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Autore Discussione: Gli anni d'oro del «Flora» con Fellini.  (Letto 3343 volte)
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« inserito:: Luglio 30, 2007, 04:19:19 pm »

Il luogo simbolo

L'Hotel di Mastroianni e della Ekberg

Gli anni d'oro del «Flora» con Fellini.

Ma ci furono anche le SS e un attentato a un capo dell'Olp 


ROMA — Star e spie. Dolce vita e misteri. Luci della ribalta e trame oscure. Negli anni Ottanta anche un sanguinoso attentato. Benvenuti a via Veneto, Grand Hotel Flora. «L'attore famoso, il faccendiere impegnato in affari loschi e l'uomo politico con l'amante o l'accompagnatrice di turno si ritrovano qui tutti per lo stesso motivo: la nostra proverbiale discrezione », dice un cameriere uscendo alla fine del turno di lavoro. E aggiunge: «Sì, ne vediamo di belle, ma non chiedetemi nulla... ».

Il prezzo della riservatezza? Almeno 300 euro a notte. Mance escluse. Il guest book è un lungo elenco di nomi illustri. Alberto Moravia era solito intervistare i divi di passaggio a Roma nella hall. Federico Fellini trascorreva intere giornate al bar, a buttare giù appunti e disegni per i film, sorseggiando cocktail senza ghiaccio. Joan Crawford ha dormito in una delle suite all'ultimo piano. Assediati dai paparazzi, sono stati ospiti anche Marcello Mastroianni, che nella «Dolce vita» vi andava a prendere Anita Ekberg, Richard Burton, Liz Taylor; e poi il pugile Cassius Clay prima di abbracciare l'islamismo e diventare Mohammed Alì; e il miliardario Paul Getty. Prima ancora avevano soggiornato al Grand Hotel artisti che hanno fatto la storia della musica, come Giacomo Puccini e Ruggiero Leoncavallo, mentre nel 1930 lo scrittore e poeta francese Paul Valery descriveva il posto come «un dolce luogo di meditazione ».

Ma queste sono le pagine nobili dell'albergo, costruito nel 1905 dalla famiglia Borghese, subito rivenduto per problemi economici al tedesco Krumgel, che due anni dopo, grazie all'aiuto dell'architetto Andrea Busiri Vici, inaugurò la Pensione Flora. Poi ci sono i capitoli oscuri. Gli anni dell'occupazione nazista, per esempio, quando il palazzo fu occupato dalla Gestapo: non venne utilizzato per le torture, come la vicina pensione Iaccarino. I saloni erano però un covo di spie, venditori di informazioni e individui poco raccomandabili. Luchino Visconti, all'epoca giovanissimo, arrestato dai tedeschi, venne portato nel palazzetto liberty. Il regista fu liberato — secondo una versione forse un po' romanzata ma non priva di fascino — grazie all'intervento di Maria Denis, attrice italoargentina, conosciuta come la diva dei «telefoni bianchi». La donna, per ottenere la scarcerazione di Visconti, accettò la corte di Pietro Koch, uno dei torturatori di via Tasso.

Dopo la guerra la pensione diventa Grand Hotel. E finisce al centro di un clamoroso fatto di cronaca: l'8 ottobre del 1981 una sofisticata bomba a pressione, collocata sotto il letto della stanza numero 320, uccide un ospite registrato come Habbas Zithouni. Identità falsa. Nome di copertura. La vittima dell'esplosione in realtà si chiama Majed Abu Sharar. È il numero quattro dell'Olp. I palestinesi accusano il Mossad, il servizio segreto israeliano.

Nell'hotel è registrata dagli inquirenti una presenza sospetta. Le indagini si arenano. Il giallo resta irrisolto. Il Flora e i misteri d'Italia.

Il pentito di mafia Tommaso Buscetta racconta di aver salutato e baciato qui, in gran segreto, l'europarlamentare Salvo Lima nel 1980. Vero o falso? Chissà.
E ancora il Grand Hotel è luogo di incontro fra due protagonisti del recentissimo giallo dei dossier illegali di Telecom: il giornalista Guglielmo Sasinini e il consulente Emanuele Cipriani. Oggi la struttura appartiene alla famiglia Naldi, ex proprietari del Napoli Calcio. La vecchia pensione fa comunque ormai parte dei grandi circuiti internazionali: grazie a un contratto di franchising è entrata nella rete Marriott. Una cosa però non è cambiata: resta sempre luogo di segreti incontri.

