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Autore Discussione: ALBERTO QUADRIO CURZIO  (Letto 11026 volte)
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« inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:22:58 am »

Per un fondo di euro-sviluppo


di Alberto Quadrio Curzio


Speriamo che la Ue non subisca, nel fronteggiare la crisi, una deriva protezionista e statalista contraria ai suoi principi fondativi. Situazioni gravi possono richiedere misure radicali, ma queste vanno ricercate tra quelle innovative. Perché è dal nuovo che può discendere anche la fiducia, com'è stato nel caso dell'euro. Perciò riteniamo che Eurolandia (Uem) dovrebbe essere completata con un potente strumento di politica economica: l'emissione di titoli di debito pubblico — a suo tempo proposti da Jacques Delors, ripresi da Giulio Tremonti e più di recente da Romano Prodi—che servirebbero a finanziare spesa pubblica europea anti-crisi e pro-crescita. Anche noi da qualche anno avanziamo questa tesi-proposta, cercando di darle una concretezza che nel seguito decliniamo in tre modalità attuative.

Il nostro presupposto è che la UE a ventisette Paesi ha meccanismi decisionali troppo complessi, ancor più in tempo di crisi e di euroscetticismo dei vari Paesi dell'Allargamento. Al contrario la Uem ha l'euro, ha un Pil pari al 71% di quello della Ue-27, può ricorrere alle cooperazioni rafforzate previste dai Trattati per rilanciare la propria identità politica ed economica. Il Pil della Uem è di circa 8.800 miliardi di euro e il 64% dello stesso è prodotto da Francia, Germania, Italia che con l'aggiunta della Spagna raggiungono il 77% di tale Pil. Questi Paesi sono anche fortemente interrelati sul piano bancario, industriale e commerciale, hanno un notevole risparmio, possono rafforzare la loro integrazione con effetti di scala notevoli. Veniamo allora al problema del rafforzamento della Uem con la creazione di un Fondo di Euro-Sviluppo (Fes) che emetta titoli di debito pubblico. Tre sono le modalità attuative del Fes.

La prima riguarda il patrimonio del Fes che può essere costituito dalle riserve auree dei Paesi dell'eurosistema che sono inattive presso le banche centrali e che hanno oggi un controvalore pari a 250 miliardi di euro, valutando l'oro al prezzo prudenziale di 900 dollari per oncia. Il Fes può anche essere garantito dagli Stati aderenti all'euro e dalla Bce. Sulla base di queste garanzie il Fes può emettere facilmente titoli di debito pubblico per un ammontare non inferiore a 1.000 miliardi di euro. I risparmiatori cercano sicurezza e il Fes può darla. La seconda modalità attuativa riguarda la gestione del Fes che deve essere basata su quote («poteri di voto») commisurate, e periodicamente rivedibili, al Pil dei Paesi della Uem con ponderazioni in aumento per le riserve auree da loro conferite al Fes e in diminuzione per l'entità del loro rapporto tra debito pubblico e Pil. L'idea che ogni Paese abbia un voto non ha senso perché la Germania, che nel Fes sarebbe dominante, non può pesare come Malta. Quanto al pagamento degli interessi, puntando sulle emissioni di titoli decennali, il riferimento dovrebbe essere il tasso del titolo di Stato tedesco alla stessa scadenza.

Approssimando lo stesso al 3%, ciò significa un onere di interessi da pagare sui 1.000 miliardi di euro pari a 30 miliardi di euro annui. Si tratta dello 0,34% del Pil di Eurolandia: un'entità modesta alla quale i Paesi della Uem contribuirebbero nella misura dei loro diritti di voto nel Fes. Altra questione, su cui non ci intratteniamo qui, è quella del rimborso o rinnovo delle emissioni. La terza modalità riguarda l'uso delle risorse finanziarie raccolte con l'emissione di titoli del Fes. La prima è il finanziamento, solo integrativo dei titoli di debito pubblico nazionale, agli Stati della Uem che dovrebbero a loro volta pagare sui prestiti ottenuti un interesse al Fes maggiore di quello che il Fes stesso paga ai suoi sottoscrittori ma minore di quello che i singoli Stati devono pagare oggi al mercato che grava tutti i Paesi di Eurolandia, esclusa la Germania, di un premio di rischio. Si eviterebbe così di indebolire Paesi già deboli che potrebbero anche danneggiare l'euro. La seconda destinazione è il finanziamento di operazioni di fusione all' interno del sistema bancario e di quello industriale tra imprese appartenenti alla Uem sia per rafforzarle che per ristrutturarle.

Il settore dell'auto, per esempio, potrebbe beneficiare di una ristrutturazione su scala europea. Tali operazioni potrebbero avvenire con sottoscrizione di azioni o di titoli come i «Tremonti bond» che sono una interessante soluzione. In ogni caso il Fes non dovrebbe portare a interferenze politiche nella gestione delle aziende. In questa linea la Germania avrebbe, con la Francia, il peso maggiore e ciò potrebbe indurre i due Paesi ad aderire al Fes. La terza destinazione, alla quale si è sempre pensato in passato, dovrebbe essere quella per potenziare le infrastrutture interne alla Uem. Molti penseranno che tutto ciò sia irrealizzabile. Forse. Ma non dobbiamo dimenticare quante innovazioni, anche maggiori, l'Europa ha attuato in passato. Una Uem più forte può aiutare anche la Ue-27 ed evitare un ruolo subordinato ai traballanti Usa, fuori e dentro un antiquato Fondo Monetario internazionale. La Uem, della quale fanno parte anche i Paesi che nel 1957 fondarono la Cee, deve essere consapevole che il tempo delle intenzioni diventa sempre più breve e che solo scelte unitarie possono rilanciare quella Europa sostenuta, in successione, anche dai Presidenti della nostra Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.

28 febbraio 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 16, 2013, 04:39:44 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 23, 2009, 09:42:02 am »

RIGORE, RIFORME, RESPONSABILITÀ

Gli antidoti alla crisi

di ALBERTO QUADRIO CURZIO


Molte forze eco­nomiche e so­ciali segnala­no, con preoc­cupazione crescente, la no­stra situazione economica. Per evitare una gara al cata­strofismo e cercare i rime­di possibili, come soprattut­to il ministro dell'Econo­mia e quello del Welfare stanno facendo, dobbiamo ragionare in termini di Re­sponsabilità Repubblicana ed Europea che impone a tutti comportamenti razio­nali e rigorosi che sono qualcosa di più della com­postezza, condizione irri­nunciabile di civile convi­venza. Anche l'opposizio­ne, dove pure ci sono perso­nalità di valore, è chiamata alla costruttività, che ha di­mostrato nel voto sul fede­ralismo fiscale, in una crisi che l'Italia non ha causato e che non supererà da sola. Su questo sfondo ci siano consentite alcune conside­razioni. L'Italia sta resisten­do meglio degli altri grandi europei e recentemente l'Ocse ha rilevato che da noi ci sono segni di ripresa. Inoltre la nostra disoccupa­zione è cresciuta meno che in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna.

Il governo dell'economia ha adottato misure fino ad ora adeguate e calibrate al­le nostre condizioni di fi­nanza pubblica che Giulio Tremonti tiene bene sotto controllo anche in base al­lo «spread» tra i nostri tito­li di Stato decennali e quel­li tedeschi che erano cre­sciuti fino a gennaio per poi ridiscendere marcata­mente. Segno del diminui­to rischio-Italia. Anche le banche, a cui va il grande merito di aver retto nella crisi, stanno attivando i «Tremonti bond» per au­mentare la loro potenziali­tà di credito a imprese e fa­miglie. Ma le preoccupazio­ni rimangono stando ai da­ti previsionali sul 2009: un calo nel Pil quasi del 4,5%, nelle esportazioni del 16%, negli investimenti in mac­chinari e attrezzature del 18%, una disoccupazione so­pra l'8%. E' ben vero che al­tri Paesi europei andranno peggio di noi e che i consu­mi delle nostre famiglie do­vrebbero reggere abbastan­za, anche per la stabilità dei prezzi, con un calo con­tenuto all'1,7%. Ma ciò non basta e quin­di tutti attendiamo il decre­to in elaborazione al mini­stero dell'Economia che do­vrà sia irrobustire i conti pubblici sia adottare misu­re fiscali a favore degli inve­stimenti e della capitalizza­zione delle aziende, sia ve­locizzare i pagamenti dei debiti della pubblica ammi­nistrazione sia trovare altre risorse per l'Abruzzo.

La co­pertura finanziaria di que­ste misure dovrebbe passa­re soprattutto da uno «scu­do » per il rientro dei capita­li detenuti all'estero, moda­lità che anche altri Paesi eu­ropei stanno consideran­do, e dal recupero della eva­sione, a partire dalle indebi­te compensazioni Iva. Poi­ché è difficile soddisfare tutte queste esigenze, spe­riamo in un atteggiamento costruttivo di tutti quelli che hanno responsabilità istituzionale, politiche, im­prenditoriali e sindacali. Perché solo così si potran­no attuare anche quelle ri­forme strutturali di cui l'Ita­lia abbisogna, che erano in parte in agenda nei Dpef presentati da due diversi governi nel 2005, 2006 e 2007 e che sono molto chia­re in quello presentato nel 2008. Esse andranno attua­te in futuro tenendo sem­pre ben presente anche l'orientamento europeista di Carlo Azeglio Ciampi e di Giorgio Napolitano.


22 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 12, 2010, 03:11:32 pm »

E se tassassimo gli speculatori?

L’Europa tira un sospiro di sollievo. Tra il 7 e il 10 maggio, in un fine settimana di febbrili riunioni anche notturne, la Uem (Unione monetaria europea) e la Ue hanno affrontato uno dei momenti più pericolosi della loro storia dal punto di vista valutario e finanziario.

Un eventuale tracollo dell’euro e dei titoli di Stato dei Paesi membri avrebbe avuto anche gravissime conseguenze economiche e politiche non solo in Europa. Questo spiega perché il presidente americano Obama ha ripetutamente telefonato al cancelliere tedesco Angela Merkel e perché nell’intervallo di tempo citato tutti i capi di Stato o di governo della Uem sono rimasti mobilitati. Le premesse di questa vicenda sono note: nella falla della crisi greca e nelle incertezze decisionali della Uem si è infilata la speculazione internazionale che ha tentato di farne una voragine capace di ingoiare l’euro e molti titoli di Stato di Eurolandia. È quella speculazione che da quando è iniziata la crisi si vorrebbe regolare ma che opera indisturbata distorcendo il ruolo dei mercati finanziari che invece dovrebbero operare per la crescita economica. La sequenza difensiva prima e aggressiva poi della Ue e della Uem si è sviluppata in due fasi. La prima è stata governata dai ministri economici di Eurolandia e dalla Bce che hanno messo a punto, tra l’11 aprile e il 2 maggio e in accordo con il Fmi, un piano di sostegno alla Grecia. La seconda fase è stata governata dal 7 maggio dai capi di Stato o di governo della Uem che, in stretto collegamento con i ministri finanziari e con la Bce, hanno deciso di affrontare il confronto con la speculazione chiedendo all’Ecofin e alla Commissione di rendere operativo un piano di intervento varato poi nella notte tra domenica e lunedì. Con un ruolo non indifferente dell’Italia. Questo perché Tremonti, che negli ultimi mesi si è guadagnato un’autorevolezza notevole, ha sempre avvertito che la crisi avrebbe potuto avere una recrudescenza. Buon gioco ha avuto quindi anche il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, a spingere per una soluzione operativa. Ruolo che anche l’opposizione ha riconosciuto in quello spirito di interesse nazionale che il presidente Giorgio Napolitano raccomanda.

