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Autore Discussione: GUIDO CERONETTI  (Letto 22389 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:23:30 pm »

28/2/2010

La mia domenica antismog
   
GUIDO CERONETTI

La domenica dell’Antismog Padano non darà gran refrigerio al polmone di indigeni e trasferiti, ma essere e dichiararsi contrario è «scuoprirsi con le arme» dalla parte di chi gli è nemico.

Per dirsi d’accordo bisogna nascondersene mentalmente i limiti. Cautele, scappatoie, concessioni, penuria di orario, rifiuti di parteciparvi, sono smog di parole che offuscano l’ipotesi Salute. Un certo effetto certamente lo produrrà, benefico anche per chi dimostra di non meritarlo; ma in special modo costituirà, al di fuori della banalizzazione statistica, una prova squisita dell’essere cittadini di una democrazia moderna, in cui l’Ambiente in pericolo condiziona per tre quarti, oggi, la cittadinità di ciascun essere cosciente di come si vive e si vivrà - fatalmente. Perché il Rimedio non c’è e la volontà di applicare i parziali è profondità di assenza.

La patria ce l’hanno tolta: il suo surrogato è l’Internazionale del pallone. La globalizzazione inghiotte sistemi economici millenari e ha minato, stravolgendolo, il credito bancario; tutti investono da Paese dei Ciechi.

E l’aria dell’uomo respirante ha una nuova versione simbolica nel celebre Incubo di Füssli: un enorme Equino che schiaccia con il suo groppone una figura sdraiata: vedici tangenziali, Via Larga, Sforzesco, Tritone, Argentina, Via Po, Corso Vittorio, Francia, Cinisello Balsamo, Monza, Brescia - a scelta. E qualsiasi marciapiedi o portico urbano, o primo piano di condominii, o giardino dove giocuzzano infanzie pallide insaccate di zuccheri. Il Grande Smog è dovunque ed è inseparabile ormai dall’esistenza umana.

Cittadini, dicevo. La venerabilità di questa parola è finita in qualche splendore di stanza piastrellata dove abbiamo imparato a disimparare che il luogo più comodo della casa aveva nome cesso. Ci potremmo esaltare, cittadinamente, ancora come per un assedio cartaginese o di baliste romane quando lo scopo legittimo, l’ultima frontiera, ha nome Ambiente, e il bisogno sociale immediato e più importante è allontanare un poco il tremendo sedere dell’Incubo di Füssli da polmoni e stomaco di milioni di tassati a vuoto che ignorano l’appello alla ribellione civile che nel crudele incalzante S.O.S. ambientalista risuona?

Può coagulare energie di cittadini l’umile dovere di deporre rifiuti secondo ordini prescritti, di prendere una bici invece della makkina, di non comprarla subito al neomaggiorenne, di non clacsonare demenzialmente nei centri intasati, di rinunciare a camere riscaldate fino al trentesimo grado? O (quale scelta eroica!) rinunciare a tenere aperta ad ogni costo una fabbrica che regala tumori?

C’è da riflettere su questo emergere di un pensiero: la Città, la polis, è disposta (credo oggi ancora) a battersi se c’è un vero Annibale munito di elefanti fenici alle porte, ma inventa scuse per defilarsi se si tratta dei teneri bronchi che ne popolano i passeggini. Così, per lo smog di Buenos Aires, la plaza de Mayo rimane muta.

Da richiamare anche un pensiero del grande Cornelius Castoriadis: «Se i cittadini sono senza bussola lo si deve al logoramento, alla decomposizione, all’usura senza precedenti dei significati sociali immaginari. Nessuno sa più, oggi, che cosa sia essere cittadino; ma nessuno sa più che cosa sia essere un uomo, o una donna; nel dissolversi dei ruoli sessuali, questi sono significati perduti».

Paradossalmente, il problema ambientale investe la totalità uomo. È da branchi accecati ritenerlo marginale e di fatto destinarlo al cesso - privato e globale.

