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Autore Discussione: Bertinotti: «Non c’è alternativa a questa maggioranza»  (Letto 2680 volte)
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« inserito:: Luglio 15, 2007, 09:25:42 am »

Bertinotti: «Non c’è alternativa a questa maggioranza»

Simone Collini


«Non ci sono alternative a questo governo e a questa maggioranza», dice Fausto Bertinotti. E però la «fragilità» dell’esecutivo consente una «crescente pressione» verso un orientamento che sostiene di muoversi nel campo delle riforme ma che in termini classici «si chiamerebbe conservatore». Il presidente della Camera lamenta il fatto che prima di affrontare il nodo dello scalone previdenziale non si sia aperta una discussione approfondita sul «rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita» e che per «limitare il danno» ora è inevitabile «avere una pluralità di uscite dal mercato del lavoro». E se Epifani ha chiesto al Prc di fermarsi un attimo per consentire un clima sereno, Bertinotti difende l’autonomia del sindacato, aggiungendo però: «Non si può chiedere ai partiti, specie se della sinistra, di tacere su grandi questioni che riguardano l’economia e il lavoro».

Parlando con l’Unità, qualche mese fa, disse che il governo le sembrava come quei malati sempre pieni di problemi che però non muoiono mai. E oggi, presidente Bertinotti?

«Continuo a pensarla così. Anch’io qualche volta, come osservatore non protagonista, sono indotto a pensare che sia evidente lo stato di crisi. Salvo poi constatare che importanti proposte di legge compiono la loro strada fino all’approvazione. E poi, ancora, di nuovo predomina l’incertezza. La metafora ancora regge».

Ultimamente appaiono però elementi nuovi, anche nelle discussioni interne al centrosinistra.

«Sì, ma si tratta di elementi disomogenei, non mi pare cioè che possano iscriversi in un processo tendenziale. Quel che si può invece vedere, lavorando però per induzione, è che di fronte alla persistente fragilità del governo c’è una pressione crescente attorno ad un orientamento politico-programmatico che in termini classici si chiamerebbe conservatore, e che oggi prende invece il nome del campo delle riforme».

Definisce conservatori quelli che oggi parlano di riforme?

«Sto ai fatti. Una volta si chiamavano conservatori quelli che si proponevano di non determinare un’evoluzione dei rapporti sociali. Vogliamo guardare alle riforme di cui più si parla oggi? Restringere lo stato sociale, bandire ogni intervento dello Stato nell’economia, far valere la rigidità dei parametri di Maastricht».

Chi sono i protagonisti di questa operazione?

«Poteri consistenti, grandi organi d’informazione. Abbiamo parlato diffusamente dell’intervento del presidente di Confindustria, che ha costituito la punta della lancia di questa proposizione di una politica come oggettivamente sovradeterminata dal paradigma dell’impresa e del mercato. Che si propone non più come una parte della società, ma come il misuratore dell’efficienza del sistema. E dunque come il protagonista dell’indicazione programmatica nei confronti della politica, la quale come intendenza dovrebbe seguire, secondo la formula di De Gaulle».

Questa pressione è secondo lei finalizzata a determinare un diverso schieramento?

«Innanzitutto, bandiamo preliminarmente ogni idea di complotto e anche di una concertazione occulta. Dopodiché, secondo me va bandita anche l’idea che ci sia una possibile convergenza di forze verso un assetto politico diverso da quello attuale».

Per quale ragione?

«Perché, semplicemente, manca l’oggetto della possibile convergenza, cioè un altro assetto di governo, una diversa maggioranza. Questo oggetto, allo stato attuale, non c’è, non esiste in natura».

Quale sarebbe allora lo sbocco di questa pressione?

«Determinare una riconduzione delle politiche del governo dentro un orizzonte conservatore. E questo senza farsi carico di cosa succederebbe nel caso in cui questa pressione invece che portare un condizionamento del governo su questa linea, ne provocasse un elemento di rottura».