L’intervento, che senza il lavoro del numero uno della Commissione Ue Barroso e del consiglio Van Rompuy, difficilmente sarebbe andato in porto, è di grande portata, mobilitando per prestiti fino a 750 miliardi di euro (60 della Commissione europea, 440 dagli Stati membri, 250 dal Fmi). I Paesi di Eurolandia che vi attingessero dovrebbero garantire un miglioramento dei propri conti pubblici e riforme strutturali per la crescita e la competitività. Non meno importante è la possibilità che la Bce, guidata saldamente da Trichet, acquisti titoli di Stato dei Paesi di Eurolandia come da tempo fa la Fed. La Uem e la Ue hanno ritrovato dunque una forte determinazione e capacità di decisione. Tutti i mercati finanziari hanno reagito positivamente e i differenziali nei tassi di interesse dei titoli di Stato dei Paesi di Eurolandia si sono ridotti rispetto a quelli tedeschi dando una precisa indicazione che il rischio stava calando. Tutto ciò tranquillizza ma non completamente perché la Uem dovrà affrontare anche una terza fase agendo per consolidare la propria identità e forza economico-finanziaria, come in parte è prefigurato nei documenti dei giorni scorsi. La vigilanza sui conti pubblici dei Paesi membri dovrà aumentare (a Portogallo e Spagna è stato chiesto di ridurre da subito il deficit) e quelli meno efficienti dovranno migliorare le proprie performance. Interessante è anche l’idea di una specie di «Tobin tax» prefigurata dall’Ecofin e che a nostro avviso dovrebbe colpire le plusvalenze finanziarie dovute a operazioni speculative di breve termine. Sarebbe sia un bel deterrente sia una fonte di risorse utili per politiche europee attive che potrebbero essere alimentate anche dal Fondo europeo di sviluppo da noi (e da altri) proposto per spingere la crescita tramite gli investimenti. Più in generale la Uem dovrà dotarsi, oltre le emergenze, di strumenti di politica economica, finanziaria e fiscale per lo sviluppo.

Alberto Quadrio Curzio

11 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_maggio_11/se-tassassimo-gli-speculatori-curzio_f4a6a198-5cf6-11df-97c2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 23, 2011, 09:05:43 pm »

La proposta di Prodi e Quadrio Curzio: EuroUnionBond per la nuova Europa

di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio

23 agosto 2011

Caro Direttore,

abbiamo molto apprezzato l'attenzione del Sole 24 Ore al tema degli Eurobond (Eb), di recente "bocciati" dal vertice Merkel-Sarkozy del 16 agosto per paura che Francia e Germania debbano pagare debiti di altri Paesi.

Noi crediamo invece che gli Eb servano all'unità, alla stabilità e alla crescita dell'Unione economica e monetaria (Uem) e all'euro e quindi alla Ue. Bisogna però progettare bene gli Eb partendo da una impostazione economico-istituzionale che adotteremo nel seguito (senza rinvii ad altre, salvo a una di Quadrio Curzio sul Mulino 2/2011).

Distinguiamo quattro tipologie genericamente definite di Eb di cui una sola attuata, gli StabilityBond (Sb), mentre altre due sono state proposte da tempo - UnionBond (Ub) e EuroBond (Eb) - ma non attuate. Da ultimo presenteremo la nostra proposta che definiamo degli EuroUnionBond (Eub).

Gli UnionBond (Ub). Questi titoli di debito pubblico "europeo" a lungo termine furono proposti dal presidente della Commissione europea Jacques Delors nel Libro bianco "Crescita, competitività, occupazione" del 1993. Gli Ub dovevano essere garantiti dal bilancio della Comunità europea per finanziare investimenti in grandi infrastrutture transeuropee i cui ricavi sarebbero andati ai promotori dei progetti medesimi (enti del settore pubblico e ditte private) onerati dagli interessi e dal rimborso degli Ub. Questa proposta è stata spesso ripresa e recentemente anche dal Parlamento europeo.

Una variante limitata degli Ub sono i "projectbond" (Pb) sostenuti da José Manuel Barroso e dalla Commissione europea nel 2010, per realizzare singole infrastrutture europee con finanziamenti nel partenariato pubblico-privato. I Pb andrebbero emessi da privati ma garantiti dal bilancio comunitario e dalla Bei. Ne esistono già alcuni varati dalla Bei e dal "Fondo Marguerite" operativo del 2008 con "core sponsors" costituiti dalle Casse depositi e prestiti (o forme affini) di Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e dalla Bei. Si tratta di partecipazioni minoritarie in nuovi progetti di infrastrutture europee per trasporti, energia ed energie rinnovabili.

Gli EuroBond(Eb).Questi titoli dei debito pubblico "europeo" sono stati presentati come mezzo per ristrutturare i debiti pubblici nazionali degli Stati membri della Uem. L'abbiamo avanzata in molti mentre altri l'hanno criticata. Nel dicembre 2010 la proposta è stata fatta sul Financial Times da due ministri dell'economia: Jean-Claude Juncker (presidente dell'eurogruppo) e Giulio Tremonti. Essi partono dalla constatazione che, malgrado le decisioni delle istituzioni della Ue e della Uem, i mercati dei titoli di Stato dei Paesi membri dell'euro rimangono attaccati e attaccabili. Il contrasto dovrebbe venire dagli Eb emessi da una European debt agency (Eda) da sostituire allo European financial stability facility (Efsf). Delors, come altri, ha sottovalutato questo tipo di interventi quasi servissero «solo per colmare i disavanzi del passato».

Gli StabilityBond (Sb). Sono già attuati. Dall'agosto 2010 è operativo lo Efsf (European financial stability facility) dotato di garanzie di capitale fino a 440 miliardi per emettere titoli finalizzati a prestiti condizionati a Stati di Eurolandia in crisi finanziaria. Le quote di capitale del Fondo sono proporzionali a quelle che gli Stati della Uem hanno nella Bce. La Germania ne garantisce perciò circa il 27%, la Francia il 20%, l'Italia quasi il 18 per cento. Ovvero il 65% della Uem. Per ora questo Fondo ha emesso solo 13 miliardi di Sb per prestiti a Portogallo e Irlanda.

Successivi ampliamenti di operatività tra cui quelli decisi in luglio hanno aumentato il capitale garantito a 780 miliardi di euro e altri poteri sono stati conferiti allo Efsf. In particolare il Fondo potrà acquistare sul mercato primario e secondario di titoli di Stato dei Paesi della Uem in difficoltà purché in ristrutturazione finanziaria. Gli ampliamenti deliberati sono tuttora soggetti a ratifica degli Stati azionisti. Quindi per ora il Fondo può solo fare prestiti. Dall'1 luglio 2013 lo Efsf sarà sostituito dallo Esm (European stabilization mechanism), con capitale sottoscritto per 700 miliardi di euro, che avrà durata permanente e che dovrà essere recepito dai trattati europei. In conclusione: gli Sb sono un'importante novità anche se la loro operatività è limitata a operazioni difensive di salvataggio.

Gli EuroUnionBond (Eub). La nostra proposta è che bisogna innovare di più con il varo di un Fondo finanziario europeo (Ffe) che emetta Eub con quattro caratteristiche che ricomprendono alcune delle precedenti.

1) Il Ffe dovrebbe avere un capitale conferito dagli Stati Uem in proporzione alle loro quote nel capitale della Bce. Il capitale dovrebbe essere costituito dalle riserve auree del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) che sono la maggiori al mondo con circa 350 milioni di once per un controvalore intorno ai 450 miliardi di euro. Per mettere l'oro a garanzia vanno modificati gli statuti del Sebc e della Bce (anche con riflessi sui Trattati europei, ma non sul Central banks gold agreement che tratta delle vendite di oro), enti che potrebbero anche diventare azionisti, in quanto conferenti, del Ffe. Supponendo che il capitale versato del Ffe sia di 1.000 miliardi di euro, ogni Stato membro della Uem dovrà conferire oltre all'oro altri capitali anche in forma di obbligazioni e azioni stimate a valori reali e non a prezzi di mercato sviliti.

L'Italia dovrebbe conferire 180 miliardi di euro in totale di cui 79 milioni di once in riserve auree, valutabili oggi a circa 101 miliardi di euro, più altri 79 miliardi di euro che a nostro avviso dovrebbero essere azioni di società detenute dal ministero dell'Economia (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste ecc). Società che oggi non sono privatizzabili, dati i prezzi di mercato. Con questi conferimenti il timore tedesco di pagare i debiti altrui dovrebbe placarsi. La Germania dovrebbe versare al Ffe 270 miliardi di euro di cui 140 miliardi sono 109 milioni di once d'oro e 130 altri valori. La Francia dovrebbe versare 200 miliardi di cui 100 con i 78 milioni di once d'oro e 100 in altri valori. Sarebbe importante che Italia, Germania e Francia conferissero a complemento dell'oro azioni di società settorialmente omogenee nell'energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti.

2) Il Ffe con 1.000 miliardi di euro di capitale versato potrebbe fare una emissione di 3.000 miliardi di Eub con una leva di 3 e durata decennale (e oltre) al tasso del 3% eventualmente variabile dopo un certo periodo. Altre garanzie si potrebbero aggiungere con impegni giuridici degli Stati Uem. L'onere di interessi sarebbe di 90 miliardi di euro all'anno pari oggi a circa l'1% del Pil della Uem pagabile sia con i profitti del conferimento del capitali azionari al Ffe sia con una quota dell'Iva dei Paesi della Uem, sia con gli interessi di cui diremo. Quanto detto è ovviamente adattabile in vari modi su tassi, scadenze, rimborsi degli Eub e magari loro convertibilità in azioni. Ma la sostanza non cambia.

3) Il Ffe dovrebbe dividere in due parti i 3.000 miliardi raccolti con gli Eub.Per far scendere dall'attuale 85% al 60% la media del debito della Uem sul Pil verso il mercato il Ffe dovrebbe rilevare 2300 miliardi dei titoli di Stato dei Paesi della Uem. L'Italia scenderebbe al 95% del debito su Pil verso il mercato mentre per il restante 25% sarebbe debitrice verso il Ffe. La Francia e la Germania scenderebbero sotto il 60% di debito su Pil verso il mercato. I rimanenti 700 miliardi della citata emissione dovrebbero andare a grandi investimenti europei anche per unificare e far crescere imprese continentali nella energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti delle quali il Ffe diverrebbe azionista.

I vantaggi di questa emissione di Eub sarebbero enormi. Ne citiamo solo due. Il primo è che il Ffe non sarebbe opportunistico ma stabilizzante nella gestione dei titoli di Stato nazionali da detenere su lunghe durate rendendo così molto difficile anche la speculazione. Il secondo vantaggio sarebbe un mercato degli Eub di grandi dimensioni e una raccolta a interessi in media più bassi rispetto ai titoli nazionali di quasi tutti i Paesi Eum. Data anche la natura del Ffe e degli Eub, che hanno garanzie reali, diverrebbe realistico attrarre investitori molto liquidi come i Fondi sovrani che si stima abbiamo oggi asset intorno ai 4.200 miliardi di dollari, ovvero circa 3.000 miliardi di euro, che nessuna emissione di titoli di Stato della Uem può servire se non in piccola parte. In tal modo gli Eub possono davvero diventare competitivi nei confronti dei titoli del tesoro Usa dei quali la Cina vuole alleggerirsi.

Naturalmente vanno precisate le strutture e la governance societaria del Ffe (che in parte si possono prendere dallo Efsf e dal Esm), tra cui i poteri di voto dei partecipanti al Ffe, che pur dipendendo dalle quote nel capitale dovrebbero anche essere rivedibili periodicamente per tenere conto della eccedenza sul 60% del debito pubblico su Pil dei singoli stati. Anche in tal modo si spingerebbero i diversi Paesi a far scendere il loro rapporto di debito su Pil.

