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Autore Discussione: Roberto GALULLO.  (Letto 61821 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Aprile 08, 2017, 05:20:57 pm »


Sequestri in 5 società

’Ndrangheta, nel mirino lavori ferroviari in Liguria


    –di Roberto Galullo 04 aprile 2017

Il raddoppio della linea ferroviaria in Liguria tra Savona e Imperia era caduto nelle mani sbagliate.
Tra le società appena sequestrate su imput della Dda di Catanzaro figura la “Costruzioni Generali s.r.l.”, affidataria, in subappalto, di lavori per la realizzazione del “raddoppio” della linea ferroviaria ligure Andora (Sv) – San Lorenzo (Im), della quale è titolare l'imprenditore catanzarese Raffaele Dornio (24 anni) il cui padre, Gaetano anch'egli imprenditore e destinatario del provvedimento di sequestro, risulta aver intrattenuto rapporti economici sin dal 2009/2010 con il collaboratore di giustizia Gennaro Pulice.

Con riferimento alla “Costruzioni Generali s.r.l.” la Dda ha accertato che anche se formalmente intestata a Dornio, era di fatto riconducibile a Pulice tanto che in determinate circostanze, quest'ultimo ne rivendicava gli utili in relazione a lavori effettuati, a fronte di corrispondenti pagamenti per salari e stipendi ai dipendenti o come compensazione di tasse pagate per l'attività d'impresa.

Questa attività è il frutto del provvedimento emesso dal Gip di Catanzaro con il quale è stato disposto il sequestro preventivo dei beni riconducibili al collaboratore di giustizia Pulice, alla moglie e ad alcuni imprenditori operanti nel campo delle costruzioni, considerati suoi prestanome.

Le attività investigative, coordinate dalla locale Procura Distrettuale Antimafia secondo le direttive del Procuratore Capo Nicola Gratteri, del procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri e del sostituto procuratore Elio Romano, sono state svolte dal personale del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato – Unità Indagini Patrimoniali e dalla Squadra Mobile di Catanzaro, collaborata dal Commissariato di Lamezia Terme.

Gennaro Pulice esponente apicale delle cosche confederate “Iannazzo e Cannizzaro Daponte”, autore di diversi omicidi, il primo dei quali commessi quando era ancora minorenne, è un collaboratore di eccezionale importanza poiché oltre ad aver riferito in ordine alla propria ed altrui partecipazione a tali efferati crimini è emerso quale affermato uomo d'affari ed imprenditore di successo, dedito, dopo una vertiginosa scalata da ruoli di pura manovalanza a posizioni di rilevante prestigio criminale e dopo il conseguimento di due lauree in giurisprudenza e scienze giuridiche, ad investimenti di elevato profilo ed operazioni finanziarie spregiudicate.

Le indagini hanno permesso di accertare che Pulice, nel periodo antecedente il suo arresto, nel maggio 2015 nell'ambito dell'operazione “Andromeda”, realizzata dalla Polizia di Stato, aveva posto in essere, con il concorso di imprenditori compiacenti una serie di interposizioni fittizie in relazione alla titolarità delle proprie attività economiche con lo scopo di evitare eventuali misure di sequestro del proprio patrimonio come conseguenza della possibile applicazione di misure di prevenzione nei suoi confronti.

La ricostruzione della genesi e degli sviluppi delle ramificazioni affaristico-imprenditoriali di Pulice sul territorio nazionale, ha messo in luce la sua capacità di interagire con imprenditori le cui attività produttive vivevano periodi di difficoltà economica che venivano superate grazie all'immissione dei capitali nella disponibilità di Pulice, cosicché divenivano, di fatto “prestanomi” di quest'ultimo.

Nel corso della operazione, sono state sottoposte a sequestro la totalità delle quote e l'intero patrimonio aziendale di 5 società e di 1 impresa individuale, operanti prevalentemente nel settore delle costruzioni, 20 beni immobili, alcuni veicoli e diversi rapporti bancari, per un valore complessivo di circa 4 milioni di euro.

Nei confronti dei soggetti colpiti dal sequestro, la Procura della Repubblica di Catanzaro, ha contestato il delitto di trasferimento fraudolento di valori aggravato dalle modalità mafiose.

r.galullo@ilsole24ore.com
© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-04-04/-ndrangheta-sequestrati-beni-collaboratore-giustizia-101517.shtml?uuid=AEUrr6y
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« Risposta #76 inserito:: Maggio 22, 2017, 11:47:15 am »

25 ANNI DOPO

Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle coscienze

–di Roberto Galullo 18 maggio 2017

Il 3 aprile 2017 un lungo lancio dell'agenzia di stampa Ansa batte questa notizia: «Si è concluso con 11 assoluzioni e cinque condanne il processo, celebrato in abbreviato dal gup Omar Modica, nei confronti di capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia. Molte le assoluzioni eccellenti tra cui quelle dei boss Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto Onofrio Morreale. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere.

Tano Grasso: «Se tutto è antimafia, niente è antimafia»
Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo».
Ma c'è un ulteriore elemento in questa vicenda che il lancio di agenzia svela. «I costi del procedimento penale – si legge infatti – dovranno essere pagati dai figli dell'uomo che ha denunciato il pizzo e dalle associazioni che si sono costituite parte civile. Infatti l'imprenditore Giuseppe Toia aveva denunciato i presunti taglieggiatori. Il gup ha assolto il presunto estorsore. E ha condannato gli eredi dell'imprenditore a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi».

Un precedente che fa scuola
Tra le parti civili c'erano anche Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai (la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura), l'associazione antiracket e antiusura “Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia”, Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino e il Centro studio e iniziative culturali Pio La Torre.
Nei giorni seguenti tutti i giornali daranno conto di questa notizia che è destinata ad aprire, comunque, un vulnus nella lotta alla mafia. «Siamo molto amareggiati» dirà a caldo Tommaso Toia, il figlio dell'imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d'Appello la correttezza di questa decisione. Aspettiamo il deposito delle motivazioni ma passeranno almeno 5 o sei mesi. Questa sentenza è un errore del giudice Il problema, però, è di fondo. E' una vergogna che la lotta alla mafia diventi un mercimonio», dice al sole24ore.com Fausto Maria Amato, l'avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell'estorsione, dell'usura, della mafia. «Dal punto di vista tecnico il giudice ha applicato i criteri validi nel processo civile, cioè quello della soccombenza – affermerà Giovanni Castronovo, legale di Salvatore Lauricella, tra gli assolti – ma dal punto di vista giurisprudenziale si tratta di una decisione inedita. Negli ultimi anni non si riscontrano decisioni di analogo tenore».
La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione, i quali hanno sottolineato come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto» ma senza ombra di dubbio questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili.
Per il momento Addipizzo – una delle associazioni ritenute da molti tra le più importanti in Italia sul fronte antimafia – non molla ma raddoppia. E lo fa nonostante il fatto che questa storica associazione sia anch'essa attraversata da veleni e tentativi di delegittimazioni la cui portata è tutta da decifrare. Sembra proprio che, 25 anni dopo la stagione delle lenzuola bianche appese ai balconi di Palermo, niente e nessuno sul fronte della cosiddetta antimafia riesca ad uscire indenne da veleni, delegittimazioni e “mascariate”. Al netto dei tanti errori, da tutti, compiuti.
Il 3 maggio, a meno di un anno dalle indagini e dagli arresti scaturiti dalle denunce di una decina di commercianti di origine straniera, accompagnati già in fase di collaborazione da Addiopizzo, si è aperto il processo che vede imputati nove soggetti accusati di estorsione, rapina, violenza privata e minacce. Una storia senza precedenti, perché per la prima volta il fenomeno della denuncia collettiva vede coinvolti un cospicuo numero di migranti, che da tempo vive e lavora a Palermo e che si era rivolto all'associazione a seguito di una forte recrudescenza di violenze subite sul territorio.
L'importante sinergia tra alcuni commercianti bengalesi, Addiopizzo, la Squadra Mobile e la Procura di Palermo, ha permesso in tempi brevi di fermare diverse persone, alcune delle quali sono state poi scarcerate, che avevano seminato terrore nel centro storico di Palermo.
Nel processo, con le vittime e gli avvocati dell'associazione – Salvatore Caradonna, Maurizio Gemelli e Serena Romano - Addiopizzo si è costituita parte civile visto il lavoro svolto sul territorio nell'ambito dell'operazione Maqueda.
Il clima sociale è diverso da quello che il 26 maggio 1992, con un frenetico tam tam di telefonate, portò la Palermo onesta ad esporre sui balconi lenzuoli bianchi contagiando, con quella forma di pacifica protesta contro Cosa nostra, la Sicilia e l'Italia intera. Era l'indignazione appesa ai balconi contrapposta alla morte di Cosa nostra stesa sull'autostrada in quel di Capaci.
Il clima è cambiato e la colpa è anche di quella parte marcia e deviata dello Stato che ha ricominciato a soffiare i suoi venti di delegittimazione e isolamento sulla parte sana delle Istituzioni e della società, preludio necessario alle morti dell'anima (ancor prima che fisiche).
Il vento è cambiato e negli ultimi anni sono cresciuti anche i segnali di insofferenza verso la vita quotidiana dei magistrati che vivono blindati e che, per questo motivo, portano a qualche inevitabile sacrificio collettivo.

