LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 07:45:56 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Dacia MARAINI. «Pasolini assassinato dall’odio dei fascisti»  (Letto 6001 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Marzo 01, 2009, 10:46:45 am »

«Pasolini assassinato dall’odio dei fascisti»

di Toni Jop


Allora, Dacia, in questo paese si fa sempre bene a pensar male? Abbiamo avvicinato Dacia Maraini, cara amica di Pierpaolo Pasolini, perché, in fondo, delusi della nostra malizia storica. Spesso non vorremmo aver ragione, soprattutto nelle occasioni in cui i nostri sensi sono appesi a un’arguzia dietrologica molto vicina alle vertigini. Ci piace di più essere smentiti dai fatti, confessiamo. Invece, proprio per quanto riguarda l’assassinio di Pasolini avvenuto nel novembre del 75, eccoci alle prese con l’ennesima dichiarazione di Giuseppe Pelosi, l’uomo a lungo ritenuto l’omicida e rimasto in carcere per nove anni, che sembra confermare un quadro, la scena del crimine, così come molti di noi l’avevano immaginata, temuta. Pasolini non sarebbe stato ucciso nel corso di un alterco violento appesantito da uno sfondo sessuale. Pierpaolo, secondo Pelosi, sarebbe stato massacrato da un commando di gaglioffi al grido «sporco comunista frocio carogna». Un omicidio politico, premeditato.

Dacia, sorpresa?
«Non direi. L’avevamo detto fin da principio che non era lui l’omicida. Non aveva neppure una goccia di sangue addosso, niente di niente. E tutti noi abbiamo pensato: non è possibile uccidere un uomo che si è difeso, si è rivoltato contro l’aggressore o gli aggressori e restare senza una traccia di sangue sui vestiti. Pierpaolo era tutto insanguinato. Solo che...»

Solo che?
«Che quando c’è un reo confesso, e Pelosi si accollò il delitto, le cose diventano molto difficili. La polizia ha tra le mani quello che le interessa, fine. Era comodo avere un reo confesso, così non si andava a cercare in giro...»

Il signor Pelosi si è fatto anni di cella sostenendo di essere il colpevole. Poi, a cominciare dal 2005, inizia a raccontare un’altra storia e par che passo dopo passo tutto torni...
«Pelosi dice sempre mezze verità. Si poteva capirlo prima che non parlava per paura. Se la polizia avesse insistito nelle indagini, nelle verifiche, con lo stesso Pelosi, probabilmente sarebbe riuscita a farsi raccontare ben prima la verità».

Ora la scena del delitto si inzeppa di un odio e di una violenza ben connotati, allora come forse anche oggi...
«Bisogna dire che esisteva nei confronti di Pasolini una generale atmosfera punitiva, contraria alla sua persona. C’era molta violenza. Ero con lui, per strada, in diverse occasioni in cui fu aggredito verbalmente. Quelli che hanno cercato di farlo fuori non erano solo quelli che lo hanno ammazzato..».

Nell’estrema destra di allora...
A sinistra erano ormai finiti i tempi della scomunica morale. Tutti lo volevano dalla loro parte. I fascisti invece non lo potevano sopportare. Lui si diceva comunista, era dichiaratamente omosessuale. La sua radicalità politica contraddiceva, per loro, il suo edonismo. Si può accettare il radicalismo politico da un asceta, ma da un uomo in carne e ossa che dimostra di amare la vita...»

Che destino: siamo stati costretti troppe volte a colmare i vuoti di giustizia con delle intuizioni in apparenza arbitrarie: da Piazza Fontana a Pinelli, da Moro all’Italicus a Pasolini...
«La nostra storia è piena di lacune, di zone buie che non vengono chiarite nemmeno dopo trenta o cinquant’anni. È cosa molto grave questa storia nascosta di un paese che non riesce a usare la sua giustizia. Più che una malattia. Conta molto, in questo disagio profondo, la lentezza della macchina della giustizia. Intendiamoci: l’autonomia della magistratura va garantita e semmai incrementata, ma i processi devono poter contare su tempi brevi, certi».

Che paese è questo, in cui dei fascisti possono massacrare il più fervido intellettuale senza mai pagare?
«Il senso della giustizia è evidentemente poco diffuso, il rispetto delle regole anche. In Parlamento siedono decine di persone sotto processo o già condannate in primo grado. Altrove non accade, pochi si indignano».

tjop@unita.it

28 febbraio 2009
da unita.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Aprile 08, 2009, 12:14:22 pm »

Il terremoto La gente

Quei volti bianchi di paura con la voglia di ricominciare

Il popolo d’Abruzzo, i palazzi crollati e il dolore che non finisce


Non si è cancellata la memoria del mostruoso terremoto del 1915 ed ecco che incombe un altro grande sfracello che scuote la terra, butta giù le case, uccide e ferisce chi ha la sfortuna di abitare in Abruzzo. Anche il terremoto del ’15 che aveva come centro Avezzano si è presentato di notte quando la gente dormiva, facendo piu di trentamila morti. Le case dei contadini erano costruite senza fondamenta e sono cadute come fossero di cartone, una sull’altra, seppellendo intere famiglie colte nel sonno.