In conclusione: queste innovazioni andrebbero subito messe in progettazione perché, dati i tempi legali della Uem (e della Ue), l'Eurozona sta correndo gravi rischi. Quelli della speculazione, quelli di un rigore di bilancio senza crescita e occupazione, quelli della diarchia franco-tedesca che ha avocato a se il governo della Uem e della Ue ma che non pare all'altezza di un Governo capace dei grandi progetti politico-istituzionali attuati in passato.


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-08-22/eurounionbond-nuova-europa-201300.shtml?uuid=AapbbDyD&p=3

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« Risposta #4 inserito:: Agosto 25, 2011, 11:32:57 am »

L'Europa apre agli eurobond

dal nostro corrispondente Beda Romano.

All'interno articolo di Dino Pesole
24 agosto 2011


FRANCOFORTE. Poco alla volta l'idea di creare un vero bilancio europeo sta prendendo quota in Europa. La proposta lanciata ieri da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio dalle colonne del Sole 24 Ore sta alimentando le discussioni a poche settimane da una rentrée autunnale che vedrà il parlamento europeo dibattere della questione. In Germania, il governo federale frena. Ma fino a quando?

«Mi sembra che sia solo questione di tempo. La crisi ha mostrato chiaramente che bilanci nazionali non sono compatibili con una moneta unica e che la zona euro ha bisogno di un vero mercato obbligazionario», commenta Guy Verhofstadt, deputato europeo, reagendo alle proposte di Prodi e Quadrio Curzio. «Le loro idee», aggiunge l'ex primo ministro belga, «vanno nella giusta direzione».

In una lettera al giornale pubblicata ieri, l'ex presidente del consiglio e il professore dell'Università Cattolica di Milano hanno proposto la nascita di un Fondo finanziario europeo di mille miliardi di euro, garantito in parte dalle riserve auree delle banche centrali nazionali e dalle partecipazioni degli stati nelle imprese pubbliche. Il Fondo avrebbe la capacità di emettere titoli per 3.000 miliardi di euro.

Il denaro verrebbe utilizzato da un lato per nuovi investimenti infrastrutturali e dall'altro per riacquistare debito pubblico nazionale. Dietro alla proposta Prodi-Quadrio Curzio si nasconde il sentimento che la zona euro possa uscire dalla crisi economica e politica solo attraverso maggiore integrazione. La nascita di un bilancio europeo permetterebbe di aiutare i paesi più deboli, rafforzando nel contempo l'unione.

«Il sistema attuale non è compatibile con l'euro», spiega Verhofstadt.

«Possiamo discutere delle diverse modalità, ma mi sembra ovvio che senza cambiamenti radicali l'Unione europea è destinata a un lento declino. Un trasferimento di competenze dalla periferia al centro è indispensabile in un contesto in cui i paesi hanno messo in comune la propria moneta. Come credere che si possa far convivere l'euro con lo stato-nazione?»

Zsolt Darvas, economista del centro Bruegel a Bruxelles, considera la proposta di Prodi e di Quadrio Curzio «molto interessante». Sulle modalità tecniche esprime qualche incertezza. Prima di tutto nota che gli autori non si sono posti il problema del rating del fondo. Poi si chiede se finanziare il servizio del debito dello stesso fondo con il reddito proveniente dalle partecipazioni azionarie degli stati sia realmente possibile.

«Ciò detto, la proposta è molto utile - aggiunge Darvas -. Soprattutto è interessante il fatto che il denaro del fondo debba servire sia per il riacquisto di obbligazioni nazionali sia per investimenti nell'economia reale. I debiti pubblici dei singoli paesi verrebbero ridotti, ma rimarrebbero in circolazione, garantendo quel confronto tra paesi e quella disciplina di bilancio che la Germania considera essenziale».

Da Berlino, il governo tedesco non ha voluto commentare direttamente la proposta Prodi-Quadrio Curzio. Un funzionario del ministero delle Finanze ha però spiegato che agli occhi della Germania «le obbligazioni europee potranno essere introdotte solo alla fine di un lungo processo di convergenza fiscale nella zona euro e alla luce di una forte centralizzazione delle politiche di bilancio».

Inoltre, secondo il funzionario del governo, «gli eurobonds richiederebbero un laborioso lavoro di riforma istituzionale, in Europa e in Germania». L'appunto è ragionevole, ma dietro alla posizione tedesca sembra spesso nascondersi anche l'opposizione a cambiare l'assetto della zona euro: per un'innata difficoltà a cambiare le regole in una situazione d'emergenza? O per una qualche forma di nazionalismo?
Eppure, anche in Germania il dibattito sulla creazione di eurobonds europee sta mettendo radice. Nelle file democristiane c'è chi esorta a maggiore flessibilità, mentre il segretario generale del partito socialdemocratico Andrea Nahles ha spiegato di recente: «Le obbligazioni europee sono lo strumento meno costoso, più sostenibile e più efficace per uscire dalla crisi».

Anche nel mondo accademico la discussione è viva. Il presidente dell'istituto Ifo di Monaco, Hans-Werner Sinn reputa le obbligazioni europee «una droga dolce», ma secondo Peter Bofinger, uno dei cinque saggi del governo federale, gli eurobonds avrebbero il merito di «evitare il fallimento di un paese membro». I più ottimisti, come Verhofstadt, considerano che sia solo questione di tempo.

«Gli eurobonds comportano tre vantaggi per la Germania: rafforzerebbero la moneta unica, creerebbero un grande mercato obbligazionario da 4.000-5.000 miliardi di euro, consentirebbero alla lunga un calo dei tassi d'interesse», afferma l'ex primo ministro belga. «Le pressioni dei mercati indurranno alla fine i tedeschi a ricredersi anche perché si renderanno conto che è la soluzione meno costosa».

In autunno, la Commissione Europea dovrebbe presentare il proprio progetto di obbligazione europea. Ieri il portavoce Olivier Bailly ha precisato che se ne discuterà dopo che verrà varato il rafforzamento della governance economica.

La partita, tutta in salita, metterà a confronto le due anime dell'unione: il parlamento che vuole promuovere l'integrazione europea e il consiglio che tende a difendere le sovranità nazionali.
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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-08-23/leuropa-apre-eurobond-214430.shtml?uuid=Aag0YVyD&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 06, 2013, 06:40:43 pm »

Se il Sud punta sulla «logica industriale»

di Alberto Quadrio Curzio

05 gennaio 2013


Il Mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere uno dei principali temi nei programmi politico-economici elettorali perché dal suo sviluppo dipenderà in buona parte anche quello dell'Italia ben oltre il quinquennio di una legislatura. Il dualismo del nostro Paese è infatti una delle principali cause della bassa crescita italiana alla quale si associano squilibri socio-economici che non hanno pari in altri Stati dell'Eurozona.

Anche perché il Sud continua a indebolirsi per l'emigrazione verso il Nord (italiano e non) di risorse umane molto qualificate che hanno rafforzato le economie di destinazione. Eppure nei programmi elettorali i riferimenti al Mezzogiorno sono per ora scarsi o generici o monotematici. Sono quindi opportune delle riflessioni e delle richieste ai vari partiti non perché ci spieghino come prendono "i voti del Sud" ma per dare risposte all'Italia. O, quanto meno, per evitare estremi molto dannosi: quello della "rivendicazione sudista"; quello del "separatismo nordista"; quello della rinuncia conoscitiva; quello dell'indifferenza operativa. Come riferimento storico e di attualità consideriamo la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) che dal 1946, anno di fondazione, ad oggi ha studiato i problemi del sud proponendo soluzioni fuori dagli interessi di parte (o di partito).

La prima riflessione è di natura storica, anche per un richiamo di metodo. La Svimez fu fondata da grandi personalità quali Rodolfo Morandi, Giuseppe Paratore, Francesco Giordani, Giuseppe Cenzato, Donato Menichella e Pasquale Saraceno. Tutti (salvo Menichella) sono stati in successione presidenti della Svimez. Chi ha oggi responsabilità politiche e non conosce le loro opere per lo sviluppo del nostro Paese dovrebbe studiarle bene per capire l'impegno di italiani del Nord (Morandi, Cenzato, Saraceno) e del Sud (Paratore, Giordani, Menichella) per l'unificazione economica nazionale.
Sono personalità queste alle quali l'Italia deve molto anche per l'uscita dal disastro della dittatura e per la ricostruzione alla quale molto dettero anche altri, a cominciare da Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni con i quali vari dei personaggi citati avevano rapporti ideali e politici molto stretti. Eppure non si trattava di personalità appartenenti tutte allo stesso partito politico ma tutte dotate di alta etica civile, competenza, concretezza.
Esse erano convinte che la Svimez dovesse propugnare una "logica industriale" applicata a tutti i settori per lo sviluppo del Sud: dall'agricoltura alla manifattura, dalle infrastrutture ai servizi.

La "logica industriale" è per noi quella espressa dall'impostazione "politecnica" alla Carlo Cattaneo alla quale si sono ispirate tante personalità della imprenditoria, della tecnologia, delle istituzioni. L'economia non è qui ridotta solo al mercato perché contano molto gli investimenti a rendimenti differiti e la progettazione a lungo termine per imprese, infrastrutture, piani regolatori e altro. È una impostazione che comporta necessariamente la collaborazione tra pubblico e privato, tra autonomie locali e coerenze nazionali collocate (adesso) in un contesto europeo. Quindi vi era e vi è un forte tasso di politica nel progetto di "logica industriale" della Svimez che, purtroppo, mancò l'obiettivo non perché sbagliato ma perché distorto da "logica di sistema" a multiforme pratica clientelare e assistenzialista anche per alcune imprese scese dal nord al sud. È una storia che molto può insegnare anche oggi.

Su questa base poniamo agli attuali leader politici un primo quesito: ritenete che i mercati liberalizzati possano risolvere da soli la questione meridionale o che siano necessari interventi straordinari in partenariato pubblico-privato (nazionali ed europei) secondo il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale?

La seconda riflessione è di natura ricognitiva sul presente e di urgenza per il futuro. Il rapporto Svimez (che si avvia ai 30 anni essendo uscito per la prima volta nel 1974) ci dà anno dopo anno i principali indicatori sull'economia meridionale per settori e fattori ma anche per le entità demografiche e sociali. La sua completezza (anche per approfondimenti tematici annuali, dal federalismo fiscale alla logistica) è la base per sue nette proposte di politica economica. Il rapporto del 2012 rileva amaramente che da cinque anni il Mezzogiorno arretra con rischio di cancellare interi pezzi dell'industria non compensati dall'innovazione e internazionalizzazione di alcune "isole"produttive. Tra il 2007 e il 2012 il Pil meridionale è calato del 10% ritornando (a prezzi costanti) al 1997 e il Pil pro capite nel 2011 è al 57,7% di quello del centro-nord. La proposta della Svimez è quella del rilancio degli investimenti al Sud con una moderna logica industriale (nel senso sopra descritto) che vada dalla manifattura alle energie rinnovabili, dal turismo alla conservazione e promozione dei beni naturalistici, artistici e culturali «in forte espansione in tutto il modo e in cui l'Italia rimane paradossalmente molto indietro». Per fare tutto ciò noi riteniamo sia cruciale un robusto patto tra le forze produttive (imprenditori e sindacati) sia per correlare meglio retribuzioni e produttività sia per orientare agli investimenti le politiche delle istituzioni locali che troppo spesso hanno sprecato.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 31 dicembre ha amaramente ricordato il disinteresse per il Mezzogiorno così come il 26 settembre ha espresso ad Adriano Giannola, che presiede la Svimez, l'apprezzamento per questa Associazione.

Su questa base poniamo agli attuali leader politici un secondo quesito: partendo dalle analisi e dalle proposte della Svimez sareste disponibili a cercare una convergenza tra voi e con le forze produttive per rilanciare lo sviluppo del Mezzogiorno?

