quegli specialisti dovevano esaminare un glorioso fucile da guerra italiano: il Carcano modello 91,38 matricola C2766, calibro 6,5 prodotto dalla Regia fabbrica d’armi di Terni. E ciò per accertare se l’assassino diremo ufficiale (Oswald) di JFK aveva sparato dal sesto piano del deposito della Libreria pubblica di Dallas, da un’altezza di ottanta metri, esattamente tre colpi; uno di essi fece saltare la calotta cranica di Camelot. Il verdetto di Terni differisce dalle conclusioni del «Rapporto Warren» secondo il quale Oswald agì da solo senza nessun aiuto: alone and unaided. A codesta conclusione giunsero anche i tecnici del Fbi, dopo una ricostruzione animata sul percorso fatale della decappottabile di Kennedy. La stampa italiana aveva a Dallas tre inviati: Virgilio Lilli del Corriere della Sera, Auro Roselli del Giorno e chi scrive.

Il metodo di indagine del Fbi non ci convinceva, non tanto per la conclusione quanto per le sue modalità. Una sera, dopo la oramai abituale discussione sui tempi e i modi della mitica polizia federale, convenimmo che se un esperimento si doveva fare, tanto valeva eseguirlo sparando senza cartuccia con un foto-fucile in modo che ad ogni colpo del percussore scattasse un fotogramma. Il punto indicato sulla fotografia dalle coordinate del mirino avrebbe corrisposto al colpo sul bersaglio. Auro Roselli, figlio di un inventore, riuscì a trovare l’arma, ad adattarle un mirino telescopico a quattro ingrandimenti, una batteria e una Nikon con un potente teleobiettivo che riproduceva l’ingrandimento del mirino, badando ad allineare quest’ultimo con l’obiettivo (da 180 millimetri) della macchina fotografica. Per eseguire l’esperimento che era diventato, per noi tre, una vera e propria scommessa professionale non bastava la Nikon adattata da Roselli con perizia e pazienza rabbinica. Occorreva l’arma, occorreva soprattutto il permesso dei «federali». Presi di petto un antico amico, l’avvocato Carr Collins: «L’America è o non è il paese della libertà? - gli dissi -, fateci fare ’sto esperimento che può aiutare la commissione d’inchiesta, vai a sapere. Vogliamo soltanto dare una mano», conclusi. Carr ci fece avere il permesso di entrare in quel «colossale corpo del reato» ch’era il deposito di libri. Nessun problema per l’arma. Negli Stati Uniti, in quel fosco novembre le statistiche stimavano ci fossero in giro cinquanta milioni di armi da fuoco. Comperare un fucile come quello che ci serviva fu facilissimo. Al 2108 della Elm Street c’è una scritta: Guns. Nel negozio di Billy Hodge, Roselli trova il fucile che ci serve: un Terni 38, calibro 7/35 simile al Carcano calibro 6/5 dell’assassino. Costa 14 dollari e 95 cents. Il signor Hodge scrive su di un registro il numero di matricola, S.5297, la data della vendita e domanda a Roselli come si chiami. Lui potrebbe dare un nome qualsiasi, magari Giuseppe Garibaldi, ma preferisce far le cose a modo. «Se vi serve poche ore, dopo il lavoro riportate pure il fucile. Ve lo ricompro per dieci dollari: mio figlio compie dieci anni a giorni, mi piacerebbe fargli un così bel regalo», dice l’armaiolo.

Ora racconterò il nostro «esperimento»: sulla scorta degli appunti che conservo in una cartella sulla quale, allora, scrissi CAMELOT. Dopo essere andato su e giù con l’ascensore della memoria, adopererò il tempo presente. Nel tentativo di attualizzare la cronaca della tragedia «che sconvolse il mondo».

Col fucile in bella mostra percorriamo un po’ di strada sino a un posteggio di taxi. Nessuno ci bada, nel Texas puoi camminare armato fino ai denti, nessuno ti dirà niente; guai però a portare una pistola nascosta addosso. In taxi sino al 3121 di Rooth Street per ritirare dal signor Jim McCannon la Nikon arrangiata secondo le indicazioni di Roselli. Dieci dollari di spesa. Imbarchiamo pure il giudice di pace Charlie T. Davis, campione di tiro indicatoci dal Times Herald. Giunti al deposito saliamo al sesto piano: noi giornalisti, il signor Truly, guardiano del deposito, tre uomini del Secret Service, un agente del Fbi. Ed eccoci nella vasta soffitta che corre su tutta l’area del palazzo-libreria. Sette finestroni si aprono lungo la facciata esterna; da quello che fa angolo sulla sinistra rispetto alla strada, l’assassino sparò. Oswald piazzò qualche pacco di libri in modo da risultare defilato e appoggiò l’arma proprio su questi libri. Libri sacri, Cristo in croce sulla copertina (il caso è un regista dalla mano pesante, a volte).

Il giudice prende posto seguendo le indicazioni dell’agente federale, io preparo il magnetofono che registrerà la cadenza dei colpi. Da qui, a ottanta metri, si domina ampiamente la Houston Street, volgendo lo sguardo a destra si inquadrano perfettamente i sessanta metri fatali. Roselli ha noleggiato una convertibile rossa e si è portato appresso Nick buon tiratore, come riserva: farà da autista. Accanto a Roselli che siederà al posto di JFK, Virgilio Lilli. È il 4 di dicembre del 1963, una giornata fra il lusco e il brusco come quella in cui si spense nel mondo la luce della democrazia. Accesa da un presidente cattolico.

Allorché la convertibile rossa guidata da Nick con a bordo Roselli e Lilli imbocca la Houston Street, inopinatamente quassù tutti entriamo in tensione. Ecco, la convertibile ricalca il percorso della morte ed è angoscioso osservare «quella» automobile dal punto di vista, nel senso esatto della parola, dell’assassino. Oswald doveva disporre di nervi implacabili se fino all’ultimo succhiò un osso di quel pollo che aveva mangiato in attesa della preda per poi sputarlo e sparare. Adesso è un giudice di pace a sparare: per finta, come in teatro.

Come più tardi ci diranno le fotografie della Nikon incorporata nel fucile, il primo colpo sfiora la tempia destra di Lilli, e finisce nella spalla di Nick al volante; il secondo colpo sfiora di cinque centimetri la testa di Roselli e colpisce il cruscotto; il terzo passa al di sopra, un po’ sulla sinistra, dalla testa di Lilli. Il tutto nello spazio di sei secondi e mezzo con la convertibile a 25 km l’ora. Vale il terzo tentativo, i primi due essendo andati a vuoto: per l’eccessiva velocità della convertibile, per l’emozione del tiratore oltre tutto non pratico dell’arma.

Se il risultato dell’esperimento (nelle condizioni descritte e con lo svantaggio che il peso della Nikon e di una batteria applicate al fucile con rigidi tiranti di fil di ferro han costruito per il tiratore) è quello detto sopra, è lecito affermare come per chi conosceva l’arma (Oswald, che inoltre sparava con un modello più veloce) sia stato possibile, in cinque secondi e mezzo far centro due volte, sia pure con una forte dose di fortuna. In fatto l’assassino aveva cinque secondi e mezzo per sparare non tre ma due colpi: il primo infatti, era già in canna.

Qui finisce il racconto del Vecchio Cronista. Chi volesse saperne di più legga l’intrigante pezzo di Tessandori uscito sulla Stampa del 30 di giugno e ancora il lucido intervento sempre sulla Stampa (del 4 di luglio), dell’americanista Claudio Gorlier.

P.S. Cari amici americani mi dicono che nel suo ultimo viaggio JFK aveva messo in valigia i versi di Whitman. Sottolineando con la matita copiativa questi versi. Un presagio, forse, dell’imminente buio.

«Presso la riva dell’Ontario azzurro / un fantasma dal sacro volto / mi venne vicino / mentre meditavo sulla pace tornata / sui morti che non tornano più. / Cantami, disse, il Poema dell’America / l’inno della vittoria / e prima di andar via / cantami le doglie della democrazia». (Democrazia, predestinata vincitrice, eppure da ogni parte sorrisi ipocriti di traditori, e morte e infedeltà ad ogni passo).

