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Autore Discussione: Roberto GALULLO.  (Letto 61615 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 12, 2012, 03:20:10 pm »

11 ottobre 2012 - 8:51

OltReggio contiguo/

Il direttore della Leonia, municipalizzata del Comune sciolto per mafia, era “uno zerbino della ‘ndrangheta”

Uno zerbino ai piedi della ‘ndrangheta.

Mai – prima d’ora – in un’ordinanza si era letta una presa di posizione così netta (e testuale, basta leggere l’ordinanza) nei confronti di un indagato eccellente nella classe dirigente reggina. Si tratta di Bruno De Caria, direttore operativo della società dell’ambiente Leonia, partecipata al 51% dal Comune di Reggio Calabria.

Il giorno dopo lo scioglimento del consiglio comunale per contiguità mafiosa, giunge la nuova operazione condotta dal pm Giuseppe Lombardo, lo stesso magistrato della Procura antimafia reggina che aveva già scoperchiato le infiltrazioni della cosca Tegano nella Multiservizi, altra società partecipata dal Comune, poi sciolta. Infiltrazioni che sono tra i motivi della decisione assunta due giorni fa dal Governo su Reggio.

Se il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri avesse potuto leggere anche le carte sulla Leonia avrebbe avuto un motivo in più per lo scioglimento del Comune, sul quale è intervenuto l’imprenditore Pippo Callipo che ringraziando il ministro per lo slancio che ora può contagiare la ripresa di una terra in gran parte onesta, ha ricordato che «se il modello Reggio frana oggi miseramente, rimane ancora in piedi un ben più deforme modello Calabria il quale ha, per molti versi, aspetti identici se non più aberranti di quelli in uso nella città dello Stretto».

L’indagine di ieri ha portato al sequestro di beni per 30 milioni e all’arresto di otto persone, tra cui i vertici della cosca Fontana di Archi, ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di associazione di tipo mafioso,  di intestazione fittizia di beni, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente ed abuso d’ufficio, aggravati dal metodo mafioso. Avrebbero esercitato un pervasivo potere di condizionamento e controllo di tipo mafioso sul comparto ambientale di Reggio Calabria. Non solo imponevano tangenti ma ricevevano da anni i contratti per la manutenzione delle macchine e il rifornimento (55mila litri al mese) degli automezzi.

Il ruolo chiave è quello del colletto bianco, De Caria, che secondo l’accusa «forniva uno stabile, concreto, volontario ed apprezzabile contributo all’esistenza, alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione criminale di tipo mafioso nel suo complesso». In una lettera sequestrata a De Caria e indirizzata nel Natale 2001 Giovanni Fontana, allora latitante e ieri arrestato, si legge un passaggio che ha scosso le coscienze dei pm e che testimonia la totale sudditanza alle cosche in tempi non sospetti. Tempi trascorsi con De Caria sempre al vertice dell’economia pubblica cittadina. «…ho la netta sensazione di conoscerVi già – si legge nella lettera – e i vostri figli sono ormai entrati nel mio cuore e nella mia stima al punto che non esito a mettere a loro disposizione tutte le mie conoscenze per assecondarli nel vostro desiderio…».

Sudditanza che non è mai venuta meno anche quando – si legge nelle carte firmate dal Gip Domenico Santoro che ha accolto in pieno le testi dell’accusa – neppure quando, tra il 2007 e il 2008 la consapevolezza della capacità della Leonia di produrre ingenti introiti porta le cosche De Stefano, Condello e Tegano a rivendicare una parte della ricca torta. Da quel momento in poi, dunque, Leonia avrebbe dovuto aumentare il capitale illecito delle altre cosche. Non c’era problema: bastava sovrafatturare i pezzi di ricambio e le componenti meccaniche. Una rimessa di denaro sonante a danno del pubblico e a favore delle cosche. L’ennesimo “oltReggio contiguo”alla città che qualcuno non voleva veder sciolta per mafia.

r.galullo@ilsole24ore.com

©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/10/oltreggio-contiguo-il-direttore-della-leonia-municipalizzata-del-comune-sciolto-per-mafia-era-uno-zerbino-della-ndra.html
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« Risposta #46 inserito:: Ottobre 12, 2012, 03:21:27 pm »

11 ottobre 2012 - 17:01

OltReggio contiguo/2

L’imprenditore Pippo Callipo: “Oltre al modello-Reggio andrebbe sciolto il modello-Calabria”


Mentre il sindaco di Reggio Calabria Demetrio Arena si appresta ad organizzare con le valigie in mano la conferenza stampa di addio alla città sciolta per contiguità mafiosa, l’ex presidente di Confindustria Calabria, Pippo Callipo, qualche ora prima, ha diramato ai cronisti locali una lettera che sotto troverete riprodotta.  Come sapete, cari lettori, Pippo Callipo ha corso alle ultime elezioni regionali come candidato governatore.

Riproduco la lettera – indirizzata anche al sottoscritto - perché se in terra di Calabria qualche giornale lo avrà ripreso (li ho sfogliati e comunque non mi pare che sia stato dato risalto) è doveroso che il resto d’Italia sappia – attraverso questo umile e umido blog – che c’è un imprenditoria che al Sud, in Calabria, proprio non ci sta a piegarsi a logiche clientelari e mafiose.

Vedete, l’imprenditoria calabrese che vive di provvidenze pubbliche ha delle colpe enormi nella crisi che sta stritolando da decenni questa regione. Per questo motivo la voce di Callipo – tra i pochissimi imprenditori fai-da-te in Calabria – ha un senso e una rilevanza anche fuori dagli angusti confini calabresi.

Oltretutto dice una cosa che – sicuramente – lo farà iscrivere d’ufficio nel registri dei “nemici comunisti” (lui che comunista non è) del Governatore Ciccio-Peppe Scopelliti. Dice infatti Callipo che oltre il “modello Reggio” bisognerebbe sciogliere il “modello Calabria”.

Come dargli torto?

Nell’ultima parte della lettera sembra quasi appellarsi disperatamente al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri affinché getti lo sguardo oltre Reggio.

Come dargli torto?


r.galullo@ilsole24ore.com

P.S. Per quello che ormai ho giornalisticamente definito “OltReggio contiguo” rimando anche all’articolo precedente, pubblicato su questo umile e umido blog sempre in data odierna (11 ottobre 2012)


---


LA LETTERA

Ci voleva un governo tecnico per mettere finalmente a nudo un sistema di potere che per anni ha imperversato nella città più importante della Calabria, emblema insieme dei mali e delle virtù di un’intera Regione. Ci voleva un governo tecnico per fare quello che nessun esecutivo politico avrebbe mai osato fare, mettendosi contro colleghi e sodali politicamente troppo in vista. Certo ci saremmo aspettati che questa decisione fosse giunta ben prima e con maggiore determinazione, poiché è noto che il “sacco” di Reggio Calabria non è certo maturato nei diciassette mesi della consiliatura che oggi viene sciolta, ma tant’è.

E allora grazie caro Ministro Cancellieri. Grazie a nome dei tanti calabresi onesti per questa decisione che, ci auguriamo, possa contribuire a liberare questa città dai ceppi ai quali era vincolata, con uno slancio che possa, magari, contagiare l’intera Regione. Si perché con il tanto decantato “Modello Reggio” che oggi vede la sua impietosa deriva giuridica, viene bollato con il marchio dell’infamia un intero sistema politico: quello che va per la maggiore in questa Regione. Basato com’è sulle clientele, sulle interessenze, sulle commistioni tra zone più o meno grigie, lobby affaristico-mafiose, consorterie di ogni risma.

Dunque, caro Ministro, non dimentichi che se il “Modello Reggio” frana oggi miseramente, rimane ancora in piedi un ben più deforme “Modello Calabria” il quale ha, per molti versi, aspetti identici se non più aberranti di quelli in uso nella città dello Stretto. Ce lo dicono già molte inchieste giudiziarie, il lavoro encomiabile della magistratura, gli avvisi di garanzia, gli arresti in seno al Consiglio regionale. Ecco, caro Ministro, il suo lavoro in questo senso è ancora all’inizio… trovi lei nella sua autonomia politica e decisionale quel coraggio che ad altri, guidati dalle logiche di consenso, è mancato evitando così alla Calabria onesta e all’Italia tutta l’agonia di un’intera Regione.

 Pippo Callipo


da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/10/oltreggio-contiguo2-limprenditore-pippo-callipo-oltre-al-modello-reggio-andrebbe-sciolto-il-modello-calabria.html
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 12, 2012, 03:22:54 pm »

10 ottobre 2012 - 11:26

Contiguità mafiosa nel Comune di Reggio: brava Cancellieri.

Senza saperlo ha capito tutto ma ci deve essere il lieto fine!




“A chi n’appartini?” A chi appartieni? Chiedo scusa ai calabresi se male ho scritto la frase che mille volte ho sentito risuonare nei saluti di mia suocera e di centinaia di suoi concittadini.

A chi appartieni? Con questa frase si rivolge – lei come tanti – quando non conosce (o riconosce) una persona. Quella frase – tradotta in altri termini – vuol dire semplicemente: “chi sei, non ti conosco, presentiamoci”.

NELLA CRIMINALITA’

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la ‘ndrangheta – che proprio sul vincolo familiare di sangue conta a differenza di Camorra e Cosa nostra – è diventata la più forte organizzazione criminale in Europa e tra le più forti al mondo, con la possibilità di comprare e corrompere tutto.

NELLA MASSONERIA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la massoneria conta in Calabria un numero di logge (ufficiali e coperte) che non ha eguali in Italia. E nella massoneria deviata, qui in Calabria, albergano le trame fatte di menti raffinatissime della politica aberrante, dei servizi di Stato marci e di uomini delle cosche.

NELL’ECONOMIA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché l’economia privata – che pure rappresenta una percentuale ridicola di fronte a quella pubblica e che comunque dalle risorse pubbliche spesso viene alimentata – qui si tramanda di padre in figlio e non consente il sorgere di nuova impresa. Non solo nell’industria (qui all’anno zero e comunque foraggiata da fondi statali ed europei “prendi-e-scappa”) ma anche nei servizi e persino nel commercio.

NEL CREDITO

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché il credito è zero e quello zero virgola viene dato ai soliti noti e, come sta testimoniando un’indagine nella Piana di Gioia Tauro, il beneficiario di quello zero virgola viene deciso dalle cosche

NELLE PROFESSIONI

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché gli studi professionali sono pieni di “figli di”. Non di figli di professionisti (non solo) ma di figli del circuito dell’appartenenza: il figlio del politico, del medico che ha operato la zia, del cugino del vicino di casa che mi ha venduto la casa a modico prezzo e via di questo passo. Rompere il cerchio è quasi impossibile.

NEL GIORNALISMO

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché chiunque abbia un minimo di potere cerchi di avvicinare i giornalisti per renderli “parte” della propria sponda. E’ una cosa pazzesca. E chiunque – quei pochi che hanno le palle per resistere – non ci sta diventa un nemico. Io – ad esempio, pur non essendo un giornalista calabrese – sono un nemico (di ogni parte politica, tengo a precisare). E così Ruotolo della Stampa e Fierro del Fatto ai quali si aggiungono diversi colleghi di Calabria Ora e del Corriere della Calabria. Si arriva al punto da scrivere informative sulla libertà di stampa (si veda in archivio il mio post del 27 luglio 2012)! Capite la gravità della cosa o state ancora sulle nuvole?

NELLA VITA SOCIALE

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché fuori dalla Calabria i calabresi si chiudano in comunità proprie – a partire da quelle nelle città universitarie – come se aprirsi al mondo facesse male.

NELLA CONSIDERAZIONE SOCIALE

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché, a parte la topica domanda “a chi n’appartini” le relazioni sociali siano ancora – tra i pochi casi rimasti in Italia – rigidamente tra classi. E le classi sociali più alte – ma meno evolute – perpetrano nei secoli l’esclusività e l’appartenenza.

NELLA POLITICA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la Calabria è l’unica regione in Italia in cui l’ideologia politica è qualcosa che si mangia. O meglio: con la quale si può mangiare. Destra, sinistra, centro, ma che ce frega! Ci si sposta a seconda delle convenienze, fiutando l’aria. Una, dieci, mille casacche sono pronte nell’armadio. E’ fantastico quanto ha svelato in questi giorni il corrieredellacalabria.it, vale a dire che i fratelli dei sindaci di centrodestra di Catanzaro e Reggio Calabria sono i primi dei non eletti al Parlamento per il Pd!!! Fantastico!

Ma ve lo immaginate il dialogo oggi tra i due fratelli Arena? Ci provo io (e chiedo scusa alla mia intelligenza): Il sindaco (ex): “Ci hanno sciolti per la campagne di stampa di voi sporchi comunisti!”. Il fratello: “Ma Demi io non c’entro nulla!”

IL COMPARAGGIO

L’appartenenza in Calabria si scioglie nel comparaggio. Se mi appartieni sei compare e se non lo sei – ma sei della mia classe sociale e ho interesse – facciamo in modo da diventarlo. Così si ragiona in Calabria, la regione che più di ogni altra al mondo si regge sul comparaggio.

LO SCIOGLIMENTO DEL COMUNE

Senza saperlo, ieri, il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, ha tradotto questo mini-trattato sull’appartenenza e sul comparaggio in una sola parola: contiguità mafiosa che ha condotto allo scioglimento del consiglio comunale. L’infiltrato – tipo lo 007 che si infiltra tra i narcos per scovarli – è un conto. Vale a dire due o tre politici legati alle cosche ci può stare, a queste latitudini ma la contiguità – vale a dire ciò che è a contatto nello spazio e nel tempo – è un’altra cosa. Vicini-vicini, capite la differenza? Compari, “appartenenti” alla stessa genia. “A chi n’appartini?” “A tia!”

Del resto già il sostituto procuratore nazionale antimafia Carlo Caponcello aveva detto che in Calabria la ‘ndrangheta non è un convitato di pietra ma istituzionale (si vedano in questo umile e umido blog i miei servizi dell’8, 10 e 15 febbraio 2012). Istituzionale capite? Ma di che stiamo palando! Andrebbe sciolta la Calabria, altro che un singolo Comune e c’è da restare esterrefatti di fronte alle parole di Ciccio-Peppe Scopelliti che non trova meglio da dire che: “Altri Comuni infiltrati dalla mafia non sono stati sciolti”. A chi si riferisce, di grazia? Forse all’unico caso-vergogna nazionale, vale a dire Fondi? Beh, quello fu un regalo al centro destra. O conosce altri casi? Li dica, please! Non credo e comunque il ragionamento nella scuola elementare, tra due alunni, suonerebbe così: “Signora maestra perché mette me dietro la lavagna? Ha cominciato lui….”. Ciccio-Peppe se ne faccia una ragione: il Comune amministrato dal suo alter ego andava sciolto. Punto. E l’odierna operazione che ha condotto all’arresto del dominus della Leonia (la società municipalizzata dell’ambiente) ne è una conferma. Ne vuole altre?