Deplorazione per i Comuni che non hanno voluto allinearsi con i sindaci di Torino e di Milano. Si tratta di sussulti di una vivibilità sociale in pericolo: disertare è brutto. Più che sul risultato pratico del gesto, il tasto da premere è il pur sempre educativo e necessario accrescimento della consapevolezza.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:17:18 am »

2/4/2010

Ma Emma non voleva vincere

GUIDO CERONETTI

Nella sgangherata normalità italiana rientrano anche queste ultime elezioni e i loro dislocamenti di persone mi toccano pochissimo. Mi attira, con la sua interessante anomalia, il caso della candidatura in Lazio di Emma Bonino. Candidata di grande, duramente acquisita caratura, le avrei dato volentieri il mio voto di astenuto per fuori sede. Ma, riflettendoci il giorno dopo, mi sono domandato se, votandola, i suoi sostenitori abbiano veramente centrato il bersaglio, secondo le sue stesse intenzioni.

La Polverini, candidata normale, voleva arrivarci davvero, a quel posto scomodo; Emma Bonino, candidata fuori della norma, no. Non perché la scomodità del posto l’attirasse poco: ma perché era determinata a farselo, come è stato, sfuggire.

Sapeva che avrebbe perso. Voleva correre senza mirare al traguardo. Questa è la follia radicale. Ai suoi vertici (Pannella per primo) è un principio dottrinale segreto.

La sua campagna elettorale era appena partita, era il momento di raccogliere tutte le proprie forze senza pensare ad altro, e la Emma si tira indietro, si apparta, dimentica Roma e Lazio, e con uno dei consueti pretesti radicali, si flagella per una settimana di santità laica con un crudele digiuno di fame e sete che ne fiacca le energie e ne mette a rischio, a detta dei medici, la vita. Due ipotesi: la leonessa ha voluto compiere una liturgia propiziatoria, oppure a disegno si è diminuita fisicamente per ridurre le sue possibilità di vincere.

Ad un certo punto entra in scena il cardinale Bagnasco, che sotto il velame di una predicazione moralistica fuori di luogo, avverte che la candidatura Bonino, e la Emma presidente a Roma, sono sommamente sgradite alla Chiesa. Il Vaticano, che non trascura nessun sintomo di pericolo, ha fiutato il nemico. La pronta defezione della Binetti e di altri (mi pare) cattolici integralisti dal partito di Bersani, è stata significativa. Un misterioso tam-tam della Gerarchia ha diffuso il messaggio: «Non far vincere Bonino, erigere barriere, mobilitare le province, favorire astensione». Così è avvenuto, infatti.

Nei commenti razionalisti questo elemento oscuro non è stato, ovviamente, tenuto in conto.

Presidente, Emma avrebbe dovuto incontrare e ossequiare, secondo un calendario Stato-Chiesa pieno di date, rappresentanti del potere ecclesiastico fino allo stesso Papa, contrastare o accettare richieste per lei imbarazzanti. Con la presidente Renata andrà tutto liscio, invece.

È impossibile, o quasi, senza manette mentali, reggere in un posto elevato di potere.

Nel profondo del partito radicale, il rifiuto di essere un partito, eccetto che nominalmente, e con denominazioni irrequiete o in fuga - di appartenere all’aborrita «partitocrazia» di Pannella (termine non adottato nel linguaggio politico comune) fa pensare ad una faccia in ombra di questo minuscolo satellite lunare nel limitato cielo della democrazia italiana.

L’opinione al suo interno appare libera, nel senso dell’esprimibilità, ma a tenerlo insieme credo ci sia una ideologia tradizionale immutabile. La loro parentela spirituale storica la vedrei nei clubs dei Giacobini di prima del Terrore (giacobini moderni, convertiti alla Nonviolenza gandhiana, che disinvoltamente rendono come «satiagrà», cadenza di digiuni al quanto impopolari nel paese degli spaghetti). Un giacobinismo riformatore, dal risvolto «martinista», «carbonaro-massonico», conscio e inconscio, tipicamente settario.