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 19, 2007, 11:57:39 am »

19/11/2007

Quando Sadat distrusse il Muro tra Egitto e Israele
 
L'erede di Nasser in Israele, la speranza di convivenza non fu mai così forte

IGOR MAN


Il giorno in cui scattò la rivolta degli «ufficiali liberi», il colpo di stato che sfrattò re Faruk, Sadat fu l’unico dei congiurati a non esser sulle barricate. Andò al cinema con la graziosa moglie ed apprese del vittorioso colpo di stato a cose fatte. Questo perché Nasser, il vero animatore della storica congiura, s’era raccomandato di non farne parola con Anuar, sì con Sadat, per scongiurare il pericolo ch’egli parlasse un po’ troppo mandando all’aria il piano che avrebbe segnato «il nuovo destino». Spaccone, compiaciuto della propria abilità dialettica, niente affatto stimato dai suoi compagni, Anuar Sadat tuttavia venne nominato vice presidente della Repubblica. Quando Nasser morì e si doveva presentare al popolo il suo successore, gli ex compagni della congiura che depose Faruk convennero sulla opportunità di «non sbranarsi» lasciando a Sadat la carica di presidente. Convocato al ministero della Guerra, gli dissero che sarebbe stato lui il successore del grande Gamal. «Ma non avrai il 100 per cento dei voti, dovrai contentarti di quel che stabiliremo». Sadat accettò senza fiatare. Lo avevano battezzato bikbassci sah (signorsì colonnello) per il suo attaccamento al grande raiss, quel Nasser che amava sfotterlo. Epperò Sadat non è il grullo che sembra (o vuole apparire). Acceso nazionalista, legato al poderoso movimento dei Fratelli musulmani, ha un ruolino di marcia notevole: vi spiccano azioni rivoluzionarie antibritanniche, una formazione storica che esalta la sua oratoria capace di trascorrere dall’arabo delle persone colte a quello da marciapiede, parlato dal popolino. Ancorché assente nelle ore del putsch, Sadat sarà lui ad annunciare alla radio la deposizione di re Faruk. E sarà lui a dare la notizia della morte di Nasser, il bene-amato

Dalle molte letture, dall’esperienza di vice presidente, Sadat ha ricavato «una lezione di vita» drammatica. «Ho sempre pensato che l’Egitto deve vivere e crescere e prosperare secondo le regole del villaggio. L’Egitto sarà un grande villaggio quando nessuno sarà più deluso e cioè quando la pace feconderà i campi»: così mi disse Sadat quando, grazie al caro Lubrano, ebbi modo di avere un lungo colloquio con lui nella sua residenza di Giza, al bordo del Nilo. Erano i giorni fatali seguiti alla «svolta»: la cacciata dei «consiglieri sovietici». La Storia ha i suoi misteri e infatti un po’ tutti, esperti e no del Medio Oriente, pensarono che la cacciata dei sovietici fosse il corollario d’un golpe abortito. Nel tempo abbiamo appreso che «al diavolo el Russ» era la prima pietra di quell’ «edificio magico» che Sadat voleva per il suo villaggio: «il Palazzo della Pace». Sadat spiegò a Kissinger che confidava in lui e dunque negli Stati Uniti, nell’Occidente «per costruire un Egitto moderno». Da qui la sua coraggiosa apertura: la politica dell’infitah, della porta aperta al capitale straniero. (L’infitah è la prima colpa che gli islamisti suoi assassini gli contestano. La pace con Israele è solo la terza «accusa»).

Ma il sogno può diventar realtà, l’Egitto potrà emanciparsi quando l’unica preoccupazione dell’esercito sarà quella di fare ore e ore di «ordine chiuso» invece che di addestramento al combattimento. Insomma, per edificare il Grande Villaggio c’è bisogno d’un incrollabile pilastro: la pace col nemico di sempre, con Israele.

Trent’anni fa, raccogliendo la sfida di Begin, Sadat fece arrivare il messaggio che cambia la Storia: «Verrò da voi e insieme parleremo della pace» fa sapere a Rabin, a Golda Meir, alla leadership israeliana. Trent’anni fa, all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, quando il quadrimotore che porta Sadat in quella che per gli arabi era terra infidelium, si arresta, la delegazione israeliana «trattiene il fiato». Passano sette interminabili minuti, finalmente s’apre lo sportellone e il volto scuro di Sadat viene investito dal sole. Quel sole che Golda Meir aveva sognato, il sole della libertà e della speranza. Della convivenza. Nella sua mitica cucina, nel locale gemütlich della sua casa spartana, là dove avevano luogo le più importanti riunioni del governo, Golda racconterà a un giornalista italiano che «vedere Sadat, rendermi conto che era venuto in Terra di Israele fu una emozione terribile».

Sappiamo dalla Storia e, più in abbondanza, dalla cronaca che la pace siglata da Israele ed Egitto non è stata, come era nei voti, l’anticamera d’un pacifico regolamento totale in Medio Oriente. E vediamo giorno dopo giorno che Annapolis, cioè la conferenza di pace promossa dagli Stati Uniti per la metà di dicembre, rischia di essere una replica degli infiniti tentativi (occulti e palesi) di pace esercitati in cent’anni.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:58:48 pm »

29/3/2008
 
Fuoco a Nassiriya 5 anni dopo 
 
IGOR MAN

 
Nassiriya: morirono in diciannove, laggiù, dove non crescono fiori per i morti. Il vento che viene dal deserto, quello lontano, s’è mangiato ogni segno della tragedia: diciannove soldati d’Italia, il fiore della meglio gioventù, mandati a dar ristoro a gente disperata, uccisi da quella stessa gente intossicata dall’odio, dall’ignoranza. Era il 12 di novembre dell’anno di grazia 2003 quando, ad ore 10,40 (locali), un commando di guerriglieri iracheni attaccò la base italiana con un blitz subitaneo. Nassiriya: cinque anni dopo, questo conglomerato di edilizia del regime e di baraccopoli miserabile torna nella cronaca della guerra irachena. Ma sotto braccio alla pietà, al rinnovato dolore, al dubbio che ci scava feroce («valeva la pena di mandarli a morire in Iraq?»), si profila «una svolta». A combattere, a Nassiriya, contro i miliziani dell’esercito del Mahdi (profeta), l’agguerrita formazione (ribelle) sciita guidata dal fosco imam Moqtada Sadr non sono i GI né altri militari stranieri. Certo, gli americani assicurano la copertura aerea, ma a sparare, a combattere contro i «ribelli» non sono stranieri venuti da oltremare bensì iracheni. Non importa se sciiti o sunniti: iracheni e basta. È dunque lecito parlare di «battesimo del fuoco», dell’applicazione, sul terreno, del cosiddetto Surge voluto dal generale americano Petraeus. Dopo la fin troppo facile vittoria («alla Patton») dei GI, gli Stati Uniti, presuntuosamente ignorando non pochi «precedenti» (l’Iran, ad esempio) ovvero leggendoli alla rovescia, compirono due errori. Macroscopici.