Ma oggi, con la tecnologia nuova e le nuove conoscenze, ci si aspettava che le case fossero piu resistenti, soprattutto quelle costruite dopo i terremoti che si sono susseguiti nei primi anni del Novecento e dopo l’ultimo dell’80. E invece no: le prime a essere danneggiate sono state proprio le costruzioni che avrebbero dovuto garantire sicurezza e asilo: la prefettura, l’ospedale, gli alloggi per gli studenti. Strutture per cui sono stati spesi tanti soldi pubblici e che erano date per sicure ed elastiche. La questione della resistenza ai terremoti infatti non sta nella robustezza delle architetture ma nella loro elasticità. Che permette alle case di assorbire le scosse senza esserne frantumate. È lecito dubitare della correttezza delle ultime ricostruzioni? La risposta è piu sì che no.

Ma questo si vedrà quando l’emergenza sarà finita e si ripenserà al sisma con più tranquillità. Sono rientrata da Los Angeles, città che convive con i terremoti e perciò si è perfettamente attrezzata per affrontarli e ha stabilito regole rigidissime per chiunque voglia costruire case nuove. La notte stessa del mio arrivo vengo svegliata nella mia casa di Roma da una scossa che fa tremare il letto e butta giù dagli scaffali alcuni libri. Mi sveglio spaventata. Mai immaginando che quelle scosse venissero dal mio amato Abruzzo e che fossero le ultime propaggini di un sisma furibondo che partiva dalle piccole città di Paganica e Onna per arrivare, ormai sfiatate fino alla capitale. Solo la mattina dopo ho saputo quello che era successo.

Mi sono affrettata a chiamare gli amici ma le linee erano bloccate. La preoccupazione è diventata assillante. Poi ho visto sullo schermo quei corpi estratti dalle macerie, quelle case sgretolate, quelle facce bianche di spavento e di polvere ed mi si è stretto il cuore. So bene cosa sia la paura che incute il terremoto. Ne ho sofferto da bambina in Giappone, paese che conosce la quotidiana inquietudine di una terra mai ferma e stabile. La guerra stava per finire, ero in campo di concentramento, ero bambina. Ma ricordo perfettamente un terremoto catastrofico che ci colse una mattina all'alba. Siamo stati svegliati da un boato e poi le mura hanno cominciato a tremare. Ci siamo precipitati per uscire. Io cercavo di scendere le scale ma non riuscivo a stare in piedi. Sono arrivata in basso seduta sui gradini, guadagnando la discesa un gradino per volta, mentre dietro di me sentivo cadere pezzi di parete ed ero raggiunta e soffocata da calcinacci e polvere. Ricordo che mio padre acchiappò per un piede mia sorella Toni che stava precipitando dalla tromba delle scale.

Quando siamo riusciti a raggiungere la porta di ingresso, ci siamo trovati davanti un cortile divelto, la terra che si apriva sotto i nostri piedi. Eppure, nonostante la violenza di quelle scosse, la casa non è caduta. Perché era stata costruita con criteri antisismici. L’ho vista letteralmente piegarsi da una parte e poi dall’altra come un giocattolo di gomma, ma non è andata in pezzi. È questo che dovremmo imparare dal Giappone: la grande sapienza in fatto di movimenti tellurici, la tecnologia avanzata in fatto di prevenzione e ricostruzione. Oggi vedo sulle facce degli abruzzesi colpiti dal terremoto quella stessa paura che lascia senza fiato, quell’incertezza del futuro che ti attanaglia. Però vedo anche la voglia di aiutare, di rimboccarsi le maniche e dare una mano. A sentire i miei amici per telefono, sono tutti in moto gli abruzzesi da lunedì mattina, anche coloro che non sono stati colpiti direttamente dalla sciagura. Come sempre il nostro paese dà il meglio di sé nei momenti di pericolo. La generosità si esprime in silenzio, senza esibizione e viene raccontata da persona a persona.

Come quella dell’uomo che ha rischiato la vita arrampicandosi su un balcone pericolante per salvare una bambina, figlia di vicini. O quella della ragazza che è tornata nella casa che stava crollando per tirare fuori un anziano incapace di muoversi, o ancora quella degli studenti che hanno scavato a mani nude tutta la notte per salvare uno di loro rimasto incastrato fra le travi di cemento. Ci sono anche gli sciacalli, come sempre. Vilissimi individui che approfittano del disastro e della disperazione per intrufolarsi in casa d’altri e portare via qualche oggetto di valore. Sono gli stessi che in tempi di quiete, vanno davanti alle scuole a distribuire la droga ai ragazzini, gli stessi che chiedono il pizzo e quando uno non paga lo uccidono con una pistolettata. Una Italia brutale e senza scrupoli , abituata a vivere contro gli altri e sopra gli altri. Il dolore. Come affrontare un dolore così vasto, così capillarmente diffuso e collettivo? Sono stati chiamati degli psicologi. Ma cosa possono fare dei tecnici della psiche in una situazione di così grave emergenza?