IL GRUPPO
Si riaffaccia la tolleranza a metà
Il 3 maggio 2014 il pm palermitano Maurizio Agnello ricevette la lettera di un condomino, infilata nella sua cassetta postale, che si lamentava (a nome dei condomini tutti) delle misure di prevenzione prese a tutela della vita del magistrato, invitato a «comprare una casa altrove, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene…. Perché noi condomini dobbiamo avere limitazioni di posteggio proprio di fronte al portone e subire ogni giorno l'assalto dei vigili?».
Già, perché difendere la vita di un Servitore dello Stato? Se proprio non se ne può fare a meno, che si acquisti a Palermo un lotto edificabile per i soli magistrati antimafia e che lo si chiami, magari, “il ghetto della Giustizia” con sopra un bell’arco in metallo con su scritto: “La mafia rende liberi”.
Piccoli gesti che conducono alla delegittimazione dei Servitori dello Stato ancor prima che alla morte, come accadde a Giovanni Falcone che il 14 aprile 1985 lesse sul “Giornale di Sicilia” le lamentele di una residente in via Notarbartolo (dove abitava), che non sopportava le sirene che fungevano da colonna sonora all'imminente morte del magistrato: «Mi rivolgo al giornale, per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città…Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse… Vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene». Già, il problema di Palermo, come diceva Johnny Stecchino, era e forse resta ancora il “ciaffico”.

La memoria nei più giovani
Che il vento è cambiato lo capisci anche dalle reazioni dei più giovani, degli studenti, che pure partecipano attivamente in ogni ordine e grado, alle lezioni di legalità e che vivono con forza le testimonianze dei familiari delle vittime di Cosa nostra. Il 28 aprile, come ogni anno, il Centro studi Pio La Torre, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, ha reso noto i risultati di una ricerca tra 3.061 ragazzi che partecipano al Progetto educativo antimafia promosso dal Centro stesso, in occasione del 35° anniversario dell'uccisione di La Torre e Rosario Di Salvo.
La sfiducia degli intervistati nei confronti della classe politica è elevata ma a far notizia è che il 47.27% ritiene che la mafia sia ancora più forte dello Stato e solo il 29.80% considera possibile sconfiggerla definitivamente. «Non c'è differenza significativa tra i giovani del Centro-Nord e del Sud sulla percezione della corruzione delle classi dirigenti locali – sottolinea Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre – . La mafia è forte perché si infiltra nello Stato che è più forte delle mafie solo per un 13% dei giovani. Ma la stragrande maggioranza dei giovani, oltre il 90%, ripudia la mafia e ritiene che sia più forte il rapporto tra mafia e politica. I giovani non si rivolgeranno a un mafioso o a un politico per un lavoro, assimilando l'uno all'altro».
Capisci, però, che è ancora sulla formazione che bisogna puntare perché, come sosteneva Gesualdo Bufalino, la mafia non si sconfigge con l'Esercito ma con un esercito di insegnanti. Sul tema della fiducia, infatti, nella ricerca del Centro Pio La Torre, svetta quella sugli insegnanti (83%). Seguono magistrati, forze dell'ordine, giornalisti, sindacalisti e per ultimi (sfiducia sopra l'80%) i politici locali e nazionali.

La libertà di pensiero...
Che il clima è cambiato – al netto del processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra – lo capisci anche da come si rafforzano concetti rispettabili e legittimi ma proprio per questo opinabili. Concetti e opinioni che la Commissione parlamentare sta registrando nell'ambito della sua inchiesta sulla degenerazione della cosiddetta “antimafia” e delle sue finte o presunte bandiere, ultimamente ammainate con grave scorno della civiltà e della democrazia. Il 1° dicembre 2016 è stato ascoltato Salvatore Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Palermo. Il professore, con il suo collega giurista Giovanni Fiandaca, ha scritto il libro “La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa” (Laterza).
In Commissione antimafia Lupo ha affermato che «molti di noi, forse tutti, abbiano usato il termine “guerra alla mafia”, ma trattasi evidentemente di un termine, come quasi sempre il termine guerra, fuori contesto, perché uno Stato non può fare guerra ai propri cittadini, bisogna essere Stalin o Hitler per fare guerra ai propri cittadini, lo Stato deve applicare le leggi. Lo stato di guerra per fortuna non è stato dichiarato e dunque il termine guerra non è opportuno, seppur giustificato da quelle circostanze, perché io faccio lo storico, quindi sono spesso sostanzialista, e gli eventi che urgono gli esseri umani e le nazioni spesso non possono essere frenati con un'opzione di principio, però la moltiplicazione di istituzioni, di magistrature speciali, di polizie speciali e di legislazioni speciali basate su una logica di guerra vera o presunta sarebbe tantomeno giustificata in quanto costoro si definissero società civile?».
Fin qui il ragionamento – opinabile e rispettabile – è di natura più filosofica che storica. Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che le guerre non dichiarate ufficialmente dallo Stato sono spesso quelle più lunghe e impegnative di quelle dichiarate con carte da bollo (gli anni bui del terrorismo, ad esempio, che sono tornati d'attualità con il pericolo di matrice islamista). Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che se la parola guerra non piace (le parole sono spesso convertibili in convenzioni dialettiche) si può usare la parola contrasto o contrapposizione, financo “muro contro muro”.
«Il punto è che la guerra, se c'è stata – ha affermato lo storico Lupo – è finita. La guerra è finita non perché nel nostro Paese non ci sia più la criminalità organizzata, magari, non perché la criminalità organizzata non abbia ancora il suo livello di arroganza e non riesca a imporsi, e neanche perché siano venuti a mancare i composti della mafia, ovvero il contatto tra criminalità, cattiva politica e cattivo business, elementi che ci sono ancora. La guerra non c'è perché quei caratteri non ci sono più: non ci sono i morti per le strade, il numero dei morti ammazzati in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno gente che in Lombardia, quindi quell'elemento della conflittualità inframafiosa non esiste più, non con questa forza, non con questo carattere fuori controllo. I delitti eccellenti, strada terribile percorsa da cosa nostra, non si vedono più, magistrati uccisi con esplosioni non ne abbiamo visti e Dio voglia che non ne vedremo, perché chiaramente non posso prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino che si vada verso situazioni di questo genere, anzi ci sono elementi che indicano che non si va verso situazioni di questo genere, perché cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, la sua gemellina, sono state pesantemente colpite dalle autorità, sollecitate da questo moto di opinione pubblica e di società civile».

SENZA VITA
Omicidi volontari commessi in Italia in ambito criminalità organizzata. (Fonte: D.C.P.C. - dati operativi)