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-05/punta-logica-industriale-082213.shtml?uuid=AbvWdUHH&p=2
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:24:16 pm »

L'«Abenomics» batte l'Europa senza crescita

di Alberto Quadrio Curzio

15 gennaio 2013

Abenomics: così è stata battezzata la strategia del nuovo primo ministro giapponese, Shinzo Abe, che punta ad una politica economica della crescita con l'innovazione e gli investimenti, la domanda interna e le esportazioni.

La Abenomics, che si compone di due politiche connesse (quella di economia reale; quella di economia monetaria), ha già generato un ampio dibattito sia per le probabilità di successo sia per i rischi che ne possono derivare al Giappone ma anche ai rapporti valutari ed economici internazionali. Compresi quelli con l'eurozona che ci interessano maggiormente anche se l'analisi dovrebbe riguardare Uem, Usa, Giappone e Cina. Cioè le quattro maggiori economie del mondo.
Il programma giapponese si basa su una forte espansione di spesa pubblica con un primo intervento di circa 10 trilioni di yen ovvero di circa 85 miliardi di euro ad opera del governo centrale che dovrebbe essere affiancato da un altro analogo dei governi locali e dei capitali privati. Si arriverebbe a un intervento pari a 170 miliardi di euro finalizzati a incentivi per investimenti in tecnologie avanzate, specie in energia e ambiente, in ricerca e sviluppo, in sostegni vari alle imprese, nella ricostruzione infrastrutturale e abitativa post tsunami, nella sicurezza anti-sismica, nel sostegno ai redditi dei meno abbienti, in spese varie nelle aree più deboli del Paese. Il Governo ritiene che il programma dovrebbe portare già nell'anno fiscale 2013 (che inizia ad aprile) ad una crescita del Pil del 2% con conseguente aumento di 600 mila posti di lavoro.

Questa politica aggressiva di spesa pubblica va valutata in relazione a due aspetti dell'economia giapponese. Il primo è la deflazione di cui il Giappone soffre da 15 anni e dalla quale vuole uscire. La situazione non è tuttavia peggiorata, comparativamente all'Eurozona, nel corso della crisi iniziata nel 2008. Anzi. Infatti nel 2012 il Pil cresce intorno al 2,2% (la Uem cala dello 0,4), la disoccupazione è al 4,5% (la Uem è sopra l'11%), la bilancia dei pagamenti di parte corrente (e cioè il saldo tra esportazioni ed importazioni del Giappone per beni, servizi e redditi) è all'1,6% del Pil (nella Uem è all'1,1%). Il secondo aspetto riguarda le finanze pubbliche dalle quali verrà lo stimolo alla crescita. Nel 2012 il debito pubblico lordo sul Pil è pari al 236% e il deficit sul pil pari al 10% e qui la Uem è ben più solida. In queste condizioni avviare una politica di spesa pubblica appare un azzardo che il Governo nipponico affronta però con due ammortizzatori. Uno riguarda il finanziamento del debito pubblico che per la quasi totalità è detenuto all'interno del Giappone e sul quale si pagano tassi di interesse sui decennali allo 0,82% e quindi minori di quelli tedeschi e americani.

L'altro riguarda l'enorme entità di crediti sull'estero accumulati con i surplus commerciali.
Nella sfida giapponese vi è anche un profilo di geo-economia dove il Giappone sta arretrando rispetto alla Cina. La quota del suo Pil su quello mondiale (in termini di parità di potere d'acquisto) nel 2000 era al 7,6% e quella della Cina al 7,1%,nel 2012 è al 5,5% e quella della Cina al 14,9%, nel 2017 è prevista al 4,8% e quella della Cina al 18,2%. Anche in termini di dollari correnti la Cina ha già superato il Giappone.
Per spingere sulla crescita la Abenomics punta anche ad una forte espansione monetaria della Banca Centrale Giapponese per contribuire al sostegno dell'occupazione e della crescita alzando subito il limite di inflazione accettabile dall'attuale 1% (mentre quella effettiva è allo zero) al 2% ed in prospettiva al 3%. A ciò viene aggiunto l'obiettivo di deprezzare lo Yen per rilanciare le esportazioni che hanno subito un forte rallentamento nel 2012 anche a causa della recessione in Usa e Ue.
Sin qui la Abenomics che ha già avuto alcuni effetti come quello di indebolire lo yen e di rilanciare le quotazioni delle azioni nipponiche.

È chiaro che la Abenomics ha molti rischi sia interni che esterni al Giappone e che sarebbe molto meglio un concerto tra Uem, Usa, Giappone e Cina per evitare bolle e guerre valutarie.
In attesa del "concerto" la Uem dovrebbe però convincersi che la Merkenomis del rigore fiscale e dei pareggi di bilancio senza crescita peggiorerà con la Abenomics. Infatti l'euro da fine luglio(quando Draghi lo salvò) ad oggi ha guadagnato circa il 25% sullo Yen (e il 10% sul dollaro). Ne seguirà un calo delle esportazioni della Uem che rallenterà la nostra ripresa o prolungherà la recessione. Dalla quale non si uscirà sperando in un aumento della domanda aggregata solo in virtù delle liberalizzazioni e della politica monetaria della Bce che non arriva alle imprese. Bisogna allora finanziare i programmi di investimenti infrastrutturali e in ricerca e sviluppo(di Europa 2020 e di Horizon 2020). A tal fine potremmo avere un sostegno dalla Abenomics che con le riserve valutarie punta anche all'acquisto di obbligazioni del Fondo Europeo Esm che andrebbe subito trasformato in Fondo Finanziario Europeo per mettere in sicurezza una parte dei debiti pubblici nazionali e per finanziare i nostri investimenti. È la nota ricetta degli EuroUnionBond che, senza correre i rischi eccessivi della Abenomics, ci consentirebbero di passare dalla Merkenomis recessiva alla Euronomics espansiva.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-15/labenomics-batte-europa-senza-063537.shtml?uuid=AbZJ7PKH
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 17, 2013, 12:11:24 am »

La proposta di Prodi e Quadrio Curzio: EuroUnionBond per la nuova Europa

di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio

23 agosto 2011

Caro Direttore,

abbiamo molto apprezzato l'attenzione del Sole 24 Ore al tema degli Eurobond (Eb), di recente "bocciati" dal vertice Merkel-Sarkozy del 16 agosto per paura che Francia e Germania debbano pagare debiti di altri Paesi.

Noi crediamo invece che gli Eb servano all'unità, alla stabilità e alla crescita dell'Unione economica e monetaria (Uem) e all'euro e quindi alla Ue. Bisogna però progettare bene gli Eb partendo da una impostazione economico-istituzionale che adotteremo nel seguito (senza rinvii ad altre, salvo a una di Quadrio Curzio sul Mulino 2/2011).

Distinguiamo quattro tipologie genericamente definite di Eb di cui una sola attuata, gli StabilityBond (Sb), mentre altre due sono state proposte da tempo - UnionBond (Ub) e EuroBond (Eb) - ma non attuate. Da ultimo presenteremo la nostra proposta che definiamo degli EuroUnionBond (Eub).

Gli UnionBond (Ub). Questi titoli di debito pubblico "europeo" a lungo termine furono proposti dal presidente della Commissione europea Jacques Delors nel Libro bianco "Crescita, competitività, occupazione" del 1993. Gli Ub dovevano essere garantiti dal bilancio della Comunità europea per finanziare investimenti in grandi infrastrutture transeuropee i cui ricavi sarebbero andati ai promotori dei progetti medesimi (enti del settore pubblico e ditte private) onerati dagli interessi e dal rimborso degli Ub. Questa proposta è stata spesso ripresa e recentemente anche dal Parlamento europeo.

Una variante limitata degli Ub sono i "projectbond" (Pb) sostenuti da José Manuel Barroso e dalla Commissione europea nel 2010, per realizzare singole infrastrutture europee con finanziamenti nel partenariato pubblico-privato. I Pb andrebbero emessi da privati ma garantiti dal bilancio comunitario e dalla Bei. Ne esistono già alcuni varati dalla Bei e dal "Fondo Marguerite" operativo del 2008 con "core sponsors" costituiti dalle Casse depositi e prestiti (o forme affini) di Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e dalla Bei. Si tratta di partecipazioni minoritarie in nuovi progetti di infrastrutture europee per trasporti, energia ed energie rinnovabili.

Gli EuroBond(Eb).Questi titoli dei debito pubblico "europeo" sono stati presentati come mezzo per ristrutturare i debiti pubblici nazionali degli Stati membri della Uem. L'abbiamo avanzata in molti mentre altri l'hanno criticata. Nel dicembre 2010 la proposta è stata fatta sul Financial Times da due ministri dell'economia: Jean-Claude Juncker (presidente dell'eurogruppo) e Giulio Tremonti. Essi partono dalla constatazione che, malgrado le decisioni delle istituzioni della Ue e della Uem, i mercati dei titoli di Stato dei Paesi membri dell'euro rimangono attaccati e attaccabili. Il contrasto dovrebbe venire dagli Eb emessi da una European debt agency (Eda) da sostituire allo European financial stability facility (Efsf). Delors, come altri, ha sottovalutato questo tipo di interventi quasi servissero «solo per colmare i disavanzi del passato».

Gli StabilityBond (Sb). Sono già attuati. Dall'agosto 2010 è operativo lo Efsf (European financial stability facility) dotato di garanzie di capitale fino a 440 miliardi per emettere titoli finalizzati a prestiti condizionati a Stati di Eurolandia in crisi finanziaria. Le quote di capitale del Fondo sono proporzionali a quelle che gli Stati della Uem hanno nella Bce. La Germania ne garantisce perciò circa il 27%, la Francia il 20%, l'Italia quasi il 18 per cento. Ovvero il 65% della Uem. Per ora questo Fondo ha emesso solo 13 miliardi di Sb per prestiti a Portogallo e Irlanda.

Successivi ampliamenti di operatività tra cui quelli decisi in luglio hanno aumentato il capitale garantito a 780 miliardi di euro e altri poteri sono stati conferiti allo Efsf. In particolare il Fondo potrà acquistare sul mercato primario e secondario di titoli di Stato dei Paesi della Uem in difficoltà purché in ristrutturazione finanziaria. Gli ampliamenti deliberati sono tuttora soggetti a ratifica degli Stati azionisti. Quindi per ora il Fondo può solo fare prestiti. Dall'1 luglio 2013 lo Efsf sarà sostituito dallo Esm (European stabilization mechanism), con capitale sottoscritto per 700 miliardi di euro, che avrà durata permanente e che dovrà essere recepito dai trattati europei. In conclusione: gli Sb sono un'importante novità anche se la loro operatività è limitata a operazioni difensive di salvataggio.

Gli EuroUnionBond (Eub). La nostra proposta è che bisogna innovare di più con il varo di un Fondo finanziario europeo (Ffe) che emetta Eub con quattro caratteristiche che ricomprendono alcune delle precedenti.

1) Il Ffe dovrebbe avere un capitale conferito dagli Stati Uem in proporzione alle loro quote nel capitale della Bce. Il capitale dovrebbe essere costituito dalle riserve auree del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) che sono la maggiori al mondo con circa 350 milioni di once per un controvalore intorno ai 450 miliardi di euro. Per mettere l'oro a garanzia vanno modificati gli statuti del Sebc e della Bce (anche con riflessi sui Trattati europei, ma non sul Central banks gold agreement che tratta delle vendite di oro), enti che potrebbero anche diventare azionisti, in quanto conferenti, del Ffe. Supponendo che il capitale versato del Ffe sia di 1.000 miliardi di euro, ogni Stato membro della Uem dovrà conferire oltre all'oro altri capitali anche in forma di obbligazioni e azioni stimate a valori reali e non a prezzi di mercato sviliti.