Sciolsero, si può dire dall’oggi al domani, l’esercito di Saddam col risultato di creare un’armata Brancaleone affamata, disperata. Fatalmente destinata a diventare carne da cannone degli «insurgenti» caduti nella sciabica lanciata dallo sceicco della morte, Osama bin Laden. Di più: verosimilmente per ignoranza, gli americani sciolsero altresì, senza esitare, il Baath, il partito unico dell’Iraq. Ignoravano, gli americani, che quel partito non aveva più nulla di ideologico perché spersonalizzato da Saddam Hussein. Ma il Baath era la spina dorsale degli affari correnti iracheni: regolava le scuole, i ministeri, insomma mandava avanti la macchina-paese. Che con lo scioglimento del partito unico, fuse. Saddam fu un dittatore truce aggravato da una piramidale presunzione. Un uomo senza sentimenti, fiero però d’aver imparato a sparare con una Beretta all’età di otto anni. Governò con la carota (regali in valuta ai capiclan) e il bastone (la tortura, la forca) sbandierando un paese di faticatori come di rado se ne vedono nel mondo arabo. Pochi lo amavano ma in molti lo rispettavano. I vincitori lo trattarono come un cialtrone vagamente rimbecillito. Nessuno, tra i facili vincitori del dittatore, pensò di interrogarlo esistenzialmente. Ma bastava che gli americani avessero riflettuto su quanto, e come, fece Khomeini dopo la sua vittoria, «a mani nude» sul potente esercito dello Scià. Il vecchio imam epurò i vertici delle forze armate lasciando salva la struttura militare: il suo capolavoro fu la «riconversione» della Savak, la mostruosa polizia segreta. Le cambiò nome e fu tutto. Quel «tutto» che avrebbe consentito a Khomeini di soffocare ogni dissidenza, e last but not least, di resistere validamente alla guerra scatenata da Saddam. In Iraq, a distanza di cinque anni di guerra impropria, è venuto il Surge in forza del quale a Nassiriya i miliziani riciclati dal buon senso del proconsole americano stanno combattendo, in queste ore, e con successo contro i «ribelli» sciiti del certamente carismatico imam Moqtada Sadr. Il «piccolo Khomeini». Cinque anni dopo quattromila GI caduti in combattimento ma soprattutto nelle imboscate, dopo disastri dovuti a una presunzione che rischia di somigliare a una sorta di «razzismo psicologico», il presidente degli Stati Uniti può legittimamente affermare «questo è un momento determinante nella storia dell’Iraq libero. Ce ne sono stati altri, ma questo è decisivo». Ancorché comprensibile, l’euforia di Bush lascia tuttavia largo margine all’incertezza. La crisi che la spedizione americana ha provocato per gli errori (che sappiamo) della Casa Bianca non si risolve certo col sorgere d’un esercito regolare iracheno. È un primo, timido passo verso un minimo di normalità. Occorre guardare oltre la «mezzaluna sciita» (Iraq, Iran, Libano, Siria) prima che sia troppo tardi. Occorre fermarsi sulla crisi più antica e più urgente: il conflitto israelo-palestinese. Nessuna riconsegna dell’Iraq al disgraziato popolo iracheno basterà a smorzare l’incalzante incarognirsi della crisi mediorientale. La pace, ammoniva quel mezzo Cavour-Garibaldi che fu Ben Gurion, non si può fare da soli. «La pace si fa con i nostri vicini arabi». Realizzare la pace, una pace che veda il sacrificio del vinto ma anche del vincitore, comporterà in forza dell’«automatismo storico» del quale parlava il Soldato della Pace, Isacco Rabin, una lunga stagione benefica per i figli dei nostri figli. Per i quali, anzi: anche per i quali, il ricordo di Nassiriya si intreccia con la speranza e con l’amore per la meglio gioventù.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 27, 2008, 09:55:37 am »

26/5/2008 - LIBANO
 
Il generale dichiara la pace
 
IGOR MAN

 
Michel Suleiman è stato eletto presidente del Libano. «Presidente di consenso»: durante una crisi che sembrò più volte degenerare in guerra civile, questo soldato prestato alla politica è riuscito a tenere le forze armate (un nutrito melting pot: cristiano-maroniti, sciiti, sunniti, greci-ortodossi) fuori della mischia. Già nel 1959, al tempo d’una guerra intestina da boys scout rispetto all’ultima costata 150 mila morti e immani rovine, fu un militare, il generale Shehab, a far da nostromo nelle perigliose acque libanesi, assicurando al Paese dei Cedri un lungo periodo di pace.

I libanesi sono fumantini, ma l’uso esasperato delle armi, causa di non poche disgrazie, non è mai riuscito a spegnere la loro anima democratica. Il Libano è l’unico paese arabo dove il parlamento è una vetrina. E dove il tanto ridicolizzato «amor di Patria» ha un senso.

Ed è, appunto, per «salvare il Libano» che i notabili della maggioranza filosaudita han dovuto ingoiare un rospo invero indigesto. L’accordo raggiunto a Doha (Qatar) è infatti un compromesso che gratifica quel partito di Dio (Hezbollah) ch’è, poi, uno Stato nello Stato. Hezbollah ha strappato il potere di veto nel futuro governo di unità nazionale, entrando così nell’esecutivo. La maggioranza s’è dovuta contentare del diritto di nominare il premier (sarà Saad Hariri nel caso di mancata riconferma di Fouad Siniora).

Il ministero dell’Interno a un «uomo di fiducia» del neo presidente. Un contentino.

Il compromesso raggiunto nel Qatar ha visto i fuochi d’artifizio del doppio linguaggio arabo accendersi nell’incerto cielo mediorientale: «Concordiamo su tutto ciò che i fratelli libanesi han concordato», ha detto il ministro degli Esteri siriano, mentre l’Iran ha addirittura espresso «immensa soddisfazione» per una intesa «che assicura “un futuro radioso” al popolo libanese». In fatto la maggioranza libanese paga un copioso prezzo politico per una «pace interna» cui nessuno crede. Certo la normalità ha un prezzo, tuttavia quello pagato dagli orfani di Siniora è un prezzo crudele, aperto a mille ricatti.

A bilanciare il patto leonino imposto al Libano dovrebbe - dico dovrebbe - essere l’incandescente notizia annunciata, sempre a Doha, l’altra notte. E cioè: Israele e Siria si parlano. E parlano di pace. Grande. Sempreché non ci si trovi dinnanzi alla solita ammuina. Ma questa volta, osservano i guru di Zamalek, c’è un elemento nuovo: la mediazione della Turchia. Ankara, Paese islamico vestito all’europea, si distingue nel cosiddetto arco della crisi per una coraggiosa sua specificità. Ankara è in buoni rapporti con Israele pur mantenendo eccellenti relazioni con i Paesi arabi che contano. Ha un piede in Europa grazie al realismo d’una classe dirigente che rispetta, onora l’Islàm senza scivolare per altro nel confessionalismo o, peggio ancora, nel fanatismo.

Che, poi, sia troppo presto per esultare come fa il primo ministro israeliano è un altro discorso. Una stampa veramente libera, seria, qual è quella israeliana mostra più prudenza del solito, non mancando di domandarsi se l’euforia del premier non miri a distrarre l’opinione pubblica dai suoi impicci giudiziari.

I finora misteriosi delegati di Israele e della Siria torneranno a riunirsi ad Ankara «prossimamente». Entrambi vogliono il Golan. Gli israeliani hanno trasformato quelle alture in un paradiso agreste, un affascinante spazio per l’agroturismo. I siriani in segno di dura protesta han voluto che Kuneitra diventasse una sorta di rivendicazione totale lasciandone in piedi soltanto le macerie della guerra dei Sei giorni. Ricostruiranno Kuneitra solo quando tornerà alla Siria, come regolarmente il presidente Assad diceva a Kissinger. La Siria accettò a suo tempo la famosa risoluzione 242 dell’Onu, ma nella versione in lingua francese si parla di ritiro di Israele «dai» territori (occupati) mentre in inglese è detto «from territories». A complicare una «situazione» drammaticamente intricata spunta infine il protagonista del giorno: il petrolio. Lungo le coste libanesi ci sarebbero «almeno otto miliardi di barili di greggio mentre lungo la dorsale del vulcano sottomarino Eratostene ci sarebbe un immenso giacimento che riguarderebbe anche le acque territoriali di Siria, Cipro, Israele». Di più: una nave oceanografica americana ha rilevato, a Nord di Gaza, fuoruscite di gas e il governo di Israele ha stanziato per le ricerche oltre un miliardo di dollari: è persuaso che ci siano «grandi quantità di metano».

È una buona notizia? Sì, in teoria però, giacché gas e petrolio sono il nuovo «oro nero». E nero è il colore del lutto nella Palestina occupata. Gaza fa pensare a una bomba a tempo sicché, paradossalmente, mentre si raccolgono «buone notizie» con visibili buone speranze (grazie alla Turchia di Erdogan), al tempo stesso cresce il timore d’un blitz israeliano nella «striscia» da dove, implacabilmente, missili islamici colpiscono inermi villaggi israeliani. Ne viene che la coraggiosa mediazione della Turchia rischia la sorte d’una goccia d’acqua nel deserto dell’odio.

 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:22:33 am »

30/5/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Philby, la spia venuta dal caldo
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Beirut: ovvero una città assolutamente diversa dalle altre. Araba ma anche fenicia, musulmana ma altresì cristiana. Orientale ma insieme occidentale. Un mix di Zurigo e di Parigi. E ancora una superba università americana, melting pot di ingegni e un grande albergo veramente «grande»: il Saint Georges. Tutte le città del mondo hanno il loro albergo-simbolo. A Beirut c’è il Saint Georges. Sorge sulla leggendaria corniche, piantato, si direbbe, nel mare dei Fenici e agganciato alla terra da una eccessiva piscina salmastra. Principi e avventurieri, uomini e mascalzoni hanno, nel tempo, abitato le camere del Saint Georges.