...e la libertà di risposta
Le diverse opinioni sono il sale della democrazia e dunque i deputati Claudio Fava (Mdp) e Francesco Molinari (Gruppo Misto) provarono a ribattere. Fava disse: «Lei ha detto che la guerra è finita, sono d'accordo con lei: sul piano militare la guerra è finita, anche se a volte il fatto che non si ammazzi manifesta una capacità di controllo del territorio straordinaria, c'erano paesi siciliani in cui la mafia governava e non volava uno schiaffo, ma il punto è che la strategia terrorista ed eversiva dei corleonesi è stata sconfitta. Mi chiedo e le chiedo se la fattispecie mafiosa di questo tempo non rischi di essere molto più insidiosa, perché la modernità della mafia oggi mette in campo una categoria che un tempo non c'era, che è quella del consenso. Non credo che Riina o i suoi amici lavorassero sul consenso: lavoravano sull'intimidazione, sulla paura e sull'omertà. Se lei avesse parlato come noi con i procuratori della Repubblica di Torino, di Milano e delle procure emiliane, avrebbe saputo che la grande preoccupazione è il modo in cui attorno alla capacità della mafia di farsi impresa, di essere sostegno economico, garanzia nella corsa agli appalti, punto di riferimento sul territorio, si sta creando consenso, al punto che non c'è stato un solo imprenditore che abbia collaborato con l'inchiesta Infinito. I magistrati di Milano che hanno lavorato anche in Sicilia dicevano che è una contraddizione abbastanza ingombrante, perché hanno più collaborazione in Sicilia che a Milano».
Molinari aggiunse: «Lei non crede che la sua tesi secondo cui la guerra è finita non porterebbe a mettere in discussione anche l'armamentario che lo Stato democratico ha messo in piedi per contrastare la mafia e l'ha indotta a trasformarsi in qualcosa di diverso? Ritengo infatti che questo sia ancora essenziale, e mi riferisco soprattutto al 41 bis, che credo sia stato la chiave di volta di questa lotta».
Lupo rispose, tra le altre cose che «....la presidente Bindi bene ha capito il mio ragionamento: la mafia non è più quella di allora, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa, è una sfida meno forte, però bisogna vedere quali patologie semina alla lunga, ma di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi (...) Che la mafia come sistema economico funziona male, se funzionasse bene saremmo nei guai davvero: funziona male, perché in un tempo medio la selezione degli imprenditori avviene non al più capace ma al più scadente, le contabilità sono fasulle, le attività economiche sono di copertura, prevalgono gli elementi finanziari sugli elementi imprenditoriali. Questa è la mia idea, che può essere benissimo smentita, ma spero non lo sia. Questa è l'esperienza che abbiamo avuto finora. Da questo punto di vista ribadisco che il problema è che i bambini vadano a scuola, che la gente trovi lavoro, i problemi base sono questi, però ovviamente su questo tutti diranno che vogliono così, e comunque questa non è l'antimafia, perché altrimenti diamo un'interpretazione eccessiva».
Anche il prefetto Mario Mori il 27 gennaio 2017, intervenendo al programma “La Zanzara” su Radio24, rispose così alla domanda se la mafia fosse stata sconfitta: «Oggi la mafia è quasi sconfitta definitivamente. Sconfitta non dalla polizia e dai magistrati ma perché è venuta meno la società che la supportava. La mafia è una deviazione culturale, è stata sconfitta da una società che si è evoluta. E quella società che la teneva in piedi si è sgretolata».
Salvatore Borsellino il 17 febbraio su www.lintellettualedissidente.it che gli pose esattamente la stessa identica domanda dichiarò che «la mafia ha cambiato aspetto. Non è più rappresentata dai morti ammazzati per le strade, quelli che mi hanno fatto lasciare Palermo più di cinquant'anni fa, non è più così visibile. Resta però pericolosissima in quanto è diventata altro: finanza, accaparramento degli appalti, traffico dei rifiuti pericolosi. La mafia ha una capacità di trasformarsi grandissima e se la gente non si rende conto di questo allora davvero il pericolo è estremamente più concreto».
Il 22 febbraio, il questore di Palermo, Guido Nicolò Longo, appena nominato prefetto di Vibo Valentia ma negli anni Ottanta vice del capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, nel salutare i giornalisti disse: «Non dobbiamo pensare che la mafia è vinta. Si è trasformata, più soft, più subdola ma sul piano economico è sempre presente. C'è una mafia economica che distrugge l'economia sana e questo lo dobbiamo impedire».

Un duro colpo dopo l'altro
Palermo e la Sicilia tutta sono ancora vigilissimi e hanno ancora voglia di vivere l'impegno antimafia ma le recenti e continue “batoste” stanno mettendo a dura prova la voglia di quanto, giustamente, cercano ancore di salvezza e punti fermi con tanto di nomi e cognomi.
Sul numero dei “Siciliani Giovani”, marzo 2015 n. 24, la storica firma Riccardo Orioles – eterno punto di riferimento del giornalismo antimafia – scrisse un articolo titolato “Non vanno d'accordo antimafia e imprese”. Fulminante il sommario: “L'antimafia fasulla da quella vera: come si fa a distinguerle? Facile…”. Talmente facile, che Orioles scriverà che «è molto più facile prendere a interlocutori (finché non smascherati) i vari Montante e Helg che non gli Umberto Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi hanno denari da mettere nei vari “rinnovamenti”, e i secondi no; i primi non minacciano in alcun modo l'assetto sociale “perbene”, e i secondi sì. Ma così va il mondo; e noi perdoniamo volentieri agli amici perbene quella che non è certo malafede ma solo disattenzione e pigrizia. Noi, all'antimafia dei simboli, preferiamo quella palpabile e concreta».
I riferimenti negativi erano ad Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, da quasi tre anni indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e a Roberto Helg, ex presidente della Camera di commercio di Palermo, condannato il 29 ottobre 2015 in rito abbreviato a 4 anni e 8 mesi per concussione (si attenderà l'esito dell'appello).
Sullo stesso numero, un'altra firma autorevolissima come quella di Salvo Vitale, compagno di impegno antimafia di Peppino Impastato, in un articolo titolato “Il giocattolo dell'antimafia” scrisse: «…A inasprire gli animi è stata la barbara esecuzione dei due cani di Pino Maniaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per vendicarsi ed estrinsecare la loro ostilità hanno messo in giro la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pubblicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldicenze, secondo tutti i canoni praticati dalle società mafiose: isolare le persone scomode, togliere loro credibilità, additarle al pubblico ludibrio e, in ultima soluzione, eliminarle».
E dire che Orioles e Vitale nei loro servizi non poterono aggiungere un altro caso che sta scuotendo a distanza di quasi due anni il fronte della cosiddetta antimafia sociale: quello del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che il 9 settembre 2015 venne indagata dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte – scrisse in una nota ufficiale la procura nissena – su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta, militari del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari».
Il 1° febbraio di quest'anno la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha chiuso la prima tranche e ha spedito l'avviso di conclusione delle indagini all'ex presidente Saguto e ad altre 19 persone finite sotto accusa per la gestione di beni sequestrati alla mafia. Un giro vorticoso di consulenze, nomine e soldi sporcato, secondo il procuratore Amedeo Bertone e il sostituto Cristina Lucchini, da favori, episodi di corruzione e una raffica di falsi.

Facile sì ma a parole
Ebbene, tanto facile distinguere l'antimafia fasulla da quella vera, come sostiene Orioles, non deve essere (e difatti non è) se è vero che di li a pochi mesi dall'uscita del suo servizio, per la precisione il 22 aprile 2016, proprio Maniaci sarà indagato a Palermo per aver estorto compensi e favori a due sindaci in cambio di una linea editoriale più morbida nei loro confronti. In quell'ambito giudiziario, anche la storia del cane sarebbe da riscrivere. Certo, anche in questo caso, non entrano in campo accuse di vicinanza, contiguità o complicità con Cosa nostra ma è evidente che un altro simbolo dell'antimafia ha lasciato orfani siciliani e italiani tutti, ricordando sempre che vige la presunzione di non colpevolezza per ciascuno di loro, fino a eventuale condanna passata in giudicato. Discorso che vale ovviamente anche per Antonello Montante e Ivan Lo Bello, quest'ultimo ex vice presidente nazionale di Confindustria e rimasto invischiato nella vicenda che il 17 aprile 2016 ha portato la Procura di Potenza a indagare sullo scandalo petroli (posizione poi archiviata dalla Procura di Roma). Ciò non toglie che Confindustria Sicilia oggi, in attesa della parola fine ad alcune tormentate vicende, sia in una fase di profonda riflessione.

«Siamo abituati a far parlare i fatti – afferma al sole24ore.com il presidente di Assindustria Sicilia Giuseppe Catanzaro – e i fatti dicono che, nel 2005, quando ancora l'argomento era un tabù, partendo proprio da Caltanissetta con Antonello Montante e camminando sempre in stretta sinergia con le Istituzioni, tanti imprenditori di Confindustria hanno messo la faccia nella lotta al malaffare con l'unico obiettivo di concorrere affinché le imprese sane avessero l'opportunità di operare in un mercato normale. Abbiamo maturato sul campo esperienze sostenendo gli imprenditori vittime e accompagnandoli anche in Tribunale davanti agli imputati mafiosi. E questo è quello che continueremo a fare per mettere al centro del dibattito la necessità di un mercato avulso dal condizionamento mafioso. Questo serve alle nostre imprese. Avvertiamo il pericolo di un ritorno al passato quando erano normali il silenzio e l'omertà. Su questo speriamo che in tanti riflettano. Una cosa per quanto ci riguarda è certa: non abbiamo alcuna intenzione di tornare a una antica ‘normalità' fatta di silenzi e di omertà».
Parola a Tano Grasso e don Ciotti.
Tano Grasso, 59 anni, ex-commerciante, è stato presidente della prima associazione antiracket italiana costituita a Capo d'Orlando (Messina) nel 1990. È stato il fondatore e il presidente della Fai (Federazione antiracket italiana) e attualmente ne è presidente onorario. È stato deputato e componente della Commissione parlamentare antimafia dal 1992 al 1996 e ha ricoperto il ruolo di Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura dal 1999 al 2001. Neppure lui è stato risparmiato da critiche e veleni.
«In questi 25 anni – spiega al sole24ore.com – ci sono state degenerazioni ed è stato facile nascondersi dietro la parola antimafia ma c'è un metodo semplice per guardare oltre la facciata e le apparenze: andare a vedere i fatti e non le parole. E tra questi, oltre alla nostra associazione, c'è Libera» (per l'intervista integrale a Tano Grasso si veda il video).
Già, c'è Libera, fondata il 25 marzo 1995 da don Luigi Ciotti che al sole24ore.com dice che «in questi anni “antimafia” è diventata una parola sospetta, uno strumento usato spesso per dotarsi di una falsa credibilità, quando non un paravento per azioni illecite. Abbiamo scoperto che gli stessi mafiosi, in alcune circostanze, si sono presentati nel nome dell'antimafia. Ma l'antimafia è un fatto di coscienza, un impegno costruito e comprovato dai fatti, non una carta d'identità da esibire a seconda delle circostanze. Non possiamo permetterci queste ombre, queste ambiguità. Non ce lo permettono le tante realtà, laiche e di Chiesa, che s'impegnano per ridare speranza e opportunità in contesti anche molto difficili. Non ce lo permette il migliaio di vittime delle mafie, persone che sono state uccise per un ideale di giustizia e di democrazia che sta a noi realizzare».