Come partito politico ogni limite nazionale (o peggio, regionale, federalista ec.) gli sta stretto; mentre come setta disciplinata appartengono alla costellazione di refrattari che rinsangua di nascosto e mantiene in vita, nell’Europa libera come nelle Asie e nelle Afriche dove si massacra l’essenza umana, i fragili spiriti della Democrazia liberale.

Lazio e Roma sono lebbroserie incurabili. Un salutare distacco nella maratona votante, domenica 28 marzo ha liberato Emma Bonino, molto più adatta a ruoli internazionali di rovente bisogno, dall’obbligo di governarle. E nei confronti della Chiesa, come dello stesso carrozzone malfermo che a malincuore la sosteneva, sarebbe rimasta drammaticamente sola. Le resterà di meglio, da fare.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 09, 2010, 09:20:49 am »

7/5/2010

Occhi aperti mister Obama

GUIDO CERONETTI

Questo articolo vorrebbe trattare di un’Opera Pia denominata La Base. L’originale parola araba, per cui è rinomata, suona e va trascritta in italiano: al-qàida (si può togliere il trattino). Ma per effetto di colonizzazione linguistica i lettori e ascoltatori-telespettatori ancora parlanti italiano sempre più se la vedono trascritta e la sentono pronunciare al qaèda: parola che non corrisponde a nulla - è semplicemente la traslitterazione in ortografia angloamericana per pronunciarla correttamente: al qàida.

Dopo qualche incertezza per la giusta trascrizione ho notato i giornali italiani pendere quasi tutti per la disastrosa e inesistente al qaèda. Soluzione da deplorare: vale la pena rivoltarsi contro il conformismo che ha suscitato anche questa idiozia da lingua impropria e vispamente imbastardita. (Non potendo accettarla, sorprenderò il lettore distillando qui nello spazio che mi ospita la grafia legittima: al qàida).

Obama ne ha parlato, in una radunata mondiale di Stati che sono accorsi numerosi al suo generoso richiamo, per lasciarlo alla fine con un pugno di Vuoto, tale che non potrebbe stendere K.O. nessuno. Il presidente è bravo, ha le idee giuste, è intelligente, è cosciente di ciò che richiede lo stato del Pianeta, e se ha in una mano un vistoso rampo di ulivo, ha nell’altra una potenza di fuoco vertiginosa: purtroppo, convince poco e pochi, fuori degli States. I consensi che riceve sono finti, delle sue proposte non resta niente, e di attenzioni all’italiana pullula il mondo. Un Mandela, uno Havel sono stati dei Buoni ascoltati: perché non Obama?

Perché idee così buone finiscono come sassi in un enorme stagno? Se l’America di Obama perde, il meglio dell’umanità perde, e siamo subito tra i denti delle tigri.

Per prevenire il contagio dell’AIDS basta un preservativo - ma contro il contagio nucleare misure preventive non ce ne sono. Obama ha accennato all’ipotesi «se al Qàida possedesse la Bomba»: ma l’atomica qaidista è il terrorista suicida, il messaggero di morte del castello di Alamùt, al quale basta aggiungere un pizzico di plutonio arricchito nell’attrezzatura, dicono i competenti, per compiere immolazioni urbane moltiplicate per migliaia. I grossi missili sono dinosauri di stupidità, servono alle parate, alla retorica del Deterrente: il sicario che si occulta nella giungla delle città, indifferente alle radiazioni che nasconde nel frigo, è un missile di magro, con laurea e pensione, sufficiente a ubriacare di Panico tutti questi poveri continenti geografici, oggi vulnerabili come un cristallo di Boemia.

Lo scandaglio di Fedor Dostoevskij ha mostrato quale sia la passione più forte, la passione segreta fondamentale dell’essere umano: la distruzione. Da quando il fungo bianco e la pioggia nera di Hiroshima hanno spalancato le porte, sessantacinque anni di irrefrenabile passione per il fuoco rubato al sole, dove si susseguono le esplosioni, quanta distruzione dormiente sperimentale, giustificata da un fine pacifico per bugiardi e per chi vuol crederci, si è sparpagliata nel mondo? In Iran anche l’opposizione ha bramosia della Bomba. In Pakistan il giubilo popolare per la prima esplosione ha toccato il delirio. In India, antica sapienza, altra estasi collettiva. De Gaulle, grande statista, mugolò di piacere quando il primo fungo gallico si levò dal Sahara. Soltanto Israele ha fatto tutto in silenzio, ma hanno a Dimona un’arma da Sansone, da tamburo alle proprie tempie...