L'Italia dovrebbe conferire 180 miliardi di euro in totale di cui 79 milioni di once in riserve auree, valutabili oggi a circa 101 miliardi di euro, più altri 79 miliardi di euro che a nostro avviso dovrebbero essere azioni di società detenute dal ministero dell'Economia (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste ecc). Società che oggi non sono privatizzabili, dati i prezzi di mercato. Con questi conferimenti il timore tedesco di pagare i debiti altrui dovrebbe placarsi. La Germania dovrebbe versare al Ffe 270 miliardi di euro di cui 140 miliardi sono 109 milioni di once d'oro e 130 altri valori. La Francia dovrebbe versare 200 miliardi di cui 100 con i 78 milioni di once d'oro e 100 in altri valori. Sarebbe importante che Italia, Germania e Francia conferissero a complemento dell'oro azioni di società settorialmente omogenee nell'energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti.

2) Il Ffe con 1.000 miliardi di euro di capitale versato potrebbe fare una emissione di 3.000 miliardi di Eub con una leva di 3 e durata decennale (e oltre) al tasso del 3% eventualmente variabile dopo un certo periodo. Altre garanzie si potrebbero aggiungere con impegni giuridici degli Stati Uem. L'onere di interessi sarebbe di 90 miliardi di euro all'anno pari oggi a circa l'1% del Pil della Uem pagabile sia con i profitti del conferimento del capitali azionari al Ffe sia con una quota dell'Iva dei Paesi della Uem, sia con gli interessi di cui diremo. Quanto detto è ovviamente adattabile in vari modi su tassi, scadenze, rimborsi degli Eub e magari loro convertibilità in azioni. Ma la sostanza non cambia.

3) Il Ffe dovrebbe dividere in due parti i 3.000 miliardi raccolti con gli Eub.Per far scendere dall'attuale 85% al 60% la media del debito della Uem sul Pil verso il mercato il Ffe dovrebbe rilevare 2300 miliardi dei titoli di Stato dei Paesi della Uem. L'Italia scenderebbe al 95% del debito su Pil verso il mercato mentre per il restante 25% sarebbe debitrice verso il Ffe. La Francia e la Germania scenderebbero sotto il 60% di debito su Pil verso il mercato. I rimanenti 700 miliardi della citata emissione dovrebbero andare a grandi investimenti europei anche per unificare e far crescere imprese continentali nella energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti delle quali il Ffe diverrebbe azionista.

I vantaggi di questa emissione di Eub sarebbero enormi. Ne citiamo solo due. Il primo è che il Ffe non sarebbe opportunistico ma stabilizzante nella gestione dei titoli di Stato nazionali da detenere su lunghe durate rendendo così molto difficile anche la speculazione. Il secondo vantaggio sarebbe un mercato degli Eub di grandi dimensioni e una raccolta a interessi in media più bassi rispetto ai titoli nazionali di quasi tutti i Paesi Eum. Data anche la natura del Ffe e degli Eub, che hanno garanzie reali, diverrebbe realistico attrarre investitori molto liquidi come i Fondi sovrani che si stima abbiamo oggi asset intorno ai 4.200 miliardi di dollari, ovvero circa 3.000 miliardi di euro, che nessuna emissione di titoli di Stato della Uem può servire se non in piccola parte. In tal modo gli Eub possono davvero diventare competitivi nei confronti dei titoli del tesoro Usa dei quali la Cina vuole alleggerirsi.

Naturalmente vanno precisate le strutture e la governance societaria del Ffe (che in parte si possono prendere dallo Efsf e dal Esm), tra cui i poteri di voto dei partecipanti al Ffe, che pur dipendendo dalle quote nel capitale dovrebbero anche essere rivedibili periodicamente per tenere conto della eccedenza sul 60% del debito pubblico su Pil dei singoli stati. Anche in tal modo si spingerebbero i diversi Paesi a far scendere il loro rapporto di debito su Pil.

In conclusione: queste innovazioni andrebbero subito messe in progettazione perché, dati i tempi legali della Uem (e della Ue), l'Eurozona sta correndo gravi rischi. Quelli della speculazione, quelli di un rigore di bilancio senza crescita e occupazione, quelli della diarchia franco-tedesca che ha avocato a se il governo della Uem e della Ue ma che non pare all'altezza di un Governo capace dei grandi progetti politico-istituzionali attuati in passato.


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da - http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-08-22/eurounionbond-nuova-europa-201300.shtml?uuid=AapbbDyD&p=3
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:09:28 am »

I benefici (perduti) e le occasioni mancate

di Alberto Quadrio Curzio

22 gennaio 2013


Nel 2013 saremo ancora in recessione con il Pil che scenderà dell'1% con la disoccupazione che arriverà al 12% nel 2014. Continua perciò la crisi iniziata nel 2008 i cui effetti potrebbero arrivare al 2017, anno nel quale il Pil non avrà ancora ripreso, stando alle stime, il livello del 2007.

Ci vogliono allora programmi di rilancio dello sviluppo nella legislatura che si apre e che deve investire soprattutto per le nuove generazioni.
A tali fini dobbiamo innanzitutto capire perché oggi ci troviamo in gravi difficoltà. Scegliendo come punto di gravità l'euro, consideriamo tre periodi passati: 1993-1998 (entrata nell'euro); 1999-2007 (benefici dell'euro); 2008-2012 (crisi finanziaria e poi dell'euro). Da un'analisi delle vicende di quegli anni vengono indicazioni per un programma di legislatura italo-europea.
Il periodo di entrata nell'euro va dal 1993 (incluso), quando con il Governo Ciampi iniziò la cosiddetta seconda Repubblica, alla fine del 1998 quando l'Italia entrò nell'euro. La presidenza del Consiglio andò (salvo 8 mesi di Berlusconi) a personalità sia con una marcata esperienza tecnica sia una notevole sensibilità di politica economica per i ruoli già ricoperti. Ciampi e Dini alla Banca d'Italia e Prodi all'Iri. Furono anni molto importanti per l'Italia che dall'orlo della bancarotta nel 1992 entrò nell'euro il 1° gennaio del 1999.

Il tasso medio annuo di crescita del Pil fu di circa l'1,43% con il deficit sul Pil che scese dal 10% al 2,9% e l'avanzo primario che salì dal 2% al 5%. Il debito sul Pil (che segue con ritardo i miglioramenti dei deficit) salì dapprima dal 115% del 1993 a più del 120% nel 1994 e qui rimase fino al 1996 scendendo poi nei due anni successivi al 114% circa. I tassi di interesse sui titoli decennali scesero dal 12,6% di metà 1993 al 3,9% di fine 1998, momento nel quale lo spread sui bund tedeschi divenne addirittura negativo! Fu un periodo di successi malgrado le turbolenze politiche che nella maggioranza portarono alla caduta del Governo Prodi.

Il periodo di benefici (persi) dell'euro va dal 1999 al 2007 inclusi. Nove anni di Governo di cui 5 pieni a Presidenza Berlusconi e gli altri spezzati tra 2 anni e mezzo di Governi D'Alema e Amato prima e un anno e mezzo di Governo Prodi (che in tutto durerà 2 anni) poi. Negli stessi l'Italia non ha usato i vantaggi dell'euro per ridurre drasticamente il debito e/o rilanciare lo sviluppo. La crescita media annua del Pil è stata dell'1,54%, entità di poco superiore a quella del ben più difficile periodo precedente.

Il deficit su Pil, sceso all'1% nel 2000 (con l'avanzo primario ancora al 5%) risaliva rapidamente con il Governo Berlusconi fino al 4,5% nel 2005 mentre l'avanzo primario veniva azzerato. Il successivo Governo Prodi ridusse di nuovo il deficit sul Pil fino all'1,6% nel 2007 riportando l'avanzo primario al 3,1%. Quanto al debito sul Pil arrivò al minimo di 103% nel 2007. In questo periodo i tassi di interesse sui nostri titoli decennali sono rimasti bassi (tra i 4% e il 5,6%) con spread medi intorno ai 25 punti base sui bund tedeschi. Fu dunque il Governo Berlusconi, in carica con una grande maggioranza per 5 anni, che perse l'ottima occasione per ridurre strutturalmente il debito sul Pil e per rilanciare la crescita. Il successivo Governo Prodi, malgrado una risicata maggioranza, fece molto meglio (compresa una notevole riduzione del cuneo fiscale e contributivo) ma ebbe poco tempo.

Il periodo della crisi dell'euro, conseguente a quella finanziaria internazionale, va dal 2008 al 2012 inclusi. Cinque anni di cui quasi mezzo di Governo Prodi, 3 anni e mezzo di Governo Berlusconi, poco più di un anno di Governo Monti. In questo periodo l'Italia viene colpita da due crisi simultanee: quella della (comprensibile) sfiducia europea nel Governo Berlusconi dove, tra l'altro, il ministro Tremonti, apprezzato nella Uem, era malvisto ed ostacolato; quella delle incertezze nel Governo della Ue e Uem. L'esito è noto ed è stato sintetizzato nello spread dei nostri titoli arrivato su quelli decennali tedeschi a 550 punti base nel novembre 2011

Si arriva così all'emergenza italiana con il varo del Governo Monti che ha impresso rigore al bilancio soprattutto con un forte aumento della pressione fiscale e con talune riforme (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) raccomandate dalla Ue e che Monti ha attuato con urgente radicalità per dimostrare che l'Italia era affidabile.
Il punto di svolta s'ebbe alla fine di luglio quando Draghi dichiarò che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l'euro. Il che non sarebbe stato possibile se Monti non avesse disinnescato la "bomba Italia" e se qualche terapia europea (Efsf, Ltro) non fosse già stata varata. Dunque bisogna rivolgere un grazie forte e chiaro a Monti e a Draghi.

Ma da agosto il Presidente Monti ha continuato troppo nel rigore mentre molte "riforme" si arenavano in Parlamento. Peccato che Monti non abbia invece utilizzato i suoi (e nostri) crediti acquisiti nella Ue e Uem o per accedere al meccanismo di protezione dei titoli di Stato OMTs varato dalla Bce e/o per spingere l'Europa ad una politica espansiva.
Da queste analisi si traggono due conclusioni. La prima è che se gli avanzi primari alla Ciampi-Prodi raggiunti nel 1998-99 fossero proseguiti fino al 2007, l'Italia avrebbe raggiunto un debito sul Pil intorno all'84% anche senza patrimoniali e senza danneggiare l'economia reale. La seconda è che l'Italia deve allineare le sue riforme a quelle europee sfruttando i periodi di crescita.

A questo punto i partiti italiani dovrebbero rendere espliciti i loro programmi di legislatura rispondendo ad almeno due domande: come pensate di far scendere gradualmente il debito pubblico sul Pil anche convincendo la Ue e la Uem che è necessaria la crescita (nostra e loro)? Come rilancereste in Europa e in Italia gli investimenti, materiali e immateriali, e l'occupazione, specie quella giovanile?

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-22/benefici-perduti-occasioni-mancate-063604.shtml?uuid=AbLy7nMH&p=2
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:11:14 am »

Perché con un rapporto debito/Pil al 236% il Giappone spende e spande mentre l'Italia va giù a colpi di austerity?


di Vito Lops con un articolo di Alberto Quadrio Curzio

15 gennaio 2013

Il Giappone ha il 236% del debito/Pil e un deficit/Pil al 10%. Numeri che farebbero impallidire Angela Merkel, i trattati di Maastricht, Lisbona e compagnia bella. E cosa fa il premier Shinzo Abe? Ha annunciato poche ore fa un ulteriore piano espasione della spesa pubblica con un primo intervento da 85 miliardi di euro. Insomma, del mantra europeo dell' austerity dalle parti di Tokyo non c'è neanche l'ombra.