Buon antimafia (dei fatti) a tutti nei giorni in cui la memoria del giudice Falcone diventa sempre più viva in milioni di italiani.
r.galullo@ilsole24ore.com

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Da – ilsole24ore.com
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FIUME DI DENARO / PRIMA PUNTATA

Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria

Di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi 3 luglio 2017

La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordević fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante.

L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo.

Da Licio Gelli a Fort Knox, leggende e traffici dell'oro illecito
Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato.
Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino.

Il carico sparito, Gelli e il Pci
La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita».

Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
I numeri del distretto
Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno.
La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni.

NEI DISTRETTI
Le esportazioni di oreficeria dei principali distretti produttivi NEL 2016 in milioni di € e variazione % (Fonte: ISTAT – ATECO 321. I dati 2del 2016 sono provvisori)
1.814,7
1.548,8
1.343,6
786,1
154,2
130,6
63,2
58,3
39,2
25,8
Arezzo
Alessandria
Vicenza
Milano
Treviso
Firenze
Roma
Padova
Torino
Varese
0
500
1.000
1.500
2.000
Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014).
Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014).
Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative.
Il filo dell'oro “in nero” e gli effetti della crisi
La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”.
IL SETTORE ORAFO ITALIANO
Quadro di sintesi dell’andamento del settore orafo. Dati in milioni di euro e variazioni % 2016/2015. (Fonte: Istat)

Il fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente.
I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%).
INDICE DEL FATTURATO E DELLA PRODUZIONE DEL SETTORE OREFICERIA E BIGIOTTERIA
Medie mobili a 12 termini, 2010=100 (Fonte: elaborazione su dati Istat)

Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo.
Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione.
Argento vivo
Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi.
Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DELL’ARGENTO
(Fonte: London Bullion Market)

Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio.

La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato.
In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.
Il sistema della frode
Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DEL PLATINO
(Fonte: Mattheys)

I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo.

In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario.
Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.
Domande senza risposte di Nuova Banca Etruria
Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate.

Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino.

La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio.
Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili.

Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi».
Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario.

Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco».

Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».
Oro Italia trading “snella” ma attivissima
Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento).

Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere.
La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore.

L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto.
Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento.
Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg.
Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo.
Dalla Slovenia al Marocco c’è spazio per tutti
La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome.
Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa.
Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti.
Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DELL’ORO
Un lungo periodo sotto la lente (Fonte: London Bullion Market)

Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani. Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale.
Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox.

L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”.
La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione.

L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo).

L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.

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« Risposta #78 inserito:: Luglio 09, 2017, 09:40:59 am »


FIUME DI DENARO / SECONDA PUNTATA
La banda dell’oro che ruba ai poveri per dare ai ricchi

di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi 4 luglio 2017

Torino è tornata a respirare. La filiera della banda dell'oro – dai ricettatori a chi immetteva nuovamente il metallo prezioso sul mercato – è stata smantellata dalla Guardia di Finanza del capoluogo. In appena un anno e mezzo – dall'estate 2015 a gennaio 2017 – la banda dell'oro aveva piazzato 750 chili d'oro per un valore che supera i 25 milioni. «E' un dato parziale – spiega Stefano Lombardi, comandante del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Torino dal 29 luglio 2016 e che ha seguito l'operazione Melchiorre del 14 febbraio di quest'anno – perché si riferisce solo a quanto evidenziato dalle intercettazioni captate».

Così gli spalloni trasportano l'oro illecito

Già, perché seguendo il classico topo d'appartamento, che si rivolge al ricettatore, che si presenta a un compro oro senza scrupoli, che cede l'oro alla fonderia che lo trasforma in lingotti che venivano venduti a grandi società attraverso la fittizia interposizione di una società ungherese, la Gdf con l'indagine delegata dalla Procura di Torino (pm Valerio Longi e Roberto Sparagna) ha spezzato una catena di ricettazione che inondava la piazza di 10/12 chili a settimana. «Ora la rete dei ricettatori in città – aggiunge Filippo Ivan Bixio, comandante del Gruppo tutela mercato capitali del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Torino – è in difficoltà». Tanto per rendere l'idea: due dei presunti ricettatori indagati asseriscono di essere in grado di reperire 5/10 chili di oro a settimana, pronti per alimentare la catena – tutta rigorosamente in nero – della banda dell'oro.
IMPORT PER PROVINCIA
Le importazioni di oreficeria per provincia* nel 2015 in milioni di € e variazione % (*Dal ranking è stata esclusa la voce “Province non specificate e altri stati membri” che nel 2016 figura al quinto posto tra i territori importatori di gioielleria e bigiotteria - Fonte: ISTAT – ATECO 321, I dati 2015 sono revisionati)

L'operazione Melchiorre condotta anche in collaborazione con le autorità ungheresi e slovene, ha portato all'emissione di misure cautelari personali custodiali nei confronti di 11 persone per i reati di ricettazione e reimpiego, alla perquisizione di altre 9 gravemente indiziate di ricettazione e a un provvedimento di sequestro di beni per complessivi 9 milioni, tra cui quelli intestati a una società ungherese. Per lo più l'oro era provento di furti in appartamento e non è un caso che Torino sia tra le città più colpite dal fenomeno.

    FIUME DI DENARO / PRIMA PUNTATA 3 luglio 2017

Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria

Il Censis e l'Istat hanno scattato delle recentissime fotografie. Secondo il Centro studi investimenti sociali, che ha presentato l'ultimo report il 7 febbraio 2015, nel 2014 veniva svaligiata una casa ogni due minuti. Asti, Pavia e proprio Torino erano le province più colpite. In particolare a Torino quell'anno furono denunciati 16.207 furti in casa, con 7 famiglie ogni mille sorprese da irruzioni domiciliari e il bottino era quasi sempre rappresentato da oggetti d'oro.
I dati del Censis testimoniano una presenza consistente di stranieri sulla scena del crimine e l'indagine Melchiorre ne certifica in qualche modo la presenza visto che una buona parte dei ricettatori era di origine sinti.

Il rapporto Istat del 14 dicembre 2016 rafforza un dato di fatto: per i furti in abitazione, gli scippi, i borseggi e le rapine in abitazione, tra il 2010 e il
2015 si è assistito a una forte diminuzione dei tassi in molte province del mezzogiorno, al contrario delle province del centro e del nord che hanno fatto rilevare ingenti aumenti. Se la media italiana è di 17,9 famiglie ogni mille che nel 2014 hanno subito una visita di topi d'appartamento, in Piemonte il dato sale a 22,2, uno dei più alti in assoluto dopo l'Emilia Romagna (31,9 per mille).

Un'occhiata alle foto allegate all'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016 dal Gip di Torino Elena Rocci nei confronti degli indagati accusati di ricettazione, conferma che Torino. la sua provincia e l'intero Piemonte sono prede facili. Ci sono braccialetti, orecchini e collanine che arrivano da furti in serie nella cintura torinese: Orbassano, Tofarello, Lanzo Torinese, Borgone di Susa, Vigone, Moncalieri, Chieri, Nichelino, Beinasco e via elencando. Ci sono anelli e collane che sono invece il provento di furti a Castelnuovo Don Bosco e Moncalvo (Asti), Saluzzo (Cuneo).

La ragnatela internazionale
Italia, Ungheria e Slovenia sono i Paesi (per ora) coinvolti e la cui interconnessione è stata ricostruita dalla Gdf dopo mesi di indagini, intercettazioni, analisi di flussi finanziari, pedinamenti e strumenti di cooperazione internazionale di polizia – anche tramite il II Reparto del Comando generale del Corpo – che hanno permesso di ricostruire il meccanismo di reimpiego di oro di illecita provenienza. Il punto di partenza era costituito dai ricettatori di oggetti in oro, provenienti da reati contro il patrimonio, che venivano portati in una fonderia di Torino dove i preziosi venivano successivamente fusi e trasformati in verghe aurifere.

Il prodotto trasformato veniva quindi venduto, a quotazioni di mercato, a società nazionali operanti nel settore del commercio di oro, previa interposizione fittizia di una società ungherese, il cui titolare è un cittadino italiano, che intratteneva i rapporti commerciali con le società acquirenti nei confronti delle quali si limitava ad emettere fatture di vendita, ricevendone i relativi pagamenti mediante bonifici internazionali, dalla cui provvista prelevava il denaro contante che consegnava ai reali proprietari dell'oro ceduto alle società nazionali.