Quando manca il letto per dormire, l’acqua per lavarsi, un piatto caldo per nutrirsi, è difficile interrogare e sollevare una psiche rattrappita e offesa. Fra le tante storie mi ha colpito quella degli studenti che abitavano nella casa costruita per loro, al centro dell’Aquila. Una palazzina apparentemente elegante ma tirata su con disinvoltura e disprezzo della vita. I pezzi di muro che sono rimasti in piedi mostrano pareti sottili e fragili, friabili come fossero di biscotto. Da lì alcuni sono scappati quando hanno sentito i boati, le scosse e gli scricchiolii sinistri che hanno preceduto il grande terremoto. Altri invece sono rimasti, perché nessuno li aveva avvisati del pericolo imminente, della fragilità della casa. Lì sono sotterrati alcuni studenti che oggi avrebbero potuto essere vivi. Compreso un ragazzo che era scampato alle bombe di Gaza ed è rimasto sepolto sotto le macerie di una casa abruzzese, in una città civile, bella e pacifica. Tante altre invece sono storie dolorose di incontri con la morte che sembrano essere stati decisi altrove con sadica crudeltà. Un ragazzo che va a dormire dalla nonna che è sola e muore con lei mentre tutta la famiglia si salva nella casa dove abitava.

Una sorella sceglie la gita scolastica e si salva mentre l’altra che decide di rimanere in casa con la madre, muore stritolata. Qualcuno dice che la maggior parte di queste morti si potevano evitare. C’erano state decine di scosse per tutta la settimana precedente. Una fortissima poi aveva allarmato gli aquilani la sera di domenica alle 23. Molti avevano telefonato chiedendo un parere. Ed era stato loro risposto che dovevano rimanere in casa, che non c’era pericolo. Si sa che non si possono prevedere con esattezza i terremoti, ma certamente si possono mettere in funzione delle strategie di difesa e di fuga quando un terremoto si annuncia con tanta insistenza come questo. Per lo meno si doveva avvertire la gente che c’era un pericolo, anche se non certo. Si poteva dichiarare pubblicamente che a tante scosse poteva seguire un’onda micidiale. Un’altra storia che commuove per la sua umiltà e allegoricità è quella delle pantofole zuppe d’acqua che le donne sono state costrette a portare ai piedi essendo scappate di casa senza avere il tempo di infilarsi le scarpe.

La casa è vicina, nell’armadio ci sono gli scarponcini da fango, impermeabili e calde. Ma è proibito entrare, per qualsiasi ragione. Dovranno tenersi addosso le pantofole fatte pesanti dalla mota. Poi finalmente ecco il sole. La mattina di martedì si presenta fredda ma assolata. E improvvisamente spuntano centinaia di pantofole, povere, stanche e sporche, posate qua e di là sulle pietre, sui legni abbandonati, sui pezzi di casa rimasti in piedi, per poterle finalmente rimettere ai piedi asciutte. Tanti dicono che «hanno scavato a mani nude». Ma cosa vuol dire? Sembra una frase fatta, ma diventa la verità quando non si trovano in giro né vanghe né badili ne zappe, né torce né carriole. Sono questi gli strumenti che dovrebbero stare ad ogni angolo di strada nei paesi a rischio sismico. Come nei treni, dentro teche apribili con un colpo, pronte all’occorrenza.

E invece molti si sono trovati a scavare con pezzi di cartone, barattoli vuoti, strumenti improvvisati e inefficienti. Cosa augurare a un paese così poco attento alle regole, così portato ad un anarchismo che si confonde con l’arbitrio puro? Cosa possiamo auspicare se non di imparare qualcosa dagli errori del passato? Meno progetti grandiosi e più lavoro umile e fattivo sul territorio soprattutto quando è a rischio sismico. Un pensiero piu generoso, una visione più grande e più spaziosa del futuro, che comprenda l’interesse del paese e non solo il nostro piccolo tornaconto. È troppo chiedere?

Dacia Maraini
08 aprile 2009

da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 20, 2009, 11:57:51 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Aprile 20, 2009, 11:58:26 am »

Quella pazienza antica degli abruzzesi

di Dacia Maraini
 
 
ROMA (19 aprile) - Una giornata di sole, dopo tante ore di pioggia. L’Aquila sta faticosamente recuperando i suoi pezzi dispersi. Il centro si fa ogni giorno più silenzioso mentre le tendopoli si riempiono di gente e di voci. Le scosse continuano e nessuno vuole rischiare nelle case che si sono scoperte pericolanti.

In questa confusione di corpi in moto vado cercando i cuochi di Pescasseroli. «Sono alla tendopoli di Tempera» ci dicono e lì ci dirigiamo. Ma nel primo accampamento non ci sono. E nemmeno nel secondo. Dove saranno finiti? Mi è piaciuta l’idea che si siano offerti da tutti gli alberghi di Pescasseroli e si diano il cambio, cinque alla volta, per cucinare piatti ben fatti per gli sfollati.

La solidarietà dei primi giorni, che molti davano come destinata a morire presto, si fa invece ogni giorno più evidente. «Gente che non si parlava da anni, si è ritrovata qui a convivere nelle difficoltà e ha ripreso a parlarsi», dice una guardia forestale, fra i tanti che allestiscono pasti per migliaia di persone sotto i tendoni improvvisati. «Addirittura si sono riscoperti amici» dice sorridendo.