FALSE SPERANZE

Ora che lo scioglimento del consiglio comunale – benvenuto per le ragioni di legge illustrate dal ministro Cancellieri con buona pace dei scopellitones – è arrivato l’unica domanda che vale la pena di porsi è: cosa cambierà?

Bene. Dai demagoghi calabresi in terra di Calabria sentirete parlare di opportunità di rinascita. Dai politicanti calabresi in terra di Calabria sentirete parlare di pagina da voltare. Dai sociologi calabresi dei miei stivali in terra di Calabria sentirete parlare di rivolta delle coscienze.

Balle! Tutte sacrosante, fantastiche, luminescenti, sfolgoranti, fantasmagoriche e rutilanti balle!

Il comparaggio vincerà anche questa volta. I compari della politica si attrezzeranno per vincere qualunque colore politico vinca, i compari mafiosi staranno alla finestra e aspetteranno che arrivino a San Luca (anche solo metaforicamente), i compari massoni deviati celebreranno la messa laica della spartizione del potere, i compari delle professioni renderanno i propri servigi e i compari dei servizi deviati vigileranno che tutto si svolga…democraticamente.

Ah dimenticavo i compari all’interno del Comune: quelli scovati dalla relazione della prefettura e quelli ancora senza nome. Sono loro che – strisciando in questi 18/24 mesi di commissariato e venendo alla luce dopo – continueranno a garantire la “contiguità”. Lo aveva già capito Luigi De Sena, il superprefetto di Reggio Calabria e territori affini che, non a caso implorò il Parlamento di cambiare la legge sullo scioglimento degli enti. Perché se si cacciano i “compari politici” e si lasciano dentro i “compari burocrati” non cambia nulla.

Anzi: le cose nel Comune di Reggio Calabria – date retta a ‘sto cialtrone, come mi definisce Ciccio-Peppe e ne vado per questo orgoglioso – indipendentemente da chi vincerà le elezioni tra compari, cambieranno. In peggio*.

Baci compà!

* spero che le forze sane di questa regione - società civile, associazionismo, imprenditoria sana, Chiesa - dimostrino che la Calabria possa uscirne e che dunque il comparaggio si sciolga in solidarietà. Solo così si accende la speranza che in questo momento è nelle mani di un grande Servitore dello Stato, il prefetto Vincenzo Panico. I miei ragionamenti verrebbero sconfessati e io ne sarei strafelice.

r.galullo@ilsole24ore.com

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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/10/contiguit%C3%A0-mafiosa-nel-comune-di-reggio-brava-cancellieri-senza-saperlo-ha-capito-tutto-ma-non-ha-previsto-la-fine-non-ca.html
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:23:19 pm »

I clan perdono la «monnezza».

Trasportare i rifiuti via mare conviene e toglie potere alla criminalità

di Roberto Galullo

19 gennaio 2013


I numeri non spiegano sempre tutto ma qualche volta ci riescono. I numeri dicono che a Napoli – periodicamente alle prese con l'emergenza rifiuti, soprattutto quando c'è un'elezione alle porte – inviare una tonnellata di spazzatura in Olanda costa da 107 a 111 euro. Lo stesso carico, se fatto viaggiare sui bilici, costa ora – e solo grazie alla concorrenza marittima – da 129 a 156 euro.

I numeri dicono ancora che per ogni 10 navi spedite da Napoli in Olanda vengono tolti dalla strada almeno mille camion. Da quando Sapna (la società di gestione ambientale della provincia di Napoli) ha deciso di far salpare il carico di "monnezza" verso gli impianti olandesi, dalla strada sono stati tolti almeno tremila camion che appestavano l'ambiente.
Ciò che i numeri non dicono è che un'operazione del genere sottrae potere alla camorra che proprio sul trasporto (oltre che sullo raccolta e lo smaltimento) ha fondato un business miliardario.

Per dare un'idea basti riportare l'intercettazione del 6 marzo 2006 tra Pasquale e Carmine Zagaria, fratelli del capoclan dei Casalesi, Michele. I due, non sapendo di essere intercettati dalla squadra mobile di Caserta, chiacchierano amabilmente nel salotto di casa. «I rifiuti – dice Pasquale a Carmine – li caricano a Caivano e li portano a Cancello, ci stanno le discariche dove scaricare. Pagano a chilometri. Devono andare a Taranto quegli altri camion a scaricare. Sta roba mi ha fatto 14 milioni dal 2004 a oggi (6 marzo 2006 ndr) più altri 4/5 milioni quell'altro, sono 20 milioni. Alla fine il 10% fino a oggi ce lo ha sempre dato».

Una questione solo campana quella dell'ingerenza della criminalità organizzata nel business dei rifiuti? Assolutamente no. In Puglia lo dicono le indagini, in Sicilia l'ultima operazione risale al 10 gennaio e in Calabria la situazione è talmente grave che il 23 giugno 2011 la Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti votò un documento nel quale si diceva che «le inefficienze del sistema hanno favorito l'inserimento nel ciclo dei rifiuti della criminalità organizzata, che è particolarmente presente nella provincia di Reggio Calabria, laddove, a fronte di un giro d'affari di complessivi 150 milioni all'anno, pari al 2% del Pil del territorio, solo 12 imprese delle 161 che si occupano di rifiuti hanno ottenuto la certificazione antimafia negativa, mentre 115 imprese risultano addirittura sconosciute al sistema. Si desume agevolmente che le imprese prosperano in modo anonimo con i subappalti o con la prestazione di manodopera».

Il ricorso alle navi, che si occupano di tutto (dall'imbarco al conferimento e che fanno capo a più compagnie) ha fatto crollare il prezzo anche su strada, ancora comunque più elevato, a testimonianza del fatto, come dice il vicesindaco di Napoli con delega all'Ambiente, Tommaso Sodano, «che il mercato era drogato e che profitti immensi giravano senza controllo. Ciò che i numeri non dicono, mi permetto di aggiungere, è soprattutto che quest'operazione rompe il patto tra politica inquinata e clan, soprattutto quando il voto è dietro l'angolo».

Dagli impianti di Giugliano e Tufino, da gennaio 2012, sono progressivamente partite 48mila tonnellate verso l'inceneritore Avr Rozenberg che opera all'interno del porto di Rotterdam e quello di proprietà della E.On ad Elfzjil, nel nord dell'Olanda, ma il rinnovo contrattuale prevede che, complessivamente, possano lievitare fino a 125mila tonnellate.

La "rottura" imposta dalla navigazione dell'immondizia è stimabile in un risparmio annuo di almeno due milioni che lieviteranno se i rifiuti urbani verranno completamente tolti dalle strade. «Abbiamo chiaramente fatto presente a Sapna - aggiunge Sodano - che quanto sta emergendo dalla convenienza economica e sociale del trasporto marittimo non può essere privo di conseguenze sulle scelte future».

Sapna il 7 novembre 2012 ha aggiudicato definitivamente la gara pubblica internazionale del servizio di smaltimento, recupero e trasporto dei rifiuti urbani. L'importo complessivo, di 58,4 milioni relativo a 414mila tonnellate totali di rifiuti, è stato aggiudicato a sette Associazioni temporanee d'impresa e una società, con prezzi che oscillano da 128,85 a 156 euro a tonnellata.

Il compito degli aggiudicatari sarà smaltire i rifiuti negli impianti in giro per l'Italia. La novità dell'aggiudicazione è che – rispetto al passato recentissimo – i prezzi su strada, indotti dalla concorrenza delle navi in viaggio verso l'Olanda, sono crollati. Per rendersene conto basta leggere l'interrogazione presentata il 21 dicembre 2011 in Commissione Ambiente della Camera dal deputato del Pd Alessandro Bratti, che aveva messo nel mirino proprio i costi del trasporto. Per spedire circa 15mila tonnellate in parte negli impianti di Trieste e in parte in quelli di Padova, il costo sarebbe oscillato tra 162 e 175 euro a tonnellata. Per spedire 55 tonnellate "in prova" presso il termovalorizzatore di Busto Arsizio (Varese) il corrispettivo sarebbe lievitato a 223 euro a tonnellata.

I condizionali sono d'obbligo perché quella interrogazione non ha mai ricevuto risposta e difficilmente la riceverà prima della fine della legislatura. Oltre che in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia, l'immondizia napoletana ha viaggiato, con costi socioeconomici elevatissimi, anche verso la Toscana, la Liguria e la Puglia.
Oltre alle rotte nazionali ci sono quelle internazionali. Anche in questo caso accanto a traffici leciti, ci sono quelli illeciti dei rifiuti, come sempre in mano alle mafie italiane spesso e volentieri alleate con quelle straniere. Nel 2011 gli uffici doganali hanno sequestrato 7.374 tonnellate di rifiuti: il 48% metallo, il 39% plastica e il resto pneumatici, carta, vetro, pelli, motori e rifiuti elettronici.

Un confronto con il traffico lecito dà un'idea – stimata per difetto – delle proporzioni. Nel 2011 (ultimo dato utile per un raffronto) l'Italia ha esportato circa 186mila tonnellate dei cosiddetti cascami e avanzi di materie plastiche, in gran parte verso la Cina (il 6% della quantità esportata complessivamente dalla Ue). A questo dato bisogna aggiungere quello delle esportazioni dei cascami di metallo: circa 200mila tonnellate (l'1% dell'export europeo).

Le destinazioni, attraverso i porti di Genova, Venezia, Livorno, Ancona, Ravenna, Civitavecchia, Napoli, Taranto e Catania, sono state Russia, Paesi Bassi, Israele, Hong Kong ma soprattutto Cina. È il mercato asiatico quello privilegiato. In Cina arrivano decine di migliaia di container carichi di rifiuti dismessi o pericolosi, che vengono mischiati con altre materie prime con le quali realizzare nuovi manufatti che prendono le vie del mondo. Poco più di un anno fa la Direzione distrettuale antimafia di Lecce ha stroncato un traffico con la Cina di 1.507 container per un totale di oltre 2.500 tonnellate di rifiuti speciali. Più o meno nello stesso periodo a Napoli sono stati sequestrati 14 Tir che trasportavano scarti ferrosi che sarebbero stati spediti nei paesi asiatici, per un giro d'affari di 250 milioni.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-18/clan-perdono-monnezza-203039.shtml?uuid=AbgHVmLH&p=2
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 18, 2013, 05:14:11 pm »

18 marzo 2013 - 9:07

Arcuri (Invitalia) e Tarantola (ex Bankitalia): “L’energia al Sud vale per le mafie quel che negli anni 70 valeva l’edilizia”

Nella relazione conclusiva sulle mafie spedita il 6 febbraio 2013 dalla Commissione parlamentare antimafia ai due rami del Parlamento ci sono, annegati ora qui ora li, documenti, relazioni e audizioni molto interessanti.

Un serio spunto di riflessione si trova nell’audizione di Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia – Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa – tenuta il 19 ottobre 2011. L’audizione è stata declassificata da “riservata” a “libera” con la deliberazione della Commissione del 18 settembre 2012.

In quella occasione Arcuri ha rappresentato che: «...nel 2010, il 25% della popolazione della Calabria, che come sapete e` la Regione a maggior ritardo di sviluppo del nostro Paese, e` sotto la soglia di povertà. In Calabria, nel 2010, il numero degli ipermercati e` aumentato.

Ho l’impressione che la relazione tra questi due fenomeni induca a qualche considerazione interessante sulla produzione del reddito legale o sommerso, criminale o civile, e quindi sul reale significato della soglia di povertà in una stagione di crisi, in una Regione come quella. Credo che, per ragioni diverse, i settori maggiormente attenzionabili in questa stagione siano, oltre al commercio che non e` una novità`, il turismo e l’energia.

Per una serie di ragioni che non so spiegarvi, anche perché non le conosco, ma che voi conoscete benissimo, ho l’impressione che il settore energetico, soprattutto nel Sud, stia giocando il ruolo che negli anni ’60 e ’70 ha giocato il settore dell’edilizia, nel quale si sono annidate forme copiose di economie illegali. Credo che nel prossimo decennio andremo a cercare in questo nuovo ambito, con buona probabilità di avere riscontri oggettivi e rilevanti, quello che cercavamo nel settore delle costruzioni negli anni ’60 e ’70...».

Non c’è che dire: una riflessione profonda, che segna un tracciato intorno al quale ragionare in termini di prevenzione ancor prima che di repressione. Inutile ricordare che nel momento in cui voi leggete queste note – ad esempio – tutti i parchi eolici nella provincia di Crotone sono sotto la lente della magistratura. Ed è forse inutile ricordare anche che moltissimi villaggi turistici sono sotto la lente di ingrandimento della stessa Procura antimafia di Catanzaro. Lo stesso sta accadendo per gli investimenti nell’eolico nella provincia di Palermo e Trapani o per quelli nel fotovoltaico nella provincia di Brindisi e un po’ in tutta la Puglia.

Ma andiamo avanti.

BANKITALIA

Uno magari può pensare che ciò che è stato dichiarato nell’ottobre 2011 possa perdere di valore nel tempo, vista anche la velocità con la quale si muovono gli interessi mafiosi.

Per capire che quegli asset – soprattutto quelle energetico – sono e resteranno (se non cambieranno regole e controlli) un chiodo fisso delle mafie, basti vedere quanto dichiarò la vice direttrice generale pro tempore della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola (attualmente presidentessa della Rai), di fronte al IV Comitato della Commissione parlamentare antimafia il 6 giugno 2012 (la relazione è stata declassificata da “riservata” a “libera” con deliberazione della Commissione del 5 dicembre 2012).

«Significativa e` l’infiltrazione dalle mafie nel settore dell’energia eolica in alcune regioni meridionali – dichiarò Tarantola - soprattutto in Sicilia e in Calabria.