In questo modo l'oro, raccolto illecitamente a Torino e mai uscito dal territorio nazionale, risultava venduto da un operatore estero a una società nazionale, mediante un'operazione di acquisto intracomunitaria. La compravendita documentata era fondamentale per il gruppo perché permetteva di far uscire il denaro contante che sarebbe servito per finanziare i successivi acquisti illeciti di oro. Infatti, il denaro ricevuto con bonifico, a fronte della fattura emessa dalla società ungherese, veniva poi prelevato in contanti dai c/c accesi presso istituti di credito ungheresi, portato materialmente a Torino e consegnato ai reali venditori che lo utilizzavano per pagare in nero i fornitori/ricettatori.
A mettere in contatto tra loro i riciclatori è stato un procacciatore d'affari di Arezzo, che ne ha coordinato l'attività e, in una seconda fase dell'operazione, ha favorito l'accreditamento della cartiera ungherese presso un'impresa nazionale leader del settore «che altro non sarebbe – spiega Bixio – che Oro Italia trading, controllata al 100% da Nuova Banca Etruria» (si veda la puntata dell'inchiesta del 3 luglio).

L'oro ripulito torna sul mercato
Il guadagno dell'organizzazione si realizzava immettendo nuovamente l'oro ripulito sul mercato ufficiale, vendendolo, con regolari transazioni, a quotazioni di mercato ad altre società nazionali leader del settore.
In definitiva, le indagini hanno permesso di ricostruire un'intera filiera di approvvigionamento di oro procurato illecitamente – come detto circa 750 kg per un valore di oltre 25 milioni – dai ricettatori fino alle società professionali, gettando la luce sull'origine e sulla destinazione del metallo prezioso. È stato infatti possibile anche collegare un 26enne astigiano, fermato nei mesi scorsi con oggetti preziosi ottenuti truffando gli anziani, con l'organizzazione criminale smantellata.

Per la buona riuscita delle indagini è stato fondamentale, trattandosi di reati che hanno visto coinvolte società di altri Paesi dell'Ue, il coordinamento garantito dall'organismo di cooperazione internazionale Eurojust, un coordinamento che deve senza alcun dubbio implementato. L'indagine della Guardia di finanza di Torino non è ancora conclusa e tutto lascia pensare che altri Paesi saranno coinvolti. A partire dalla Svizzera – che rappresenterà la tappa dell'inchiesta del 5 luglio – che non a caso viene citata nelle carte della Procura di Torino. Due soggetti che nulla hanno a che fare con questa indagine ma con un'altra partita nel 2015, fanno infatti riferimento alla possibilità di vendere 8/10 chili di oro a settimana provenienti da una banca di Lugano.

Doppi fondi e pancere
Per trasportare l'oro, la banda non si faceva mancare nulla, a partire dalla classica macchina con doppio fondo. Non veniva usato solo il bracciolo anteriore; in un'automobile gli indagati si erano ingegnati nel modificare la portiera posteriore nella quale era possibile inserire verghe d'oro, che era possibile aprire con una brucola che azionava un piccolo pistone. La banda si era perfino attrezzata per ovattare la struttura e impedire rumori e contraccolpi (si veda il video).

Se la macchina truccata è un classico – nei decenni migliaia di viaggi sono stati effettuati in questo modo e non solo con le auto ma anche con i Tir e dunque è possibile solo intuire la quantità enorme di oro in “nero” che sfugge e che è sfuggita ad ogni sorta di tracciabilità finanziaria, fiscale ed economica – non lo è invece il trucco adottato per pagare gli scambi illeciti.
La Gdf di Torino è riuscita a fotografare il momento in cui un indagato indossa una pancera con la quale trasporta in modo occulto il denaro prelevato da una banca ungherese.

Il Banco metalli cabina di regia
La cabina di regia – secondo investigatori e inquirenti – era il Banco metalli Gianluca Ciancio srl, regolarmente iscritto presso l'albo speciale degli operatori professionali in oro detenuto dalla Banca d'Italia. Iscritto alla Camera di commercio di Torino il 16 aprile 2012 (inizio attività 9 gennaio 2013) con un capitale interamente versato di 120mila euro, reca come ragione sociale la fabbricazione di oggetti di gioielleria e oreficeria in metalli preziosi o rivestiti di metalli preziosi. A differenza dei compro oro – che acquistano oggetti preziosi usati da destinare successivamente al mercato come prodotti usati o come oggetti da rottamare destinati alla fusione – i banchi metalli, una volta raccolto l'oro possono solamente rivenderlo a operatori del settore.

Nell'edificio in Via San Paolo – un palazzina bassa e sorvegliata più di una banca – lavorano gran parte degli 11 dipendenti (il cui costo 2015 è stato di 194.509 euro) e niente lascia supporre che in quella anonima costruzione giri un fatturato di 9,9 milioni e un'utile di 220. 550 euro, secondo quanto certifica l'ultimo bilancio depositato. L'anno precedente. il 2014, la srl aveva chiuso con un fatturato di 22,4 milioni ma l'utile era stato quattro volte inferiore: 50.681 euro.
Secondo l'accusa questa società acquistava sistematicamente, per più volte alla settimana, da persone che agivano totalmente al di fuori di ogni formalità, oggetti preziosi di provenienza furtiva, la cui compravendita veniva regolata esclusivamente in contanti senza l'emissione di alcuna fattura né la redazione di alcuna dichiarazione di vendita. Era la stessa Ciancio srl a trasformare, mediante la fusione, gli oggetti che dunque venivano “rigenerati” in verghe aurifere pronte ad essere commercializzate. Brava la Gdf a indagare anche a seguito di una serie di segnalazioni di operazioni sospette, evidenziate mediante movimentazioni anomale, come ad esempio bonifici verso l'estero per quasi un milione a favore di uno stesso soggetto o prelevamenti in contanti per 400mila euro nell'arco di pochi mesi.

La riforma dei compro oro
Diversi, come abbiamo visto, sono i compro oro, da anni sotto la lente non solo della Guardia di finanza e delle Procure ma anche della politica.
Il 24 maggio il consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Paolo Gentiloni e del ministro dell'Economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, ha approvato in via definitiva il decreto legislativo che introduce una nuova disciplina per l'attività dei compro oro.
Il decreto delinea una disciplina ad hoc che consente di monitorare il settore e di censirne stabilmente il numero e la tipologia. La finalità è quella di contrastare sempre più efficacemente le attività criminali e i rischi di riciclaggio riconducibili alle attività di compravendita di oro e oggetti preziosi non praticate da operatori professionali.
Finora l'apertura di un esercizio di compro oro non era infatti soggetta ad una regolamentazione specifica, poiché è sufficiente ottenere una licenza per il commercio di oggetti preziosi, mentre al privato che vuole vendere oggetti di valore è sufficiente esibire un documento di identità senza dover certificare la provenienza di tali oggetti.

La nuova normativa, invece, impone ai titolari delle attività di compro oro precisi obblighi finalizzati a garantire la piena tracciabilità della compravendita e permuta di oggetti preziosi e a prevenirne l'utilizzo illecito, compreso il riciclaggio.
Ecco dunque che il decreto prevede l'istituzione di un registro degli operatori compro oro professionali per i quali il possesso della licenza di pubblica sicurezza costituisce requisito indispensabile; l'obbligo per gli operatori professionali in oro, diversi dalle banche, di iscrizione nel registro per lo svolgimento dell'attività; la previsione di specifici obblighi di identificazione del cliente e di descrizione, anche mediante documentazione fotografica, dell'oggetto prezioso scambiato; la piena tracciabilità delle operazioni di acquisto e vendita dell'oro.
I compro oro sono obbligati a dotarsi di un conto corrente dedicato alle transazioni finanziarie ed è stata infine abbassata da 1.000 a 500 euro la soglia per l'uso del contante per le attività del settore, al fine di garantire la tracciabilità delle transazioni.
Un'altra novità introdotta dal decreto riguarda l'arricchimento del set di informazioni che il compro oro è tenuto ad acquisire e conservare: l'obbligo di annotare l'eventuale cessione dell'oggetto a fonderie e la conservazione di due fotografie dell'oggetto prezioso che viene acquisito.

Parola a Federorafi
Ciò che manca in questa pur importante regolamentazione è ad esempio la diffusa applicazione di una piattaforma digitale ed informatizzata con la registrazione dell'operazione e la sua immediata visualizzazione da parte delle autorità di controllo, come da tempo chiede Federorafi, che rappresenta oltre 500 aziende industriali italiane nel settore, che operano soprattutto nei poli produttivi di Arezzo, Vicenza, Milano, Valenza e Napoli. La Federazione rappresenta pressoché la totalità delle imprese industriali del settore, che danno lavoro a seimila addetti. Queste aziende trasformano in gioielli il 70% dell'oro lavorato in Italia e li esportano in tutto il mondo. I due terzi della produzione orafa italiana, infatti, sono destinati all'esportazione.

Ma non è questa l'unica cosa che Federorafi chiede per rendere ancora più trasparente la filiera industriale dell'oro, come spiega il direttore Stefano De Pascale. «Da anni ci battiamo per una modifica legislativa in materia di Iva – spiega – che permetta l'estensione della inversione contabile, finora praticata solo in rari casi, all'intera filiera orafa, facilitando gli scambi tra i soli operatori e disincentivando l'evasione dell'Iva. Con la nostra proposta ci sarebbe un sistema blindato che non permetterebbe comportamenti illegali da parte di operatori poco affidabili».
Si tratterebbe, in poche parole, di introdurre in Italia il cosiddetto “black box” inglese nel quale è il consumatore finale a pagare l'Iva.
Semmai a preoccupare – più che il “non ancora fatto” – è ciò che non vien più fatto, come ad esempio i controlli sulle campionature d'oro, che spettano alle camere di commercio.