File di tende blu notte. File di gabinetti. Che trovo puliti e forniti d’acqua. L’atmosfera è distesa. Dei ragazzi giocano al pallone. Famiglie intere, composte da anziani e giovani, mangiano seduti ai tavoli di plastica della mensa del campo. Bambini corrono da una tenda all’altra. C’è un viavai di uomini della Protezione Civile, efficienti e cortesi. Si sentono tutti gli accenti: volontari venuti dal Veneto, soldati appena arrivati dalla Lombardia, guardie forestali salite da Napoli e così via in una babele di linguaggi che si mescolano senza creare confusione, con l’eccitazione febbrile del trovarsi insieme in una emergenza che per molti nasce dal dolore, ma può trasformarsi in una occasione di incontro e di dialogo.
Chiedo che ne pensano della mia idea di raccogliere libri per le loro lunghe serate in tenda. Molti si dicono entusiasti. «Ne ho già messi insieme 300», dico. Ma dove li mettiamo? Qualcuno risponde che non c’è spazio, bisogna aspettare le nuove tensiotende. A questo punto arriva l’offerta del direttore del parco Nazionale d’Abruzzo Molise e Lazio che propone di allestire un camper come biblioteca ambulante e farlo circolare fra le tendopoli.

Buona idea! Così chi vorrà leggere potrà usufruire del prestito gratuito rimanendo nella sua tendopoli. So che anche la radio, e precisamente la trasmissione Fahrenheit di Rai3 sta allestendo un pulmino con tanti romanzi da leggere. E so che gli ascoltatori telefonano a decine per offrire libri. «Abbiamo chiesto che ne mandino uno solo, quello a cui sono affezionati, per darlo in dono a chi in questo momento si trova privato di tutto». Infatti, dico, devono essere libri belli, che abbiamo amato e che vorremmo fossero letti da altri. E così sarà. Per lo meno lo spero.

In lontananza si vedono le case sventrate, dai tetti pesanti che hanno schiacciato tanti corpi addormentati. Mattoni crudi che si sbriciolano in messo ai pezzi di cemento, tronchi di legno che si incastrano fra le solette di pietra, calcinacci su calcinacci che tendono a scivolare gli uni sugli altri sollevando una nube di polvere bianca.
Il piu delicato compito di questo dopoterremoto starà nel conciliare il ricordo dei morti con l’ansia di ricostruire e rimettere in moto la vita quotidiana. Come accordare il dolore della perdita con il bisogno urgente di riempire i vuoti e buttare via le macerie?
Gli abruzzesi, con una pazienza antica e umanissima, si accingono a questo difficile dovere, senza un lamento inutile, senza teatralità, senza mugugni, con la quieta sapienza di una antica cultura che ha conosciuto troppo bene la povertà e lo strazio.

da ilmessaggero.it
 
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Maggio 15, 2013, 12:01:33 pm »

 Intervista

Dacia Maraini: "Ruby? Mi fa pena, mente per dignità. L'ultima con cui prendersela"

Laura Eduati, L'Huffington Post  |  Pubblicato: 13/05/2013 16:24 CEST  |  Aggiornato: 13/05/2013 16:24 CEST


Fu proprio in seguito allo scandalo politico legato alle feste di Arcore che Dacia Maraini, scrittrice da sempre impegnata nel femminismo, aderì convintamente alla manifestazione lanciata dal comitato "Se non ora quando"? Nel febbraio del 2011 contro lo spettacolo, per molti degradante, offerto dalle intercettazioni e dalle indiscrezioni su quanto avveniva nella residenza di Silvio Berlusconi.

Ora, nel giorno della infuocata requisitoria di Ilda Boccassini nel processo Ruby-Berlusconi, Dacia Maraini riserva parole morbide nei confronti della ragazzina di origini marocchine (“Mi fa tenerezza, mente per dignità”) ma non approva le parole usate da Boccassini per descrivere Ruby: “Furbizia mediorientale? Non sono d'accordo, noi italiani siamo campioni di furbizia levantinismo”. E conclude: “Brava Boldrini, serve un regolamento antisessista per tv e pubblicità”.

Ruby racconta di avere vissuto una infanzia difficile: violentata dagli zii, punita ferocemente dal padre, una ragazza senza famiglia che finisce ad Arcore. Che idea si è fatta di questa giovane?
"Mi fa molta pena, così come mi fanno tenerezza le ragazze che i media chiamano “olgettine”. Ruby in particolare sta pagando in prima persona, la sua non è una notorietà gradevole bensì morbosa e punitiva. Può darsi che menta quando dice di non essersi prostituita con Silvio Berlusconi, la sua è una menzogna per dignità".

Dunque le cosiddette olgettine sono vittime?
"Ruby è l'ultima persona con la quale me la prenderei. Queste ragazze minorenni, senza famiglia, sono culturalmente incoraggiate alla prostituzione dagli adulti che danno un pessimo esempio e sono i veri responsabili. Hanno costruito un sistema dove tutto è mercato e anche il sesso si può vendere e si può comperare. La colpa è anche della televisione e Berlusconi ha contribuito enormemente con le sue emittenti a creare un clima culturale dove i soldi sono al centro di tutto e il corpo delle donne viene umiliato".

