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Autore Discussione: Giuseppe De Rita Se il Paese non sbanda  (Letto 2449 volte)
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« inserito:: Marzo 12, 2009, 11:49:25 am »

GLI ITALIANI E LA CRISI

Se il Paese non sbanda


di Giuseppe De Rita


Facendo null’altro che il proprio dovere, i mezzi di comunicazione di massa ci informano quotidianamente di fallimenti di molto onorate aziende finanziarie, di nazionalizzazioni di banche e aziende operanti negli storici templi del mercato, di affannosi piani di risanamento da trilioni di dollari, di inesauribili crolli delle borse mondiali, di verticali cadute dei consumi e della produzione, di esponenziale crescita della disoccupazione e del precariato. Siamo quindi bombardati da angosciose notizie e prospettive, e viviamo diffuse paure per il futuro. Eppure le preoccupazioni collettive non hanno quell’intensità drammatica che la tempesta mediatica ci impone quotidianamente. Colpa del fatto che tale tempesta è stata così emotivamente forte da creare altrettanto forti anticorpi di rimozione? O colpa di una popolazione che propende a galleggiare in attesa che passi la nottata? Le due ipotesi sono entrambe verosimili e frequentate; ma al di là degli orientamenti emotivi, occorre prendere atto che il modello di sviluppo italiano permette oggi una costante e diffusa «redistribuzione della crisi».

Avviene sul piano territoriale, dove coesistono realtà locali di vitale sopravvivenza ed altre in grande difficoltà; avviene sul piano della composizione sociale, dove coesistono gruppi professionali iperprotetti e gruppi che stanno nelle valli della disoccupazione o del precariato; avviene all’interno del sistema di imprese, dove alcune continuano a restare fiduciose ed altre, specialmente nel terziario, perdono l’aggressività un po’ vuota degli ultimi anni; avviene anche e specialmente all’interno delle finanze familiari, dove le difficoltà di alcuni componenti vengono spesso compensate dai redditi più «sicuri », di altri o dalla nuova espansione del lavoro sommerso. Se a tutto ciò si aggiunge la coazione alla liquidità che contraddistingue l’attuale momento (le famiglie non spendono, i commercianti non rinnovano i flussi di offerta, le banche non erogano, eccetera) possiamo aver conferma che tutto è sospeso, quasi fermo: nessuno rischia, ma nessuno crolla. Il policentrismo italiano, con la conseguente «architettura distribuita del sistema», decomprime la crisi e la ridistribuisce su vari punti di tenuta, magari flebili ma capaci di non tracollare.

Ciò può apparire molto italiano, quasi provinciale, ma è cosa che funziona, tanto da rendere incoerente l’impegno ad interventi forti, concentrati, centralizzati. Non a caso l’intervento più consistente e immediato del governo nazionale, quello sulla cassa integrazione, è stato fatto rifluire a livello delle regioni e quindi delle varie differenze territoriali, professionali, sociali; così come tendono a rifluire su innumerevoli soggetti le per ora intenzionali idee di politica abitativa (tutto da verificare invece l’impatto diffusivo delle grandi opere pubbliche). Se il Paese quindi per ora non sbanda è perché ridistribuisce i problemi su più processi di responsabilizzazione. C’è solo da domandarsi quale futuro abbia questa redistribuzione policentrica della crisi, se cioè la sua funzione anticiclica possa resistere a lungo, ove la crisi si accentuasse e diventasse pesante. La sensazione è che ancora per alcuni mesi il meccanismo possa continuare a reggere, pur con qualche inevitabile slabbratura. E se dovesse reggere, avremmo a disposizione un fattore potente della eventuale auspicata ripartenza: questa non sarebbe portata avanti da pochi eletti, e meno ancora dalle autorità centrali, ma sarebbe una ripresa vitalizzata dai molti punti di responsabilità che si sono condensati negli anni, ed anche nella attuale fase di crisi.

12 marzo 2009
da corriere.it
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