In sostanza le camere di commercio possono effettuare visite ispettive, anche a sorpresa, per prelevare campioni di materie prime, semilavorati ed oggetti finiti in metallo prezioso, già muniti di marchio e pronti per la vendita, per sottoporli a saggio ed accertare l'esattezza del titolo legale/dichiarato (vale a dire, ad esempio, la famosa dicitura 750 che indica la parte di oro puro dell'intera lega; nell'oro 750, detto anche 18 carati, il 750 per mille, o 75%, é composto da oro puro, mentre il restante 250 per mille, o 25%, da altri metalli) o verificare l'esistenza della dotazione di marchi di identificazione; controllare le caratteristiche di autenticità dei marchi e la loro perfetta idoneità all'uso.

«Fino a qualche anno fa – spiega De Pascale – esistevano alcune statistiche al riguardo perché per un certo periodo il ministero dello Sviluppo economico ha contribuito per il 50% alle spese sostenute dalle camere di commercio e in media il 5% dei casi evidenziava la non conformità al titolo dichiarato. Dal 2008 però non c'è stato di fatto più alcun controllo, se non in casi sporadici».
Un esempio può far capire l'importanza dei controlli per l'acquirente finale del prodotto. Se un orefice scorretto vende ad un promesso sposo una fede nuziale spacciata per oro 750 e in realtà si tratta invece di oro 740, il commerciante sleale può guadagnare fino a 3 euro. Beninteso: a grammo.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-06-15/la-banda-dell-oro-che-ruba-poveri-dare-ricchi-144704.shtml?uuid=AE0Yq9eB
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 18, 2017, 04:49:26 pm »


Palazzi evacuati a Sciacca
Perché la mafia dei terreni incendia l'Italia

Di Roberto Galullo 13 luglio 2017

La mafia dei terreni – boschi e pascoli – colpisce ancora. Dietro i roghi che stanno devastando ettari ed ettari di terreno in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia c'è quasi sempre la mano criminale dell'uomo. In attesa che la follia autodistruttiva colpisca anche altre regioni che tradizionalmente sono flagellate dal fenomeno – come la Puglia – è bene mettere in fila alcune ragioni per le quali la criminalità organizzata ha interesse ad attizzare gli incendi. Non esiste una classifica di demerito. Anzi, spesso, le ragioni folli viaggiano insieme.

Una ragione è la pervicacia di cosche e clan nel dimostrare che, di qualunque area, sono in grado di indirizzare destini, fortune e sfortune. Dimostrano ai proprietari (siano essi privati o demaniali) che possono fare il bello e il cattivo tempo. A maggior ragione – si badi bene – se i boschi e i pascoli incendiati sono assoggettati a vincolo di inedificabilità quindicennale. E' evidente l'intento del Legislatore di impedire la speculazione edilizia che deriverebbe dal mutamento di destinazione urbanistica dei terreni. Se il proprietario non si piega alle richieste estorsive dei criminali – ma ragionamento per altro verso analogo può essere fatto nei confronti delle amministrazioni che perdono entrate dalla mancata edificazione – ecco che scatta la furia incendiaria.

In Campania, Sicilia – ma anche sempre più in Lombardia – ciò che il fuoco arde può diventare terreno di sversamento illecito di ogni tipo di rifiuto. Se le aree sono impervie (ma non certo per le rodate organizzazioni malavitose) è meglio.

Cosa nostra in alcune aree siciliane – recentemente sono saliti alla ribalta i Nebrodi – è talmente ammanicata con i settori deviati delle amministrazioni pubbliche che è in grado di pianificare truffe redditizie ai danni dell'Unione europea o della stessa Regione. Per esempio, nelle assegnazioni di terreni pubblici a prestanome e/o a esponenti delle famiglie locali di mafia, che per quelle terre usufruiscono di finanziamenti per attività mai realizzate, praticando invece abigeato, macellazione di carni clandestine e infette e in varie altre attività economiche in nero.

LA CLASSIFICA DEGLI INCENDI DOLOSI-COLPOSI-GENERICI
Numero infrazioni accertate e percentuale sul totale nazionale. Dati 2016
E che dire della Calabria dove spesso operai infedeli appiccano volontariamente il fuoco perché sanno che in quel modo l'anno successivo hanno il posto assicurato nel ripascimento?

Del resto che la mafia dei terreni abbia un business lo dicono anche i numeri. Come quelli messi in fila dall'ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente.
Lo scorso anno sono stati 4.635 gli incendi boschivi che hanno visto l'intervento dell'ex Corpo forestale dello Stato e dei corpi regionali, numeri ancora in crescita rispetto al 2015. Roghi che hanno mandato in fumo nel 2016 più di 27mila ettari di aree verdi. Esattamente quanto è stato devastato dal fuoco in questo assaggio di estate 2017. Di male in peggio.

Le persone denunciate, tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi nel 2016 sono state 322, mentre quelle arrestate sono state 14.

Gli incendi non vengono appiccati solo d'estate. Uno degli ultimi casi di fiamme invernali che, nonostante le temperature basse, in poco tempo divorano pezzi di superficie boschive, risale al mese di febbraio, quando è stato sfigurato un ampio tratto di bosco a Solcio di Lesa (Novara), oltre che in una riserva di caccia tra Oleggio e Gattico.

IL BUSINESS DEGLI INCENDI
In base agli eventi dolosi, colposi, generici nel 2016, in milioni di euro. (Fonte: elaborazione Legambiente su dati del Corpo forestale dello Stato)
Le stime complessive fatte dall'ex Corpo forestale sui danni ambientali causati nel 2016dai roghi ruotano intorno ai 14 milioni mentre i soli costi per l'estinzione sono stati quantificati in circa 8 milioni, per un totale di quasi 22 milioni.

r.galullo@ilsole24ore.com
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-13/perche-mafia-terreni-incendia-italia-214116.shtml?uuid=AEAMPAxB
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« Risposta #80 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:16:49 pm »

DOPO L’AGGRESSIONE AL GIORNALISTA RAI
Ostia: la “capocciata” svela interi segmenti dell’economia condizionati dalle mafie

–di Roberto Galullo 10 novembre 2017

Tutti ad accorgersi di Ostia per quella che a Roma viene definita una “capocciata” che, in questo sventurato caso, ha colpito un giornalista reo di aver fatto solo il proprio mestiere. Eppure Gianpiero Cioffredi, presidente dell'Osservatorio tecnico-scientifico per la sicurezza e la legalità, nel II rapporto sulle mafie nel Lazio, presentato lo scorso anno, scriveva che alcuni processi, come quelli in corso sulle vicende del litorale laziale, «spesso non trovano spazio su giornali e tv ma raccontano di numerose città, di quartieri e interi segmenti dell'economia condizionati da mafie e associazioni a delinquere, in gran parte collegate al traffico di sostanze stupefacenti». Ora gli occhi anche della stampa internazionale sono su questo quartiere.

IL MUNICIPIO ROMANO  09 novembre 2017
Armi, droga, mafie: Ostia «laboratorio» della criminalità
Un’attenzione tardiva, visto che questa immensa area della Capitale, è infangato da decenni dalla presenza delle mafie del sud, a partire da Cosa nostra. Gaspare Spatuzza, boss della famiglia mafiosa di Brancaccio (Palermo), riguardo agli interessi economici di Cosa nostra sul litorale laziale, nel 1996 dichiarò che «avevano il paese di Ostia nelle mani». Il riferimento era alla “gemmazione” ostiense della famiglia originaria di Siculiana (Agrigento) Cuntrera-Caruana, della quale Spatuzza doveva uccidere un elemento di spicco. L'omicidio non andò a buon fine perché Spatuzza venne arrestato il 2 luglio 1997.

L'indagine “Tramonto” della Gdf del 4 marzo mise a nudo, per usare le parole messe nero su bianco dal Gip D'Alessandro, «un contesto spaventoso» nel quale «ha senso parlare di mafia». Per il gip e la Dda di Roma che svolse l'indagine la famiglia Fasciani sul litorale aveva costituito un impero economico attraverso una serie di società nel settore della ristorazione, della gestione di stabilimenti balneari, delle discoteche e della rivendita e noleggio di auto. Dopo che il 14 giugno 2016 , in primo grado, era stata negata la mafiosità della famiglia (ora, sembra, in caduta libera), il 15 giugno 2017, dunque un anno dopo, la Corte d'appello di Roma ha ribaltato la sentenza. La parola definitiva spetta alla Corte di Cassazione.