Eppure Berlusconi non è l'unico uomo a comperare il sesso.
Certamente non è l'unico ma ha trasformato tutto il suo campo di azione in un grande mercato. Ha comperato senatori, deputati, donne: tutto questo è gravissimo. Il fatto di dare cinquemila euro alle ragazze di Arcore per una sola serata dà la misura di quanto disprezzo nutra per il denaro guadagnato onestamente. So bene che Berlusconi non ha inventato il mercato del sesso, ma sono sempre stata contraria alla prostituzione perché il sesso è una cosa bella e delicata, anche quando è slegato dall'amore, e dovrebbe essere un piacere reciproco gratuito.

Molte delle ragazze come Ruby sono stipendiate regolarmente dall'ex premier. Cosa ne pensa?
"Questo è un fatto gravissimo. E' la corruzione suprema e mina totalmente la credibilità di Berlusconi. Può ripetere di non avere mai fatto sesso con queste ragazze durante le serate di Arcore, ma come è possibile credergli quando sta pagando le testimoni affinché mantengano la sua versione dei fatti? La credibilità è una conquista, e nel suo caso siamo molto lontani".

A Berlusconi le donne di Arcore chiedevano in cambio non soltanto soldi ma visibilità in televisione, persino poltrone. Non vede in questo un atteggiamento molto attivo da parte loro?
"So bene che le ragazze sono in parte responsabili e molto probabilmente non sono state obbligate a prostituirsi. La loro dunque è una libera scelta. Ma nella mia visione in quel contesto il potere stava da una parte sola. Se c'è qualcuno disposto a comperare allora sorge qualcuno disposto a vendere, e tendo ad addossare maggiore colpa a coloro che detengono il potere economico e politico. La corruzione per mezzo del denaro e del sesso genera sempre umiliazione, schiavitù, servilismo".

Ilda Boccassini nella requisitoria di oggi descrive Ruby come una ragazza dotata di “una furbizia mediorientale tipica delle sue origini”. Le piace questa frase?
"No. Non sono d'accordo perché la furbizia e il levantinismo sono caratteristiche profonde degli italiani e non abbiamo certo bisogno di importarle. Siamo noi a dare un pessimo esempio, non certo una ragazzina di origini maghrebine".

A propositi di cattivi esempi, è d'accordo con la presidente Laura Boldrini che imputa alla televisione e alla pubblicità modelli sessisti a danno delle donne?
"Boldrini è brava, ha centrato il punto. Chi non ha la fortuna di possedere educazione e cultura non può difendersi dai modelli proposti e dunque ben vengano un regolamento e una vigilanza istituzionale di quello che viene proposto dai media. Ecco perché per esempio sono contenta che la Rai abbia deciso di non dare più risalto a Miss Italia, un concorso datato dove le concorrenti erano soltanto numeri. L'essere umano è sacro".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/13/-dacia-maraini-ruby-mi-fa-pena-mente-per-dignita_n_3266260.html?utm_hp_ref=italy
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Luglio 15, 2014, 05:00:49 pm »

Il sale sulla coda
L’urgenza di giustizia contro le catene dell’odio
I fanatici contro gli accordi.
Sono una minoranza: ma quanti vogliono contrastarli?

Di Dacia Maraini

La vendetta soddisfa il senso di giustizia oppure lenisce il bruciore di una offesa? A sentire la Bibbia, la vendetta starebbe alla base dell’etica sociale: «Pagherai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido», questo dice l’Antico testamento.

Ma viene smentito dal Vangelo che invece parla di accoglienza e perdono, di comprensione e tolleranza. «Ama il prossimo tuo come te stesso», ha detto Gesù. Ed è una condanna decisa del principio di vendetta. Un segno di progresso, di civiltà rispetto alla sua epoca, quando prevalevano le leggi del taglione.

La vendetta scalda i sensi, dà una soddisfazione talmente carnale e profonda che è difficile resisterle. Puskin la chiama «tempestoso sogno dell’inasprita sofferenza». Come sfuggire al piacere di immergersi in un delirio di gloria su chi ci ha umiliato od offeso? La condizione però è che non si considerino le conseguenze. Che sono sempre terribili: perché una vendetta di sangue non farà che tirare altro sangue, altre vendette, altro rancore, altri odi e rappresaglie. Ma mentre la vendetta personale ha qualche giustificazione e può essere arginata e punita, quella politica è pericolosa e devastante per la comunità.

In molte società arcaiche la vendetta si tramandava di padre in figlio. Un bambino appena nato sapeva già che il suo destino era di diventare l’assassino di un uomo che aveva ammazzato qualcuno della sua famiglia. Il quale, a sua volta, aveva vendicato l’omicidio di un altro parente, in una catena che tutti davano per scontata. E così per generazioni e generazioni.

Il fanatismo religioso e politico è contrario ai processi, alle leggi, alla giustizia. Il fanatismo, di ieri e di oggi, vuole e pretende vendetta. I fanatici si appellano alla seduzione della ritorsione per rompere ogni progetto di pace. I fanatici odiano gli accordi, le transazioni, la tolleranza e il rispetto per l’altro. I fanatici vogliono il sangue per il sangue e sono disposti a manipolare gli antichi istinti vendicativi per scatenare, alla fine, una vera guerra.