Come emerge dalle segnalazioni ricevute e dalle relative analisi, il coinvolgimento della criminalità organizzata nella realizzazione dei parchi di produzione eolica (ciascuno del valore di decine di milioni) avviene tramite la partecipazione, o il supporto, ad apposite “società veicolo” che si occupano delle fasi propedeutiche dei progetti. In particolare, tali società negoziano sul territorio i diritti di uso dei terreni dove saranno edificati i parchi, e ottengono, anche attraverso pratiche corruttive, le necessarie concessioni e autorizzazioni delle amministrazioni pubbliche competenti; esse vengono poi cedute con grande profitto alle aziende, nazionali o internazionali, che realizzeranno gli impianti».

Credo che ce ne sia abbastanza per preoccuparsi. Noi. La politica no. Convive e spesso – come stanno portando alla luce le indagini a siciliane, calabresi e pugliesi – si arricchisce.


r.galullo@ilsole24ore.com


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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/03/arcuri-invitalia-e-tarantola-ex-bankitalia-lenergia-al-sud-vale-per-le-mafie-quel-che-negli-anni-70-valeva-ledi.html
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 25, 2013, 04:49:15 pm »

25 marzo 2013 - 9:04

Un boss condannato per ‘ndrangheta mi scrive da un carcere del Nord: il benservito alle sue paradossali richieste

Pochi giorni fa – da un carcere del Nord Italia – un recluso condannato in primo grado per ‘ndrangheta ad una lunga detenzione, nell’ambito di un processo passato alla storia recente, mi ha scritto una lunga e paradossale lettera.

E’ considerato – da investigatori e inquirenti – un boss.

La missiva – ammesso e non concesso che sia vera visto che non ho mai visto la sua firma né saprei riconoscerla, lui non l’ho mai visto né sentito in vita mia e non conosco il suo modo di esprimersi – se non fosse paradossale apparirebbe (come forse è) una provocazione pilotata (da chi e perchè?).

Costui non è recluso al 41 bis (il carcere duro), non ha censura sulle lettere e la missiva anziché essere vergata a mano (c’è solo la firma a penna) è scritta al computer.

Strano, molto strano. Il detenuto/scrittore denuncia la presenza di docce gelate in carcere e l’assenza di phon ma non si priva di un lusso straordinario che, a quanto mi risulta, in quel carcere è collettivamente negato: l’uso di un pc e di una stampante. E magari persino di Internet visto che legge i miei articoli?
La lettera spara a zero contro la giustizia che non sarebbe garantista, anzi “colpevolista” a priori, parla di sentenze scritte “negli occhi dei giudici” (!), di spazi di difesa negati, di magistrati che perseguono tesi e non fatti, di ‘ndrangheta inventata, ovviamente di innocenza, di spazi da ricercare nella stampa (e li cerca proprio con me? Allora casca bene!) etc etc.

Una lettera che – per i concetti assolutamente non condivisibili che contiene – ovviamente non pubblico e non pubblicherò mai integralmente, così come non cito e non citerò mai il nome di questo condannato e il processo in questione. Gli farei una pubblicità contraria alla mia dignità.

Chissà, magari la speranza era, al contrario, che io non la pubblicassi e nemmeno ne parlassi, ritrovandomela magari magicamente allegata – tra un giorno, 1 mese o 10 anni – in qualche faldone processuale. Cose simili – purtroppo - le ho già viste e sventate.

Voglio essere chiaro: sbaglierò (me lo auguro) ma la lettera di questo detenuto/scrittore suona come una trappola ma se così non fosse mi serve per respingere le incredibili tesi contenute che – voglio essere chiaro per la millionesima volta - non mi appartengono e non mi apparterranno mai.
Delle due l’una: o il detenuto/scrittore non ha compreso quanto io ho scritto in questi anni o qualcuno – esterno alle strutture carcerarie? – gli ha indotto letture distorte (e dunque sbagliate). Anche qui: perché?
Ma anche se così non fosse e stessi “pazziando”, la lettera (vera o fasulla che sia) consente di ricapitolare in termini estremamente sintetici la mia posizione. In modo che chiunque creda follemente di trovare “sponde” sappia, invece, di trovare un “muro” invalicabile.
Vorrei dunque che fosse chiaro che io non do spazio e non aiuto nessuno. Non mi pagano per aiutare (figurarsi i criminali presunti o reali) ma per portare notizie e leggere i fatti con indipendenza di giudizio (cosa rarissima). Senza guardare in faccia a nessuno, chiunque esso sia.
Quindi il detenuto/scrittore a me non deve chiedere assolutamente nulla perchè io niente posso e voglio dargli: figuriamoci la voce!
E’ compito della magistratura – non mio e l’ho scritto un miliardo di volte – giudicare. Io non giudico nessuno. Dunque – per quel che mi riguarda – lei è un condannato in primo grado per 'ndrangheta. Per i prossimi gradi attendo, come lei, gli esiti.
Sinteticamente, dunque, confermo che un conto è la colpa dei singoli (la giudica un Tribunale) un conto è l’analisi di un fenomeno – quale quello mafioso di stampo siciliano, calabrese e campano – che mi vede, da anni, ben prima dell’operazione Crimine/Infinito, su una posizione netta: la cupola ‘ndranghetista (così come la cupola di Cosa nostra) è cosa diversa dalla ‘ndrangheta che traffica in armi e droga.

I “sistemi criminali” dei quali ho lungamente scritto (basti vedere gli articoli pubblicati su questo blog dal 4 marzo in poi) ricomprendono e non escludono (anzi) la ‘ndrangheta alla quale lei (lo dice la sentenza in primo grado) appartiene.
Io sono fiero che la magistratura del nord persegua chi commette crimini (seppur nella consapevolezza che si è innocenti fino all’eventuale terzo grado di giudizio).
Vorrei però – e l’ho scritto miliardi di volte – che la magistratura (tutta) fosse altrettanto celere nel rincorrere e perseguire quel “sistema criminale” splendidamente individuato nel 1998 dal pm siciliano Roberto Scarpinato e su cui sta affilando da solo e isolato, in Calabria, la sua intelligenza il pm reggino Giuseppe Lombardo.

Vorrei che si desse la stessa, spietata caccia, a chi, con Cosa nostra ha dato vita, ad esempio e per rimanere solo a fatti di cronaca ancora attuali, alle stragi mafiose del ‘92/93. O che si desse la stessa, spietata caccia a chi, con la ‘ndrangheta, ha ordito le bombe alla Procura generale di Reggio Calabria nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 o sta attentando alla vita del pm reggino Giuseppe Lombardo. E magari sapere anche perché. Questo ho detto e scritto, mille volte. Questo confermo anche oggi e sempre. Mai sentito parlare di massoneria deviata, servizi segreti marci, uomini dello Stato infedeli? Ebbene: sono le tessere mancanti al “sistema criminale”: è questo che denuncio da sempre.
Sempre coerente con me stesso, confermo che la magistratura del nord e del sud (da Torino a Milano passando per Bologna, Roma e Reggio Calabria) – nei confronti degli imputati di tutti i processi per ‘ndrangheta – svolge il suo lavoro: se innocenti assolti, se colpevoli, condannati. Tutto qui. Bene o male non sta comunque a me dirlo.
Quanto all’omicidio Novella, che il detenuto/scrittore richiama come il cavolo a merenda, il pentito Antonino Belnome inserisce elementi diversi che, per cronaca, ho evidenziato. Sulla sua attendibilità decide la magistratura. Non io.
Il resto delle sue riflessioni - detenuto/scrittore - non solo non mi appartengono ma mi pesa anche – e molto – pubblicarne la sintesi sopra evidenziata. Lo faccio – anche se sono stato giorni a pensarci e non essendone ancora del tutto convinto - per un solo motivo. Perché vorrei che i lettori continuassero a pensare quel che di me pensano da sempre: un giornalista con la schiena dritta, che interloquisce con tutti, che non ha nè vuole avere amici, che non frequenta e non vuole frequentare salotti nei quali si costruiscono le notizie e le analisi, che non censura mai nessuno, che ragiona solo con la propria testa pur ascoltando tutti. E che – soprattutto - dice sempre quel che pensa a tutti: dal boss (vero o presunto) al pm, passando per il politico e l'uomo della strada.
Ah. Lo faccio per un altro motivo: qualora esistesse una regia esterna alla sua lettera, questo è il benservito. Qualora. Ma non esiste.

r.galullo@ilsole24ore.com

DA - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/03/un-boss-condannato-per-ndrangheta-mi-scrive-da-un-carcere-del-nord-il-benservito-alle-sue-paradossali-richieste.html
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:56:10 am »

Roberto GALULLO


6 maggio 2013 - 9:08

Dietro l’attentato a Nino De Masi: a Gioia Tauro dalla “scimmietta” alla “scimmia” – La lettera dell’imprenditore – Lo Stato si schiera

Diciamoci la verità: Antonino De Masi, imprenditore di Rizziconi che opera nella Piana di Gioia Tauro, non sta simpatico a chi “conta”.

Non sta simpatico alle Istituzioni perché rompe le scatole in una Piana dove le scatole non le rompe nessuna impresa. Un motivo ci sarà. O no?

Non sta simpatico alle banche contro le quali sta conducendo battaglie epocali.

Sta simpatico - nel senso etimologico del termine greco, vale a dire “patire insieme”, “provare emozioni comuni” e dunque “affezione”, “sentimento”– a pochissimi.

Pochissimi, infatti, “patiscono” con lui e lo si è visto – drammaticamente – alla manifestazione di solidarietà organizzata per venerdì 3 maggio davanti allo stabilimento di Gioia Tauro preso di mira pochi giorni fa da 44 colpi di khalashnikov (ma su questo poi ci torniamo).

Quel giorno – a parte i solito noti attivissimi di Libera dell'impareggiabile don Pino De Masi (la Chiesa lì è lui e pochi altri) e due parlamentari come Dalila Nesci e Doris Lo Moro – in tutto circa 200 persone, dipendenti e familiari di De Masi compresi. Tanti? No, pochi. Un mezzo flop (per la cosiddetta società civile). Sufficienti…mah! Sarà, ma in una regione che vive di simboli l’assenza è un simbolo. Vuol dire che – per i cittadini comuni – esporsi è rischioso. Dargli torto? Beh ognuno è padrone del proprio destino e delle proprie azioni ma un dato è certissimo: la popolazione trova (più) coraggio quando lo Stato c’è. E se continuerà ad esserci sulla lunga, lunghissima distanza, quei 200 saranno di più. Altrimenti meno. O nessuno. Forse non ci sarà più neppure De Masi, espatriato.

Quel giorno, però, lo Stato c’era ed era annunciato (alcuni di loro avevano seguito in mattinata a Palmi il processo All Inside che ha condannato decine di persone e messo sotto ulteriore scacco la potentissima cosca Pesce di Rosarno che ringraziando Iddio sta vacillando sotto i durissimi colpi della Giustizia, tra arresti, condanne, sequestri e confische).

Lo Stato al gran completo (nella lettera di De Masi di quel giorno ai manifestanti troverete l’elenco completo e ad essa rimando). C’era la Procura, c’era la Questura, etc etc. Un colpo straordinario perché le fila erano compatte e mandavano e mandano un messaggio inequivocabile: noi ci siamo, lo Stato c’è.

Certo, facciamo attenzione: vince chi resiste e non chi sfila o appare una volta e – dunque – la presenza dello Stato deve essere messa alla prova sulla lunga distanza e non in un solo giorno di primavera.

La presenza di un fuoriclasse come il questore Guido Longo (solo per citare un nome senza mancare di rispetto agli altri) lascia però sperare che le indagini su quell’attentato – vedrete se sbaglio – proseguiranno spedite e con buone possibilità di capire quali mani criminali abbiano lanciato quel messaggio di morte inequivocabile all’imprenditore. Anche perché – cari amici calabresi – purtroppo non è che le Forze dell’Ordine abbiano da spaziare tra mille denunce. Da giugno 2012 a oggi una sola denuncia: quella di De Masi. Fantastico no?

Resta il fatto che resteranno da capire i motivi di quell’attentato.

E qui mi sbilancio su quel che penso io: 1) ingresso nel Porto; 2) traffico di droga e armi.

Ricapitolo brevemente perché a buon intenditore poche parole: 1) nel Porto, De Masi non deve entrare, non deve rompere con le sue attività un equilibrio delicatissimo (usando un eufemismo) e meccanismi rodatissimi (usando un altro eufemismo); 2) i traffici di droga e armi (che a Gioia Tauro proliferano) vengono messi a rischio se De Masi arriva a rompere le uova nel paniere con il ricovero dei container vuoti. Punto. Oltre non vado anche se potrei andare.

Ora, proprio il narcotraffico mi dà la possibilità di usare un gioco di parole usando un bellissimo ricordo di De Masi sulla scimmietta che il padre regalò a lui e ai fratelli di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari. Ci fu chi pensò di far pagare (in tutti i sensi) quella sfacciata ostentazione di un animale esotico quando sulla Piana si moriva di fame.

Beh, è il caso di dire che l’evoluzione della Piana di Gioia Tauro in 40 anni è tutta qui: dalla “scimmietta”, usata come obiettivo per un’estorsione alla famiglia De Masi denunciata e fallita, alla “scimmia”, vale a dire il modo in cui molte generazioni hanno chiamato (e forse chiamano ancora) il ricorso alle sostanze stupefacenti. Tutto nacque dal libro “La scimmia sulla schiena” (“Junkie”, edito nel ’53 ma arrivato in Italia nel ‘62) di William Burroughs, capostipite della beat generation, che in maniera fredda, impassibile, con obiettività scientifica sperimentò su se stesso e descrisse gli effetti del ricorso alle droghe.

Buona lettura, visto che di seguito troverete il discorso tenuto da De Masi. E’ educativo e formativo e aggiungere altro non è necessario. In questi due aggettivi c’è tutto.

r.galullo@ilsole24ore.com


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LA LETTERA LETTA DA ANTONIO DE MASI

Illustrissimi Signori, Autorità tutte, vi ringrazio di Cuore per la vostra presenza.

Ognuno di voi che oggi è qui ha contribuito con la sola presenza a rafforzare la speranza di un cambiamento, e certamente a dare anche un segnale molto forte e chiaro della presenza dello Stato e cosa ancor più importante della società civile; una società fatta da uomini e donne che vogliono riprendersi la libertà ed il diritto di vivere in una terra libera da vincoli, soprusi ed angherie, senza più padrini e padroni.

Grazie a nome mio e di tutta la mia famiglia, dei miei dipendenti che forse possono ancora sperare in un domani lavorativo.