Allorché il vaso di Pandora chiamato Libano si ruppe (nell’aprile del 1975), il Paese dei cedri assaporava un livello di vita niente affatto mediorientale e il sistema, forse, più democratico della regione in una con Israele. C’erano più banche, giornali e partiti che non in Egitto, quindici volte più popolato. La guerra civile, una balbuziente tregua dedicata alla ricostruzione, la cacciata dei siriani (uno Stato nello Stato), lo strapotere di Hezbollah, la «piccola guerra» spenta dalla sospirata elezione del presidente della Repubblica, han visto i libanesi combattere contro gli israeliani, contro i siriani, contro i palestinesi, contro se stessi. Ma ora, stanchi di produrre cadaveri, han ripreso a gestire ricchezza per produrre benessere.

E qui va detto come i libanesi-bene non abbiano mai smesso di frequentare (da maggio a ottobre) la piscina del Saint Georges. Quel luogo è stato sempre una sorta di santuario laico. Oggi, visto da lontano, il Saint Georges sembra intatto. Ma da presso, scavalcati i «cippi» delle autobombe assassine, levando lo sguardo in alto ci si accorge del disastro. Una mazzata. Il Saint Georges è sano di fuori e cariato di dentro. E’ come un albero cavo. Le finestre sono orbite vuote, il Saint Georges è un assurdo colosseo dove i gladiatori han sbranato le belve e poi son fuggiti, chissà dove. E tuttavia i libanesi non vedono (non vogliono vedere?) quella testimonianza d’una lunga follia. Nei loro occhi è rimasta, intatta, l’immagine del Saint Georges com’era. E ciò fa sì che essi giurino che un giorno, non troppo lontano, a Dio piacendo, il «loro» albergo-istituzione invece di ospitar calcinacci e pipistrelli, di nuovo alloggerà principi e scienziati, avventurieri e artisti e, perché no?, quei personaggi dalle molte vite che sono e sempre saranno le «spie internazionali». Già, lo spionaggio. Fu nel 1958, al tempo della prima guerra civile che il Vecchio Cronista conobbe (ovviamente al Saint Georges) l’onorevole scolaro Harold Adrien Russell Philby, Kim per gli amici. Lavorava per l’Economist e per l’Observer; disponibilissimo ci spiegava il perché della guerra civile fomentata da Nasser e, per conseguenza, ben vista da Mosca. «Il pericolo sovietico è immenso», non si stancava di ripetere.

La «spia del secolo» lasciò Beirut esattamente trent’anni dopo il suo reclutamento nei ranghi del Css, cioè il Kgb. Dal caldo Kim passò al freddo con imperturbabilità tutta inglese. Kim aveva 51 anni quando la sua fuga a Mosca esplose come una pistolettata in chiesa. Morì, pressoché dimenticato, nel 1988, in un ospedale sovietico riservato alla nomenklatura. La sua seconda patria (o quella vera?) gli dedicò un francobollo con la scritta in cirillico: «Agente segreto sovietico Kim Philby (1912-1988)». La fauna umana incontrata in Libano, il colosseo levantino ch’è il Saint Georges in lunga attesa della rinascita suggeriscono un passo dal Vangelo: «Non potete servire e Dio e Mammona» (Matteo, V, 3-4).
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Giugno 27, 2008, 11:53:11 am da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:53:44 am »

27/6/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
"Val", la dama della pace in terra santa
 
 
 
IGOR MAN
 
Prima di precipitare nella notte, Gerusalemme sembra sfinirsi in un tramonto interminabile. Le sue pietre s’accendono d’una luce personalissima: rischiara vecchi e fanciulli assumendo il colore del sangue. Sangue romano, bizantino, zoroastro, musulmano, cristiano, curdo, israeliano... Quella del tramonto è un’ora «definitiva» per andarsene sottoterra, diceva Valentine Vester, «Val» per gli amici. È morta tre settimane fa, lucidamente. Aveva 96 anni perennemente sconfitti dall’ironia d’un sorriso aristocratico. Con lei va sottoterra un lacerto di Israele seppellendo una vecchia signora ostinatamente in attesa di quel complicato Godot ch’è la pace in Terra Santa. «Val» non era soltanto la rigorosa gerente-padrona dell’American Colony, «l’albergo della pace» dove nella camera numero 16, vasta, luminosa, discretamente si incontrarono gli emissari israeliani e palestinesi aprendo la stagione degli «accordi di Oslo». «Val» era una dama laica (non laicista) che fino a ieri ha raccolto segnali di pace, molti da decifrare, tenendo i giusti contatti con arabi e israeliani, con la «fede bambina» di una monaca dedicata alla splendida utopia che fu di Rabin, che fu di Arafat.

L’American Colony era in origine il «giardino» della famiglia Husseini (sì, il gran Mufti) che lo vendette a una coppia di «millenaristi», i coniugi Stafford, per farne una casa-rifugio aperta a ebrei e palestinesi poveri. A cavallo della seconda guerra mondiale l’American Colony diventa una pensione a gestione famigliare. Ma, posta sulla linea verde che un tempo separava la parte israeliana di Gerusalemme da quella araba, diventò presto il rifugio di personaggi davvero storici: da T. S. Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia, a Glubb Pascià e dal creatore della Legione beduina al generale Allenby, il conquistatore di Gerusalemme il 9 dicembre 1917.

La guerra dei Sei giorni riunifica Gerusalemme consacrando il culto della pace vegliato all’American Colony da una vestale bella e tenace, raffinata intenditrice di tè, instancabile Penelope anglopalestinese. È morta spogliata oramai da ogni speranza immediata di pace ma agli amici-nemici, sino all’ultimo suo giorno, durante il tè delle cinque, nel «giardino delle mogli», fra le palme e gli aranci, «Val» non ha fatto che ripetere: «Quando la smetteranno di odiarsi e tutti saluteranno infine la grande stagione della pacifica convivenza, quel giorno chiederò un permesso speciale per essere con voi, tra di voi, amici. Finalmente felice».

Il Signore Iddio divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Questo apprendiamo da una parabola talmudica e questo dovrebbe aiutarci a comprendere (forse) il destino storico di una città particolare che vive da sempre una giornata particolare. E c’è chi sostiene che la parabola talmudica «è» la vera storia di Gerusalemme «incisa nella pietra dai vivi, dai morti» meglio di quanto non ce la rappresentino i Salmi quando esaltano Jerushalaim «città della pace». (Ipse dixit «Val»).

E qui sia concesso al Vecchio Cronista di ricordare Georges Jacob Koumseyeh e la sua voce baritonale che recava un felice «bene arrivato» - «Kifal hak habibi?», come va, carissimo? - ai clienti vecchi e nuovi. Fu lungamente il portiere dell’American Colony e di lui palestinese cristiano, padre di sette figli e nonno di diciassette nipoti, mortificato sadicamente ai posti di blocco fitti sui dieci chilometri dall’albergo alla casa e viceversa, di lui ricorderò questo desolato interrogativo: «Ma allora, come fa Mrs Val a credere nella pace in Terra Santa?».
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:38:32 pm »

29/6/2008
 
Se Teheran blocca la via del petrolio
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
L’Iran, se attaccato, reagirà bloccando la vena jugulare del petrolio che rifornisce l’Occidente. Così Mohammed Ali Jafari, il comandante in capo dei pasdaran, la Guardia rivoluzionaria della Repubblica islamica. Jafari è uomo di mano, potente, i pasdaran sono veramente «espressione del popolo iraniano». Le milizie, partorite dalla presa del potere di Khomeini, sono uno dei punti di forza del bombastico Ahmadinejad, il Presidente voluto dalla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei. Per entrambi esiste una «priorità»: la cancellazione dalle mappe di Israele. A Teheran, nelle segrete stanze della leadership in turbante, è andata maturando la convinzione di un attacco («piuttosto prossimo») in forma di blitz a largo raggio su obiettivi «sensibili» iraniani. La stampa di regime e la gente del bazar, ancorché su posizioni senz’altro opposte, considerano ineluttabile una aggressione che vedrebbe impegnati, in primo luogo, gli Stati Uniti e Israele finendo con il coinvolgere un po’ tutti i paesi del cosiddetto «arco di crisi» mediorientale. Non è la prima volta che l’Iran mette in guardia «il complice di Israele», minacciando sfracelli se aggredito, ma si era sempre trattato di minacce generiche. Questa volta la mullahcrazia è stata prodiga di dettagli: dopo aver rammentato agli «usurpatori» della Terra Santa che Israele è «oramai alla portata dei missili della Repubblica islamica», Jafari ha fatto un terribile elenco dei disastri che colpirebbero i paesi della regione in caso di «attacco nemico». L’Iran non si farà trovare impreparato, ha più volte ripetuto Jafari: lo spettro di una serie di ineluttabili aumenti del greggio che metterebbe in ginocchio amici e nemici potrebbe rivelarsi un efficace deterrente, scongiurando tremendi disastri.

