Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #2 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:16:44 am » |
|
1962, LA REAZIONE DEL GHETTO
E alla fine è esplosa la rabbia
«Ne hanno ammazzati solo 6 milioni di voi ebrei: e sono stati pochi»: così aveva urlato una ragazza in uno dei tanti assalti del Msi al ghetto di Roma
di Renzo Trionfera
Dopo gli incidenti dei primi due giorni della settimana, i neofascisti si erano tenuti prudentemente lontani dal ghetto di Roma. Anche le loro fragorose carovane elettorali avevano smesso di scorrazzare lungo il confine, tra via Arenula e il lungotevere Cenci. Molti ebrei, tuttavia, erano sicuri che l’incendio covava sotto quella calma apparente. Forse anche per l’azione svolta da abili propagandisti di estrema sinistra, si dava quasi per certa una grande spedizione dei fascisti per la serata di venerdì, in piena Pasqua rosa ebraica (chiamata anche la festa di Shavuot o della mietitura del grano, ndr).
I giovanotti giunti da ogni parte di Roma, per formare i picchetti di difesa del ghetto, ascoltavano preoccupati le voci che giravano tra i correligionari del luogo. «Venerdì sera», sentivano dire, «il Msi terrà il suo comizio di chiusura al Colosseo: migliaia di fascisti si raduneranno a poco più di un chilometro di distanza dal nostro tempio. Finito il comizio, punteranno sul ghetto, per tentare un’azione come quelle di una volta». Il rabbino capo Elio Toaff (dal 1951 al 2002, ndr) e i dirigenti della comunità romana avevano cercato in ogni modo di calmare gli animi. Nessuno, tuttavia, poteva escludere che quelle voci non avessero qualche fondamento di verità. «Sarà magari esagerato dire che verranno a migliaia», pensavano i moderati, «ma potrebbero presentarsi quei forsennati che già altre volte sono venuti a gridare viva Adolf Hitler o viva Benito Mussolini per le strade del vecchio ghetto. E se vengono adesso, con l’eccitazione che c’è nell’aria, che cosa accadrà?». «Se vengono», dicevano da parte loro i giovanotti dei picchetti, «troveranno pane per i loro denti. Siamo stati tranquilli per anni: abbiamo cercato di dimenticare quel che nessuno di noi dimenticherà mai. Ma se continuiamo a stare tranquilli, i fascisti ne approfitteranno per tornare a spadroneggiare. Se vengono, ci difenderemo come non abbiamo mai fatto finora». I giovanotti che nel Msi, o fuori, militano nelle formazioni razziste di Ordine nuovo, anche se furono tentati di fare qualche dimostrazione antisemita, fiutarono evidentemente l’aria cattiva.
Andarono a cantare i loro inni guerreschi e nostalgici in luoghi lontani dalla sinagoga. I picchetti di giovani ebrei che passeggiavano nell’area del ghetto, così come i numerosi agenti in borghese e in divisa, di guardia sul “confine”, vegliarono inutilmente. Non accadde assolutamente nulla. Ma non per questo gli animi tornarono sereni. I poco più di mille ebrei che tuttora vivono tra il Portico di Ottavia e il Tevere restarono con i nervi a fior di pelle e con un senso di angoscia nel cuore, quasi del tutto ingiustificato. Alcuni, le donne in particolare, si buttarono sul letto vestiti, come facevano tutti tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1944, al tempo dell’occupazione tedesca. Oggi, come allora, volevano essere pronti a ogni eventualità. E in molte famiglie, nelle due notti della Pasqua rosa 1962, ci fu chi andò ad appisolarsi accanto