La mia famiglia ha dietro le spalle oltre 35 anni di lotte alla criminalità; era il dicembre del 1987 quando ai media e subito dopo, davanti alle telecamere della Rai, abbiamo fatto le prime denunce pubbliche delle aggressioni mafiose subite. Così facendo abbiamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale la violenza della ndrangheta, mettendoci la faccia in maniera forte e chiara. Siamo stati i primi in Italia ad aver chiuso l’azienda per mafia e quella vicenda creò molto scalpore per i servizi giornalistici fatti dall’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe, dimostrando in tale vicenda anche il ruolo primario che possono avere i media in queste battaglie .

Quegli anni erano contrassegnati dai sequestri di persona e da un’assenza quasi totale dello Stato; ebbene in quegli anni, in Calabria, un’azienda disse basta all’aggressione criminale, arrivando a chiudere. Ciò è stato un capitolo importante, certamente doloroso, della storia della mia famiglia sia per i sacrifici e le privazioni subite che per essere stati emarginati in quanto, avendo sempre denunciato, fummo considerati all’epoca e non solo dal tessuto sociale degli “infami”.

Rammento alcuni episodi al riguardo che riaffiorano alla mente. Episodi che danno il senso di alcune cose, come quando, con noi figli ancora piccoli, mio padre portò a casa, di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari, che era la più importante manifestazione fieristica d’Italia, una piccola scimmietta. Quell’animaletto era la gioia di noi 5 figli ma l’arrivo della scimmietta è stato seguito da una lettera estorsiva che diceva testualmente: “tu hai la scimmietta e noi moriamo di fame, portaci i soldi sotto la pietra del mulino”. Mio padre lo fece, ma avvertendo prima i carabinieri che arrestarono gli estortori con i soldi in mano. Ricordo quest’episodio come fosse ieri, anche perché in quel periodo mio padre era a letto malato, e due grandi marescialli dell’arma raccolsero la denuncia ed agirono subito. Questo è avvenuto circa 37 anni fa non al nord ma nel sud in Calabria, a Rizziconi .

Negli anni successivi poi, sempre in presenza di lettere anonime con richieste di danaro e nostre denunce, i carabinieri prepararono la confezione con il denaro utilizzando i primi segnalatori, che in quell’occasione si danneggiarono a causa delle vibrazione del frigo sul quale l’estortore poggiò il pacco. Per non parlare delle intimidazioni subite facendoci trovare la dinamite sul tavolo ed i fiammiferi a lato ed i diversi attentati dinamitardi subiti. Potrei raccontarne decine di queste storie come numerosi sono i volti di questi criminali che ci hanno rovinato la vita facendoci vivere privati del valore primario della libertà.

Questa è una parte della storia della famiglia De Masi in questa terra dove 40 anni fa parlare di legalità era come bestemmiare in chiesa.

Io ed i miei fratelli siamo stati educati e cresciuti in questo contesto, passando notti con mio fratello sul balcone di casa, o dormendo all’aperto su un materassino, con il fucile sottobraccio a fare la guardia. In quegli anni ricordo bene come tenevamo in casa i fucili in bella vista perché così facendo chiunque fosse venuto avrebbe avuto ben chiaro il fatto che non avevamo paura delle minacce.

Dal dicembre del 1987 alla sera del 12 aprile del 2013 sono cambiate molte cose.

All’epoca la posta in gioco era l’estorsione criminale: volevano i soldi, volevano rubare il frutto del nostro lavoro. All’epoca abbiamo risposto con un braccio di ferro molto duro e resistito, in quanto era difficile che per una mancata estorsione ti ammazzassero.

Oggi quello che è successo è tutt’altra cosa.

Chi conosce la tipica escalation dell’aggressione criminale sa bene che dietro 44 colpi di Kalashnikov e due proiettili a terra inesplosi, non c’è una semplice estorsione, ma molto di più, qui infatti l’intimidazione subita è partita dal massimo livello, con l’impiego dell’arma militare, per far capire che il prossimo obiettivo potrebbe essere la tua vita.

Questo messaggio credo sia chiaro a tutti e di fronte a ciò siamo chiamati ad essere razionali, al di là di avere coraggio o meno.

Nei primi giorni è prevalsa in me non la rabbia, l’odio o sentimenti analoghi, ma la ragione e la rassegnazione, e per questo motivo ho detto ai media che il messaggio è stato recepito, e che lo stesso era stato chiaro e forte. E’ stato un momento di grande sconforto ed amarezza e forse anche di voglia di gettare la spugna, ma il guardarmi intorno e vedere i volti di tanta gente, i nostri lavoratori e le loro famiglie, gli attestati di stima e solidarietà ricevuti, la vicinanza concreta, autorevole ed intelligente dello Stato in tutte le sue forme, i richiami ai miei doveri di imprenditore e certamente il mio carattere, la mia rabbia e la consapevolezza che in gioco sono valori primari come la libertà ed il futuro di tutti, mi hanno portato, ci hanno portato insieme, a dire: “andiamo avanti”.

Noi tutti, la mia famiglia, siamo qui a metterci la faccia per dire che continueremo il nostro lavoro, stiamo qui dicendo con forza di lasciarci in pace perché noi vogliamo lavorare, fare impresa e far crescere le aziende per contribuire a dare un futuro a questa terra disgraziata. Io non ho paura, noi non abbiamo paura; noi siamo qui, come hanno fatto i nostri antenati partigiani, a combattere una lotta per la liberazione di questa terra da quei padrini che l’hanno massacrata, che hanno distrutto il futuro dei nostri e vostri figli.

De Masi è e vuole continuare ad essere il nome di una famiglia di imprenditori che fa impresa e crea occupazione nel nome della “legalità” vissuta e praticata e della vicinanza allo Stato.

Io credo che al di là delle autorevoli presenze e delle gravissime assenze, oggi la posta in gioco è altissima; noi non possiamo perdere, questa battaglia deve avere un solo ed unico risultato, la vittoria! Credo che stare al fianco delle aziende sia un fatto importante e determinante e forse oggi proprio da qui può avere origine quella rivoluzione culturale che in Sicilia, anche partendo dal mondo delle imprese, ha cambiato le cose.

Finisco questo mio intervento, ringraziando di cuore tutti: le forze dell’ordine tutte, il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Raho, S.E il Prefetto Piscitelli , il Questore Dr Longo ed in modo particolare il Col. Falferi e tutti i suoi uomini, il Capitano Cinnirella, ed a il Ten. Ceccagnoli e gli uomini della scorta e l’autorevolissima presenza degli uomini dell’Esercito italiano qui rappresentato dal comando logistico di proiezione agli ordine del Col. Francesco Cardone.

Un Grazie particolare va poi a Libera, a don Luigi Ciotti ed all’Osservatorio sulla ‘ndrangheta rappresentato da Claudio La Camera.

Poi io non sarei qui se non avessi avuto la presenza al mio fianco di Don Pino De Masi a cui molto devo, sia per avermi sopportato con le mie ansie ed angosce che per avermi sempre dato la speranza e la fiducia. Da cattolico credo che la Chiesa, in territori difficili come il nostro, debba riprendersi la missione di “condurre il gregge” sulla dritta via, ed uomini come don Pino sono l’esempio concreto dell’agire.

Don Pino tu hai rappresentato per me la strada ed il punto di rifermento, grazie di tutto e scusami.

Infine una parola la debbo a tutti i miei familiari che con la mia caparbietà ho spinto ad un forte coinvolgimento, forse oltre il dovuto.

Grazie ancora a tutti


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/05/dietro-lattentato-a-nino-de-masi-a-gioia-tauro-dalla-scimmietta-alla-scimmia-la-lettera-dellimprendi.html
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 13, 2013, 11:05:34 am »

13 maggio 2013 - 9:00

Francesco Calabrese: «Io, imprenditore onesto, vi racconto perché i reggini hanno paura e come i dipendenti boicottano la macchina comunale»


Cari lettori, forse molti di voi ricorderanno che l’8 aprile, su questo blog e il 10 aprile sul Sole-24 Ore, ho raccontato una delle tante storie di ordinaria follia italiana.

Riguardava l’imprenditore reggino Francesco Calabrese, che detiene il 51% della Taeec  (Technology-aspiration-environmental-ecology-construction) ma, soprattutto, che dal 2011 attende dallo Stato 190mila euro per lavori d’urgenza fatti a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), allora colpita dall’alluvione.

Bene, forse molti di voi ricorderanno anche il mio articolo su questo blog il 3 maggio (ad esso rimando) nel quale, anche utilizzando la durissima critica fatta dal Procuratore della Repubblica Federico Cafiero De Raho alla cittadinanza reggina, “schiava della paura” ma senza più alibi, ricordavo che all’incontro con lo stesso Procuratore organizzato il giorno prima dall’associazione Riferimenti in un cinema cittadino, c’erano i soliti quattro gatti. E dire che l’occasione era straordinaria.

Ricorderete che - provocatoriamente e paradossalmente  -scrissi che se in quel cinema ci fosse stato un evento organizzato dalla cosca De Stefano (che in città e fuori detta legge) quella sala sarebbe stata piena e la coda sarebbe arrivata in strada.

Dopo quell’intervento ho ricevuto una lettera dell’imprenditore Calabrese. Anzi due. Una più dura e cruda dell’altra sullo stato di agonia in cui versa Reggio Calabria. Con la prima – contestualmente – mi informa che la richiesta di avere legittimamente quei 190 mila euro non ha fatto un millimetro di strada: è ancora lì che aspetta.

Ve le propongo pari pari perché descrivono dall’interno (Calabrese è infatti reggino) la fine annunciata di un capoluogo (mezzo) e della regione.

Buona lettura.

r.galullo@ilsole24ore.com


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LA PRIMA LETTERA (SULLE VICENDE CITTADINE)

Dottor Galullo ,

al solito Lei a differenza di altri ha qualcosa in più, il suo intuito e la sua esperienza su queste problematiche centrano in pieno le verità di questa terra.

Tante volte lo sento crudo nei nostri confronti, (nei confronti dei reggini) ma ha pienamente ragione, la nostra cultura, il nostro sentirsi intelligenti tante volte ci fanno pagare prezzi cari.

Il prezzo che paghiamo e proprio quello che non volendo cambiare ci ritroviamo a morire asfissiati da questi quattro balordi (quattro per modo di dire).

Nell’articolo che lei ha pubblicato sul suo blog leggo una frase che dice: “Di che cosa hanno paura i reggini”.

Vorrei parlare di queste paure. Io oggi ho 39 anni e da quando ero ragazzino (12-15 anni) si sentiva parlare in città sempre delle stesse problematiche.

Oggi a distanza di tempo i miei figli sentono parlare delle stesse cose.

Ero appunto ragazzino quando si sentiva parlare di guerra di mafia tra famiglie, si macellavano circa due tre/persone al giorno, tutto nella nomale routine quotidiana e ricordo tante di quelle persone protagoniste (gli attori principali ) di quella guerra che in questi anni sono entrati ed usciti dal carcere decine di volte (entrarci per l’ennesima volta sarebbe una “passiata”, cosi dicono quando si vantano).

Gli abitanti dei quartieri, abitualmente, quando uno di questi usciva dal carcere, creavano una fila di fronte casa per andarlo a salutare portando soldi e viveri oltre a i saluti di bentornato…

Di certo tra questi, tanti avevano paura, chi per le proprie attività, chi per ovvie ragioni di lavoro. Hanno sempre pensato che con i don si possa campare (non progredire: campare).

E’ normale. A memoria ricordo questa gente sulla settantina, come i vincitori nei confronti dello Stato, hanno fatto quello che hanno voluto per anni per decenni e quindi il reggino riconosce loro come un potere forte indistruttibile.

Credo che la vera paura dei reggini sia questa: le famiglie di ndrangheta sono più potenti dello stato…Nessuno pensa di passare dal lato dello Stato altrimenti saranno guai. Anche dopo decenni pagherai lo sgarro.

E credo che lo Stato in questi vent’anni abbia avuto bisogno di loro (per voti etc) e in cambio ne abbiamo pagato le spese noi, rimanendo nella regressione totale. Questo il reggino lo sa è ha paura.

Dottore lei me lo deve consentire di dire, e va detto: i reggini hanno paura perché lo Stato non c’è stato negli anni 85/ 2000, poi dopo la strage di Duisburg ha fatto la scenetta di scoprire in casa la potentissima mafia a livello mondiale, la ndrangheta. Se lei nota, delle famose retate di Cortese, Pignatone e colleghi, tantissimi arrestati sono fuori, sono tornati ai loro posti. Questa è la paura dei reggini ritrovarseli dopo due mesi li, dove li avevi lasciati.

Noi del Sud abbiamo bisogno di leggi su misura solo per noi, pene pesantissime, niente sconti, e processi corti anzi cortissimi. Li forse il reggino, il politico,il pecoraro, e tutti comincerebbero a capire chi comanda.

Può non condividere su quanto detto, questo è il mio pensiero

Buon lavoro Galullo

Francesco Calabrese


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LA SECONDA LETTERA (SULLE VICENDE COMUNALI)

Caro dottore,

a parte il mio problema, le volevo raccontare una delle piccole storielle di cattiva amministrazione che capitano tra le mura degli uffici comunali di Reggio Calabria.

Vanto un piccolo credito con il Comune di Reggio Calabria: esattamente 8000,00 euro per dei servizi prestati al Comune in occasione di una festa dell’Arma dei Carabinieri nel 2010.

Ad occuparsi di quest’evento è stato l’ufficio U.O. Cultura, immagine e turismo di Reggio Calabria.

Bene. Dopo tanti mesi trascorsi mi sono rivolto a questo ufficio per ricostruire un pò la pratica (esattamente 20 giorni fa). Premesso che questa è una delle tanti sedi distaccate del Comune, all’interno ho notato un covo, un nascondiglio, non so come definirlo, ma di certo non era un ufficio. Ci lavorano almeno una dozzina di soggetti che tutto fanno tranne che lavorare. Vedi il solito giornale, Iphon ,solitari,qualcuno che controlla il portone d’ingresso o sbircia dalla finestra. Quasi una prigione. Ma sicuramente era la conseguenza del casino di quei giorni sulle indagini ai dipendenti comunali.