Proprio il lido ostiense – con tutto quel che ne consegue, vale a dire attività balneari, di ristorazione, di divertimento e di gioco – fu oggetto di una durissima riflessione, il 9 marzo 2016 davanti alla Commissione parlamentare antimafia, del prefetto Domenico Vulpiani. «Il litorale è la parte che più desta preoccupazioni perché è composto di 18 chilometri ed è fonte di grande dibattito sul suo futuro, quanto su di esso il 56% è occupato da stabilimenti balneari disse poco più di un anno fa – mentre la restante parte di arenile è gestita con spiagge libere o spiagge libere attrezzate. Su tutto il litorale, in ogni parte di questa spiaggia, si sono verificati degli abusi non solo edilizi, ma anche di gestione, di mala gestione e di non pagamento dei tributi dovuti. Sono frutto di sessant'anni, dal dopoguerra in poi, di una sovrapposizione di atti della pubblica amministrazione non sempre presi con particolare attenzione – mettiamola così – nella migliore delle ipotesi. In altri casi ci sono stati veri e propri atti discussi, anche oggetto di inchieste giudiziarie».


DOPO L'AGGRESSIONE AL REPORTER RAI  09 novembre 2017
Ostia, Spada è in carcere. Minniti: in Italia no zone franche
In relazione all'attività di controllo e verifica il prefetto Vulpiani aggiunse: «Ad oggi possiamo dire di aver svolto un'attività di controllo su 42 stabilimenti demaniali, dei quali 30 svolti in via d'iniziativa amministrativa direttamente dal tavolo tecnico di cui ho detto prima, otto svolti di iniziativa della polizia locale, che ha agito in termini di polizia giudiziaria di fronte ad abusi molto rilevanti e particolarmente evidenti, e altri quattro svolti sempre dalla polizia locale, ma con il supporto del tavolo tecnico e sempre come polizia giudiziaria. Otto di questi sono stati sottoposti a sequestro giudiziario e hanno, quindi, in corso un'attività della magistratura, della procura di Roma, che sta indagando su queste situazioni che sono state rappresentate nell'inchiesta. Altri quattro sono stati solo oggetto di notizia di reato e siamo in attesa delle decisioni del magistrato. Le attività ispettive, che non sono semplici, proseguiranno senza interruzione fino all'espletamento dei sopralluoghi su tutte le 71 concessioni demaniali marittime».

RAGGI: «VIOLENZA INACCETTABILE» 08 novembre 2017
Ostia, domande sui rapporti tra Casapound e clan Spada: aggredito giornalista Rai
Il gioco d'azzardo, sopra accennato, è un'altra enorme risorse in mano a consorterie criminali organizzati ad Ostia. Casalesi e ‘ndrangheta, qui, hanno costituito piattaforme informatiche sulle quali dar vita a siti online per il gioco del video poker. Inutile dire che anche il collocamento fisico dei “totem” utilizzati per giocare in sale e video sale è, spesso, “cosa loro”. Così come, forse è inutile dire – ci sono indagini e sentenze a ricordarlo – che senza una pervasiva corruzione all'interno della pubblica amministrazione e senza la cosiddetta “zona grigia”, composta da figure professionali qualificate (bancari, commercialisti, esercenti le professioni sanitarie) il potere economico delle mafie extraregionali e indigene, non avrebbe potuto prendere la piega che da tempo ha preso ad Ostia.


Troupe Rai aggredita da membro clan Spada
Per capire Ostia, forse può aiutare quello che il 12 febbraio 2014 dichiareranno, ancora una volta in Commissione parlamentare antimafia, il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il suo storico aggiunto Michele Prestipino Giarritta. Il procuratore aggiunto di Roma ricordò che ad un collaboratore di giustizia venne chiesto conto dell'uso della violenza ad Ostia. Gli venne domandato: «Bisogna ricorrere alle intimidazioni, al danneggiamento, all'incendio per esigere il pizzo?». E quello rispose, rivelò Prestipino Giarritta: «Macché, quando mai? No, no. La gente ha paura già di per sé. Ha paura di per sé sentendo il nome. Su dieci al massimo, una o due volte uno deve fare sentire qualche cosa».
r.galullo@ilsole24ore.com

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-10/ostia-capocciata-svela-interi-segmenti-dell-economia-condizionati-mafie-131353.shtml?uuid=AETdNY8C
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« Risposta #81 inserito:: Febbraio 12, 2018, 08:29:00 pm »

Tra le valli svizzere il nuovo paradiso offshore di società e fiduciari italiani

•   –di R. Galullo e A. Mincuzzi

•   12 febbraio 2018

La carovana dei fiduciari italiani in Svizzera sta migrando da Lugano ai Grigioni italiani con tutto il carico di truffe che alcuni di essi finora hanno messo in campo. Solo che a differenza del Canton Ticino, dove le sedi sono sfarzose e lussuose, in Mesolcina sono fantasmi o abilmente camuffati. Dal 2013 al 2017 ben 333 società si sono trasferite dal Canton Ticino nei Grigioni, di cui 277 si sono installate nei sette comuni di lingua italiana. La strada inversa è stata invece percorsa da 171 società, 122 delle quali provenienti dai Grigioni italiani. La maggior parte delle società opera nel settore fiduciario ma sono sempre di più quelle che negli ultimi tre anni sono attive nel settore edilizio o in quello degli esercizi pubblici. I Grigioni italiani sono come una calamita: l'80% delle società che hanno lasciato il Canton Ticino negli ultimi cinque anni è approdata qui.
Anche se è perfettamente legale, il rischio è che dietro molte di queste società si celino anche il riciclaggio di denaro sporco, frodi fiscali e addirittura l’ingresso di capitali della criminalità organizzata italiana e transnazionale.

L'INVASIONE DELLE SOCIETÀ IN MESOLCINA
Fonte: elaborazione del Sole 24 Ore su dati del Registro di commercio del Cantone dei Grigioni
 
Una cantonale intasata di società
La strada cantonale che attraversa i Grigioni italiani (Mesolcina e Calanca) è tappezzata di cassette per le lettere con i nomi di ben 3.700 società, in gran parte di proprietà di italiani, anche se basta un'occhiata per capire che sono tanti i titolari provenienti dai paesi dell'Est europeo e dal Sudamerica. Secondo il Registro di commercio del Canton Grigioni, nei 39 chilometri che separano San Vittore - primo comune della valle - dal passo di San Bernardino sono però attive soltanto 1.581 società, vale a dire il 43% del totale.
Il passo di San Bernardino, in Svizzera (Marka)
Appena si entra nei Grigioni italiani la dimensione del fenomeno appare subito chiara. A San Vittore, 766 abitanti, le società attive sono 143, vale a dire una ogni 5,3 abitanti. E' proprio qui che si trova un campione italiano tra i fiduciari carovanieri: Marco Sarti figura (o figurava) come socio, gerente o liquidatore di 19 società trasferite da Chiasso anche più di una volta in più comuni di lingua italiana. Di queste, ben 15 sono in liquidazione. Sarti è indagato in Italia per bancarotta fraudolenta e reati tributari dalla Procura di Lecco. Il comando provinciale della Guardia di Finanza di Lecco, guidata dal colonnello Massimo Dell’Anna, gli ha finora sequestrato circa 2,3 milioni di euro. Il Tribunale del riesame ha rigettato finora tutti i ricorsi presentati contro i sequestri non solo da Sarti ma anche dagli altri indagati.
Da San Vittore a Roveredo il passo è breve ma la musica non cambia. Qui le società registrate sono 1.617, di cui attive 528 (32,6%). Le “bucalettere” si concentrano in alcuni edifici dove le società figurano spesso solo sulla carta. Emblematico il caso del Palazzo del sole, dove erano domiciliate 25 società. A Roveredo si assiste anche a fenomeni che hanno del paranormale, come quello di una holding immobiliare che lì ha la sede ma l'indirizzo denunciato fin dal 1999 nel Registro di commercio, che come da prassi non si è accorto di nulla, è uno spazio bianco. Nessuno sa dove sia e se ci sia davvero.
Il comune di Roveredo negli ultimi tempi ha voluto vederci chiaro e ha avviato ispezioni per verificare l'operatività delle società registrate nel suo territorio. Dai primi controlli sembra che il 50% operi solo sulla carta.
La caccia ai fantasmi
Risalendo la via Cantonale si arriva a Grono, 1.340 abitanti e una società ogni tre residenti. Le società spuntano come funghi soprattutto in edifici che sembrano essere nati apposta per ospitare le “bucalettere”. Cinquantasette società erano ospitate in un ex asilo, la Ca' Rossa, dove avrebbe dovuto sorgere un polo tecnologico. I fiduciari girovaghi non hanno paura di arrampicarsi neppure per zone impervie come Leggia, una frazione di Grono, dove sorge un edificio dall'intonaco beige chiamato Casa Olga, dove sono registrate alcune società compresa quella di Rosanna Papalia, figlia del boss di 'ndrangheta Rocco, tornato a Buccinasco (Milano) dopo 28 anni di carcere.
L'INGRESSO NEI GRIGIONI