alla finestra, con l’orecchio teso, pronto a dar l’allarme agli altri. Ma i fatti accaduti la scorsa settimana, tra il 4 e il 5 di giugno, erano sufficienti a giustificare quel clima? Visti dall’esterno, no. Nemmeno al confronto con quello che era accaduto in un recente passato. Esattamente nove anni fa, per esempio, alla vigilia delle elezioni del giugno 1953, i neofascisti avevano dato la chiara sensazione di voler ereditare non solo i metodi dello squadrismo, ma anche quel razzismo che per i fascisti pre-25 luglio aveva costituito merce d’importazione forzata dalla Germania di Hitler. Alcuni giorni prima della consultazione elettorale, numerosi gruppi di scalmanati avevano invaso il ghetto. La spedizione, che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto avere solo un carattere dimostrativo, finì male. Superato il primo momento di stupore, gli ebrei avevano reagito con violenza. Gli appartenenti ai Fasci d’azione rivoluzionaria e alla Legione nera, i mistici della razza pura e del tritolo (cioè quelli che s’erano specializzati in attentati dinamitardi) presero un fracco di legnate. Molti trovarono addirittura rifugio nella sinagoga, in attesa che la polizia li conducesse “fuori area”. Per cinque anni, il manipolo degli “uomini solari”, quelli che avevano come ideale un fascismo di tipo nazista e che sostenevano la supremazia di una razza nordico-romana, si limitarono a fare disquisizioni cabalistiche nelle riunioni segrete o su fogli che non leggeva nessuno. Tornarono a farsi vivi sul terreno dei fatti nel 1958, nell’imminenza delle ultime elezioni politiche. Il 23 maggio di quell’anno, due grosse e veloci automobili nere entrarono nel ghetto di Roma. A bordo c’erano, in tutto, otto giovanotti robusti, alcuni dei quali con i capelli rasati a zero.
Nessuno fece caso al gruppetto finché alcuni di loro non si misero in testa dei fez fascisti e non cominciarono a inneggiare a Mussolini e a Hitler. Nel giro di pochi minuti una folla minacciosa li strinse d’assedio. Fez e gagliardetti neri furono fatti a pezzi; gli otto che facevano parte della “Ciurma audace” (una formazione giovanile del Msi) furono costretti a una rapida ritirata, incalzati da spintoni e calci. Una delle due automobili venne rovesciata. Dopo alcuni minuti, nel corso dei quali i neofascisti rimasero alla mercé della popolazione del ghetto (che in sostanza si comportò con molta indulgenza), tutta la “Ciurma audace” poté mettersi in salvo, squagliandosela attraverso l’Isola Tiberina o salendo sui tram in corsa. Lasciarono, tuttavia, nelle mani degli “avversari”, le insegne littorie insieme con lembi delle giacche. A quell’episodio gli ebrei che vivono nel ghetto diedero importanza relativa. Non costituirono picchetti di difesa; ritennero che la lezione data ai neofascisti potesse servire a lungo. Fu per questo che alcuni “legionari”, nel corso della notte successiva, riuscirono a compiere una rappresaglia. Una volta sicuri che attorno al Tempio israelitico il campo era assolutamente libero, un folto gruppo di giovani fascisti motorizzati vendicò i camerati della “Ciurma audace”. La lapide che su un fianco della sinagoga ricorda gli 83 ebrei assassinati alle Ardeatine fu volgarmente imbrattata; in un portafiori sistemato dinanzi alla lapide stessa i legionari posero un manganello. Dopo di che, al canto degli inni nostalgici, abbandonarono il campo.