Le cancellerie della regione islamica sono entrate in fibrillazione, gli esperti del Dipartimento di Stato stanno analizzando il testo del discorso di Jafari. Chiaramente il vertice in sottana ha voluto mandare un segnale esplicito ad amici e nemici: i poteri che contano, in primis le milizie popolari, sono con Ahmadinejad. E dunque «il nemico» sappia che in caso di mossa ostile l’Iran bloccherà le vie di afflusso del petrolio (col prezzo in ostinato aumento): sbarrando il leggendario Stretto di Hormuz.

Sempre gli osservatori cairoti fanno notare come le minacciose parole di Jafari tradiscano un «forte nervosismo». A preoccupare la mullahcrazia sono le confermate «trattative» fra la Siria e Israele e, last but not least, la mobilitazione dei paesi mediterranei sollecitata dalla Francia. A Londra i brookers danno blitz e appeasement alla pari. Sarà, in ogni caso, una estate torrida: l’oro nero, il petrolio, tornerà ad essere «la maledizione nera»? Incrociamo le dita.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 05, 2008, 12:02:47 am »

4/7/2008
 
Tre uomini e il fucile che colpì Jfk
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
È stata l’America profonda, con la sua Corte Suprema, a stabilire, una volta per tutte, che i cittadini degli Stati Uniti hanno il diritto di possedere un’arma da fuoco. Per difesa personale. L’accadimento è storico: siamo all’emendamento del secondo emendamento della Costituzione redatta dai Padri fondatori or è due secoli. In tutto questo tempo gli studiosi si son chiesti se la norma riguardasse i membri di quelle che il secondo emendamento definisce «milizie» (cioè forze armate e di polizia) ovvero potesse considerarsi «diritto costituzionale d’ogni cittadino». I giudici sono nove, la decisione è passata 5 a 4. A scrivere la sentenza è stato il giudice Antonin Scalia: «La Costituzione degli Stati Uniti non ammette divieti assoluti del possesso di pistole a casa e nel loro uso di legittima difesa». Insomma, le armi da fuoco diventano, dopo un secolare dibattito, un diritto dell’individuo come la libertà di culto e di espressione.

È la certezza (o la presunzione) degli americani di vivere nel solco centenario di una Storia unica a provocare una decisione che lascia perplessi non fosse altro perché le statistiche impietosamente denunciano stragi partorite dall’incapacità di difendersi dell’uomo della strada quando il rapinatore lo punta; lascia, poi, increduli la rimozione delle «stragi-bene», opera di ragazzi in età scolare: vedi i massacri di Columbine o del Virginia Tech, con tanti studenti finiti a revolverate da compagni di classe che acquistano armi da fuoco quasi fossero bustine di popcorn. Da sempre il popolo americano, giusti i suggerimenti della Nra (National Rifle Association), ha scelto la libertà di armarsi: do it yourself. A Dallas in quel feroce novembre del 1963, con Virgilio Lilli e Auro Roselli, il Vecchio Cronista cercò di ricostruire l’assassinio di Kennedy.

Quando chiedemmo al proprietario di GUNS un Carcano gemello del fucile assassino, l’armaiuolo non fece storie. Auro Roselli firmò sul registro Giuseppe Garibaldi e uscimmo diretti là dove Oswald avrebbe sparato. Agli agenti del FBI spiegammo che volevamo tentare una ricostruzione del delitto e quelli non fecero una piega. Tra parentesi: ve lo immaginate voi cosa accadrebbe ove mai tre giornalisti andassero a Perugia con tanto di pistolone in vista pretendendo di ricostruire la morte strana di una fanciulla straniera? L’Italia è giustamente severa in fatto di possesso d’armi ma certamente i rapinatori le armi non le comperano dall’armaiuolo.

Gli Stati Uniti invocando il common sense sono permissivi, sin troppo. (Il proprietario di GUNS ci disse: «Quando avrete finito, riportatemi il fucile, se credete. Ve lo pagherò 10 dollari: voglio fare un bel regalo a mio figlio che compie gli anni». Quanti? «Dieci»). Sarà per i numerosi conflitti in giro nel mondo ma il costo delle armi è talmente basso che puoi comperare in Albania un kalashnikov per pochi dollari, barattarlo con un pollo in Uganda, scambiarlo con un sacco di frumento in Mozambico e avere in cambio mezza pagnotta in Kenya. L’attore Michael Douglas, «messaggero di pace dell’Onu», dice che «la violenza che esporta Hollywood è solo virtuale, tuttavia accende la fantasia dei più deboli. Negli Stati Uniti le pistole uccidono quarantamila americani l’anno e ne feriscono altri centomila». L’anno passato ragazzi americani dai 14 ai 17 anni han commesso 3647 omicidi. Almeno centomila studenti vanno a scuola armati. Quant’era presidente, Clinton propose dure misure contro i baby-pistoleros ma la Corte Suprema le bocciò: «Per salvare la libertà di autodifesa». La differenza fra la libertà e le libertà è così grande come fra Dio e gli idoli.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 11, 2008, 04:16:22 pm »

11/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Pistorius e l'angelo senz'ali
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Oscar Pistorius, atleta, campione di corsa, disabile: alto, bello, una massa muscolare da statua del Canova; da come sorride capisci che prende la vita a mozzichi, non concede sconti. Di passaggio a Roma si allena per le Olimpiadi di Pechino. Nulla di straordinario se non fosse che Oscar è nato (a Johannesburg il 22 novembre 1986) senza il perone, dev’essere amputato. A 17 mesi il padre gli regala le prime protesi: per essere «normale». S’appassiona al rugby e alla pallanuoto. Ma sarà l’atletica a fare di lui un campione. Nell’estate 2002 giuocando a rugby subisce un terribile infortunio ed è grazie alla fisioterapia che scopre l’atletica e capisce che con speciali protesi da corsa può realizzare tempi eccezionali. Esplode alle paraolimpiadi di Atene 2004: vince i 200 metri stabilendo il nuovo record di categoria. L’anno scorso, a Roma, arriva secondo nei 400 in una gara per normodotati. È il trionfo ma la Federazione internazionale obietta che le protesi avvantaggiano Pistorius. Oscar ricorre e finalmente il tribunale di Losanna stabilisce che può competere con gli atleti normali. Oscar dice che deve tutto alla famiglia ma segnatamente a sua madre, perduta sei anni fa. Gli scrisse una lettera da leggere quando sarebbe stato grande: «Chi perde davvero non è chi arriva ultimo. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare». In forza di questa preghiera laica, Oscar Pistorius cerca di realizzare i tempi necessari per correre le prossime Olimpiadi. «È una dura sfida, mi sto allenando senza soste, e prego». Prega come gli ha insegnato sua madre (cfr. Famiglia Cristiana).