Ma come mai il Giappone - che resta la terza economia del pianeta e può esibire un tasso di disoccupazione del 4,5% contro l'11% europeo - può permettersi di far galoppare la spesa pubblica pur convinvendo da tempo con parametri di indebitamento molto simili a quelli della Grecia? Non solo: lo stesso plurindebitato Giappone può permettersi di finanziare il debito pubblico americano (facendo carry trade, ovvero pagando interessi inferiori all'1% su titoli a 10 anni ai detentori dei titoli nipponici e ricevendo quasi il 2% dal Tesoro Usa) e quello europeo (il Giappone si è detto pronto ad acquistare titoli emessi dal Fondo salva-StatiEsm). Come mai?
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Perché rispetto alla Grecia, o a un qualunque Paese dell'Eurozona, ha almeno due cartucce in più da giocare: la possibilità di stampare moneta della Bank of Japan e la protezione del debito pubblico da parte dei cittadini e degli investitori interni che ne detengono la quasi totalità.

Della possibilità di stampare moneta e quindi del ruolo di prestatore di ultima istanza da parte della Bank of Japan (facoltà condivisa, tra le varie, con la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca centrale svizzera) si è più volte parlato. Così come si è parlato del fatto che la Banca centrale europea non contempla questa possibilità, nonostante abbia attuato nel corso del 2012 misure ibride di intervento come lo scudo anti-spread (che agisce sul mercato secondario) o l'attivazione del fondo Esm (che può tecnicamente acquistare titoli di Stato sul mercato primario qualora un Paese chieda esplicitamente aiuto).

Il principale rischio per un Paese dove la rispettiva Banca centrale stampi moneta all'occorrenza per sostenere la crescita (come peraltro la Federal Reserve ha già fatto tre volte dopo il collasso di Lehman Brothers annunciando tre piani di quantitative easing) è di alimentare potenzialmente l'inflazione.

Anche se non è un'equazione scontata. Ad esempio negli Stati Uniti dal 2008, dopo tre piani di allentamento monetario (l'ultimo dei quali prevede che la Fed stampi 40 miliardi di dollari al mese per un periodo indefinito), l'inflazione non è andata oltre il 3,8% del 2008 (favorendo peraltro una ristrutturazione gratuita del mastodontico debito pubblico americano, oltre 16mila miliardi di dollari) dato che i tassi nominali che il governo Usa paga sui titoli a 10 anni sono inferiori al 2%.

Che non sia un'equazione scontata lo dimostra anche quando accade in Giappone, dove da tempo la Banca centrale persegue politiche di allentamento monetario, vive paradossalmente con lo spettro della deflazione (dal 1997 al 2011 i prezzi sono scesi dello 0,08% secondo dati Eurostat).

E veniamo all'altra arma su cui il Giappone plurindebitato può contare rispetto a un Paese dell'area euro: il debito pubblico è detenuto quasi totalmente al suo interno. Questa dinamica offre il fianco a due vantaggi: 1) è tecnicamente inattaccabile dalla speculazione di investitori stranieri; 2) permette ai cittadini di vivere in uno strano, ma potenzialmente armonioso, equilibrio in cui siano loro stessi attraverso i propri risparmi investiti a finanziare la spesa pubblica. Ovviamente, non ci sono solo pro. Tra gli aspetti negativi dell'enorme "debito pubblico interno" del Giappone c'è la minor liquidità rispetto a un debito aperto a una platea più variegata di investitori. E, soprattutto, su questo debito incombe una spada di Damocle: la demografia. La gran parte della ricchezza dei risparmiatori giapponesi investita nel debito interno è in mano a baby boomers, coloro che sono nati tra gli anni '40 e '60, molti dei quali sono prossimi alla pensione: momento in cui - come ricorda Zingales - smetteranno di risparmiare e inizieranno a spendere. E, a quel punto, il debito giapponese potrebbe aprisi agli investitori internazionali che, a fronte di un debito pubblico pari al 236% del Pil, potrebbero chiedere un interesse maggiore rispetto allo 0,82% pagato attualmente. Mettendo a repentaglio la sostenibilità del debito.

E questo ragionamento ci porta a quello che sta accadendo adesso in Italia. Lo spread tra BTp e Bund è letteralmente crollato da luglio (quando il governatore della Bce Mario Draghi ha lanciato lo scudo anti-spread) passado da un picco di 538 a un minimo a 236. Secondo le ultime stime degli addetti ai lavori, dallo scorso novembre il flusso degli investitmenti esteri sul debito pubblico - che durante la crisi, stando ai dati Bankitaila, è calato dal picco del giugno 2011 a quota 813 miliardi fino ai 671 di ottobre 2012 - è stato positivo.

Un dato che si sposa con le dichiarazioni di rinnovata fiducia degli investitori stranieri sull'Eurozona e sul debito italiano (fra cui quella di Pimco, il maggior gestore al mondo di fondi obbligazionari, che a novembre ha annunciato di vendere titoli francesi e tedeschi rimpiazzandoli con quelli italiani e spagnoli). I mercati provano ad anticipare la ripresa economica che potrebbe esserci a partire dal 2014 mentre nel frattempo i dati del 2012 sono negativi (oggi l'Ocse ha pubblicato il Pil del terzo trimestre con Italia maglia nera d'Europa a -0,2%)

I fatti indicano (in attesa della conferma con nuovi dati ufficiali di Bankitalia), quindi, che lo spread si sta ridimensionando grazie alla ritrovata fiducia internazionale e a nuovi afflussi di investimenti esteri sul debito pubblico. La storia recente ha però dimostrato che la dipendenza estera del proprio debito è certamente un bene (quando le cose vanno bene) ma non offre paracaduti (come quello di cui oggi beneficia il Giappone) quando le cose vanno male e i grandi investitori scappano. Lasciando altri col cerino acceso.


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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 29, 2013, 07:45:53 pm »

Meno tasse: si può e si deve

di Alberto Quadrio Curzio

29 gennaio 2013


La tematica fiscale è una delle più trattate nella campagna elettorale ma nell'inseguimento delle promesse si vede ben poca concretezza. Diverse sono state le impostazioni della Confindustria e anche della Cgil che hanno preso posizioni nette. È evidente che si tratta di una questione centrale perché in Italia la pressione fiscale è al 45% del Pil, perché la complicazione e l'instabilità normativa sono troppo elevate, perché l'evasione è enorme. Ovvi sono gli effetti sulla crescita, l'occupazione, l'equità.

Consideriamo allora uno studio di Prometeia (neutrale e molto prestigiosa società italiana di ricerca), che fornisce una base di discussione quantitativa per ulteriori riflessioni esaminando le conseguenze sul Pil effettivo per un periodo di 4 anni di una riduzione di imposte e di contributi. Non si considerano, invece, gli effetti di medio-lungo termine sulla struttura della produzione e dell'offerta che le modifiche nella fiscalità imprimono all'allocazione dei fattori e ai comportamenti degli operatori. Sono effetti importanti, ma nell'attuale lunga recessione italiana, è bene guardare innanzitutto all'aumento del Pil tramite la domanda di consumo e di investimento.

La riduzione della pressione fiscale ipotizzata è di un punto di Pil nominale per circa 16 miliardi di euro. L'effetto sull'incremento del Pil rispetto alla previsione di base (che si ha senza le misure di riduzione fiscale) sarebbe massimo con il ridimensionamento degli oneri sociali, poi dell'Irap e infine delle imposte sui redditi e sul patrimonio (Irpef e Imu, che sono invece al centro del dibattito elettorale). Noi concordiamo con Prometeia nel considerare decisamente più importanti, per gli effetti sul Pil e sull'occupazione, le riduzioni degli oneri sociali e dell'Irap.

Partiamo dalla riduzione degli oneri sociali che avrebbe un effetto incrementale del Pil dello 0,4 nel primo anno e fino all'1,6% nel quarto anno. La trasmissione sul Pil della riduzione dei contributi passa attraverso due meccanismi. Il primo è l'aumento della domanda di beni che si ha se la riduzione delle aliquote contributive viene trasferita per intero sulla riduzione dei prezzi al consumo. In tal caso cresce il potere d'acquisto delle famiglie e la competitività internazionale dei prodotti. Il secondo meccanismo è la riduzione del costo del lavoro che dovrebbe portare a un aumento dell'occupazione e, quindi, del reddito disponibile con successivi effetti sulla domanda. Prometeia argomenta che questo effetto potrebbe sostituire il lavoro agli investimenti ma a nostro avviso questo esito si avrebbe solo al livello di pieno impiego del capitale, il che non ci pare sia la situazione attuale in Italia.

Sull'incremento della domanda di lavoro potrebbero invece agire negativamente le normative sulla recente de-flessibilizzazione all'ingresso. In ogni caso, quale che sia l'effetto intermedio, quello finale sarebbe decisamente positivo per le imprese e per i lavoratori, che non possono più sopportare un cuneo fiscale del 47% per cui su uno stipendio lordo di 2.000 euro al lavoratore ne arrivano 1.060.

Passiamo adesso alla riduzione delle aliquote Irap che avrebbe un effetto incrementale sul Pil dello 0,2% il primo anno fino all'1% nel quarto anno. La trasmissione sul Pil passa attraverso l'aumento dei profitti (o la riduzione delle perdite!) che può determinare un aumento degli investimenti. Quest'ultimo dipende, a sua volta, dalle proporzioni a livello di impresa tra capitale e lavoro e quindi tra costo d'uso del capitale e costo del lavoro. Gli effetti sul Pil vengono stimati in base a questa sequenza: la riduzione del costo d'uso del capitale e l'aumento dei profitti determina un aumento degli investimenti; la riduzione del costo del lavoro determina una riduzione dei prezzi e quindi, aumentando il reddito disponibile delle famiglie, spinge la domanda di consumo ma anche le esportazioni.

Confindustria propone di ridurre gradualmente, per tutte le imprese, fino ad eliminare, nel 2018, il costo del lavoro dalla base imponibile Irap mentre altri propongono di rimborsare solo l'Irap sul costo del lavoro relativo alle merci esportate. Sono proposte razionali anche perché l'Irap altera la concorrenza svantaggiando l'export italiano. Ma la seconda quasi certamente sarebbe bocciata in sede Ue perché considerata aiuto di Stato. Confindustria propone inoltre di ridurre entro il 2018 di 11 punti percentuali gli oneri sociali sulle imprese manifatturiere che sono le più orientate all'export. Si configura così un mix di riduzioni dell'Irap e degli oneri sociali che a nostro avviso può avere un effetto molto potenziato sulla crescita del Pil e dell'occupazione.

Naturalmente questi "sgravi" fiscali vanno compensati sul lato delle entrate (per esempio aumentando le aliquote più basse dell'Iva con compensazioni fiscali vere per i redditi inferiori; oppure con aumento delle aliquote Irpef per i redditi più alti) o sul lato di tagli alla spesa pubblica. Non possiamo soffermarci qui sulle quantificazioni di Prometeia sui conseguenti cali del Pil. Noi preferiremmo però la riduzione di spesa pubblica, che nel 2011 era al 50,5% del Pil, in quanto la sua componente primaria corrente (al netto delle prestazioni sociali) era di circa 360 miliardi, di cui 170 miliardi per il pubblico impiego, 90 per i consumi intermedi e 100 di spese varie. Questa spesa in termini reali, dopo essere scesa al 40% in corrispondenza dell'entrata nell'euro, è risalita arrivando al 45,6% nel 2011 senza che i cittadini abbiano migliori servizi tra cui quelli fondamentali di istruzione e di sanità. Allora vuol dire che nella spesa ci sono molti sprechi (compresi quelli della farraginosità burocratica che non serve per recuperare la scandalosa evasione) la cui eliminazione sarebbe rapidamente compensata sia da una maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione sia da una riduzione di costi per imprese e cittadini sia per gli effetti sul Pil delle attenuazioni di fiscalità proposte. È l'Italia che vorremmo e che possiamo avere.

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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 23, 2013, 12:12:01 pm »

Se la “cura” aggrava la crisi
   

di Alberto Quadrio Curzio, da Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2013


Domani si riunirà a Mosca il G-20 che discuterà anche della deliberata politica giapponese di deprezzamento dello yen. Anche gli Usa sono sulla stessa strada mentre la Ue e la Uem sembrano tranquille nella convinzione che la politica fiscale restrittiva sia la sola cura per rilanciare la crescita.