L’indomani la reazione degli ebrei fu violenta. Le autorità israelitiche dovettero impegnarsi a fondo, per impedire che l’eccitazione e lo sdegno spingessero qualcuno ad azioni sconsiderate. Sebbene con difficoltà, la calma poté essere presto ristabilita. La settimana scorsa la provocazione dei fascisti non fu sostanzialmente più grave. Nel pomeriggio di lunedì, all’improvviso, una Seicento e un’Alfa Romeo Giulietta tappezzate di manifesti neofascisti capitarono in pieno ghetto. Gli occupanti dissero, poi, di averlo fatto involontariamente. Forse era vero, perché vi erano giunti da una strada a direzione vietata. Una volta accortisi dell’errore, però, si erano dimenticati di spegnere l’altoparlante che tuonava inni di sapore nostalgico. Gli ebrei, dunque, avevano pensato a una nuova provocazione identica a quella del 1958. Si erano lanciati urlando e tutto sarebbe finito con qualche livido e qualche ammaccatura alle macchine se, al termine di un breve tafferuglio, una ragazza non avesse urlato una frase che lì, nel ghetto romano, suonava come l’intollerabile apologia di un’infamia. «Ne hanno ammazzati solo 6 milioni, di voi ebrei: e sono stati pochi», aveva urlato la donna. Di fronte a lei, separati da alcuni agenti in borghese (che stavano tentando di mettere pace), vi erano soltanto congiunti di gente uccisa alle Ardeatine o massacrata dai nazisti nei campi di sterminio. Era inevitabile un’esplosione di furore. E fu un miracolo, tutto sommato, se i missini riuscirono a lasciare la zona con le loro gambe. Alcuni ebrei finirono al commissariato. Verso mezzanotte, quando nell’area del ghetto gli animi ancora non s’erano placati, un paio di automobili propagandistiche del Msi passarono lungo il “confine”. Furono bloccate dagli ebrei e alcuni degli occupanti, di lì a poco, dovettero farsi medicare ai vicini posti di pronto soccorso. L’indomani venne ripresa, tanto dai dirigenti della comunità quanto dalla polizia, un’opera intesa a sdrammatizzare la situazione. Un’opera, questa volta, più difficile delle altre volte. Ma la sera di martedì i missini tornarono alla carica, per compiere una dimostrazione di rappresaglia. Con sei automobili raggiunsero il lungotevere Cenci e intonarono i loro canti. Avevano fatto i conti senza i picchetti di difesa.
Gruppi di ex deportati si diressero minacciosi verso di loro. Tre macchine riuscirono a svignarsela; altre tre furono raggiunte all’altezza di ponte Garibaldi. Si ebbero tumulti, che costrinsero la polizia a usare i manganelli senza andar troppo per il sottile. Dopo quel nuovo incidente, che si accompagnò a un tentativo di “marcia contro il Msi” da parte degli ebrei (alcuni elementi interessati a soffiare sul fuoco avevano sparso la voce che i missini stavano organizzando una spedizione punitiva di proporzioni spettacolari), tornò la calma nel ghetto, ma non la pace. «I recenti episodi», ci ha detto il rabbino capo professor Elio Toaff, «non sono manifestazioni di intolleranza politica. Sono piuttosto manifestazioni che esplodono spontanee negli animi di coloro che hanno sofferto in modo crudele e inumano, che hanno visto i loro cari morire nelle camere a gas o alle Fosse Ardeatine, quando si sentono provocati da chi si dichiara apertamente erede della politica della persecuzione e degli stermini. Sentite in giro, chiedete la storia di ciascuno. Chiedete ai Calò, ai Terracina, ai Di Castro, ai Vivanti, a chi volete, nell’area del ghetto: ogni cognome è legato a una tragedia allucinante. Chiunque vi conterà sulle dita di una mano i superstiti, ma stenterà a fare il conto di coloro che non tornarono. Ne portarono via 2.091 (1.024 solo dal ghetto, tra cui 200 bambini: era il 16 ottobre 1943: ne tornarono 16, ndr). Solo pochissimi sono i reduci. Vivono qui, tra noi, uomini e donne, con i numeri di matricola impressi sulle loro carni dai nazisti: cifre che non si cancellano, come non si cancella il nostro dolore. Se i fascisti leggessero le lapidi, forse non troverebbero mai il coraggio di imbrattarle. Come potrebbero infangare i nomi dei sette uomini dei Di Consiglio, scolpiti uno sotto l’altro su una parete del Tempio? Tre generazioni. Da un uomo di quasi 70 anni a un bimbo di 12 anni. Tutti assassinati alle Ardeatine, uno accanto all’altro».
Renzo Trionfera 03 marzo 2009 da corriere.it
|