Entrato ho notato l’aria di disturbo che avevo arrecato chiedendo un semplice documento e le decine di stupide scuse che prendevano pur di toglierti dalle scatole. Mi fanno ritornare dopo una decina di giorni per ritirare la copia della pratica perché il dirigente non c’era. Ritorno come richiesto è stavolta non c’era né la pratica, né il dirigente, né la capoufficio che avevo incontrato in precedenza. Ritorno Martedì scorso, solita aria: tutti inerti sulle scrivanie, tutti mi guardano con aria sospetta, appena chiedo, hanno già dimenticato di cosa si trattava, mi dicono di ritornare un altro giorno. Stamattina mi alzo come al solito di buon ora e mi dirigo verso il centro per essere in quell’ufficio all’apertura, convinto di ritirare un pezzetto di carta. Non ci crederà: non c’era né il dirigente né la capoufficio. Il personale infastidito al solito per il disturbo arrecato mi ha detto senza molte parole di ritornare.

Bè che dire si trattava in fondo di una piccola pratica posata dentro un faldone alla portata anche dell’usciere .A me torna utile per poter intraprendere un azione legale contro il comune e recuperare i miei soldi. Loro continuano a derubare il comune con la loro inerzia, e a mettere in difficoltà il Commissario Panico boicottando l’efficienza del servizio.

Cambiare a Reggio è difficilissimo: Acambiare tutto e tutti. Questa gente è di una cultura talmente ottusa e stupida che ti vien la voglia di mandarli a quel paese pur di non averci a che fare. Si figuri se potrebbero avere la mentalità di partecipare al Cilea in occasione della giornata della Gerbera Gialla.

Cordiali saluti

Francesco Calabrese


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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/05/francesco-calabrese-io-imprenditore-onesto-vi-racconto-perch%C3%A9-i-reggini-hanno-paura-e-come-i-dipendenti-boicottano-la-m.html
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:19:32 pm »

15 maggio 2013 - 6:19

Polveriera calabra: aggiungi un posto a tavola che c’è un Cafiero De Raho in più – Muro contro muro con la politica e oggi si replica 3 volte!

Cari lettori per capire cosa è oggi Reggio Calabria – una polveriera nella quale basta il gesto di un folle per incendiarla – vi racconto un episodio che la brava collega Alessia Candito ha appena accennato su www.corrieredellacalabria.it in un ampio servizio dedicato il 5 maggio all’incontro con il capo della Procura Federico Cafiero De Raho, organizzato dall’associazione Reggio Non Tace.

Ve lo descrivo perché nella vita contano i dettagli, tanto quanto nello charme di una donna elegantemente vestita contano le calzature: rappresentano il 100% del fascino, altro che l’abito.

E quando i dettagli, in una città come Reggio Calabria, coincidono con i simboli, allora è davvero il caso di interrogarsi sul tempo che è rimasto prima che la polveriera esploda o – mutatis mutandis - prima che lo Stato disinneschi la miccia.

L’episodio è vero, legittimo e reale – come si direbbe giocando a sette e mezzo – e testimonia la tensione che si vive in città, che non può del resto essere sopita visto lo stato in cui versa il Comune (dove la terna commissariale sta incontrando ostacoli insormontabili), lo stato in cui versa la Procura (ancora messaggi inquietanti di delegittimazione prossima ventura da parte dei megafoni dei sistemi criminali nei confronti del pm Giuseppe Lombardo e inquietanti avvisi capitolini che si sta battendo contro i mulini a vento), lo stato in cui versa la Regione (con una confusione a dir poco pazzesca in Giunta e Consiglio) e lo stato in cui versa…lo Stato (visto che la miscela esplosiva fatta di servitori infedeli e servizi deviati la fa ancora da padrona).

IL TAVOLO E’ OCCUPATO, ANZI NO

L’episodio ha coinvolto in prima persona il capo della Procura che, arrivato da pochissimi giorni e al termine di una giornata di lavoro, era andato a pranzo con il collega Francesco Curcio, applicato della Dna. Un suo amico di lunga data (hanno lavorato insieme a Napoli). Uno di quelli su cui si fonderà il pool che ha in testa Cafiero De Raho.

Il ristorante dove avrebbero voluto pranzare era chiuso. Poco male: a Reggio i buoni ristoranti non mancano. Basta girare l’angolo, fare poche centinaia di metri e il posto giusto è la. Si scende dalle macchine e si entra – con le scorte – nel locale.

Ma qui avviene quel che analisti distratti (o compiacenti) potrebbero sottovalutare. Il locale è semivuoto (ad essere generosi) ma il posto a tavola per il capo della Procura e per il suo collega non c’è. Non si trova, nonostante i due clienti abbiano fatto presente che bastava guardarsi intorno…C’era solo l’imbarazzo della scelta!

Qui accade il contrario di ciò che sarebbe accaduto oggi in quella Casal di Principe che pure il capo della Procura per la prima volta ha richiamato il 2 maggio (si veda articolo in archivio di questo blog del 3 maggio) come pietra di paragone con l’attuale e disperante stato in cui versa la città di Reggio Calabria, impaurita anche della propria ombra.

A Casal di Principe, Napoli o Caserta i ristoratori si sarebbero fatti in quattro per trovare un tavolo, a costo di portare il conto agli ultimi arrivati ancora in attesa delle portate. O a costo di spedire tutti i clienti in cucina e apparecchiare “per sua eccellenza il Procuratore”. Scaltrezza campana ma – al tempo stesso – rispetto per la Giustizia, fosse anche formale o per tornaconto.

A Reggio no. L’ospite inatteso – sfido qualunque ristoratore di Reggio a sostenere di non riconoscere Cafiero De Raho nonostante il suo fresco arrivo, non fosse altro che per la scorta armata fino ai denti che si porta giocoforza dietro – viene cortesemente ma fermamente invitato a desistere.

Ma qui accade il contrario di quanto un comune cittadino potrebbe fare nelle stesso condizioni. Il capo della Procura e il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia restano in piedi. Fermi ad aspettare gli eventi.

Sorpresa che si trasforma (sempre troppo tardi) in accondiscendenza. Sbuca da un angolo un signore…et voilà, il tavolo che prima non c’era, si trova. E ci credo: non c’era nessuno!

LA POLITICA ALLA LARGA

L’episodio, che da negativo si trasforma in positivo o, quantomeno, assolutamente “naturale” visto l’epilogo logico, la dice lunga sulla paura, sulla tensione e sulla mancanza di punti di riferimento di una città smarrita. Anche il solo ingresso di un procuratore in un ristorante “confonde” e manda nel panico.

Questo accade e può accadere solo in un territorio in cui le tenaglie dei sistemi criminali rendono la gente incapace di intendere e volere per il meglio. Gesti “contro natura” verrebbe da dire, che pure accadono quando lo Stato (o meglio: parti importanti dello stesso) è venuto meno al suo ruolo di garante della legalità e quando le Istituzioni (rectius: parti importanti delle stesse) non sono state in grado di garantire linee di sviluppo socioeconomico ad una città e ad una regione tutta allo stremo.

Non è un caso che Cafiero De Raho sia andato allo scontro diretto con la classe politica, con parole durissime che riprendo dalla puntale cronaca di Alessia Candito: «In un territorio così condizionato è difficile pensare che in due anni il voto possa tornare a essere libero. Nei territori che vedono l’esistenza di gruppi criminali forti, magari bisogna trovare dei meccanismi di vigilanza aggiuntiva che non sospendano la democrazia ma che tengano conto delle dinamiche presenti in contesti di questo genere. Quando i commissari andranno via, è probabile che il Comune torni nelle mani di quelli che ne hanno provocato lo scioglimento, allora bisogna iniziare a muoversi da subito. Se i politici che dovrebbero starci vicini sono quelli che hanno portato allo scioglimento del Comune, allora preferisco che stiano ben lontani».

Queste parole – ripeto, pronunciate il 5 maggio nel corso dell’incontro organizzato dall’associazione Reggio Non Tace, la cui anima è padre Giovanni Ladiana – giungono a poche ore di distanza da un altro evento, di cui vi ho raccontato in questo blog il 2 e 3 maggio (rimando all’archivio).

In occasione delle due giornate di incontri e dibattuti organizzati dall’associazione Riferimenti, a nessuno sono sfuggite due coincidenze (la terza, come amava dire Agatha Christie sarebbe stata una prova). Il giorno in cui i ragazzi sfilavano con una gerbera gialla da sventolare e depositare in ricordo della vittima di ‘ndrangheta Gennaro Musella, la giunta regionale si riuniva. Coincidenza. Pura coincidenza. La politica ha i suoi tempi. Che non coincidono – casualmente – con quelli dei ragazzi che sfilano contro le mafie, la corruzione e la violenza.

Nelle stesse ore in cui tutto questo accade, accade anche la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Piero Grasso, arrivi in città senza che un-politico-uno lo accolga (eccezion fatta, a quanto mi risulta, per il presidente del consiglio regionale calabrese Francesco Talarico, ma solo perché se lo ritroverà fianco a fianco il 3 marzo nel corso della premiazione Gerbera Gialla).

La cosa non è sfuggita alla città tutta che – per i motivi descritti sopra – ha desistito dal commentare o prendere posizione. Salvo poche eccezioni rappresentate, ad esempio, dagli 88 ragazzi e ragazze della Rete degli studenti delle scuole superiori e universitari Gerbera Gialla, che alcuni giorni fa hanno diffuso e singolarmente frimato una nota dall’oggetto incontrovertibile: «Quale classe politica ha la Calabria? Denuncia degli studenti .Nessun politico ad accogliere il Presidente del Senato in Calabria».

Nella lettera – che continua ad essere aperta a firme e adesioni – si legge, tra le altre cose: «…eravamo in 10mila a sfilare per le strade della Città dello Stretto: studenti delle scuole elementari, medie, superiori e dell’università. Da San Luca a Scampia da Rosarno a Ciro', da Vibo a Cosenza, Crotone e Reggio...Ci ha fatto molto male, però, constatare l’assenza delle Istituzioni Calabresi che denunciamo con forza  per non essere da loro rappresentati così' come dovrebbero e come noi vorremmo.

Il 3 maggio non c'era un politico che sfilasse al nostro fianco; non c'era un politico ad accogliere il Presidente del Senato,seconda carica dello Stato al cui cospetto ,questa terra non è' stata rappresentata se non da noi e dalle alte cariche: prefetti, magistrati e massimi rappresentanti delle Forze dell'ordine.

Il Comune di Reggio Calabria, si sa, è sciolto per mafia ed era rappresentato dal Commissario. Ci chiediamo ,però dove fossero gli altri: a partire dalla Provincia di Reggio, assente in tutte le sue componenti per finire al Governo regionale.

E’ stato un segnale davvero pessimo, soprattutto per la condizione della nostra terra, schiacciata dal potere mafioso e aggredita da gravi emergenze sociali.

Ci chiediamo: ma la Calabria ha una classe politica che la rappresenta nelle Istituzioni o è figlia di nessuno così come è apparsa agli occhi del Presidente del Senato il 3 maggio?

Calabria uguale 'ndrangheta? Per quel che ci riguarda non di certo ma riteniamo che la nostra classe politica sia lontana anni luce dalla voglia di riscatto e ribellione delle nostre coscienze.

Anche il comportamento di qualche mezzo d’informazione locale non va sottovalutato. Qualche televisione privata della città, il cui editore, guarda caso, è in politica, ha oscurato la manifestazione e questo la dice lunga. Certo ognuno ha la facoltà di pubblicare o mandare in onda ciò che preferisce! …Ad arrossire nei confronti del presente deve essere una politica latitante che non rappresenta la ribellione di questa terra nè la nostra. Che si vergognino tutti coloro che si sottraggono al dovere etico della denuncia».

Benedetti ragazzi prendete esempio dal capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria: con la classe politica reggina e calabrese esiste una sola cosa. Il muro contro muro. Il più forte resterà in piedi e a partire da quello sarà (forse) costruita la nuova città.

A GRANDE RICHIESTA…

Oggi si replica e sarà interessante vedere come si muoverà la città alle prese con tre eventi. Il primo, alle 10, organizzato ancora da Riferimenti, è al Teatro Siracusa. Un incontro con gli studenti, aperto al pubblico. Ospite Antonino Di Matteo, oggi più che mai al centro dell’attenzione per le minacce ricevute (si vedano in questo blog, nell’archivio, i recenti servizi del 4, 9 e 19 aprile e 5 maggio).
Alle 16.30, presso la Sala dei Lampadari Palazzo San Giorgio, in un incontro anch’esso aperto al pubblico e alla stampa, saranno protagonisti ancora Di Matteo, Giuseppe Lombardo, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria e Adriana Musella, presidentessa del Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti. Si parlerà di intrecci Stato-mafia, a meno di due settimane dall’inizio del grande processo sulla trattativa a Palermo (diretta streaming su www.riferimenti.org e possibilità di intervenire direttamente in chat con il numero 348 41 32 891).

Alle 20.30, invece, il procuratore capo Cafiero De Raho parlerà con Roberto Saviano del suo ultimo libro e dei temi che, inevitabilmente, girandoci intorno, non potranno che passare anche da Reggio e dalla sua cupola mafiosa.

Le tre di oggi saranno repliche a grande o piccola richiesta? Ve lo racconterò dopo che le avrò vissute.

r.galullo@ilsole24ore.com

 

P.S. Su www.ilsole24ore.com domani, come ogni giovedì non perdete “ORA LEGALE – Lezioni di antimafia di imprese e società”. E’ uno spazio di approfondimento giornalistico che ogni settimana racconta storie e volti di imprenditori, commercianti, professionisti, uomini e donne, associazioni e istituzioni che si oppongono in tutta Italia alle mafie e combattono – con i fatti e non a parole – per la legalità. ORA LEGALE – Lezioni di antimafia di imprese e società potrete trovarla anche cliccando su qualunque motore di ricerca a partire da Google. Attendo anche le vostre storie da indirizzare
a r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/05/polveriera-calabra-aggiungi-un-posto-a-tavola-che-c%C3%A8-un-cafiero-de-raho-in-pi%C3%B9-muro-contro-muro-con-la-politica-e-o.html
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:34:38 pm »

14 giugno 2013 - 9:23

Lo Giudice, “nano spentito” calabrese ma col pallino dei servizi segreti in Sicilia: nel suo memoriale Gladio e gli omicidi di agenti del Sisde

Ci sono parti del memoriale e del video di Nino Lo Giudice, il “pentito calabrese pentito di essersi pentito e che forse si ripentirà del pentimento”, consegnati a più di un mittente, sulle quali vale la pena di soffermarsi.

Però, come vedete – amati lettori di questo umile e umido blog – nonostante tante siano le sollecitazioni, da quando il “memoriale smemorato” è stato diffuso (da me per primo sul portale del Sole-24 Ore) ne sto alla larga per le parti che toccano le radici calabresi.