I fanatici sono sempre una minoranza, ma hanno il potere di mettere paura. Conoscono l’arte del ricatto e diffondono il piacere dell’odio. O con me o contro di me. «Le vendette giuste non esistono», dice con saggezza il grande Cervantes. La giustizia prevede il ragionamento, il riconoscimento della verità, il senso della responsabilità e il peso delle conseguenze. La vendetta no, anzi si nutre del rancore taciuto, della collera covata e repressa, dell’odio accumulato che non sa esprimersi con la ragione. La vendetta trama in silenzio, nell’oscurità e conta sull’agguato e sull’imboscata.

Solo la giustizia, che è fatta in nome di una legge riconosciuta da tutti, in un processo in cui si dà all’accusato la possibilità di difendersi, in cui si vagliano le ragioni e si decide di conseguenza a nome del popolo intero e non solo di un clan, di una famiglia, di un destino singolo; solo la giustizia può fermare la catena dell’odio. Ma quanti la vogliono veramente?

15 luglio 2014 | 15:05
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cultura/14_luglio_15/urgenza-giustizia-contro-catene-dell-odio-b1db1630-0c1c-11e4-b3f9-bc051e012a1f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Agosto 26, 2014, 05:52:03 pm »

È decisivo che gli uomini di buon senso e capaci ancora di amare prendano posizione netta, precisa, dura, contro quegli uomini deboli che afferrano l’ascia per punire chi si oppone al loro dominio   
Uomini fragili che diventano carnefici per un’arcaica cultura del possesso

di Dacia Maraini

Sono le cronache a dirci qualcosa che forse non vogliamo ascoltare. La voce del Papa è venuta a rivelare, con terribile senso profetico, che stiamo entrando nella terza guerra mondiale, anche se si tratta di una guerra frammentata, molto diversa da quelle tradizionali condotte da eserciti ben definiti, su confini ben definiti. Allo stesso modo dovremmo ammettere che si sta cercando di innescare la miccia di una guerra fra i sessi. Cosa gravissima che scardina il concetto d’amore, di fiducia, di solidarietà. Ed è la famiglia a pagare più duramente.

Ogni anno ci auguriamo che il numero dei fatti di violenza possa scendere, ogni anno finiamo per verificare che non avviene. Cosa sta succedendo? E perché quasi non ci stupiamo più di questo massacro di genere? Se ne parla spesso sui media, ma in forma scandalistica, morbosa, per accendere e sollecitare il voyeurismo dei lettori o degli spettatori. Ben poco si fa per analizzare e comprendere i meccanismi psicologici che spingono ad una azione così feroce da parte di uomini considerati «tranquilli padri di famiglia», nei riguardi delle loro mogli, amanti, fidanzate e figlie femmine.

Non volendo né indagare né capire le ragioni, è chiaro che non si possono nemmeno trovare i rimedi.

Solo pochi giorni fa un padre ha accoltellato le due figlie bambine di pochi anni. A un giorno di distanza un altro padre, in tutt’altra parte del Paese, ha ucciso la sua unica figlia. Per descrivere la brutalità estrema di questi gesti, si è saputo trovare solo una parola: raptus. Quasi fosse un istinto incontrollato e incontrollabile che anima improvvisamente una persona, trasformandola diabolicamente in un boia, mentre prima era un brav’uomo tutto casa e ufficio. La parola raptus, che viene usata con estrema facilità sia da giornalisti della carta sia del video, presuppone un momentaneo impazzimento di un cervello sano di fronte a qualcosa di più grande di lui.

Ma giustamente lo psichiatra Mencacci ha detto su queste pagine che raptus è una parola stupida che non significa niente e giustifica tutto. Parliamo piuttosto di un male che cova negli animi di uomini fragili e impauriti, uomini che si appigliano a una arcaica cultura del possesso per giustificare la loro terribile paura di perdere i privilegi che considerano dovuti per legge divina: comandare, controllare, possedere.

Il male, tutto culturale e psicologico, non avviene mai per caso. Dà segnali precisi di aggravamento e si esprime al suo colmo con un omicidio (o femminicidio che è più appropriato). Lo sanno bene le donne che sono state oggetto di molestie continuate, ossessive, che sfociano spesso nella precisa volontà di distruggere l’altro. Se non puoi o non vuoi essere mia, ovvero se non puoi e non vuoi essere controllata, dominata, posseduta da me, ti uccido. La tua libertà mette in discussione il mio stare al mondo e piuttosto che vedere frantumata la mia identità di maschio, faccio una carneficina.

Importante ricordare che questa violenza non ha niente a che vedere con la natura dell’uomo: l’aggressività e la violenza appartengono ad ambo i sessi e alla natura umana. Sono l’educazione, la cultura, le tradizioni create dalla storia a insegnare la tolleranza, il rispetto, i principi di eguaglianza basati sul rispetto dell’altro. Le donne, per ragioni storiche, hanno imparato meglio a sublimare i loro istinti aggressivi. Certamente vi sono state costrette, ma è importante che sia avvenuto. Si tratta di un atto di civiltà. Gli uomini, forse troppo abituati ai vantaggi del comando, hanno spesso trascurato la sublimazione e oggi, di fronte a una richiesta universale di democrazia fra i generi, entrano in crisi.