Forse è umanamente saggio comportarci da indifferenti, da sarà quel che sarà, mentre intrepidi agenti segreti vanno in caccia qua e là a rischio di cancro e di vita, per stanare uranio arricchito in centinaia di depositi e di valige di scellerati.

È certo che, dopo il balletto Excelsior mistico degli ayatollàh per il dono della bomba, altri cinque o sei Stati entrerebbero in crisi di astinenza per smania di possederla. Obama avrebbe materia per nuove convocazioni mondiali di simulazioni.

Va tenuto conto di questo: l’attentato delle Torri nove anni fa, suscitò entusiasmi e consensi aperti in molte comunità islamiche - ma il suo effetto era circoscritto. L’azione sporchetta all’uranio arricchito invierebbe i suoi miasmi in ogni direzione e l’orrore dell’esito potrebbe avviare la catastrofe per la stessa Base, insieme a rappresaglie popolari incontenibili contro le comunità oggi più o meno in pace nei propri ghetti. La mano che si ispira direttamente ai demoni della distruttività umana, qualora prevalesse nell’organizzazione la follia assoluta, agirebbe. Quel che la trattiene, che l’ha finora, forse, trattenuta, resa esitante, non è l’insufficienza di mezzi, ma il disturbo, la breccia, provocati nel suo stesso odiare cieco da un residuo calcolo prudenziale. Lo stesso fenomeno che avvenne per la Mutual Destruction nella Guerra Fredda potrebbe, entro limiti però alquanto ridotti, verificarsi anche per al-Qàida. Ma un presidente degli Stati Uniti mai più potrà dormire se non con un solo occhio - o con entrambi gli occhi aperti, al modo di certi animali.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7313&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 17, 2010, 06:54:25 pm »

17/5/2010

Quei libri diventati memoria d'amore
   
GUIDO CERONETTI

Dei libri, di certi libri, resta per sempre qualcosa. A volte, cambiano la vita, quando li hai letti: dimentichi il libro; la scintilla del cambiamento, a distanza di anni, nominandone autore e titolo, si riaccende.

Meraviglioso è attendere, fino al termine della notte, che il libro decisivo, il libro-messia-che-viene, scopra se stesso, e per oscuro travaglio ostetrico destinale ti capiti tra le mani. Io posso dire, come l’amatissimo Mallarmé, di «aver letto tutti i libri» e in questo «affaticato» la carne (Qohélet 12) - intendendo: tutti i libri eletti per governare la mia scialuppa di naufrago nel buio: e nello stesso tempo resto alla finestra in attesa di veder apparire il libro di cui poter dire a me stesso: Eccolo.

Sono un certo numero; ma un gran leggitore e consumalibri non sono mai stato; da anni, leggo pochissimo... L’attesa del libro è simile a quella della donna: l’amante del destino deve sempre venire. Il libro è donna per l’uomo che legge.

Il velo d’Iside a qualsiasi età, ad ogni punto del percorso, può squarciarsi.

Il libro segna e contrassegna le vite predestinate a questo genere di mistero eleusino d’iniziazione: di libri che hanno assecondato il mio sforzo di essere, cambiato il mio modo di esistenza, alzando il lembo della Velata, ne ho incontrati parecchi. Su innumerevoli altri lettori non avranno prodotto che effetti superficiali, ma ciascuno è monade, di fronte al libro.