L’ostinata, feroce, volontà di non cedere alla disgrazia ha fatto di Oscar un campione normale, ma chi è invaso dalla sofferenza, come si comporta? La sofferenza è un’arma a doppio taglio: può massacrare col corpo anche la psiche. Misteriosamente, tuttavia, può rafforzare quella immateriale galassia ch’è lo spirito. Sopravvivere al dolore non è facile ma succede. Oscar ringrazia Iddio, e prega e corre e vince. Ma c’è chi non corre più e giace in una barella, immobile. Non maledice la sorte, incredibilmente ringrazia. Parlo di Kirk Kilgour, già allenatore vincente del volley di Ariccia, un omone di due metri, un atleta eccezionale. Successo, gioia e improvvisa la tragedia. Nel gennaio 1976 Kirk ricade male in una capriola: paralisi ai quattro arti. Ma non s’arrende: costruisce una sofisticata barella che lo salva dalla condizione di fossile; oggi è uno dei più popolari commentatori di volley degli Stati Uniti. La vitalità di Oscar mi conduce al ricordo di Kirk. A Roma, nel «Giubileo degli infermi», Kirk lesse questi suoi versi: «Chiesi a Dio d’essere forte: ed egli mi rese debole / per conservarmi nell’umiltà. / Domandai che mi desse la salute / ed egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. / Gli domandai la ricchezza per tutto possedere / e mi ha lasciato povero per non essere egoista. / Gli domandai il potere affinché gli uomini avessero bisogno di me ed egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno dell’altro. / Domandai a Dio tutto per godere la vita e mi ha lasciato la vita perché io potessi esser contento di tutto. / Signore non ho ricevuto niente di quello che chiedevo / ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno. / Sii lodato o mio Signore: fra tutti gli uomini nessuno possiede di più di quello che ho io». La straripante folla che inondava piazza San Pietro, ascoltò l’atleta paralitico in solenne silenzio. Poi il Padre santo, lui, Karol Wojtyla, andò ad abbracciare Kirk, angelo senz’ali, e dalla gente, dagli storpi, dai sani spicciò una parola sola: «Amen».
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 18, 2008, 05:46:10 pm »

18/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Mandela, padre coraggio
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Un uomo certamente grande è stato nei giorni scorsi a Roma, reduce da uno strabiliante concerto in suo onore a Hyde Park. Parliamo di Nelson Mandela, novant’anni oggi. «46664 Concert»: a indicare il numero di matricola del prigioniero più illustre del mondo, in galera dal 1962 al 1990, Capo dello Stato dal 1994 al 1999. Il concerto è cominciato con una standing ovation, venti minuti di applausi. Una folla immensa con mezzo mondo del pop: da Leona Lewis a Joan Baez, a Zucchero. Il ricavato del concerto alla battaglia contro l’Aids dedicata soprattutto ai bambini: «Tutti loro, gli innocenti, hanno il diritto di esser curati per vivere», ha detto Annie Lennox.

Infine, nello sfinirsi della lunga notte augurale, Peter Gabriel («se il mondo avesse potuto scegliere un padre, avrebbe scelto Nelson Mandela») ha intonato l’happy birthday e lui, Madiba, «il Vecchio» è apparso sul palco inondato di luce. I riflettori han centuplicato le lacrime di Mandela, esattamente due, seguendone il percorso sul volto segnato dagli anni e dalla difficile vita. Vestito di nero, appoggiandosi a un bastone d’ebano sudanese, Mandela ha coraggiosamente ammesso che «il nostro lavoro è ancora lontano le mille miglia dall’essere completato. La gente lo sa, non possiamo deluderla. È giunto il tempo di dare spazio ai giovani».

Oramai da tempo Nelson Mandela è una «icona», come usa dire. Questa «icona» ha salvato il Sud Africa dal disastro. Se è vero com’è vero ch’egli sia stato un rivoluzionario atipico, quel che si dice un «patriota coraggioso», è anche vero e comprensibile ch’egli abbia salvato il suo paese dal disastro in forza d’un messaggio sommesso. Forse non adatto a un lider maximo che si pretende sia sempre sul problema e lo risolva, ma misteriosamente efficace. Il messaggio di Mandela è tutto nell’esempio di quest’uomo coraggioso sino all’incredibile.

Il Vecchio Cronista ricorda la domanda di un bravo reporter della Cnn a Mandela: «Come ha fatto a resistere in poco spazio, al buio, durante 27 anni»? E Madiba: «Ci vuole pazienza», disse.

La cella in cui sopravvisse in grazia della «pazienza» non gli consentiva di starsene disteso: se alzava la testa doveva ripiegare le gambe, se voleva stenderle doveva abbassare il capo. Tutto questo al buio. «Ma io non ero solo», ha sempre detto Mandela. Gli dava conforto la fede, lo aiutava la poesia: componeva versi nel buio della cella sotterranea, appesi a un immaginato pentagramma tracciato a mente.

Da vero rivoluzionario, Mandela è uomo d’azione politica, e di guerriglia armata: se i suoi incessanti messaggi dalla galera al mondo non si fossero tradotti in un patto patriottico egli sarebbe stato un terrorista. Il sole è risorto, laggiù, in Sud Africa paese bello e rude quando i Boeri decisero, incalzati da Mandela, di essere innanzitutto sudafricani. Premio Nobel per la Pace, Mandela assiste impotente al truce presente dell’Africa flagellata dalla fame, svenata dal ping pong dei massacri etnici, straniata da guerre assurde (vedi il Kenya). Madiba soffre ma non si arrende: cede il timone ai giovani («novant’anni sono troppi per fare un certo lavoro») ma si può scommettere che se avessero bisogno di lui per «un certo lavoro», Mandela direbbe quel che disse ai giudici che lo avevano condannato all’ergastolo nel 1964: «Se aveste bisogno di me, sapete dove trovarmi».
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 25, 2008, 11:26:00 pm »

25/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Quel 1938 senza misericordia
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Settant’anni sono una lacrima dell’oceano della Storia ma ci sono date che crocifiggono il tempo inchiodandolo all’infamia. In eterno. Settant’anni fa, nella residenza di San Rossore, il giorno 14 luglio dell’anno di disgrazia 1938, Vittorio Emanuele III, Re e Imperatore, firma i 28 articoli che compongono il corpus della legge volta a discriminare i cittadini italiani di razza ebraica. Anni fa, a Ginevra, Maria Pia di Savoia ebbe modo di leggere quel testo. Trasecolata: «Dis donc, ma mio nonno ha firmato davvero una infamia simile?», disse (cfr. Fabio Isman). L’infamia s’era data un titolo che voleva esser scientifico: il Manifesto (sic) degli scienziati razzisti; a scriverlo, con la guida di Mussolini, fu un assistente universitario, Guido Landra, che il Duce aveva convocato a Palazzo Venezia per la bisogna. Gli consegnò una «traccia», come spiegò, e un faldone di «documenti» tedeschi, in massima parte arrabbiati ritagli di giornali nazisti. Ma già nel 1932 Mussolini aveva ordinato la pubblicazione di Mein Kampf di Hitler e, nel 1937, dei crespi Protocolli di Sion. In quegli anni gli ebrei iscritti all’anagrafe italiana erano 58.412, un sesto con la tessera del Partito fascista. Coprivano un vasto territorio sociale: dall’Università all’Artigianato, dalla Medicina alla Ricerca, all’Editoria e via così. La firma di Sciaboletta, l’«infamia storica» per dirla con De Felice, riduce gli ebrei italiani alla condizione di underdogs.

C’è chi si sente tradito da Mussolini e subito fugge dall’Italia; c’è chi si ammazza come l’editore Formiggini: col figlioletto in braccio, mi dicono.

In quel tempo il Vecchio Cronista (ch’era giovanissimo) soffrì l’amarezza incredula di Sasha e Berta Grinstein, ebrei di Odessa approdati a Catania negli anni del terrore bolscevico (non c’è pace per i figli di Abramo). Nella bella Paternò, il giardino di Catania, i Grinstein avevano creato un import-export di agrumi fonte di meritata agiatezza. Facevano parte della Catania-bene, erano generosi e allegri, molto ospitali. (Forse felici). Ma il «sistema antiebraico» italiano aveva norme più spietate di quelle tedesche (questo va detto, a smentita degli Italiani «brava gente»), per esempio contemplava l’espulsione degli stranieri.

Tutta Catania, con rarissime eccezioni, si mobilitò in difesa dei Grinstein, argomentando ch’essi erano da considerarsi «cittadini onorari». Ma non ci fu nulla da fare, per i nostri amici ebrei. Mio padre e altri sette amici vennero brutalmente «diffidati». I Grinstein furono cacciati da Catania come cani rognosi. Ripararono negli Stati Uniti. Li raggiunse più tardi il nipote Piotr, animoso ingegnere: mise su una fabbrica di sanitari, nel Connecticut, brevettò una delle prime siringhe indolore: insomma, dall’ago al milione.