Non tutti intendiamoci, solo alcuni, i più fragili e malfermi dal punto di vista psicologico. Proprio per questo è importantissimo che siano proprio gli uomini più maturi e intelligenti a indignarsi di fronte a queste manifestazioni di sopraffazione isterica, che siano i primi a condannarle con determinazione, che si stringano alle donne che stimano e amano per denunciare l’orrore. La guerra fra i sessi è una costruzione culturale, una tattica di dominio che va combattuta insieme, con convinzione e determinazione, cercando nuovi modi di convivenza nel rispetto l’uno dell’altra.

La globalizzazione ci insegna che nonostante le grandi conquiste dell’emancipazione femminile e forse proprio in seguito ad esse, la paura, in certi uomini immaturi e terrorizzati, si trasforma facilmente in aggressività e spirito vendicativo.

Nei Paesi di totalitarismo religioso, naturalmente ci si nasconde dietro a un dio crudele e tirannico che pretende di impedire alle ragazzine di andare a scuola, alle donne di guidare un’automobile, alle ragazze di scegliersi il marito. Come non vedere in quelle povere ragazzine stuprate in India e poi appese come si appendono gli agnelli scannati, bene in vista, una strategia di guerra? Resteranno appese e verranno fotografate mille volte, perché siano di esempio a chi non riga dritto. In altri Paesi vengono bruciate vive se c’è un sospetto di tradimento, oppure si uccidono appena nate perché «sono bocche inutili da sfamare». In altri Paesi vengono private del clitoride (e sono ancora quasi due milioni ogni anno) perché non provino piacere sessuale.

Ne parliamo sempre come fossero fenomeni lontani, che non toccano il nostro emancipato e pacifico Paese. Ma non è così.

I venti di guerra non conoscono confini.

Il bisogno di dare lezioni di genere si moltiplicano da un Paese all’altro e sono contagiosi. Di due giorni fa la notizia di una donna straniera, bella, sola, che fa provvisoriamente la colf in una casa di ricchi italiani, e viene aggredita, e poi decapitata da un ospite trentaquattrenne, di cui la sorella dice «era un ragazzo d’oro». Ma pure amava i coltelli, ne aveva di tutte le forme e lunghezze, passava il tempo a lucidarli e affilarli.

Non si può fare a meno, di fronte a questo caso, di pensare che ci sia una qualche smania imitatrice. Troppe foto sui giornali sono apparse da ultimo che mostravano uomini neri incappucciati, con un coltellaccio da macellaio in mano. Uomini vincenti per l’occhio ingenuo, che tengono sotto scacco il nemico, pronti a torturare, straziare, violentare e uccidere, in nome di un dio tirannico e insofferente.
Forse è così che si comporta un vero uomo, si dicono alcuni fragilissimi giovanotti che credono di farsi forti umiliando il diverso da sé.

Ad analizzare i casi di cronaca infatti si scopre che, all’origine di queste violenze, c’è sempre una donna che decide di andarsene, di troncare un amore malato che si è fatto sempre più ossessivo e prepotente. «Quello è il momento più pericoloso», dice Lucia Annibali, che è stata sfregiata con l’acido e che per un miracolo non ha perso la vista e l’uso delle mani e della bocca. Una équipe di medici intelligenti e solidali le ha ridato la possibilità di vedere e muoversi, ma a quali condizioni! Decine di operazioni dolorose, entrando e uscendo dagli ospedali, riempiendosi di medicine che le hanno minato la salute. Eppure la piccola Lucia, coraggiosamente, ha affrontato tutto, pur di tornare libera e dedicarsi al suo lavoro di avvocato. Lui, il mandante, che ha pagato due pregiudicati per farla sfregiare, continua dalla prigione a dichiararsi innocente nonostante le prove contrarie. «Nemmeno una parola di dispiacere, di pentimento», commenta Lucia. E ancora una volta dobbiamo parlare di un’atmosfera di una guerra, perché in guerra il soldato che colpisce si sente legittimato a farlo e non pensa di agire male perché la mano che colpisce compie solo un dovere. In questo caso un dovere di genere: colpire e punire chi ha osato ribellarsi al suo stato «naturale!» di sottomissione e obbedienza.

Potremmo chiamarlo terrorismo di genere? Ci sono delle affinità col terrorismo politico. Si parte dal presupposto che esista un nemico mortale: l’altro. L’altro che confida in un dio chiamato con un nome diverso, che si affida a una fede leggermente differente, o crede in una ideologia dissimile, o pratica una politica diversa dalla sua o semplicemente ha un corpo fatto in modo diverso dal suo. E merita, in nome di quella ideologia, di quella fede, di essere distrutto. Dio o l’ideologia gliene faranno merito.

L’altro deve essere castigato, mortificato, meglio se pubblicamente, perché non si tratta di una azione da nascondere ma da mostrare al mondo come esempio, come deterrente ricattatorio nei riguardi dei tanti miscredenti, o pericolosi nemici di quella religione e quella ideologia. Si pulisce il mondo dalle immondizie dell’immoralità e lo si restituisce all’ordine e alla pulizia etnica, sessuale, politica, sociale.