Faccio un piccolo elenco di memoria grata: i canti di Maldoror, di Lautréamont, L’Eneide virgiliana, la poesia di Miguel Hernández, Tristes Tropiques di Claude Lévi-Strauss, il Trattato Breve (la piccola Etica) di Spinoza, La Linea d’Ombra e Tifone di Conrad, L’Uomo invisibile e La guerra dei mondi di Wells, il Purgatorio dantesco (la cantica adatta a chi abbia segnature zodiacali autunnali), I Démoni di Dostoevskij (in specie l’ultimo viaggio «sulla strada maestra» di Stepán Trofímovic), l’incompiuto formidabile romanzo Verità e Menzogna di Piovene, il libro biblico (superfluo dirlo) di Qohélet, le note sparse di Tocqueville sulla Rivoluzione Francese, tutto Sofocle, le Baccanti di Euripide, due o tre o più saggi sugli UFO e il contattismo ufologico con creature aliene.

Inoltre, un buon numero di fiabe di Andersen, le memorie di Ingmar Bergman in Lanterna Magica, il Macbeth scespiriano, L’Assommoir e Germinal di Zola, le Memorie dell’Ombra e del Suono (archeologia dell’Audio-Visuale) di Jacques Perriault, una vecchia (non invecchiata) biografia di Rembrandt, il Mondo, tutto, di Schopenhauer, la Lettera sull’Umanismo di Heidegger, il Voyage di Céline, Lo spazio vuoto di Peter Brook, la Bhagavad-Gita (culmine delle Scritture sacre), la Diciottesima e la Ventiquattresima sûra coranica: La Caverna e La Luce; il Jekyll di Stevenson, un pugno di lettere inimitabili di Santa Caterina, tutto Villon, il Gulliver di Swift, I Promessi Sposi (in specie il capitolo XXXIV), le Quartine di Nostradamus, Guerre politiche di Goffredo Parise... Poiché me ne vengono in mente troppi, smetto di evocarli. Ma i miei più che ottanta anagrafici hanno vorticato su quel largo amoroso Toboga.

Ti possono cambiare la vita anche i Dizionari! Oh i dizionari, meraviglia del genio umano, dono non di una ma di milioni di amanti!!! Non ho memoria di felicità paragonabili ai giorni passati alla Biblioteca del Collegio Romano, sul dizionario della Bassa Latinità del Du Cange, sul Forcellini, sul Francese Arcaico del Godefroy, sui dizionari semitici del Pontificio Istituto Biblico allora retto da Carlo Maria Martini, mio coetaneo, sui testi di Storia della Medicina e dell’Istituto Orientale della Sapienza di Roma. Ad ogni apertura di dizionario un segmento minino di esistenza mentale si univa ad altri formando un disegno, un mosaico, una trama. Di un dizionario fra tutti sono debitore di più vita (ancora oggi l’aprirlo a caso può regalarmi un’estasi della conoscenza che non può, chi non l’abbia provata, comprendere): un testo lessicale delle scuole rabbiniche di Francia del 1859, facile da percorrere in un ebraico esplicitissimo, così irresistibile che avrebbe reso perfino Wagner e Drumont filosemiti. Me l’aveva comprato, in una brancicata ricerca, in rue des Rosiers, al Marais, nel 1955, mio padre: quel dizionario biblico fece un Prima e un Dopo della mia povera vita di pellegrino a Santiago delle parole.

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« Risposta #19 inserito:: Giugno 02, 2010, 12:17:14 pm »

2/6/2010 - IDEE

I cavalli non tengono un diario
   
GUIDO CERONETTI

Caro Direttore,
avendo scrupoli di verifiche, avrei da esprimere qualche dubbio.
Ha fatto titoli pieni di prima pagina un evento storico come questo: «Berlusconi cita Mussolini». Ma, quando si tratta di Storia, è necessario verificare. Potevano negligerle Erodoto e Tacito, ma per noi le Fonti, prima di diffondere l’importante notizia, sono da richiedere perentoriamente: - Documenti, per favore! -

Il Presidente del Consiglio ha detto di aver tratto la citazione dai Diari del nostro progenitore. Non era tenuto a dire giorno-mese-anno, editore e curatore: i giornali invece, ovviamente, sì. Dico ovviamente perché una certa disciplina filologica e storiografica l’ho bevuta, se non col latte materno, almeno coi caffè giovanili. Di questa pubblicazione diaristica confesso di non saper nulla.

