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Autore Discussione: JEAN-PAUL FITOUSSI Capitalismo immorale  (Letto 2530 volte)
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« inserito:: Marzo 06, 2009, 09:32:24 pm »

5/3/2009
 
Capitalismo immorale
 
 
JEAN-PAUL FITOUSSI
 
Viviamo un’epoca nella quale l’etica sembra aver invaso tutto. La finanza è etica, le imprese adottano codici etici, il commercio è etico. Eppure il capitalismo sembra finito nel pallone. Mai «l’amore per il denaro», come avrebbe detto Keynes, lo avrebbe condotto agli eccessi che conosciamo: retribuzioni stravaganti, rendimenti da sogno, esplosione dell’ineguaglianza e della miseria, degrado dell’ambiente. L’emergenza etica, forse, è una reazione allo spettacolo desolante delle conseguenze di un’economia che non si è mai preoccupata dell’etica. Non si può rifiutare con leggerezza l’ipotesi che l’abbandono della morale abbia portato il sistema alla crisi.

«I vizi specifici dell’economia che viviamo - scriveva Keynes - sono due: il lavoro non è assicurato a tutti e i profitti sono divisi in modo arbitrario e iniquo». L’economia, come la scienza, non è un ambito per eccellenza disgiunto dalla morale? Certo lo scivolamento irrefrenabile dell’economia-politica verso l’economia-scienza si è cristallizzato nel concetto di «economia di mercato», sciolto da preoccupazioni storiche o istituzionali. Eppure il capitalismo è una forma di organizzazione storica, un modo di produzione, diceva Marx, nato sulle macerie dell’Ancien regime. Dunque il suo destino non è scritto nel marmo.

È l’interdipendenza tra stato di diritto e attività economica che dà al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è un’illusione, come la sua capacità di autoregolarsi. E se siamo arrivati al disastro di oggi è proprio perché la bilancia pendeva un po’ troppo verso questa illusione. Questo sbilanciamento corrisponde a un capovolgimento di valori. Si fa un servizio migliore all’etica - si pensava - regolando di più gli Stati e di meno il mercato. L’ingegnosità dei mercati finanziari ha fatto il resto. Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi. E ancora di più sta nell’aver accettato un circolo di illegalità insostenibile nei Paesi democratici. Perché il sistema vive nella tensione tra due principi: quello del mercato e dell’ineguaglianza da una parte (un euro, una voce) e quello della democrazia e dell’uguaglianza dall’altra (una persona, una voce), obbligati alla ricerca permanente di un compromesso.

Questa tensione permette al sistema di adattarsi e di non rompersi come succede ai sistemi basati su un principio solo, com’è accaduto a quello sovietico. La tesi secondo cui il capitalismo avrebbe vinto come organizzazione economica grazie alla democrazia, piuttosto che a suo scapito, sembrava la più convincente. Oggi ne abbiamo una rappresentazione efficace. Lo spettacolo dei soldi facili cancella gli orizzonti temporali. Rendimenti finanziari troppo alti contribuiscono al disprezzo del futuro, a impazienza nel presente, al disincanto sul lavoro. Non è più necessario citare l’Antico Testamento per capire che a questo punto il rapporto tra denaro ed etica va in crisi.
Anche Adam Smith ne aveva parlato nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza dei Paesi (Gallimard, 1796). Il disprezzo del futuro va in contrasto con l’orizzonte di lungo periodo necessario alla democrazia. Una delle chiavi del compromesso tra il benessere delle generazioni presenti e quelle future è l’arco temporale determinato dal dibattito politico. Un orizzonte limitato, come l’ assenza di giustizia sociale, aggrava il conflitto.

Quando le diseguaglianze sono forti una parte importante della società non può proiettarsi nel futuro nero che l’aspetta. E se si formula l’ipotesi che l’altruismo tra una generazione e l’altra è una forma di sentimento morale spontaneo, come sembrerebbe dire l’attenzione che tutti hanno per il destino dei bambini, si capisce bene che una maggiore equità sociale potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine. Per restituire etica al capitalismo, bisogna rompere con la dottrina del passato che ci ha portato alle turbolenze finanziarie di questi mesi. Bisognerebbe «deregolamentare le democrazie», fare più posto alla volontà politica, e regolare meglio i mercati.

Bisognerebbe prendere più sul serio le decisioni sulle regole della giustizia e rendere oggetto di una deliberazione dei Parlamenti annuale un calo accettabile della diseguaglianza. La pubblicità di queste discussioni permetterebbe di rompere con la concorrenza sociale e fiscale che spinge le persone verso il basso, dando la speranza di una concorrenza che spinga verso l’alto.

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