In realtà è la "cura" per aggravare la crisi perché la crescita europea sarà zero anche nel 2013 e solo marginalmente positiva nei due anni successivi con una disoccupazione per 26 milioni di persone pari al 12% della forza lavoro. La rivalutazione dell'euro aggraverà questa situazione. Eppure il recente Consiglio Europeo (dei capi di Stato o di governo) dei 27 Paesi membri della Ue s'è dichiarato soddisfatto del Quadro finanziario pluriennale (Qfp) 2014-2020 approvato. In realtà si tratta di un risultato minimalista che preoccupa per il metodo e per il merito.
Ciò vale anche per l'Italia quantunque la nostra posizione nel Qfp sia migliorata. Ma tra rivalutazione dell'euro e sofferenza delle imprese (tra l'altro sempre creditrici delle Amministrazioni pubbliche che non pagano) non ne trarremo grandi benefici.

Veniamo al metodo del Consiglio europeo che è stato quello del compromesso - paradigma privilegiato dal suo Presidente Van Rompuy - che ha disatteso l'orientamento del Parlamento europeo (ed anche della Commissione) per un Qfp non al ribasso. La Germania ha dominato come al solito facendosi artificiosamente mediatrice tra l'Inghilterra (e altri Paesi nordici) che volevano tagli al Qfp e Francia e Italia che non li volevano che poi li hanno accettati con qualche compensazione settoriale. Il Parlamento europeo ha ancora la possibilità di approvare o respingere, non avendo il potere di emendamento, il Qfp uscito dal Consiglio. Scelta difficile che probabilmente porterà all'approvazione contando poi sulle flessibilità tra i capitoli di spesa e tra i bilanci annuali.

Il merito riguarda il Qfp 2014-2020 e molto preoccupa sia perché, per la prima volta dal 1988 quando si avviarono i Qfp, vi è stata una riduzione rispetto al Qfp precedente sia perché la struttura del nuovo Qfp non privilegia adeguatamente gli obiettivi per una crescita innovativa. È in regresso rispetto ai precedenti Qfp per i quali erano stati fissati obiettivi netti.Così il Qfp 1988-1992 («Pacchetto Delors I») puntava sulla creazione del mercato interno e sul consolidamento del programma quadro pluriennale di ricerca e sviluppo. Il Qfp 1993-1999 («Pacchetto Delors II») puntava sulla politica sociale e di coesione e sull'introduzione dell'euro. Il Qfp 2000-2006, che ebbe esecuzione con Romano Prodi Presidente della Commissione europea, puntava sull'allargamento con «Agenda 2000: per una unione più forte e ampia».

Il Qfp 2007-2013, varato con Josè Manuel Barroso alla presidenza della Commissione, puntava sulla crescita sostenibile e sulla competitività per creare occupazione.
Il Qfp 2014-2020 nelle finalità della Commissione europea formulate già nel giugno 2011 e poi precisate puntava (qualitativamente) sulla crescita intelligente (investimenti,ricerca e sviluppo, istruzione) ed inclusiva (coesione sociale, economica e territoriale)anche nelle connessioni con la realizzazione delle infrastrutture europee (Connecting Europe Facility), con Horizon 2020, con Industria 2020. Queste dovevano essere le Finalità primarie mentre le finalità tradizionali andavano ridimensionate. Purtroppo ciò non è accaduto nè negli importi totali nè nella struttura del Qfp.
Per gli importi il Consiglio Europeo ha ridotto il budget sia rispetto a quello proposto dalla Commissione sia rispetto al Qfp 2007-2013 portandolo (a prezzi 2011) a 960 miliardi per gli impegni e a 908 per i pagamenti. È bene sottolineare queste cifre perché , con un calo di circa 33-34 miliardi miliardi, si è scesi all'1% del reddito nazionale lordo della Ue e sotto lo stesso per i pagamenti. Con queste risorse è molto difficile rilanciare le politiche della Ue per la crescita.

Per la struttura del bilancio limitiamoci al confronto, sorprendente, di due poste. Per la «crescita intelligente ed inclusiva» la quota sul totale degli impegni è circa del 47% composta da un 13% per competitività e occupazione e un 34% per coesione. Sarebbe stato meglio puntare di più sia sull'industria e sulla tecnoscienza sia sulla formazione per l' occupazione. Ma un limite ancora più grave sta nella quota del 39% del bilancio destinata alla «crescita sostenibile e risorse naturali», nel cui ambito vi sono le spese connesse al mercato e i pagamenti diretti delle politiche agricole (Pac) per 278 miliardi. È vero che le risorse per questa posta sono scese del 17,5% rispetto al Qfp 2007-2013 ma la quota è ancora alta (pur non sottovalutando l'utilità della parte per lo sviluppo rurale e la sostenibilità)soprattutto per le resistenze della Francia.
Non bisogna perciò consolarsi per la giusta destinazione di 6 miliardi al contrasto della disoccupazione giovanile (a beneficio dei Paesi dove supera il 25% e quindi anche dell'Italia dove è al 37%) che è davvero troppo poco a fronte dei 4,5 miliardi di aumento delle spese amministrative della Ue.

In questo Consiglio europeo minimalista speravamo che Monti avanzasse una proposta forte sugli EuroUnionBonds per la crescita della Ue tutta che avrebbe trovato una sponda nel Parlamento europeo. Purtroppo non è successo perché nessuno nel Consiglio può fare proposte senza l'assenso previo dalla Germania. Dobbiamo perciò accontentarci della riduzione della nostra erogazione media netta al Qfp dallo 0,28% (sul periodo 2007-2011) allo 0,23% del nostro reddito nazionale lordo. È un buon risultato data la situazione (anche pre-elettorale) dell'Italia. Ma come già detto non si rilancerà così la crescita italiana che avrebbe bisogno di poche ma incisive riforme. Da quelle a costo zero in un Paese civile (semplificazioni) a quelle più complesse ma necessarie e possibili (tra cui gli investimenti in tecno-scienza e formazione) razionalizzando davvero la spesa pubblica.

(14 febbraio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/se-la-cura-aggrava-la-crisi/
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 21, 2013, 04:35:37 pm »

L'obbligo di onorare l'impegno

di Alberto Quadrio Curzio

14 marzo 2013


Quando il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, interviene con un comunicato ufficiale su un tema, tutti dovrebbero capire che si tratta di una questione molto importante.

È questo il caso di ieri quando, dopo aver ricevuto il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, il capo dello Stato ha espresso l'urgenza che i soggetti istituzionali preposti e le forze politiche rivolgano primaria attenzione alle questioni dell'economia reale e dell'occupazione. E in particolare che si provveda al più presto al pagamento, presi gli opportuni accordi europei, dei debiti che le pubbliche amministrazioni hanno verso le imprese.
Da quando ha assunto nel maggio 2012 la presidenza di Confindustria, Squinzi ha incalzato il Governo perché affrontasse la questione del pagamento di almeno 48 miliardi dei 71 (che per altri sono di più) dovuti dalle pubbliche amministrazioni al sistema produttivo.
Se l'intervento fosse stato fatto subito si sarebbero evitati, almeno in parte, quegli effetti negativi cumulati nella catena debiti-crediti-debiti che ha coinvolto, con un meccanismo di traslazione sui creditori a valle, un numero imprecisato di imprese e il sistema bancario. Causando anche molti fallimenti di imprese e una parte dei circa 126 (almeno) miliardi di sofferenze che gravano sulle banche creando alle stesse non poche difficoltà.

Confindustria nel progetto per l'Italia "Crescere si può, si deve" e in suoi successivi elaborati analitici ha documentato anche gli effetti pro-attivi che il pagamento da parte delle Pa avrebbe sia sugli investimenti delle imprese nell'ordine dei 10 miliardi sia nel miglioramento dei rating aziendali e quindi nella erogazione del credito.
È sbagliato affermare che non si può fare perché peggiorerebbe il nostro debito pubblico (in quanto lo stesso registra i pagamenti solo quando eseguiti) con effetti di mercato sul collocamento e sui tassi dei nostri titoli di Stato e con potenziali necessità di nuove manovre correttive. Su queste colonne (il direttore, economisti e, anche ieri, articoli incisivi di Alberto Orioli e il vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajani) si argomenta da mesi il perché è doveroso, possibile e vantaggioso pagare i debiti delle Pa. Al proposito si sono dati anche vari interessanti suggerimenti. Adesso il tempo si è fatto troppo breve per gradualismi e la questione va presa frontalmente per le seguenti ragioni.

In primo luogo perché il 16 marzo scade il termine per l'attuazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento che impone allo Stato di saldare i fornitori entro 30 giorni, pena interessi superiori all'8 per cento. In Italia i ritardi della Pa arrivano a superare i 180 giorni contro i 61 della media Ue e i 36 giorni della Germania. Su queste colonne ieri Antonio Tajani ha scritto che la Commissione dal 17 marzo avvierà le procedure di infrazione verso l'Italia se la stessa non si adeguerà alla direttiva.
In secondo luogo perché la Spagna nel 2012 ha pagato in cinque mesi 27 miliardi di debiti che le Pa avevano verso le imprese. In base a un accordo in sede europea, alla Spagna è stato possibile procedere con una misura una tantum. Chi sostenesse che questo è stato consentito alla Spagna perché la stessa ha avuto l'apertura di una linea di credito fino a 100 miliardi da parte del Fondo salva-Stati (Esm) e ha già incassato di questi circa 40, ci porterebbe alla conclusione che l'Italia oltre al danno si prende anche le beffe. Quelle di non aver chiesto (il Governo) un prestito al fondo Esm a tassi molto convenienti (ci farebbe piacere ottenerlo anche adesso, con o senza bad bank alla spagnola!) ma anche quello di non essere autorizzata a un aumento di debito pubblico per pagare (e salvare) le imprese.
In terzo luogo perché l'Italia ha una situazione di deficit molto buona e di avanzo primario eccellente. Un'emissione straordinaria di debito pubblico per pagare i debiti non altererebbe in modo significativo il deficit che rimarrebbe tra i più bassi nella Eurozona. La Ue non dovrebbe perciò avere obiezioni anche perché i mercati finanziari non sono ottusi e sanno che i debiti non pagati ci sono e potrebbero apprezzare(invece che penalizzare) un'operazione trasparenza alla quale le stesse istituzioni europee dovrebbero essere favorevoli.
Ci sarebbero anche altre ragioni per procedere nel senso indicato. Non ci pare necessario farlo e perciò concludiamo con due auspici. Il primo è che le Pa evitino di soffocare i creditori sotto una massa di certificazioni e di adempimenti che si sono già dimostrati inutili per le compensazioni e gli smobilizzi. Per evitarlo il Governo dovrebbe nominare, come ha fatto per la "spending review", un commissario ai "pagamenti dovuti". Il secondo auspicio è che il presidente Monti, impegnato da domani nel Consiglio europeo, chieda e ottenga, se necessario usando durezza, il via libera dall'Europa.

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da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-14/lobbligo-onorare-impegno-072855.shtml?uuid=AbKcZtdH
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 18, 2016, 12:17:58 pm »

Reagire alla crescita (incompiuta) dell’Europa

di Alberto Quadrio Curzio

L’Eurogruppo e l’Ecofin dei giorni scorsi non sembra abbiano trattato ufficialmente né della questione bancaria né della debole crescita europea alla quale è riservato solo un accenno senza neppure esaminare il recentissimo parere annuale dell’Fmi sulla Eurozona. Pur sperando che i colloqui informali siano stati più incisivi bisognava stare di più sui temi della crescita di cui tratteremo qui anche in base al parere del Fondo.