Ho la certezza dei diari di Ciano, di Bottai, di Speer, di Gadda, di Anna Frank, di Cesare Pavese. Di Mussolini non conosco che la smascheratura di un volgare falso avvenuta, dopo effimera eccitazione giornalistica, alquanti anni fa. Sarà quella la fonte storiografica della citazione? Né Mussolini, né Stalin, né Hitler, né Tito, né Trotzkij lasciarono diari. Non erano tipi da diario.

Neppure Silvio Berlusconi, c’è da scommetterci, lascerà diari.
La poco credibile citazione può essergli affiorata dall’inconscio in un momento di amarezza, perché quello che sta attraversando è un campo disseminato di mine amiche. (Fatto ordinario nella storia del potere politico).

La frase citata - se non me ne venga provata l’autenticità - non può neppure essere stata tolta o orecchiata da altri luoghi del parlato-scritto mussoliniano. Non mi pare rifletta l’uomo. È uno sfogo diaristico, ma senza il diario. Pensato mentre cavalca intrepido per Villa Torlonia? «Il cavallo sa - dove deve andar...» cantava allora Odoardo Spadaro: non aveva bisogno di dargli ordini. Ma, quando cavalcava, il Dux era saldo in sella, molto più del Berlusconi del 2010. La frase potrebbe averla detta a donna Rachele, ma non a Claretta, di cui era l’idolo.

A me pare non averla mai pronunciata e tanto meno lasciata scritta. Quando perdette il potere, per verticale caduta il 25 di luglio, non presagiva la trappola ormai scattata. ROMA DOMA echeggiavano le scritte sui muri: il Domatore troppo sicuro di sé era atteso da non più addomesticate fauci nella gabbia dei leoni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7430&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 17, 2010, 09:21:23 am »

17/6/2010 - LE IDEE

Colonizzati dal patriottismo del pallone
   
GUIDO CERONETTI


Mondiali di calcio: in un mondo preso a calci dalla specie antropica all’apogeo dei suoi successi, una versione di Guerra Mondiale non utilizzabile come vaccino, ma iniettata mediaticamente nell’inconscio collettivo delle nazioni per consolarci dei mali di una troppa lunga pace.

Il gioco del calcio ha questa sola legittimazione alla sua implacabile pervasività: di essere un simulacro di guerre civili nei campionati nazionali, e una finzione-video di guerre mondiali ogni quattro anni - che, ahimè! passano in fretta, troppo in fretta.

Mondiali dovunque: in tutte le case, in tutti i pianerottoli e gli ascensori, gli uffici, i mercati rionali, le scuole; impossibile non commentare le partite del giorno prima, impossibile sottrarsi ai commenti delle partite del giorno prima e alle previsioni di quelle dell’indomani. Valga, per chi voglia starne lucidamente fuori, la massima del saggio imperatore Marco Aurelio, quello della statua equestre in Campidoglio: Abstine et sustine (Astienti e sopporta).

Mi pare fosse Prezzolini, nel giornale di Gobetti, a raccomandare, squadrismo vincente, l’associarsi tra «coloro-che-non-la-bevono» (elegantemente detto alla greca àpoti). Noi non beventi, astémi e digiuni di Calcio (spesso, per età, anche decalcificati d’ossa) oggi abbiamo a disposizione i Blog, i Facebook, le poste elettroniche dove sfogare impudicamente la nostra repressa apatia di àpoti verso il mondialismo pallonista, l’occupazione da parte dei cronisti e degli specialisti commentanti di tutto il visibile, l’udibile e il leggibile - la nostra refrattarietà irriducibile ai Falli Laterali, alle Panchine Impazienti, alle mestizie delle sconfitte e alle delusioni cocenti dei Zero a Zero al dilà dell’ottantanovesimo Minuto.