Vede questa eventualità?

«Certo, dal momento che esiste il problema del consenso. Esiste per qualunque coalizione e a maggior ragione per il governo Prodi, che si regge su una coalizione molto larga e che nasce sulla base di una richiesta di una svolta rispetto alle politiche del governo Berlusconi. È evidente che sul programma con cui l’Unione si è presentata alle elezioni e su quella discontinuità si sono determinate forti attese. Corrispondere ad esse è un problema ineludibile».

Bisogna tener conto del consenso ma anche di altri fattori, non crede? Sulla riforma delle pensioni, per esempio, di quanto sostenuto dagli organismi internazionali.

«Quando il Fondo monetario o gli uomini di Bruxelles dicono che è necessaria per il paese la riforma delle pensioni intendono due cose: una è la riduzione della spesa previdenziale dentro un campo considerato compatibile con il rientro dell’Italia nei criteri di risanamento del bilancio previsti; l’altra un aumento dell’età pensionabile sulla base di un assunto secondo cui in maniera indifferenziata e prescindendo da ogni collocazione sociale l’aumento dell’attesa di vita deve dar luogo a un aumento dell’età lavorativa. Ma che connessione ha tutto questo con un’idea generale di politica o di società? Nessuna. E quando viene trovata, lo si fa ex post, e con una filosofia il cui intento giustificativo è fin troppo evidente: il conflitto di generazioni. Ma la tesi secondo cui un giovane avrebbe un contratto a tempo determinato perché un lavoratore di Mirafiori con 36 anni di lavoro alle spalle va in pensione, francamente, non la capisco».

Qual è la tesi allora?

«Resto lontanissimo dalla trattativa, la seguo come testimone, e però quello che noto, e che lamento, è che prima non ci sia stata una discussione approfondita sul rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita. Questa è una discussione che va fatta, perché contrariamente a quello che si dice in termini di denuncia, io non ho visto nessuno difendere l’esistente, avanzare solo dei no, dire che la situazione “deve rimanere così com’è”. Ed anzi le organizzazioni sindacali e le realtà politiche della sinistra hanno tutte fatto un discorso articolato».

Questo per dire cosa?

«Intanto, che non si può parlare di contrapposizione tra un partito dell’innovazione e chi invece va avanti a colpi di niet, perché tutti i soggetti in campo si sono mostrati per l’innovazione. E poi per ribadire che ora bisogna provare a ragionare sul fatto che c’è stato in questi anni un mutamento rilevantissimo della composizione sociale del lavoro. E che è entrata prevalentemente nel mercato del lavoro una categoria fino a non molto tempo fa sconosciuta: la precarietà. Di fronte a questa fisionomia frammentata del mondo del lavoro, oltre a porsi il problema della lotta contro la precarietà, si deve ripensare complessivamente il rapporto tra lavoro e pensione a partire da un punto, e cioè che mentre nella formazione precedente valeva l’idea di avere sostanzialmente un’età unica per cui andare in pensione, l’analisi sull’oggi ci dice che bisogna avere una pluralità di uscite dal mercato del lavoro. Sono quelli che si dicono per le riforme che propongono un modello unico ed autoritario. Io dico flessibilizziamo, articoliamo».

Sulla base di che cosa?

«Sulla base dell’età reale degli individui, che nel momento in cui l’articolazione lavorativa diventa così forte non coincide più per tutti con l’età anagrafica. Io o un professore universitario abbiamo un aspetto fisico a 60 anni che è visibilmente diverso da una persona che ha lavorato 35 anni in una fonderia o, se non vogliamo arrivare all’estremo, in una catena di montaggio. L’esigenza di una diversificazione nell’andata in pensione, quindi, non risponde a un principio classista ma al riconoscimento delle diversità e delle diseguaglianze sociali che il sistema ha prodotto. In questa vicenda, i cosiddetti riformatori hanno perso un’occasione. Sono arrivati a ridosso della trattativa sullo scalone facendo il fuoco con la legna che c’era a terra, invece che con una accumulazione di un dibattito pubblico sul rapporto tra il lavoro e la vita».