Nel 1959, negli Usa per il giornale, riabbracciai «Tata» Berta Grinstein e Piotr (Sasha era morto, «di crepacuore» sentenziava Berta). Fu, la nostra, una «rimpatriata» particolare: parlammo sempre in dialetto: in catanese. Quella festa fu impreziosita da un regalo di Berta: una lettera per Ben Gurion che mi valse più incontri (illuminanti) con quel mezzo Garibaldi e mezzo Cavour.

Una sera chiesi a Berta Grinstein quale ricordo si portasse addosso di quel 1938 senza misericordia. «Vennero a prenderci di notte, una valigetta e via: cacciati come lebbrosi da Catania, nostra seconda patria. Una partenza nel buio, senza “ciao”. Una ferita che non si chiuderà mai».
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 01, 2008, 12:04:38 pm »

1/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Il Papa scoop del "lupo" Cavallari
 
 
IGOR MAN
 
L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata», scrive Mimmo Cándito (La Stampa, 12/7/08). «Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo in cui lo si faceva. (...) Oggi se pensi ancora di andare in giro ad osservare, intervistare, incontrare persone e informatori sei un aspirante suicida». Un discorso più o meno simile lo fece Oriana Fallaci di ritorno da un blitz in Iraq: non era la «sua» guerra, non era il Vietnam dove il reporter vedeva crescere sotto i suoi occhi sgomenti un’interminabile spedizione postcoloniale, e non c’era censura, non c’era il giornalista embedded, truccato da soldato, dunque non in grado di pianificare il lavoro infischiandosene del generale Westmoreland. Leggendo l’accorato scritto di Cándito un interrogativo zampilla: come avrebbe reagito un grande giornalista che fu anche reporter di guerra, Alberto Cavallari, all’Iraq guerra-dimenticata?

A dieci anni dalla sua morte parliamo di Alberto con il cardinale Achille Silvestrini che fu, ancorché modesto «minutante» della Segreteria di Stato, il grimaldello che aprì al giornalista la loggia papale per un’intervista con Paolo VI che sarebbe riduttivo definire uno scoop e basta. È in fatto un incontro illuminato dalle «intuizioni globali» di Maritain partecipate al suo amico Papa. Silvestrini e il Vecchio Cronista si trovano in sintonia con quanto scritto da Claudio Magris, saggista e scrittore limpido prestato al giornalismo: Cavallari appartiene alla grande generazione e alla più alta stagione del giornalismo italiano ed europeo; univa il fiuto da segugio del cronista alla cultura dell’intellettuale che inquadra l’effimero dettaglio nell’orizzonte globale della realtà. Sapeva, come ha scritto in uno straordinario ricordo Bernardo Valli, che ogni notizia ne nasconde un’altra, di cui andare a caccia. Cavallari è stato, nel lavoro, un lupo solitario, implacabile con la concorrenza. Passava per essere un «figlio di mignotta» ma era, soprattutto, uno «storico dell’istante», come dice Silvestrini.

Oggi gli inviati «speciali», i «figli di mignotta» son ridotti a una pattuglia sparuta, tutti gli altri lavorano in branco ed è forse per questo che certi direttori dicono che il mestiere dell’inviato rischia di diventar superfluo. Cavallari lo scoprì Gaetanino Afeltra, Alfio Russo lo lanciò ma è stato lui, Alberto Cavallari, a creare se stesso grande inviato davvero speciale. Il suo pezzo sul Vajont, da solo, vale una vita. Non c’era più nulla, solo una valle di fango, ma bisognava raccontare quell’immenso cimitero invisibile e fu una sorta di Spoon River alla rovescia, la vita, la morte, la pietà e il dolore, che Alberto ricreò picchiando sui tasti della Olivetti 32, sotto una tenda del primo soccorso, annegando la pena con infinite sigarette.

Magris e tanti colleghi scrivono ammirati di Cavallari-direttore in un terribile triennio (1981/84) in cui il «suo» Corsera era in «gran tempesta». È stato un buon direttore, testimoniano commossi Roberto Martinelli (suo vice coraggioso) e ancora Magris. Aveva un caratteraccio ma «al suo umor nero si accompagnava un fraterno e picaresco coraggio che ha aiutato molti di noi a trovare la nostra strada»: ipse dixit Magris. E il Vecchio Cronista può ricordare che i grandi nostri inviati, i maestri, furono eccelsi testimoni di fatti vicini e lontani ancorché fossero embedded. E da embedded Paolo Monelli scrisse quel capolavoro sinfonico ch’è Le scarpe al sole. Quelle degli alpini morti nella guerra suicida di Cadorna.
 
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 08, 2008, 09:53:17 am »

8/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La tisana di Indro
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
A Roma ogni giorno che passa diminuisce la nostra porzione d’aria respirabile. Non è lontano il momento in cui lo smog de noantri eguaglierà quelli, crudelmente deleteri, di Los Angeles, di Pechino. Persino le rose, le patetiche rose asserragliate nelle vetrine dei fiorai han perduto l’innocenza, appassiscono in fretta, sanno d’aspirina. La città è oppressa da una immensa nuvola giallocilestrina, immobile ombra gonfia d’oscuri presagi che quando s’accendono le luci municipali si colora d’un rosso sinistro siccome il riverbero d’un incendio in zolfara. I turisti dell’estate rovente sono carovanieri ostinati in un deserto abitato, senza neppure il conforto d’un miraggio. Qualche oasi, però, sopravvive nella memoria del Vecchio Cronista.

Nella lontanissima estate del 1963 Indro Montanelli piangeva la rituale crisi di depressione, lo sguardo fisso sulla parete della stanza-corridoio che univa la terrazza su piazza Navona all’appartamento in corso Rinascimento. Avevo letto sul Tempo d’una bottega d’erbe medicinali contro la depressione. Ne parlai a «nuvola bianca», a Colette (Rosselli), e insieme andammo alla scoperta del semplicista. Poco discosto da piazza Rondanini saccheggiata da pachidermiche motociclette, in via Pozzo delle Cornacchie, c’era, c’è la bottega dei miracoli. Un ritaglio d’altri tempi, una sorsata d’aria buona: per trovarla occorre camminar piano, così come non siamo più abituati a fare.

Arrotando la R come solo lei sapeva, Colette illustrò il caso «del nostro amico», come disse, e subito il semplicista cavò da sotto il bancone tre, quattro bilance di rame circondate dalla scintillante serie dei pesi d’ottone. Poi comparve un manoscritto in latino, certamente antico, e il semplicista disse: «Ci siamo». E immediatamente le sue mani scarne cavarono da barattoli di ceramica erbe disseccate (piccoli mucchietti), accolte da quadratini di carta spessa, gialli, azzurri, rossi disposti sui piatti delle bilance. «Zucchero di viola»: sciroppo salutare per il cuore e il fegato; «latte d’aglio»: purifica i bronchi, decongestiona le mucose; «decotto di ginestra»: debella il raffreddore di stagione; e infine in una arcana bottiglietta di opaline il rimedio contro la depressione: la «tisana dei quattro» che agisce sul sistema nervoso alleviando la fatica di vivere.

Ricordo la mezza incazzatura di Montanelli, l’ostinazione di Colette, il suo sorriso testardo: infine Indro dovette arrendersi al tenero arrembaggio di «nuvola bianca». Posso testimoniare che lo sciroppo-tisana del semplicista pontificio di via Pozzo delle Cornacchie ridusse, e di molto, le crisi depressive di Montanelli. Tuttavia. Tuttavia allorché «nuvola bianca» svanì, negli avanzi d’un funerale riservato ricordai a Indro la storia della tisana: sorridendo pietoso, ma brusco, lui mi disse d’aver finto una guarigione pressoché miracolosa grazie alla tisana. «In verità ho subito gettato il contenuto della bottiglietta nel cesso», disse Indro. «Ma non volevo deludere Colette».

Ovviamente il semplicista d’oggi non è lo stesso della «tisana dei quattro»: troppo tempo è passato ma qualcosa è rimasto di quella tenera storia bizzarra. Il profumo. Il profumo della bottega, il profumo della giovinezza: radici e papaveri, erba seccata dalle stagioni, lo stesso che sprofondare in un covone lavato dalla Luna d’eclisse.

