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« inserito:: Febbraio 25, 2009, 10:01:12 am » |
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25/2/2009 La fabbrica dei sogni ANTONIO SCURATI
Si potrebbe leggere il successo di The Millionaire come una grande vittoria del cinema sulla televisione. Sebbene il film di Danny Boyle non sia stato prodotto a Hollywood, tributandogli un vero e proprio trionfo alla recente notte degli Oscar (ben otto statuette), la mecca del cinema sembra aver voluto premiare se stessa in quanto unica autentica «fabbrica dei sogni».
Nel conflitto tra diverse forme di comunicazione per l’egemonia culturale il cinema ha indubbiamente perso la guerra ma cogliendo questa tardiva vittoria mette a segno uno splendido gol della bandiera: l’emozione planetaria suscitata dal racconto cinematografico della storia di un derelitto delle baraccopoli di Mumbai che diviene milionario grazie a un gioco a premi televisivo ci dice che la televisione è più forte ma il cinema è più potente. E ci dice anche che, forse, la società che aveva sognato e desiderato con il cinematografo era più empatica e compassionevole della società che invidia e brama davanti alla televisione.
Si sa che i nuovi media sorgono da un recupero e da una ridefinizione perpetua di forme mediali storicamente precedenti. Ma questo processo di «rimediazione» non è lineare e unidirezionale: con un film come The Millionaire il cinema prende dal mondo televisivo la materia della più recente versione della eterna fantasmagoria del successo «dalle stalle alle stelle» e la rimedia con i mezzi specifici del proprio linguaggio. Il risultato è che mai il copione, tipicamente televisivo, dell’arricchimento favoloso era stato tanto potente come quando lo ha raccontato il cinema.
Non vi è dubbio che oggi, e da molto tempo a questa parte, l’immaginario collettivo di massa sia egemonizzato dalla tv: nella società attuale, le grandi drammaturgie sono sì polimediatiche ma a orchestrarle è sempre la tv. La passione apparente con cui l’opinione pubblica s’invaghisce a scadenza settimanale di casi di cronaca, nera o rosa, dimostra che il lavoro dell’immaginario ha oramai infranto i confini dell’arte, del mito, del rito. Tutti gli archetipi del racconto umano, gli eterni del nostro sogno inesausto – siano essi la grande tragedia del potere, il piccolo dramma della gelosia, o l’irriducibile speranza comica in un qualsiasi happy end – vanno oggi alla deriva, sparpagliati e dispersi, nella corrente impetuosa di un dilagante flusso mediatico. Shakespeare non è più di casa né al Globe Theatre né sull’Empireo della grande letteratura. Ha preso dimora in un bilocale in affitto illuminato da un televisore a 36 pollici.
Non si tratta di rimpiangere il buon tempo andato ma di segnare una croce su ciò che va perduto. E ad andar perduta qui è la potenza commovente e umanizzante dell’arte popolare. Il cinema in quanto dispositivo estetico che ci obbligava all’immersione assoluta nel dramma inscenato, che disciplinava la nostra attenzione per due ore ininterrotte in una sala buia, pretendeva dal pubblico una partecipazione emotiva alla vicenda dei personaggi, una empatia che era anche il primo passo verso la consapevolezza degli altri, verso il superamento dell’egoismo. Il trionfo di media individuali quali la televisione si basa, al contrario, proprio su un dispositivo a bassa intensità catartica, che, potendo essere interrotto a ogni istante grazie al telecomando, non richiede più la partecipazione integrale dello spettatore, e che finisce così con il deresponsabilizzarlo riguardo a ciò che sta vedendo. Un mondo di scettici e di passioni fredde. Questo il mondo televisivo. Un mondo sostanzialmente amorale perché il senso di obbligazione morale che avvertiamo nei confronti del dramma umano svanisce dopo la centesima volta che assistiamo a una tragedia reale senza passare all’azione.
Questa eclissi dell’empatia vale anche per la commedia, per la compartecipazione alla gioia, non solo al dolore. Un’autentica compassione con la vicenda del signor nessuno divenuto ricco e famoso nel volgere di un mattino la proviamo solo al cinema, di fronte alla storia del figlio della baraccopoli divenuto miliardario grazie alla televisione, non di fronte alla televisione assistendo agli show basati sul meccanismo del «piccola, farò di te una stella». La grande arte popolare pretelevisiva era basata sulla commozione, quella televisiva sulla emulazione. Lo spettatore che si commuove per il dolore e per le gioie del piccolo Jamal soffre e gioisce assieme a un altro anche senza essere come lui. Il teenager che si esalta per la vittoria del suo beniamino a Sanremo non è felice per lui e con lui ma è eccitato all’idea di poter essere lui. Viene così catturato in un parossismo mimetico nel quale desideriamo qualcosa soltanto perché lo desiderano milioni di altri, una rivalità senza fine che spinge a idolatrare il nostro modello soltanto perché vogliamo prendere il suo posto. E posto per tutti sul palco dei vincitori proprio non ce n’è. Il meccanismo sociale alla base del cinema era l’immaginazione compassionevole, quello alla base della televisione è l’invidia universale. Il cinema e la letteratura parlavano e parlano a un popolo di sognatori e di visionari, la televisione a un popolo di illusi e di frustrati.
Su ciò riflettevo mentre, uscendo dalla sala cinematografica e osservando attorno a me un pubblico che si avviava all’uscita con gli occhi luccicanti, sono stato colto da un dubbio. Ma con tutto questo mettere in scena, sera dopo sera, grandi drammi mediatici della morte violenta o gioiose commedie dal lieto finale, con tutte queste sceneggiate su cadaveri caldi, parenti ritrovati e idioti di successo, tra un’interruzione e un’altra, tra uno sbadiglio e una pausa per far due gocce di pipì, con tutto questo rutilante piccolo teatro del mondo inscenato su di un piccolo schermo, qualcuno si sarà mai davvero commosso guardando la tv? da lastampa.it
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