La mia sensazione – confidata ad alta voce – è che per il momento è meglio stare ad aspettare. La partita di tennis è iniziata da poco ed è bene fare lo spettatore e non il giudice di linea e tantomeno l’arbitro (cosa quest’ultima che non spetta mai ad un giornalista).

COSTRETTO (?) A PARLARE DELLA SICILIA

La parte che vorrei analizzare con voi è quella nella quale Lo Giudice – chiamando in causa il sostituto procuratore nazionale antimafia Gianfranco Donadio – entra (volontariamente o indotto non sta a me dirlo) in una parte più grande di lui, mischiando nomi e situazioni che a lui (forse) non diranno nulla ma che, ad una lettura più attenta, sembrano fatti apposta per un film sulla Spectre mondiale. A lui – calabrese – seconda l’accusa che egli stesso fa, sarebbe toccato il compito di raccontare di alcune  scottanti vicende accadute in Sicilia. E a lui sarebbe toccato addentrarsi nei misteri profondi che chiamano inevitabilmente in causa anche la parte più sporca dei servizi segreti.

Ieri, ci informa la collega Alessia Candito su www.corrieredellacalabria.it. il procuratore capo Federico Cafiero De Raho ha annunciato che la Procura sta «formando due fascicoli, uno andrà a Perugia, uno andrà a Catanzaro. Si tratta di fascicoli perché oltre al memoriale, verranno allegati tutti gli atti e gli accertamenti preliminari che la Procura di Reggio ha ritenuto di fare». Ai magistrati di Catanzaro, competenti sui profili riguardanti i colleghi in servizio a Reggio, spetterà valutare se e quanto ci sia di vero nelle pressioni che il “nano” ha denuncia di aver subìto da quella che lui appella «cricca». Alla Procura di Perugia, invece, spetterà l’analogo compito nei confronti proprio di Donadio* che secondo Lo Giudice, allegando video e decreto di citazione di un colloquio investigativo nel carcere di Rebibbia pochi giorni prima del Natale 2012, lo avrebbe obbligato a riferire particolari di cui non era a conoscenza. Il Sole-24 Ore - attraverso chi scrive - al momento della diffusione del memoriale e del video, altamente diffamatori per un magistrato del calibro di Donadio* oltre che per gli atri magistrati coinvolti nel suo scritto e nel suo video, ha contattato il magistrato della Dna per avere un commento sul memoriale stesso e sul video ma si è sentito opporre un gentile ma fermo diniego. Il magistrato Donadio* ha dichiarato ancora una volta a chi scrive che il silenzio in questo momento è d'oro e che il tempo sarà galantuomo. Principio valido anche per gli altri magistrati chiamati in causa da Lo Giudice e se i segni sono importanti, va notato che Federico Cafiero De Raho sta lavorando come un solo ufficio, a testimoniare l'importanza del gruppo che non viene intaccato dalle chiacchiere, anche con alcuni di quei magistrati chiamati in causa dal "nano", a testimonianza che le chiacchiere sono chiacchiere (quelle di Lo Giudice) e i fatti sono fatti (quelli della Procura). Inutile far notare a Donadio che in un momento come questo sarebbe stato forse il caso di dire la sua.

IL MEMORIALE

E allora trascriviamola quella parte sulla quale già ieri ho svolto alcune riflessioni (rimando al post in archivio). Secondo il “nano spentito”, lo scopo del colloquio investigativo di Gianfranco Donadio era quello di «impiantare una tragedia a persone a me sconosciute (tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta, ascolta registrazione integrale) ho subito forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti, accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio e, facendomi firmare quanto a lui conveniva, altresì, in tale circostanza mi veniva richiesto se ero a conoscenza se Villani era il vero killer che uccisero i Carabinieri a Reggio Calabria, in’oltre se a presentarmi tale Aiello fosse stato mio fratello Luciano e, io gli risposi di no, che era stato il capitano Saverio Stracuzzi e lui quando gli dissi così approvò con soddisfazione tale risposta, dopo volle sapere se io ero i possesso di fotografie di tale Aiello e risposi di sì, e come li avessi avuti, gli risposi che a farli era stato Antonio Cortese e lui accettò, poi mi disse se questo tizio mi aveva confidato qualcosa durante la nostra frequentazione e, di molto serio (degli attentati Borsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghesi) e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino avvenuto sempre in Sicilia.

Alla fine di questi discorsi chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo Aiello e una certa Antonella tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località balneare per trascorrere il periodo estivo».

Ora anche ad un orbo salterebbe all’occhio che il “nano spentito” prima dice che «tale Giovanni Aiello» era persona a lui sconosciuta poi, qualche riga dopo dirà che a presentarglielo non era stato il fratello Luciano ma «il capitano Saverio Stracuzzi». Ma non è di questa stranezza che voglio parlarvi – se cominciassi con le follie contenute nel “memoriale smemorato” non finirei più e mi periterò in questo esercizio solo quando sarà il momento – ma della miscellanea o, se preferite vista la stagione, della macedonia che Lo Giudice serve sul tavolo del depistaggio. Non so se consapevole, inconsapevole o parzialmente consapevole. Parimenti non so se in combutta con Tizio, Caio o Sempronio.

Tutto sembra ruotare intorno alle confidenze che durante la «frequentazione» (che a questo punto suppongo che sia inventata; o no?), quel tal Giovanni Aiello e quella tal Antonella gli avrebbero fatto di «molto serio»: dall’attentato a Borsellino all’omicidio di due poliziotti in borghese, per finire con un altro omicidio consumato ai danni di un bambino. I due baldi – Aiello e Antonella – dovevano essere al centro della “tragediata”.

L’OMICIDIO DEL BAMBINO

Non è compito mio (ma credo che mai si saprà la verità) giudicare chi e se abbia messo sul tavolo del “nano spentito” questo zibaldone di uova marce.

Abbiamo già detto e scritto che Lo Giudice imputa questi nomi e queste situazioni a Donadio ma – se mai così fosse – proporrei che Donadio* lasci la Dna per unirsi nella scrittura a Dan Brown. Sarebbe altresì pronto a ereditare la fantasiosa penna di Karl Stig-Erland Larsson, ahinoi prematuramente scomparso.

Di bambini scomparsi in Sicilia io ne ricordo uno e ho avuto la drammatica possibilità di vedere la sua camera di tortura e su quella pregare. Era il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, mafioso pentitosi. Fu rapito, strangolato e sciolto nell’acido l'11 gennaio del 1996, dopo 779 giorni di martirio.

Che c’azzecchi, direbbe Antonio Di Pietro, con gli altri riferimenti che il “nano spentito” fa (o che gli fanno fare) lo sa solo il buon Dio.

I POLIZIOTTI IN BORGHESE

Dando per scontato che l’unica cosa certa per la quale gli si potrebbe eventualmente chiedere conto è l’attentato a Paolo Borsellino (del quale credo che Lo Giudice sappia quel che so io del platipo, più volgarmente conosciuto come ornitorinco), per quanto mi sforzi di capire, proprio non comprendo come si possa mischiare tutto nel frullatore e soprattutto a chi giovi (state certi che a qualcuno giova).

I due poliziotti che vennero uccisi dopo il fallito attentato dell’Addaura ai danni di Giovanni Falcone, furono Antonio Agostino ucciso a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989 con la giovane compagna incinta e un collaboratore del Sisde, come del resto era Agostino, ex poliziotto, Emanuele Piazza, scomparso a Sferracavallo (Palermo) il 16 marzo 1990. La loro morte/scomparsa fu collegata alla presenza di un gommone e di due sub all’Addaura, dove avevano attentato alla vita di Giovanni Falcone. Sarebbero stati loro a evitare il peggio fingendosi sommozzatori. Solo ipotesi. Di certo c’è che il papà di Emanuele, Giustino Piazza, inviò una memoria alla Procura di Palermo nella quale scrisse: «…i funzionari della Polizia di Stato si sono limitati ad acquisire relazioni di servizio e non hanno svolto neanche le investigazioni di routine: di fatto hanno chiuso l’indagine senza alcuna acquisizione, come se, anziché scoprire volessero coprire chissà quali responsabilità… Il procedimento relativo alla scomparsa di mio figlio è stato successivamente archiviato… Sin dall’inizio delle indagini il Sisde ha negato l’appartenenza di Emanuele ai servizi…».

VOGLIO ANDARE AD ALGHERO

L’ultima fantasmagorica storia che viene accennata è quella del luogo di addestramento nel quale si sarebbero esercitati per «commettere attentati e omicidi» lo stesso Aiello e la fida segretaria Antonella. E dove si addestravano? Risposta: ad Alghero. In una base militare.

E qui, inconsapevolmente o meno chi lo sa, il “nano spentito” tocca un nervo delicatissimo e fa galoppare la fantasia nella prateria del Centro addeestramento guastatori (Cag) di Punta Poglina a Capo Marrargiu, pochi chilometri a sud di Alghero. E chi si addestrava lì? Secondo la storia e la leggenda, i “gladiatori” della Stay Behind de noantri.

In Italia, quando non si sa che collante trovare per i misfatti più folli, o si guarda alla P2 o a Gladio (e le connessioni tra loro non mancano).

L’ex capo dell’ufficio amministrazione del Sifar (l'ex Servizio di informazione delle forze armate) Luigi Tagliamonte, poi capo dell’ufficio programmazione e bilancio del comando generale dell’Arma dei Carabinieri, durante una delle varie inchieste che ruotarono intorno alla base di addestramento di Gladio dichiarò: «Sapevo che presso il Cag si effettuavano dei corsi di addestramento alla guerriglia, al sabotaggio, all'uso degli esplosivi al fine di impiegare le persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza,in caso che il Pci avesse preso il potere…»

Insomma anche i due baldi Giovanni e Antonella si addestravano alla pugna come i gladiatori. Ne facevano parte? Visto che la fantasia corre, la faccio correre anche io richiamando un pezzo del mio collega al Sole-24 Ore Beppe Oddo, che il 3 maggio 2012 scrisse: «Falcone non doveva occuparsi d'altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall'alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l'avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c'è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato (l’attuale capo della Procura generale di Palermo, ndr): “Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l'allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse”».

Il “nano spentito”: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. E con lui i coautori, se ci sono, della trama, degna di 007. Mi chiamo Lo Giudice…Nino Lo Giudice…

P.S * Oggi, 21 giugno 2013 ho incontrato Donadio ad un convegno a Rimini e gli ho chiesto, ancora una volta, di smentire le frasi calunniose e diffamatorie nei suoi confronti, contenute nel memoriale e nel video di Lo Giudice. Gli ho chiesto persino la possibilità di un'intervista in cui potesse fornire la rappresentazione delle cose. Niente da fare. Ancora una volta richiesta fermamente ma dolcemente respinta. Il tempo, ha ribadito, sarà galantuomo.

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« Risposta #55 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:36:12 pm »

8 giugno 2013 - 9:32

Il pool antimafia (gratis) del Governo - Garofoli, Cantone, Gratteri, Bianco e Spangher - parte dalla lotta al riciclaggio

Lo aveva anticipato in tv senza che i diretti interessati ne fossero a conoscenza ma ora lo ha messo nero su bianco.

Il premier Enrico Letta, dopo essere andato a “Che tempo che fa” il 5 maggio annunciando la nascita di una regia governativa contro le mafie, il 7 giugno ha tenuto fede all’annuncio e ha firmato il decreto (Dpcm) che istituisce, presso il Segretariato generale della Presidenza del consiglio dei ministri, la Commissione per l’elaborazione di proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità.

Il pool – che lavorerà a titolo gratuito – sarà presieduto dal magistrato del Consiglio di Stato Roberto Garofoli e ne faranno parte due magistrati della Cassazione, Raffaele Cantone ed Elisabetta Rosi, Nicola Gratteri (procuratore aggiunto a Reggio Calabria), il dirigente della Banca d’Italia Magda Bianco e il docente di Procedura penale Giorgio Spangher.

La Commissione, che informalmente ha cominciato a lavorare da due settimane ma che la scorsa si è riunita a Roma per la prima volta, entro 90 giorni, quindi verosimilmente alla ripresa dell’attività parlamentare a settembre, dovrà consegnare direttamente nelle mani di Letta un rapporto con l’analisi dei fenomeni mafiosi e le proposte sulla lotta alla criminalità organizzata.

Domani tornerà a riunirsi per affinare le proposte in materia di lotta al riciclaggio e auto riciclaggio (uno dei buchi neri della normativa italiana).

Su indicazione del premier, la Commissione potrà formulare anche singole proposte su temi specifici.

r.galullo@ilsole24ore.com


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« Risposta #56 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:37:08 pm »

21 giugno 2013 - 7:59

La rete di garanzia e protezione della cosca Acri-Morfò che parte da Rossano (Cosenza) e arriva a Vigevano (Pavia)

Quel che colpisce sempre più spesso nelle indagini contro la criminalità organizzata è la “rete” di garanzia e protezione che viene garantita sull’intero territorio nazionale. Una rete che consente non solo di essere celati agli occhi della Giustizia ma anche di estendere una trama di potere socieoeconomico che guarda sempre più al Nord.

Prendiamo, ad esempio, l’operazione Stop, con la quale il 19 giugno il Ros e il comando provinciale dei carabinieri di Cosenza hanno arrestato 28 esponenti della cosca Acri-Morfò di Rossano (Cosenza) a seguito di una misura coercitiva, emessa dal gip distrettuale di Catanzaro, Gabriella Reillo, su richiesta della Dda.

E dove sono avvenuti gli arresti? A Rossano (abbastanza logico), ma anche a Vigevano, Viterbo, Parma e Cuneo.

Tra i destinatari dei provvedimenti, oltre ad elementi di vertice della consorteria, anche un consigliere comunale, l’avvocato Ivan Nicoletti, eletto nel maggio del 2011 tra le fila della maggioranza di centrodestra che amministra il Comune di Rossano. Il professionista è stato sottoposto agli arresti domiciliari. Gli arrestati – 19 in carcere e 9 ai domiciliari – sono accusati a vario titolo dei reati di associazione a delinquere, tentato omicidio, estorsione, rapina, detenzione illegale di armi comuni da sparo e da guerra, di sostanze stupefacenti, procurata inosservanza di pena, violenza per indurre più elettori a votare un candidato specifico, illecita concorrenza e trasferimento fraudolento di valori. Sono stati eseguiti inoltre sequestri di numerosi beni mobili e immobili, società e conti correnti bancari per un valore di 40 milioni di euro.
Sono stati sequestrati 25 immobili, acquistati ad un prezzo complessivo di 2 milioni; 45 rapporti bancari, con saldi positivi per circa 160mila; 45 autoveicoli, acquistati ad un prezzo complessivo di circa 380mila euro; 7 polizze assicurative, per un controvalore pari a circa 20mila euro e 17 società, per un fatturato complessivo di circa 10 milioni.