Piazza Colonna fumiga e le incaute dimafoniste che s’affacciano dalle alte finestre dei loro uffici rischiano il capogiro. Il mondo s’è impazzito, ma finché ci sarà un filo d’erba, l’uomo potrà salvarsi.

 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 15, 2008, 11:29:25 pm »

15/8/2008
 
A Addis Abeba in attesa dell'uragano
 
 
IGOR MAN
 
Quando il buio cala sull’altopiano fitto di eucalipti chiamato Addis Abeba, presente e passato si intrecciano. È il lungo momento dei signori e dei mascalzoni, dei locali notturni e delle teccerie dove donne di indefinibile età vendono se stesse e bicchieroni di presunto idromele. All’apparenza nulla è cambiato ma a far discorso con questo e con quello la realtà prende alla gola: tutti, dal portiere dell’albergo americano al posteggiatore lebbroso che non si può rifiutare, tutti attendono l’uragano; ha una parola antica: carestia. Incombe sul Corno d’Africa. Quattordici milioni di persone (in cinque Paesi) sono «a rischio», come informa un rapporto dell’Onu. L’Etiopia è l’epicentro della crisi da tempo annunciata; se non arriveranno aiuti, e concreti, presto, «il dodici per cento della sua popolazione morirà». Di fame.

«Si stava meglio quando si stava peggio»: l’antico apoftegma banale è sulla bocca di tutti. Il «peggio» si riferisce a due pilastri della Storia etiopica: 1) il regno di Ailé Selassié, il Negus Imperatore d’Etiopia, che non infierì sugli italiani che l’avevano spodestato. A una sterile vendetta preferì aiutarli a integrarsi nella loro effimera colonia, salvandoli dal castigo degli inglesi. 2) La dittatura feroce del terribile Menghistu, finalmente alla sbarra.

Manovrando l’ascensore della memoria, il Vecchio Cronista ritrova i figli e i nipoti dei soci fondatori del «Circolo Juventus», figli e nipoti dei «metti tacco»: gli intrepidi camionisti che tessono l’Africa. Il Vecchio Cronista ricorda il suo incontro col Negus il 13 di aprile del 1961. Piccolo e minuto, mani eleganti, francese perfetto, ad un certo momento mi chiese se conoscessi Mattei, il già mitico, allora, ingegner Mattei. Lo vedo qualche volta, al caffè Rosati, dissi. «Bene ma cerchi di vederlo presto», soggiunse. «I giornali americani scrivono che l’Etiopia ha affidato all’Urss la raffineria di Assab. In linea di massima è così ma desidero che lei informi il signor Mattei che se gli interessa Assab, l’Eni l’avrà subito con buona pace dei russi».

Di ritorno a Roma, proprio da Rosati per il solito caffè da lui offerto, da me pagato, riferii a Mattei della incredibile intenzione del Negus. «Presto gli farò sapere, disse, che il suo invito mi onora ma non desidero far torto all’Urss». Dopo una franca risata: «Alla pelle io ci tengo, disse, e poi c’è tanto da fare per questo benedetto Paese nostro che stenta a sprovincializzarsi», concluse.

Oggi i figli, i nipoti degli «insabbiati» ricordano un passato che torna al presente. Il Negus aveva depositato in Svizzera un tesoro. Sera dopo sera Menghistu interrogava il Negus nella minuscola camera da letto tramutata in prigione. Voleva il numero del conto in Svizzera, quello segreto perché stratosferico. L’esile vecchio tacque ostinatamente (così almeno vuole la vulgata). Menghistu gonfio di idromele mischiato alla vodka, crudelmente, sera dopo sera, giuocò col vecchio sovrano premendogli sulla bocca un cuscino fin quasi a soffocarlo. Ma, una sera, Menghistu trattenne il cuscino un po’ più a lungo del solito. E il Negus Neghesti morì, soffocato dal dittatore comunista, portandosi via, e per sempre, il numero del conto corrente in Svizzera.

Il Negus aveva ricevuto in dono (dal Giappone, dicono) un magnifico leone subito battezzato Tojio. L’Imperatore copto l’aveva domato dolcemente e il leone, innocuo, scorrazzava nel recinto del Ghebì terrorizzando i visitatori. Ebbene, la notte in cui Menghistu ammazzò il Negus, Tojio gannì a lungo e all’alba morì.

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« Risposta #14 inserito:: Agosto 22, 2008, 10:43:29 pm »

22/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Con Fidel a caccia di caviale
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Niente adunate oceaniche, nessun chilometrico discorso per l’ottantaduesimo compleanno di Fidel Castro. Business as usual, però con tanti turisti («quelli del dollaro») alla scoperta del Varadero e dell’Habana Antigua, tutta Cuba impegnata nell’ennesima movida lietamente provocata da una santeria senza eguali. Cento e otto babalao’ (sacerdoti mutuati dall’Africa degli schiavi) han pregato intorno a una ceiba, l’albero sacro che porta bene, chiedendo alla pianta, coetanea del Líder Máximo, di trasmettere «forza e coraggio» a Fidel: «Abbiamo bisogno di te, tutto il mondo ti ascolta – scambiamoci amore e salute», ha recitato il gran sacerdote Mario Perez.

È stato Fidel, ci dicono, a non volere le abituali feste pubbliche in suo onore. Non è più comparso in pubblico, in tv, da quando ha ceduto il potere al fratello Raul, prima temporaneamente il 31 di luglio e, poi, definitivamente il 19 di febbraio di quest’anno. È vero che non c’è decreto o decisione politica che non abbia l’imprimatur di Fidel ma la sua immagine dopo un’abbuffata di oltre mezzo secolo è solo e soltanto quella dei manifesti e delle fotografie di sempre che fanno del Líder Máximo il poster di se stesso.

Un ardito intervento allo stomaco ha salvato Fidel dalla morte. L’ha sfangata in grazia d’un fisico da campione di baseball e d’una volontà feroce di vita ma «non mi riconosco in quest’albero caduto», ha detto ordinando ai fotografi di girare alla larga. Fidel Castro ci tiene a far sapere ch’egli aiuta («per quanto possibile») suo fratello Raul nella difficile impresa di far di Cuba «un paese sereno». Studia, corregge decreti, stende analisi politiche, parla al telefono con Chavez (che gli ha regalato un ritratto di Simon Bolivar), insomma per quanto possibile «tiene i contatti» ma come astiosamente dicono gli esuli di Miami, assiste giorno dopo giorno al fallimento del Castrismo. La Revolución è già nella Storia perché restituì dignità e speranza a Cuba che’era il lupanare degli Stati Uniti; il Castrismo, invece, con la sua «apertura turistica», voluta da Fidel per dar respiro a una popolazione stremata da crudele embargo, ha sì portato dollari ma con questi l’esercizio della prostituzione truccata da «fidanzamento» del turista di Abbiategrasso, o di Latina, con prosperose mulatte. Di più: la già precaria società cubana s’è spaccata: quelli del dollaro-quelli del pesos: chi, cinico, se la passa più che decentemente -chi vive da miserabile. Sia come che sia, il futuro di Cuba è legato alla precaria esistenza di Fidel. Un comprendibile machismo gli ha fatto bandire ogni specchio, «no, non voglio vederlo» dice di se stesso con Lorca. La coscienza del líder lo spinge a inventarsi un futuro decente ed ecco i suoi studi, le sue ricerche, le sue estenuanti letture: non più Malaparte (lo leggeva nella Sierra Maestra) ma Keynes.

Il Vecchio Cronista è stato a Cuba nel luminoso 1959, nel tempo in cui Fidel e il Che sognavano il rinascimento dell’America Latina. Fidel, allora, dava interviste soltanto alla stampa americana, a tutti gli altri giornalisti toccava arrangiarsi. Mi ero accorto che, alle cinco de la tarde, Fidel irrompeva nelle cucine dell’ex Hilton. Aveva scoperto il caviale, lo mangiava anche coi fagiuoli immergendo le mani nelle pentole, asciugandosele, poi, sulla divisa verde ulivo. Una sera, saltabeccando da una marmitta all’altra, gli chiesi: «Ma voi barbudos siete comunisti o no?». Risposta: «Non siamo comunisti ma neanche anticomunisti: siamo humanisti». E che vuol dire, humanisti? «Compañero fai tu...».
 
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