Numero di società operanti nel Cantone Grigioni e provenienti dal Canton Ticino, suddiviso per tipologia ed anno (alcune società hanno nello scopo sociale più di una attività) (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Fiduiciario   22   34   38   36   22
Edilizio   3   11   15   20   15
Esercizi pubblici   7   4   5   8   3
Altro   2   14   24   29   27
TOTALE   34   63   82   93   67
LA PARTENZA DAI GRIGIONI

Numero di società operanti nel Canton Ticino e proveniti dal Canton Grigioni suddiviso per tipologia e anno (alcune società hanno nello scopo sociale più di una attività) (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Fiduciario   3   12   9   8   9
Edilizio      4   5   6   4
Esercizi pubblici   3   3   3   3   
Altro    6   7   12   22   3
TOTALE   12   26   29   39   16
Non è difficile capire perché dal Canton Ticino, dove un minimo di controllo da qualche anno c'è, le società vengono a perdersi in lande sperdute e poco abitate. Basti pensare che a Grono una società - dopo aver cambiato due indirizzi in tre anni - ora dichiara ufficialmente al Registro di commercio del Canton Grigioni di non avere «più un domicilio legale».
Le stranezze ci sono anche in val Calanca. A Rossa, un posto sperduto che in inverno ha più neve che sassi, ha sede una società che ha come scopo la fornitura dei servizi industriali e civili per le società petrolifere e petrolchimiche. Non solo: fornisce anche il catering alle piattaforme offshore di perforazione e di produzione e alle petroliere. In appena quattro anni la società ha cambiato quattro sedi, passando da Lugano a Roveredo e a Grono prima di approdare a Rossa.
L'ARRIVO NEI GRIGIONI PAESE PER PAESE DAL CANTON TICINO

Trasferimenti di sede: partenza per il Canton Grigioni (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Per Roveredo   9   16   21   22   19
Per Grono   8   15   25   31   27
Per S. Vittore   4   6   10   10   1
Per Rossa   5   5   1   2   5
Per Mesocco   1   7   8   4   4
Per Cama   *   2   2   2   2
Per Soazza   *   *   1   2   *
Totale per Gr-It   27   51   68   73   58
Per gli altri comuni Gr   7   12   12   18   7
Totale per Gr   34   63   80   91   65
% Gr-It rispetto totale Gr   79,41   80,95   85   80,21   89,23
Totale per Ch   98   148   176   195   118
% Gr rispetto a Ch   34,69   42,56   45,45   46,66   55,08
L'ADDIO AI GRIGIONI PAESE PER PAESE

Trasferimenti di sede: partenza per il Canton Grigioni (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Da Roveredo   7   11   15   12   7
Da Grono   1   9   7   11   4
Da S. Vittore   *   4   1   6   *
Da Rossa   *   *   1   1   2
Da Mesocco   2   1   1   4   1
Da Cama   1   1   *   2   *
Da Soazza   1   *   4   3   2
Totale per Gr-It   12   26   29   39   16
Da gli altri comuni Gr   7   14   7   14   7
Totale per Gr   19   40   36   53   23
% Gr-It rispetto totale Gr   63,15   65   80,55   73,58   69,56
Totale per Ch   103   161   151   157   107
% Gr rispetto a Ch   18,44   24,84   23,84   33,75   21,49
A Mesocco il mare non c'è, anche perché il passo di San Bernardino è lì con annessa stazione sciistica. Eppure proprio a San Bernardino, a 2.066 metri sul livello del mare, è registrata una società anonima che si occupa in particolare di trasporti navali speciali. È l'unica stranezza? No, perché sempre a San Bernardino è stata appena liquidata una società che si occupava di costruire e vendere imbarcazioni.
Il sindaco di San Vittore, Nicoletta Noi Togni
Un caso politico
La rivolta contro le società “bucalettere” è partita nel 2003 con la denuncia del sindaco di San Vittore, Nicoletta Noi Togni. Di recente però la questione è stata rilanciata con forza dal granconsigliere del Parlamento dei Grigioni, Peter Hans Wellig, albergatore di San Bernardino.
Il 13 giugno 2107 Wellig ha presentato un'interpellanza al Governo di Coira nella quale denuncia che «il Moesano è diventato un “Eldorado” per società “bucalettere” che non contribuiscono assolutamente all'economia regionale, ma che anzi la condizionano negativamente. La creazione di queste società porta con se sovente la richiesta e l'ottenimento dal Cantone tramite allestimento di contratti di lavoro “artificiosi”, di permessi» di residenza.
Wellig denuncia la facilità con la quale è possibile ottenere i permessi di dimora da parte di stranieri, che invece non vengono più rilasciati facilmente nel Canton Ticino per frenare la forte richiesta proveniente dall'Italia.
Il Granconsigliere dei Grigioni, Hans Peter Wellig
Le società infatti vengono spesso utilizzate per ottenere impropriamente i sussidi di disoccupazione. Il sistema è collaudato: si registra una società, ci si fa assumere come dipendenti e si ottiene il permesso di dimora. Una volta che la società viene fatta fallire si richiede il sussidio di disoccupazione, che in Svizzera arriva, di regola varia tra 400 e 520 giorni e consente di incassare al massimo 100.800 franchi svizzeri all'anno, che equivalgono a circa 85mila euro. non c'è dunque da meravigliarsi se i Grigioni italiani sono diventati un cimitero degli elefanti dove le società vanno a morire.
Nella sua risposta, il Governo di Coira ha specificato che dal 1° agosto 2013 l'Ufficio regionale di collocamento di Roveredo ha registrato 109 cittadini italiani titolari di permesso B che hanno beneficiato almeno di un'indennità giornaliera di disoccupazione.
Nel Moesano nel 2014 - ha denunciato Wellig - sono stati emessi dal competente ufficio di Roveredo 3.429 precetti esecutivi, che riguardano società fallite. Nel 2015 i precetti sono stati 3.595 e 4.128 nel 2016. Dal 2013 al 2014 i precetti sono aumentati del 170%. Nel 2016 il rapporto tra precetti esecutivi e popolazione (nella valle ci sono 8.300 abitanti) è stato di un precetto ogni due abitanti. A titolo di confronto nella Regione Bernina il rapporto è stato di uno a otto. Il Moesano è al secondo posto dopo Coira, nel Cantone dei Grigioni, per numero di fallimenti. Nei primi cinque mesi del 2017 sono stati già superati i 20 fallimenti contro i circa 40 dell'intero anno precedente.
L’avvocato Paolo Bernasconi (a sinistra) con l’inviato del Sole 24 Ore, Angelo Mincuzzi
Parola all'ex procuratore pubblico di Lugano
Di cimitero degli elefanti parla anche Paolo Bernasconi, avvocato ed ex procuratore pubblico di Lugano, che paragona la valle Moesa ai paradisi fiscali dei Caraibi definendola «una splendida isoletta tra i monti». Da molti anni, incalza Bernasconi, si assiste all'esodo di società da tutta la Svizzera verso i Grigioni italiani con l'obiettivo di farle fallire proprio in Mesolcina perché l'ufficio dedicato a seguire le pratiche è oberato di lavoro.
La mancanza di controlli è un carburante per le truffe. «Sono numerosissimi gli investitori, non solo italiani, ma anche ticinesi e da tutto il mondo - afferma Bernasconi - che sono stati truffati anche da società che hanno un ufficetto di rappresentanza a Lugano, con brochure in carta patinata, ma che operano in val Moesa».
Ma c'è la volontà politica di cambiare le cose? «Assolutamente no - risponde Bernasconi -, tanto che recentemente si è assistito alla revisione federale dei registri di commercio ma non è stato fatto nessun passo in avanti. E questi ultimi rimangono ciechi, sordi e muti».
Bernasconi racconta con una battuta di aver sollevato il problema già una trentina di anni fa, quando era magistrato a Lugano, e aveva consigliato ai suoi colleghi dei Grigioni che, se non fosse stato possibile aprire un ufficio giudiziario in Mesolcina, almeno affiggessero un grande cartello con la scritta “Attenzione, ministero pubblico del Canton Grigioni”. Un dissuasore che potesse fare quantomeno prevenzione.
Lex commissario a caccia di truffe
Le indagini di un ex agente sotto copertura
Ad aprire gli occhi sulla facilità con la quale è possibile creare società “bucalettere” in Mesolcina, in tempi non sospetti è stato anche Fausto Tato Cattaneo, ex commissario dell'antidroga ticinese, assurto agli onori della cronaca negli anni Ottanta per le sue operazioni sotto copertura per la lotta al traffico di stupefacenti e autore del volume “Come ho infiltrato i cartelli della droga”, pubblicato nel 2001.
Ormai in pensione, Cattaneo sta portando avanti investigazioni di natura privata per dare la caccia ai truffatori e alle infiltrazioni di natura criminale nell'economia della sua valle. Le sue inchieste daranno presto vita a un nuovo libro, al centro del quale ci saranno anche storie di molti fiduciari e faccendieri italiani. Il filo delle investigazioni di Cattaneo sui Grigioni italiani porta anche a imprenditori italiani residenti a Londra che hanno società nel Regno Unito e a Cipro, nota piattaforma di riciclaggio internazionale.
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