LA CITTA’ DUCALE E…OSPITALE

A questa operazione dedicherò alcuni servizi (oggi il primo, gli altri la prossima settimana) sugli aspetti che più colpiscono di questa rete di protezione e garanzia.

Vigevano, per quei pochi che non la conoscessero, è una ex ricca città di provincia (30 km da Pavia e 45 da Milano) che ha perso la propria ricchezza, fondata sulla lavorazione della scarpa e sui macchinari per la calzatura. Bel tempo che fu. Oggi di quello smalto splendente non restano che croste opache. A produrre sono rimasti in pochi nella città ducale che, come molte città del nord, si dibatte tra chiacchiere da bar e chiacchiere politiche su come uscire dalla crisi. Ci sono più possibilità che una ricetta esca dagli avventori, magari avvinazzati, di un bar che dalle aule di un consiglio comunale, provinciale o regionale.

Ciò detto, colpisce che l’ordinanza dedichi amplissime parti al ruolo che questa cittadina – rectius: alcuni indagati da tempo residenti o addirittura nativi – ha avuto nella “confidenza” con la cosca Acri-Morfò di Rossano.

A Vigevano, infatti, trascorre un periodo di serena latitanza Salvatore Galluzzi, detto u rizzo, considerato tra gli organizzatori della cosca, sfuggito ad un ordine di esecuzione emesso dalla Procura di Catanzaro in esecuzione di una condanna divenuta definitiva il 27 maggio 2010. Il ruolo di Galluzzi quale gerente del narcotraffico per conto della ‘ndrina di Rossano si evince, si legge testualmente in una nota a pagina 27 dell’ordinanza, dagli atti del processo Ombra in esito al quale è stato condannato a 14 anni. La sentenza è stata confermata anche dalla Suprema Corte di Cassazione.

Ebbene, il “nobiluomo”, secondo l’accusa della Procura vistata dal Gip, a Vigevano, non solo era assistito da una fitta schiera di persone che gli assicuravano una tranquilla latitanza ma continuava a commettere reati, specialmente per quanto attiene al traffico di armi e di stupefacenti. A pagina 172 si legge: «Il dato già risulta dalle intercettazioni trattate nel capitolo concernente la latitanza di Acri e viene confermato dalle dichiarazioni di Oliverio Francesco (collaboratore di giustizia dal 3 febbraio 2012, capo del “locale di Belvedere Spinello”, con alle dipendenze ‘ndrine distaccate su sei comuni della Valle del Neto, tra la Provincia di Crotone e quella di Cosenza, nonché propaggini criminalmente operative al Nord Italia. ndr) che, in data 01/12/2012 ha riferito di avere consegnato armi corte a …omissis Francesco e …omissis…Antonio e stupefacente, fra gli altri a tale Roberto. I primi gli venivano presentati come uomini di Nicola Acri il secondo come persona vicina a Galluzzi Salvatore. Oliverio riconosceva la foto di Roberto Feratti come colui al quale aveva consegnato stupefacente per conto di Galluzzi».

Il boss Nicola Acri venne catturato a Bologna il 20 novembre 2010: dopo due mesi, il 26 febbraio 2011 veniva preso a Vigevano Salvatore Galluzzi. La cosca, pertanto, aveva bisogno di una sorta di riassetto.

Anche Sergio Esposito, condannato nel processo Ombra, si rese latitante per circa cinque mesi (dal 27 maggio al 21 ottobre 2010). Parte di questa latitanza la trascorse insieme a Galluzzi a Vigevano, così come emerge dal controllo della Polizia di Stato di Vigevano dell’8 ottobre 2010.

Sergio Esposito, detto pica pica, - già detenuto al momento in cui è stato indagato in questa nuova indagine Stop - secondo l’accusa, è tra i personaggi di maggior spessore criminale della ‘ndrina rossanese, anche secondo i collaboratori di giustizia.

MANI PROTESE

A dare, secondo l’accusa, una mano a Galluzzi, che a Vigevano viveva in un appartamento, sono stati diversi personaggi che nella città ducale e nei paesi vicini, come Gambolò, avevano da tempo messo radici.

Uno di questi è Roberto Feratti, con suo fratello gemello vecchie conoscenze della Giustizia. A Vigevano avevano dato vita a “Gemel Edil” che, anche dopo la "morte" e la rinascita di ”Vigevano Ponteggi srl” di Luca Feratti, figlio di Roberto, ha quasi il monopolio di settore nell’area.

Roberto Feratti, nato a Vittoria (Ragusa) il 16 ottobre 1957, si legge a pagina 814 dell’ordinanza, ha precedenti penali per rissa, detenzione illegale di stupefacenti e un precedente specifico per reato di favoreggiamento. Risulta, altresì, essere stato sottoposto a misure di sicurezza.

Roberto Feratti, sempre secondo l’accusa, è colui che offriva appoggio logistico a Salvatore Galluzzi e alla moglie, accompagnandoli con la propria auto negli spostamenti a Vigevano. Si trovava con Galluzzi al momento del suo arresto.

Sebbene le dichiarazioni del collaboratore Francesco Oliverio sul fatto di avere consegnato della droga a Galluzzi durante la sua latitanza mentre era accompagnato da Feratti (che ha riconosciuto fotograficamente) siano rimaste prive di riscontro oggettivo, in ogni caso, si legge nell’ordinanza, l’accertata circostanza che l’indagato accompagnasse Galluzzi, per la Procura denota un particolare rapporto di fiducia da parte di questi.

AVANTI GLI ALTRI

Secondo la Dda di Catanzaro c’è un altro personaggio che fa parte della rete di protezione e garanzia. Si tratta di Vincenzo Interlandi, finito ai domiciliari, anch egli nato a Vittoria (Ragusa) il 12 ottobre 1959, colui che firmerà materialmente il contratto di locazione.

Secondo l’accusa prenderà in locazione l’appartamento di Vigevano in cui si nascondeva Galluzzi, incurante della riconducibilità a lui dello stesso e racconta il falso sul “casuale” incontro con “Salvatore”, fatti che denotano la sussistenza di rapporti con gli ambienti delinquenziali della consorteria calabrese

C’è, infine, un’altra figura che secondo la Dda di Catanzaro avrebbe svolto un ruolo da “cerniera” in questa trama: Espedito Donato (ai domiciliari) che trasportava oggetti di ogni tipo da Rossano a Vigevano rendendosi latore di messaggi che lo stesso Galluzzi riceveva o inviava dagli/agli appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta Acri-Morfò. Per il figlio Carmine Enzo il Gip ha invece respinto l’ipotesi di reato contestato.

Anche Espedito Donato non è un pesce fuor d’acqua a Vigevano. Anzi. E’ titolare di un’agenzia di pompe funebri. Come risulta dalle conversazioni intercettate effettuava alcuni viaggi dalla Calabria trasportando valigie e pacchi per Galluzzi, tant’è che questi in carcere, dopo l’arresto, attribuiva la sua cattura ad alcuni atteggiamenti superficiali tenuti da coloro che coadiuvavano ed in particolare al fatto che Donato si era recato più volte direttamente a casa dei suoi in Calabria per prendere i pacchi.

Per ora ci fermiamo qui ma la prossima settimana torno con altri aspetti. Anche internazionali.

1 –to be continued

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« Risposta #57 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:38:05 pm »

25 giugno 2013 - 11:01

La violazione della legge Anselmi irrompe nell’indagine Belsito-Lega Nord - Il lavoro di Cafiero De Raho, Lombardo, Curcio e Ardizzone


Questa mattina di buon ora ho scritto un articolo sul portale del Sole-24 Ore sul nuovo filone dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, che poche ore fa ha portato a decine di perquisizioni e relativo sequestro di ogni elemento ritenuto utile da Reggio a Milano passando per Genova.

Rimando sul portale del Sole-24 Ore alla lettura del pezzo e mi concentro qui sulla parte più interessante (per un vecchio cultore della materia come chi umilmente vi scrive) ma soprattutto nuova per i profani, del decreto che ipotizza l’associazione a delinquere per otto indagati.

All’interno della presunta associazione – ed è la parte appunto di enorme interesse – secondo il pm Giuseppe Lombardo e l’applicato della Dna Francesco Curcio, opera una componente di natura segreta. E le parole del Capo della Procura Federico Cafiero De Raho avallano l’ipotesi. Eccola lì dunque, la presunta (questo bisogna sempre ricordarlo) violazione della legge Anselmi, nata appunto a seguito dello scandalo P2 che vide in azione la superloggia guidata da Licio Gelli.

Questa presunta violazione della legge estrinseca con tutta la sua forza nel passaggio del decreto in cui si legge che «le risultanze dell’attività di indagine preliminare finora svolta dimostrano l’esistenza di una struttura criminale (connotata da segretezza) a carattere permanente nella quale – fra gli altri – operano con ruoli organizzativi Bruno Mafrici, Pasquale Guaglianone, Giorgio Laurendi”, tutti professionisti di origine calabrese che a Milano vivono e prosperano, inseriti in “multiformi contesti politici”. Non solo loro fanno parte di questa associazione. Ci rientrano anche gli imprenditori Michelangelo Tibaldi e Giuseppe Sergi». Paradossalmente – rispetto al can can mediatico indotto dalle prime attività investigative e di indagine – persone come Romolo Girardelli, detto l’ammiraglio, per la Procura di Reggio Calabria e la Dna svolgono suolo un ruolo di ausilio informativo e di supporto.

Ovvio che questa presunta associazione – al cui interno c’è appunto secondo gli inquirenti questa cellula segreta – opera per arricchirsi e fin qui nulla di male ma si arricchisce anche con operazioni di riciclaggio o reimpiego di ingenti capitali di provenienza delittuosa. E soprattutto opera con una ragnatela di rapporti in campo finanziario, politico ed imprenditoriale, di cui finora è emersa la sola punta di un iceberg.

L’associazione segreta ritorna impetuosamente nelle ipotesi della Procura di Reggio Calabria, laddove si legge che «la gestione delle operazioni politiche ed economiche ha consentito alle persone sottoposte ad indagini di divenire il terminale di un complesso sistema criminale, in parte di natura occulta, destinato inoltre ad acquisire e gestire informazioni riservate, che venivano fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione, collegati anche ad apparati istituzionali e canalizzate a favore degli altri componenti della ramificata organizzazione; a consentire il proficuo utilizzo delle notizie riservate al fine di dare concreta attuazione al già esposto ed articolato programma criminoso della associazione per delinquere oggetto di contestazione, i cui componenti risultano portatori di interessi specifici tra loro concatenati; gestire una struttura imprenditoriale, prevalentemente impegnata in operazioni ad alta redditività nel campo immobiliare e finanziario, destinata al riciclaggio e reimpiego di risorse economiche di provenienza delittuosa riconducibili ad ambienti criminali legati alla cosca De Stefano».

Per chi – come l’umile scriba che verga sul pc queste umilissime e umide note – da anni scrive che l’evoluzione delle mafie è un mix cancerogeno di personaggi visibili e personaggi invisibili, queste ipotesi messe nero su bianco dalla Procura di Reggio Calabria e avallate dal delegato della Dna, non sorprendono per nulla. Casomai sorprenderanno alcuni magistrati che – soprattutto nel nord Italia – parlano di “fascinazioni” e "suggestioni". Bene: le suggestioni e le fascinazioni ora colpiscono anche alcuni magistrati di Reggio e Roma, oltre la Dia di mezza Italia!

Per chi – come la Procura di Reggio con Giuseppe Lombardo e la Dna con Francesco Curcio – queste ipotesi ha vergato su un decreto di perquisizione locale, personale ed informatica, è un atto di estrema forza e coraggio al tempo stesso, che dovrà reggere a correnti visibili e invisibili e che è comunque stata resa possibile grazie da un lavoro di squadra che ha visto un timoniere (il capo della Procura) Federico Cafiero De Raho pronto a garantire il lavoro dei suoi uomini. Ma ha visto anche un “plotone” di uomini della Dia, capitanato dal colonnello Gianfranco Ardizzone, che ha creduto in quel lavoro e per esso si è speso.

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« Risposta #58 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:39:13 pm »

26 giugno 2013 - 7:36

Il decalogo Europol per contrastare la ‘ndrangheta nella Ue – La necessità di maggiori risorse comunitarie

L’Europol – quando si tratta di analizzare le mafie italiane – è sempre pronta ad aggiornarsi. Nell’ultima analisi sul crimine organizzato di casa nostra, datata 24 giugno, supera infatti le precedenti valutazioni (del 2011) secondo le quali le mafie italiane sarebbero state attive solo in una manciata di Stati europei. Le informazioni – per stessa ammissione dell’Agenzia anticrimine della Ue – fino a pochissimi anni fa erano limitate e a volte di natura aneddotica. Insomma: una contraddizione in termini visto che la sola ‘ndrangheta è universalmente riconosciuta da tempo come una delle principali organizzazioni criminali al mondo.

Una contraddizione dalla quale Europol fa ora un passo indietro riconoscendo che le mafie italiane sono state sottovalutate per il loro modo silenzioso di agire ma che proprio per questo status rappresentano una minaccia insidiosa per l’Unione europea. I fenomeni delittuosi – in altre parole – possono anche essere meno visibili di quelli riferibili ad altri importanti gruppi di criminalità organizzata ma la loro rete di contatti e di attività in tutta Europa è indubbia.
I comportamenti criminali normalmente associati alle mafie italiane - racket, estorsioni, usura, raccolta di denaro, protezione, tutti perpetrati in un'atmosfera soffocante e totale controllo del territorio – scompaiono fuori dai confini nazionali. La strategia globale delle mafie italiane che operano all’estero è quella di mantenere un basso profilo e il tipo di controllo richiesto dalle mafie quando operano all'estero è puramente economico: non solo fare soldi ma estendersi alla produzione e al consumo di beni e servizi. Insomma: la spina dorsale di qualsiasi Paese.
Per infiltrarsi nell’economia le mafie italiane offrono semplicemente i propri prodotti e servizi a prezzi più bassi, in alcuni casi mantenendo la qualità molto elevata: in questo modo sbaragliano la concorrenza. In alcuni casi i prestiti ai concorrenti in difficoltà sono offerti a tassi alti di interesse, con l'obiettivo finale di entrare in possesso del business, che spesso alle spalle ha una solida storia e una buona reputazione. In altri casi viene proposta una fusione, di nuovo con l'obiettivo di isolare e di fatto escludere da qualsiasi funzione decisionale il partner in difficoltà, al stesso tempo sfruttando il suo buon nome e la “faccia” pulita.