Di questi sentimenti sembrano posseduti ossessivamente questi uomini che si fanno massacratori delle proprie donne, dei propri figli, in nome dell’amore familiare e paterno e maritale. E così come è importantissimo che i musulmani intelligenti, che credono nel rispetto dell’altro e nella non violenza, prendano posizione decisa contro le deviazioni ideologiche e religiose dei fanatici intolleranti, è decisivo che gli uomini di buon senso e capaci ancora di amare prendano posizione netta, precisa, dura, contro quegli uomini deboli che afferrano l’ascia per punire chi si oppone al loro dominio.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/uomini-fragili-che-diventano-carneficiper-unarcaica-cultura-del-possesso/
« Ultima modifica: Agosto 26, 2014, 05:59:05 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:11:01 pm »

Isis, la tortura è un’oscenità di odio, potere e sadismo

di DACIA MARAINI

La tortura è sempre stata praticata. Ma negli ultimi secoli, in segreto. La tortura è l’officina del sadismo e il sadismo chiede silenzio e concentrazione, chiede clandestinità e buio. Per lo meno da quando è stata sancita eticamente la condanna della tortura e da quando la psicanalisi ha scavato nell’inconscio umano raccontando le nefandezze di una pratica che, sotto sfondi ideologici e religiosi, nasconde il piacere sensuale di pascersi del dolore altrui.

Ma pure, ormai anche le religioni hanno accettato l’idea che la tortura è inutile oltreché oltraggiosa. Pare chiaro a tutti che Dio non può stare accanto alla mano che frusta, scortica, strangola, ferisce, colpisce e lapida. Prima di Cristo e prima dell’Illuminismo, ovvero del riconoscimento dei diritti dell’Uomo, Dio permetteva, eccome, la tortura, forse anche lo esigeva. Per questo era considerato normale che a un ladro venisse tagliata una mano in piazza, e che un assassino venisse squartato in pubblico, che un eretico venisse bruciato vivo davanti a una folla di curiosi. Ma dopo Cristo, dopo San Francesco, dopo Voltaire e Beccaria, la tortura è passata in clandestinità.

Le polizie più feroci hanno continuato a praticarla, in nome della sicurezza nazionale, in nome dell’antiterrorismo, in nome di qualche ideologia o religione intransigente. Ma chi pratica la tortura non è più innocente e quindi si sente in colpa. Dopo Freud è difficile credere nella purezza della tortura. Che affonda le sue radici nel piacere sessuale. Il piacere proibito dei deboli e dei frustrati che trovano nell’umiliazione del dominato l’esaltazione del proprio dominio. Gli animali non praticano la tortura. Dobbiamo dedurne che non si tratta di un istinto naturale. Gli animali uccidono per mangiare o per difendersi, ma la tortura, nel senso organizzato e scientifico che noi conosciamo, è chiaramente un prodotto culturale. Il prodotto di una sofisticazione psicologica.

La tortura si serve di strumenti sempre più delicati e complessi e oltre allo scopo dichiarato di punire il colpevole, o di costringerlo a confessare, ha la funzione di riempire un vuoto di potere. Il potere terribile, ma esaltante e glorioso, di infliggere strazio e dolore. La morte con le sue vesti nere e la falce in mano è lì presente, e acconsente al martirio di un corpo umano. E la morte, si sa, non guarda in faccia nessuno. Quando colpisce, colpisce soprattutto per fare sapere che c’è, che è la più forte e la più inesorabile. Non esiste ricchezza o potere umano che possa vincerla. Le sue vesti nere, il suo coltello affilato, sono lì a fare giustizia della vita.

«La terribile colpa di essere vivi», come dice un personaggio di Marlowe. Ora questi guerrieri dell’Isis hanno avuto l’idea perversa - probabilmente spinti da un istinto antistorico di grande forza - di tornare alla rappresentazione pubblica della tortura. Perché di supplizio si tratta, e non solo di morte. L’umiliazione del nemico, il ridurlo a un simbolo, togliendogli ogni dignità e identità umana, fa parte di una calcolata messa in scena, di uno spettacolo che vuole essere esemplare ma che, una volta spogliata della sua innocenza storica, diventa solo oscena. Certamente però tocca il lato morboso del voyerismo telematico. C’è molta astuzia strategica, nel combinare il massimo dell’arcaismo col massimo del modernismo.

La miscela è micidiale e colpisce l’immaginazione. «Io sono tornato», dice il boia tutto coperto di nero come la morte, e ci si aspetta che appena si toglierà quel cappuccio, apparirà un teschio senza occhi, dai denti che ghignano, come nei quadri del Seicento. Che al posto della falce ci sia un coltello, non cambia le cose. È la lama che taglia, che recide, che decapita. E noi siamo tutti un poco accoltellati da questa oscena rappresentazione dell’odio che preme sui sensi.

5 settembre 2014 | 09:11
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_05/isis-tortura-un-oscenita-odio-potere-sadismo-f8f1d952-34c9-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!