E ogni sera, racconta chi conosce bene il quartiere, entrano ed escono in continuazione bellissime ragazze. Tacchi a spillo e minigonna. Tutte turiste?

Paolo Foschi
30 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 30, 2007, 04:32:29 pm »

Il commento dei colleghi sulle dimissioni di Cosimo Mele

I parlamentari: «Bravo ad ammettere»

Diliberto fuori dal coro usa parole molto pesanti: «Ora voglio vedere come voterà sulla sacralità della famiglia»

 
ROMA — Quando succedono questi incidenti di percorso i colleghi del malcapitato vengono assaliti spesso da un buonismo di maniera. Per cui bene ha fatto l'onorevole Cosimo Mele ad autodenunciarsi, anche se non era obbligato, ma poi in molti, tra deputati e senatori, raccomandano di fare attenzione a non scadere nel populismo e nell'antipolitica. Fa eccezione il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto, che usa parole molti pesanti: «Voglio vedere come voterà sulla sacralità della famiglia uno che va per puttane e che si droga». All'inizio il più duro di tutti era stato Luca Volontè, il capogruppo dell'Udc alla Camera: «Chi si droga non può legiferare, chi è complice dello sfruttamento della prostituzione non può parlare di famiglia, figli, diritti umani. Un deputato al droga party con due prostitute? Si faccia avanti». Poi, quando Mele fa il passo decisivo, Volontè attenua i toni: «Spero che Mele ora passi molto tempo con la sua famiglia. Certo ognuno di noi ha una vita privata e può fare degli errori. Ma bisogna pure vedere quali sono questi errori soprattutto ora che Mele ha chiarito di non avere fatto uso di stupefacenti».

Mercoledì mattina, alla Camera, il segretario Cesa, il presidente Casini, Volontè e tutti gli altri parlamentari del gruppo si metteranno in fila davanti all'ambulatorio allestito dal partito per fare il test antidroga ai parlamentari dopo che la commissione Affari costituzionali ha di recente bocciato una proposta di legge in tal senso presentata dall'Udc. «Ci vado anch'io a farmi il test», annuncia il senatore Francesco Storace che dice di non aver mai conosciuto il collega Mele: «Certo, ha fatto una figuraccia ma dal momento che si è autodenunciato ha fatto una figura migliore di Sircana, il portavoce di Prodi che ha tentato di negare fino in fondo». Storace prova a trarre una conclusione: «Sono contento per Mele che sostiene di non aver nulla a che fare con la droga. Ma allora, se le cose stanno così, perché si vuole dimettere? » Nell'estrema sinistra batte un cuore garantista: «Mele non era obbligato ad autodenunciarsi ma ha comunque fatto bene ad uscire allo scoperto», dice Giovanni Russo Spena (Prc).

Il problema, semmai, non è la droga e neanche il sesso a pagamento: «E' la sobrietà dei comportamenti, lo stile di vita: perché l'eletto deve vivere come il popolo. Qui invece vengono a Roma e poi si mettono a fare i festini», taglia corto il capogruppo di Rifondazione al Senato. Maurizio Gasparri (An) non se la sente di girare il coltello nella piaga: «Certo, siamo personaggi pubblici, Mele ha fatto bene a autodenunciarsi ». L'outing a mezzo stampa del deputato Mele è arrivato al termine di un pomeriggio molto concitato e la più accanita persecutrice del malcostume parlamentare è sembrata la senatrice di Forza Italia Maria Burani Procaccini: «E' doveroso che venga fuori. La gente deve sapere chi è costui». Il sottosegretario all'Economia, Paolo Cento (Verdi), la vede sotto un altro punto di vista e denuncia l'ipocrisia che regna in Parlamento: «Facciamo allora un bel test antidroga ai senatori e ai deputati e faremo cadere questo muro di menzogna. Perché il ceto politico finisce per essere proibizionista con gli altri e libertino con se stesso ».

Dino Martirano
30 luglio 2007
 
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