Al di là di come andrà avanti la trattativa, secondo lei qual è a questo punto la necessità?

«Ridurre il danno. Ogni provvedimento che venga adottato in riferimento allo scalone tenga conto di questa differenza e sia in grado di apprezzarla. Non si può dire che nella notte tutti i gatti sono grigi e quindi proporre stessa soluzione per tutti i lavoratori. Perché non è così. Vi sono grandi aggregati di popolazione lavorativa operaia a cui si deve riconoscere che non può essere aumentata l’età pensionabile».

È quello che sostiene anche Walter Veltroni, per il quale è necessario un patto tra generazioni? Che ne pensa?

«Condivido il fatto che non si possa chiedere di restare sul mercato del lavoro più a lungo a chi ha svolto per anni un lavoro usurante, a chi è stato alla catena di montaggio o in una fonderia, a chi ha fatto turni di notte, come ha recentemente sostenuto».

E sul rapporto tra generazioni? Serve un patto dove oggi rischia di aprirsi un conflitto?

«L’esigenza di un patto è giusta, l’idea del conflitto invece mi sembra malriposta. A parte che questo mi sembra un elemento arbitrario, che si tira fuori per interdire una rivendicazione o addirittura per mettere in discussione un diritto acquisito: pensiamo a tutta la discussione sull’articolo 18. Ma bisogna dimostrare l’elemento causale. Mentre al contrario è dimostrato che il fenomeno sociale più inquietante per le nuove generazione è la precarietà. E io vorrei capire, prima di arrivare al rapporto tra generazioni, il rapporto tra l’organizzazione dell’economia e la precarietà. Non c’è forse qualche rapporto tra la legge 30 e la precarietà prima ancora che tra il lavoratore che deve andare in pensione e il giovane che ha un contratto a tempo determinato? Mi sembra insomma che siano in altri luoghi gli impedimenti al patto generazionale».

Epifani ha lanciato un altolà a Rifondazione comunista: fermatevi un attimo.

«Continuo a pensare che l’autonomia del sindacato sia un elemento indispensabile all’arricchimento della vita democratica e che ogni forma di collateralismo sia un elemento di impoverimento. L’antica formula di Di Vittorio è buona ancora oggi: il sindacato è autonomo dai padroni, dal governo, dai partiti. Unica cosa, penso che l’autonomia non sia racchiudibile in una sfera entro cui non c’è rapporto con altri soggetti, dalla Confindustria ai partiti. Allora, non credo che si possa chiedere ai partiti, specie della sinistra, di tacere su grandi questioni che riguardano l’economia e il lavoro. Un partito di sinistra che non si occupi di salari e pensioni si nega come tale. Naturalmente, gli va richiesto di non proporsi di ledere l’autonomia del sindacato nello specifico negoziale. Però non di tacere».

Perché sulle pensioni ancora si discute all’interno dell’Unione?

«Perché fin qui non c’è stata una piattaforma comune. O meglio, la piattaforma comune era quella del programma. Poi, rispetto al modo concreto di affrontare il tema del superamento dello scalone ci sono state posizioni che si sono diversificate. Abbiamo parlato di un lato della coalizione, ma ce n’è stato un altro che è sembrato proporre sostanzialmente o lo scalone o il suo equivalente».

La sinistra può contrastare meglio la “pressione conservatrice” se dà vita a quella “massa critica” di cui lei parlava qualche tempo fa?

«C’è questo, ma c’è anche che oggi c’è la necessità storica acuta, matura e persino drammatica - perché il rischio di una scomparsa della sinistra in Europa è reale - della costruzione in Italia di un’aggregazione a sinistra unitaria e plurale».

Pubblicato il: 14.07.07
Modificato il: 14.07.07 alle ore 12.55   
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