La strategia di lavorare in perdita – si legge nel rapporto Europol - è utilizzato anche nel costante tentativo delle mafie di garantirsi appalti pubblici e, come ogni altra mafia, anche quelle italiane fanno ampio ricorso al loro potere corruttivo per aggiudicarsi le gare.

‘NDRANGHETA IN TESTA

Per quanto riguarda l’impegno criminale all’estero delle singole associazioni, Cosa Nostra siciliana è focalizzata principalmente sul traffico di droga e sul riciclaggio attraverso un uso prudente di teste di paglia selezionate e professionisti qualificatissimi. Cosa che ostacola notevolmente il sequestro e la confisca dei beni negli Stati membri.

La stidda siciliana e clan affiliati, a differenza di Cosa Nostra, non ha una struttura centralizzata e quando colpisce in Europa, lo fa perlopiù per rapine a mano armata e altri reati contro il patrimonio. Incursioni mordi-e-fuggi per poi fare ritorno in Sicilia. La ndrangheta calabrese è tra i più potenti gruppi della criminalità organizzata a ivello globale. La sua strategia di colonizzazione si sta diffondendo in tutto il mondo. La ‘ndrangheta detiene una posizione dominante nel mercato della cocaina in Europa, ed è coinvolta in molti altri settori criminali, tra cui traffico di armi, frodi, distorsione delle offerte pubbliche, corruzione, intimidazione, estorsione e reati ambientali. La 'ndrangheta – si legge nel rapporto – impiega sofisticate pratiche di riciclaggio di denaro per nascondere i suoi immensi profitti. L'intelligente utilizzo di strutture commerciali legali, create dalle cosche, permette loro di nascondere la natura criminale dei profitti e, insieme allo strumento corruttivo, di infiltrarsi negli ambienti economici e politici in cui operano. In Europa i clan sono attivi principalmente in Spagna, Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera, con qualche espansione nell’Europa orientale.

La camorra non ha una struttura unificata e la costante belligeranza dei suoi clan rende impegni e alleanze effimere. I clan della camorra, quando operano al di fuori del loro territorio, sono principalmente coinvolti nel traffico di droga, contrabbando di sigarette, rifiuti illeciti, contraffazione di valuta, dumping e vendita di prodotti contraffatti, sia acquistati da gruppi alleati cinesi o prodotti in fabbriche clandestine nel Napoletano. Le attività di riciclaggio includono imprese di costruzione e immobiliari. Molto più appariscente e sgargiante delle mafie siciliana e calabrese, scrivono testualmente gli esperti dell’Europol, la camorra tende ad avere un alto profilo e vivere pericolosamente. La Spagna è il Paese europeo preferito ma presenze non mancano in Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera.

La criminalità organizzata pugliese è spesso identificata con la Sacra Corona Unita ma la situazione è molto più complessa e frammentata, grazie ad un’originaria miscela esplosiva di camorra e 'ndrangheta.

Storicamente legati al contrabbando di sigarette, i clan pugliesi sono ora attivi anche nella tratta di esseri umani, droga, armi, rifiuti e frodi alle sovvenzioni comunitarie.
Fuori dai confini italiani operano nei Paesi Bassi, Germania, Svizzera e Albania.

LE RACCOMANDAZIONI

Famiglie e clan che presentano il più alto rischio a livello europeo devono essere identificate, affrontate e smantellate con operazioni transnazionali di polizia necessarie per affrontare efficacemente il fenomeno della criminalità organizzata.

Facile a dirsi, difficile a farsi, fatto sta che è la prima raccomandazione che si trova nel rapporto Europol. Seguono una serie di altre raccomandazioni, tutte importanti:

1) essere un membro di una organizzazione di tipo mafioso deve essere considerato come un crimine di per sé:

2) la legislazione antimafia deve essere armonizzata a livello Ue e le richieste di estradizione per i mafiosi latitanti devono avere la priorità presso le autorità competenti;

3) gli Stati membri per l’attuazione dei rispettivi cicli di intelligence nazionale devono considerare il lavoro delle altre intelligence per evitare lacune informative;

4) dovrebbe essere considerata la creazione di uno specifico finanziamento Ue di sostegno alla cooperazione giudiziaria internazionale;

5) sarebbero necessarie nuove e più efficaci disposizioni sulla confisca e l’esperienza dimostra – si legge nel Rapporto - che il valore dei beni confiscati potrebbe ampiamente superare l'eventuale finanziamento comunitario;

6) tutte le indagini penali su famiglie e clan devono essere parallelamente accompagnate da indagini finanziarie su prestanomi e professionisti;

7) è relativamente semplice organizzare l'estradizione di un sospettato, ma è piuttosto complesso fermare i beni di origine criminale che si trovano all'estero. Questo paradosso deve essere rimosso e a questo proposito Europol auspica che le informazioni riguardanti le persone giuridiche e i dispositivi giuridici siano direttamente accessibili all'interno della Ue da parte delle autorità di contrasto degli Stati membri, al fine di facilitare le attività di tracciamento degli asset;

Otto) le mafie riciclano enormi quantità di denaro ma mentre la legislazione europea contro il riciclaggio di denaro ha raggiunto un livello costante di armonizzazione, ci sono ancora ostacoli allo sfruttamento efficace della informazione finanziaria contenuta all'interno delle transazioni sospette;

9) la cooperazione internazionale è necessaria per combattere e smantellare clan e famiglie, ma una funzione più forte di polizia centrale è necessaria: deve essere possibile richiedere agli Stati di impegnare risorse per affrontare gli obiettivi che presentano il più alto rischio a livello comunitario, anche se a livello nazionale può sembrare un problema minore.

In altre parole le priorità della Ue devono diventare le priorità nazionali.

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« Risposta #59 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:40:15 pm »

27 giugno 2013 - 13:21

La Procura di Reggio Calabria stretta dalla cintura “invisibile” della cosca De Stefano.

E per questo mortale

Ora che la Procura di Reggio Calabria – grazie a quella firma, da alcuni attesa per oltre un anno, e apposta con pieno senso di responsabilità dal capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho al lavoro svolto dal sostituto Giuseppe Lombardo in piena sintonia con il delegato della Dna Francesco Curcio – ha fatto un passo avanti nella lotta ai sistemi criminali, nulla sarà più come prima.

Quella firma – che legittima l’individuazione, per la Procura reggina, di una struttura criminale segreta, sia ben chiaro tutta da provare, in grado di inquinare politica, economia, finanza e società, al vertice della quale, per il momento, sono stati individuati, a mio modesto avviso, personaggi di modesta o modestissima caratura, il che la dice lunga sulle sorprese che riserveranno gli sviluppi investigativi – suona infatti come il campanello dell’ultimo giro in una corsa di ciclismo su pista a due, in cui non c‘è bisogno di raggiungere il concorrente per vincere ma è sufficiente tagliare il traguardo un nanosecondo prima.

Una campanella dell’ultimo giro di pista per quella zona “invisibile”, “riservata” e “segreta” che – da almeno 40 anni – in Calabria e poi su per li rami italici, si è evoluta come un Pokemon di concerto con la ‘ndrangheta e ha ingaggiato una gara – finora senza storia, a suo vantaggio – con la Giustizia, che cerca (ma a volte non ci ha nemmeno provato) di raggiungerla.

Mai prima d’ora, infatti, si era assistito ad una contestazione da parte di una Procura della violazione della cosiddetta legge Anselmi sulle strutture segrete (legge nata nel 1982 dopo le nefandezze della Loggia P2), applicata ad una presunta associazione a delinquere «collegata e servente rispetto alla cosca De Stefano di Archi di Reggio Calabria». Questo è – né più né meno – quanto si legge in quel provvedimento firmato - nei confronti di otto indagati – da parte di Cafiero De Raho e fortemente voluto da Lombardo e Curcio (rimando ai miei servizi sul portale del Sole-24 Ore, su questo blog e sul quotidiano).

Parlo di campanella dell’ultimo giro (e nulla più) per il semplice fatto che la Giustizia calabrese - con un ritardo che ha dato sulla pista un enorme e, spero, non incolmabile vantaggio al vertice “invisibile” della struttura criminale in corso di individuazione (così si esprime, ancora una volta testualmente, la Dda di Reggio) – ha appena iniziato ufficialmente (mancava infatti lo start del Procuratore capo) la sua gara.

Delle due l’una: quella gara la Procura di Reggio Calabria la vincerà e allora sarà pronta a riscrivere la storia della ‘ndrangheta ben oltre “l’erogatore umano di santini e piantine” oppure la perderà e allora – credo definitivamente – potrà mettere una pietra tombale sulla possibilità di dare costante e duratura forma processuale (ergo: anche contrasto sociale) alla “ndrangheta 2.0”, quel sistema criminale fatto anche di cosche ma – soprattutto – un impasto devastante di massoneria deviata, Stato deviatissimo e politica e professionisti cresciuti all’ombra di quel sistema servente.

Sono anni che scrivo queste cose e – ancora – c’è qualcuno, non solo tra i presunti colleghi ma soprattutto tra i magistrati e gli organi investigativi, che si meraviglia (e dire che dovrebbero studiare e applicarsi) del fatto che abbia previsto (unico tra i presunti colleghi della presunta grande stampa) lo sbocco “naturale” di quanto sta accadendo in questi giorni. Vale a dire - prima o poi - la contestazione di un’associazione criminale sì, ma con un nocciolo segreto (ripeto: tutto ancora da individuare). Basta rileggere quanto ho scritto in questi anni per avere – ictu oculi e senza sorta di smentita – la conferma. Anni fa non esisteva neppure in nuce l'operazione Breakfast.

Per questa intima convinzione sull'evoluzione della 'ndrangheta e delle mafie in generale – l’ho detto e scritto mille volte – sono stato, anche pubblicamente, attaccato e deriso. Ma me ne frego e me ne sono sempre fregato. Ho le spalle larghe e – soprattutto - “non sono collegato e servente” rispetto a nessuno. Nessuno. Gli eventuali sbocchi giudiziari e le eventuali sconfitte processuali non cambieranno di un millimetro le mie convinzioni sull'evoluzione delle mafie: io faccio il giornalista, non il giudice. Le sentenze non spettano alla stampa.

Il momento – dunque – sarebbe quello giusto per esultare di fronte a questo (primo, primissimo) risultato raggiunto dalla Dda reggina e dalla Dna ma, al contrario, credo che ora cominci la parte più difficile (le accuse vanno infatti provate) e pericolosa, pericolosissima, per Cafiero De Raho, Lombardo e Curcio.

Un compito che – inutile girarci intorno – rischia di diventare, per loro, mortale . Anche fisicamente, sia chiaro, perché quel sistema criminale, ora che ha visto (dopo aver fiutato) la svolta della Procura, si sente braccato e può reagire in ogni modo. E al diavolo le balle che la ‘ndrangheta non uccide i magistrati. Pensate che arrivati a questo punto di svolta il sistema criminale, l’associazione segreta della quale finora i vertici (ancora ignoti) sono rimasti al sicuro e protetti, garantiti magari da patti inconfessabili con parti deviate dello Stato e apparenti Servitori dello Stato, si farebbe scrupoli a uccidere? Illusi. Dapprima cercheranno di uccidere (e ci stanno già provando da tempo) con la delegittimazione ma…la guerra è guerra e in guerra non si fanno prigionieri.

Uno sconfitto – ripeto – in questa gara su pista dovrà esserci: o il sistema criminale, quello che possiamo anche chiamare “ndrangheta 2.0”, comunque ben oltre le cosche, oppure la Giustizia che avrà provato ad andare oltre Polsi.

Questo – si badi bene – Cafiero De Raho lo sa benissimo ed è impensabile, folle e destabilizzante pensare che «le risultanze dell’attività di indagine preliminare» (cito ancora testualmente il provvedimento della Procura) raccolte dal pm Lombardo, vengano da taluno deprezzate e disprezzate come le “fascinazioni” e le “suggestioni” di un pm ragazzino (declinando verbalmente su Lombardo e sullo stesso Curcio le ruvide carezze dialettiche che un presidente della Repubblica italiana riservò a Rosario Livatino, giudice trucidato da Cosa nostra).

E’ il momento questo – anzi: l’attimo, solo, fuggente e forse irripetibile – per guardare oltre le apparenze e, ovviamente, le concretezze dei riti e dei santini e stringerci, tutti, intorno alla Procura di Reggio chiedendoci, semmai, perché questa svolta arrivi solo ora e quale prezzo i calabresi e gli italiani tutti dovranno pagare se dovesse fallire il percorso intrapreso ufficialmente da pochi giorni.

Per questo – da parte mia – proseguirò con l’impegno giornalistico finora svolto, lasciandovi come aperitivo – per quel che leggerete qui domani – quanto dichiarato dal pentito Consolato Villani il 9 novembre 2012 al pm Lombardo che lo stava interrogando in Cristo solo sa in quale udienza di quale tra i tanti processi che sta conducendo.

Lombardo gli chiede, a proposito della scala gerarchica “nella” e (senza che il pentito, a mio modesto avviso, ne abbia consapevolezza), “oltre” la ndrangheta:

Pm: qual è questa trafila, Villani?

Villani:  La trafila è che si parte da “picciotto”, si va a “camorrista”, si va a “sgarrista”, si va alla “santa”, al “vangelo”, al “quartino”, al “tre quartino”, al “quintino”, e poi c'è la “massoneria”, e poi ci sono altre cose che derivano diciamo da personaggi contorti che diventano massoni o altro.

E quell’ «altro» noi lo (ri)scopriremo domani. La cintura “invisibile” – che tutto, finora, ha potuto -  secondo il pm Lombardo – e ora anche per la Procura tutta, a partire dalla persona del suo capo - ruota sempre intorno alla cosca De Stefano.

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

DA - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/la-procura-di-reggio-calabria-stretta-dalla-cintura-invisibile-della-cosca-de-stefano-e-per-questo-mortale.html
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