Attenzione hanno invece avuto Spagna e Portogallo per decidere se avviare una procedura sanzionatoria delle loro infrazioni alle prescrizioni sul deficit della Commissione Europea. Entrambe i temi intersecano le politiche di bilancio su cui pure è bene riflettere anche in relazione all’Italia.

Eurozona e Fmi. L’Eurogruppo, considerando le politiche di bilancio in base ai programmi nazionali di stabilità degli stati della Uem e accennando anche a Brexit, ha concluso che le iniziali turbolenze sui mercati si stanno placando ma che l’incertezza rimane alta specie tra gli investitori. Il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem giudica le politiche di bilancio solide e pro-crescita prefigurando un passaggio da politiche espansive del 2016 a neutrali per il 2017. Per accelerare la crescita sottolinea la necessità di riforme strutturali e del sistema bancario nonché un rilancio degli investimenti soprattutto rimuovendo gli ostacoli strutturali e regolamentari (efficienza della pubblica amministrazione, contesto imprenditoriale, strozzature settoriali).

In definitiva non si percepisce un’urgenza innovativa ben diversamente dalle valutazioni dell’Fmi di qualche giorno prima. Infatti per il Fondo aumentano i rischi di rallentamento della Uem con previsioni di crescita quinquennali mediocri all’1,5% medio annuo. Rischi politici (post-Brexit, immigrazione, sicurezza anti terrorismo) e rischi economico-finanziari (bassa crescita e inflazione, alta disoccupazione, fragilità bancaria), in assenza di forti ammortizzatori, rendono molto fragile la Uem.

Le raccomandazioni dell’Fmi sono ben più incisive delle autovalutazioni dell’Eurogruppo. Per spingere la crescita e la produttività il Fondo chiede sia di aumentare la complementarietà tra politiche monetarie (che vengono apprezzate con qualche caveat) e politiche economiche unitarie sia di favorire la convergenza tra gli Stati con surplus di bilancio (per noi: Germania) che devono investire di più e Stati con deficit che devono rispettare i vincoli di bilancio ma anche proseguire (incentivati) con riforme strutturali e riduzione della tassazione su fattori di produzione per aumentare la produttività (per noi: anche Italia). Netta è la richiesta sia di una espansione di progetti di investimento euro-centrati (per noi: non basta il Piano Juncker) o di fondi per progetti comuni (per noi: Eurobond) sia del completamento dell’unione bancaria con l’assicurazione comune sui depositi (per noi: basta opposizione tedesca).

L’Fmi è dunque critico e preoccupato per l’Eurozona, non perché disconosca i suoi successi ma perché si aspetta che da una delle più importanti economie mondiali venga di più per la geo-crescita e la geo-stabilità per la quale non basta la complessità delle prescrizioni fiscal-finanziare, che per il Fondo vanno semplificate.

Portogallo e Spagna. Di questa complessità (e minacciosità) procedurale senza effetti (salvo quelli reputazionali) troviamo un esempio nelle decisioni di Ecofin che ha avviato la procedura per disavanzi eccessivi di Portogallo e Spagna. Difficile che ciò accada alla fine della trattativa tra Commissione, Ecofin e i due Paesi citati.

Il Portogallo chiese un programma di assistenza internazionale nell’aprile del 2011 ottenendo prestiti per 78 miliardi (in parti eguali) da due Fondi istituzionali europei e dall’FMI. Nel contempo, oltre alle prescrizioni della Troika (Bce, Commissione, Fmi), le istituzioni europee chiesero di avviare una riduzione del rapporto del deficit sul Pil entro il 2013. Data poi spostata al 2014 e al 2015, anno nel quale Lisbona avrebbe dovuto arrivare a un rapporto del 2,5% mentre si è fermata al 4,4%. Ecofin si sofferma su questi dati dove al miglioramento dovuto soprattutto al calo degli interessi e alla ripresa della crescita si è associato un peggioramento (per l’1,4% del Pil pari a 2,2 miliardi di euro) per il salvataggio di una banca detenuta per il 60,5% dallo Stato.

La Spagna ha una vicenda ancora più lunga che inizia nel 2009 quando le istituzioni europee stabilirono che doveva corregge il deficit sul Pil entro il 2012. Di proroga in proroga siamo arrivati al 2015 (deficit al 5,1% contro la prescrizione di 4,2%) e al 2016 (deficit previsto al 3,9% contro la prescrizione del 2,8%). In aggiunta la Spagna ha ottenuto dal Fondo salva Stati europeo (Esm) un prestito per ricapitalizzare le sue banche fino a 100 miliardi dei quali ne ha utilizzati circa 40.

Adesso le istituzioni europee pensano di multare (con sanzioni fino allo 0,2% del Pil) Portogallo e Spagna per le violazioni delle prescrizioni sul deficit ma la storia dice che più di un centinaio di passate violazioni di Paesi membri rispetto al rapporto al 3% del deficit sul Pil non hanno portato a sanzioni!

Conclusioni per l’Italia. Non obiettiamo alla tolleranza delle istituzioni europee per il Portogallo e la Spagna che, pur beneficiate di sostanziosi prestiti, hanno violato le prescrizioni di deficit e avuto nella crisi enormi aumenti del debito sul Pil (circa 60 punti percentuali ciascuno ovvero il doppio dell’incremento italiano). Ripetiamo però che l’Italia ha sbagliato a non chiedere nel 2011 e 2012 il sostegno dei Fondi salva Stati europei per il suo sistema bancario. Anche perché da allora il rigore ce lo siamo applicato da soli ricevendo poi dalle istituzioni europee un po’ di flessibilità solo dal 2014 al 2016. Le riforme in Italia vanno proseguite per l’efficienza del sistema Paese senza accettare però il ritornello che siamo il problema dell’Eurozona, dove i problemi sono tanti anche per la mancanza di una forte politica di investimenti comunitari, come pure argomenta l’Fmi.

© Riproduzione riservata

    Alberto Quadrio Curzio. È Presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei dal 2015 e Presidente della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche della stessa Accademia dal 2009.È Professore Emerito di Economia politica ...

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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 05, 2017, 11:23:42 am »

I primi passi dell’Europa industriale con guida a tre

Di Alberto Quadrio Curzio 
29 settembre 2017

Al rischio che l'esito delle elezioni in Germania compromettano il processo di integrazione europea si è contrapposto discorso europeista di Macron alla Sorbona. Si potrebbe dire che una Merkel euro-indebolita e un Macron euro-assertivo mantengono l’asse franco-tedesco con più Francia e meno Germania. È presto per dirlo perché la Merkel è europeista “del fare” mentre per ora Macron è europeista “del dire” e sovranista nei fatti. Ma l’integrazione dei prossimi 4-5 anni nei quali Germania, Francia e Italia hanno nuove legislature non dipende solo dai progetti dei capi di stato o di governo ma anche dalle istituzioni della Ue e della Uem.

Ed infine dalle iniziative creative che nascono e crescono dalla società e dalla cultura, dalla scienza e dalla istruzione, dall’economia e dalla tecnologia. Queste spinte si combinano talvolta virtuosamente con scelte di ministri nazionali e/o di commissari europei. Sono iniziative che rientrano nella dottrina Schuman secondo la quale «L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Su questo principio nel 1950 si varò la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) unendo le produzioni (di memoria bellica) dei sei Paesi Francia, Germania occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.

26 settembre 2017
Macron: Ue debole, ma solo con Ue combattiamo le sfide di oggi
Guardando indietro ai 67 anni di integrazione vediamo che “volare” con grandi progetti e “camminare” con passi sicuri hanno avuto diverse combinazioni costruendo quella peculiare combinazione di federalismo, confederalismo, funzionalismo che è l’Eurodemocrazia che è progredita solo quando un saggio pragmatismo ha scelto la strategia possibile nel un momento storico specifico. Nel presente bisogna chiedersi quale sia la scelta migliore tra quelle possibili non rinunciando perciò a costruzioni più ambiziose.

Industria 4.0
Nella logica del pragmatismo sul possibile riteniamo che tra Francia, Germania e Italia una delle integrazioni funzionali sia quella del sistema industriale ed in particolare di quello manifatturiero.

Il ministro Calenda è stato l’artefice italiano di questo progetto di integrazione che è partito da giugno e che si sta rafforzando anche con il G7 industria e scienza in questi giorni in corso a Torino. In termini più generali anche il G7 delle Accademie scientifiche tenutosi ai Lincei in maggio è andato nella stessa direzione trattando di “Nuova crescita economica: scienze, tecnologia, innovazione, infrastrutturazione”. Ciò ha rafforzato l’importanza della tecnoscienza che si complementa con l’economia e la normativa in termini applicativi.

L’accordo trilaterale Industria 4.0 rientra in questa categoria ed è ben strutturato sia per la governance che per gli obiettivi coerenti con i processi di integrazione in atto presso le istituzioni europee. A fondamento dello stesso vi sono anche, come ha segnalato il ministro Calenda a margine del G7 di Torino, tematiche etico-sociali connesse agli sviluppi vertiginosi della tecnoscienza che si possono riassumere in due aspetti. Da un lato i problemi di sicurezza che vanno dell’estensione dell’intelligenza artificiale fino alla prevenzione dei cyberattacchi che possono persino alterare il funzionamento delle democrazie. Da un altro lato i problemi di formazione ed istruzione che devono spiegare che il cambiamento tecnoscientifico è inarrestabile e che ci vogliono le competenze per governarlo ed utilizzarlo.

L’euro-trilaterale industriale
La cooperazione trilaterale Francia-Germania-Italia punta ad approfondire e ampliare i processi di digitalizzazione manifatturiera e a rafforzare le azioni della Ue in questo settore. Plattform Industrie 4.0 per la Germania, Alliance Industrie du Futur per la Francia e il Piano Industria 4.0 per l’Italia esistono già e sono innestate nei sistemi manifatturieri. Quindi la base di concretezza è solida. La governance della trilaterale è attribuita a uno Steering Committee composto da tre competenze (espressione di governo, industria, piattaforma) per ogni Paese, completata da working groups e da regolari consultazioni con le specifiche competenze della Commissione europea.

Le filiere principali di collaborazione sono tre. La standardizzazione e le architetture di riferimento hanno gruppo di lavoro guidato dalla Germania che è molto avanti in proposito. Plattform Industrie 4.0 è infatti il network tedesco per la trasformazione digitale che opera nella cooperazione tipica del modello tedesco tra politica, industria, scienza, stakeholders. Gli standard comuni sono cruciali per la digitalizzazione della manifattura sia tecnicamente che in termini amministrativi-regolatori.

Il coinvolgimento delle piccole e medie imprese ha un gruppo di lavoro guidato dall’Italia per mappare e rendere fruibili i modelli di utilizzo dei network. L’Italia con Industria 4.0 sia sotto il profilo fiscale (ammortamenti) sia sotto quello tecno-legale (patent box) sia quello della creazione di competenze (hub per l’innovazione digitale e tecno-clusters) ha varato un piano ambizioso che è partito in accelerazione e del quale le Pmi stanno fruendo ampiamente.

Il supporto alle policy ha un gruppo di lavoro guidato dalla Francia per lo scambio di best practices su politiche e programmi attuativi e nel coordinamento di una posizione comune della tecno-trilaterale presso la Ue ed internazionali. Alliance Industrie du Futur che esiste dal 2015 unisce industria, scienziati e tecnologi per supportare le imprese nella trasformazione organizzativa e dei sistemi di design e marketing dove stanno scomparendo le barriere fra manifattura e servizi.

Una conclusione
Una cooperazione funzionale euro-trilaterale su questo modello potrebbe essere attuata anche nel campo della difesa che è uno dei temi cruciali su cui Macron è spesso ritornato. In questa direzione riteniamo importante e positivo l’accordo franco-italiano sui cantieri navali Stx di Saint Nazaire. Si dirà che è un piccolo passo. Ma spesso con questi, purché continui, si coprono grandi distanze quando, causa nebbia, è difficile volare.

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