Le unificazioni separano. Questa mondialità è sospetta. Più realisticamente, le partite sono scontri di nazionalismi, religioni, governi, regimi che si odiano, colluttazioni interetniche, interrazziali, interclassi sociali. Si vuole sempre vincere per qualcosa: altrimenti, perché voler vincere? Gli inni nazionali precedono ogni incontro: giustamente, l’inno pacifico non esiste. Dietro la partita ci sono gli spettatori virtuali: un intero popolo che si ricorda di essere stato foresta primordiale, di aver portato artigli e che è là per incitare a immolare simbolicamente, in undici giocatori di diverso colore di maglificio, un popolo irragionevolmente altro, i subumani dell’altro emisfero o di al di là di una catena montuosa. Ogni urlo d’incitamento è masticazione sterminatrice. Provate ad immaginare una partita Israele-Hamas: iperguerra, non guerra semplice! Ci sarà in Sudafrica Israele-Iran? Ci sarebbe da trattenere il fiato: scoppierà adesso o domani?

Nelle città italiane sono esposte molte bandiere tricolori. Quale vittoria militare celebreranno? Il centocinquantenario dell’Unità nazionale devaticanizzata? Eccone là un’altra... un’altra ancora!...E si diceva che il patriottismo è morto! Forse che i missionari della Pace Assoluta, i reparti italiani sulle ambe afghane, hanno attaccato e sbaragliato i talebanski, invece di rassegnarsi a farsi accoppare secondo regole d’ingaggio inimmaginabili in qualsiasi operazione militare dal tempo delle guerre sannitiche romane? Per niente...Tutto quell’onore di bandiere è riservato a guerre ben più veraci e tremende! A guerre contro Paraguay o Argentina, contro Svizzera, sulla linea de fuego Como-Brogeda la domenica sera, contro Spagna, contro Brasile, Irlanda, il Ghana, l’Impero del Sole... Agli ordini del Generale Lipp! Discusso, si dice, ma, in ogni caso, meglio di Cadorna, lo sconosciuto a tutti i liceali della omonima stazione della metropolitana di Milano.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7485&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 30, 2010, 08:57:46 pm »

30/12/2010

Ma sì la Scala può vivere

GUIDO CERONETTI

Sono grato a quanti, del ramo, hanno voluto replicare al mio scrittino sulla chiudibilità della Scala. In verità, l’Opera e il Cinema li ho non poco amati, giovanilmente (il cinema di più e più a lungo) e ripudiati in seguito. Ma le critiche ricevute partono da una premessa diversa, la mia concerne la caducità, l’inesorabilità dolorosa del Tempo. Il cinema e l’Opera hanno vissuto: dura invece, per motivi contingenti legittimi o discutibili, la loro sopravvivenza.

Quella del cinema è intossicante, per lo più, quella dell’Opera, come propongono gli stessi sovrintendenti, esige riforme dure, indossare i tagli e se possibile renderli più crudeli, e guadagnarci in sussulti di creatività invece di piangerci sopra. Quanto farà salire la spesa un famoso regista? Quanto pesano gli scioperi ricattatori, specie quando una prima si approssima? Qui un sovrintendente che fosse libero e sovrano (non c’è quasi più nessuno, in Italia), implacabile come il capitano Mac Whirr di Tifone, farebbe questo discorso al personale e agli artisti: «Sarete pagati tutti benissimo, ad una sola condizione: che non facciamo neppure mezz’ora di sciopero per l’intera stagione, perché il bilancio è questo, e ci stiamo appena. Prendi o lascia». Così si affronta una crisi, torcendogli il collo - esemplarmente - senza accattonaggio culturale. Spese culturali alle quali non negherei larghezza di denaro pubblico sarebbero, e con decisione e urgenza, i nostri istituti di cultura all’estero, che mi dicono languescenti. Ma dico, e lo grido, si fa qualcosa per sostenere un patrimonio linguistico mondiale come l’italiano - o nulla?

Si fa qualcosa - o si dà perdente subito, con la complicità orba e perfida dei governi che volendosi di destra dovrebbero qualche cura alla nazione-madre abbandonata al branco, in quel che ha di più luminoso - per la lingua italiana? Venderla all’inglese, con un bilinguismo che ci mutila, che ci prostituisce e avvilisce, è un crimine contro l’anima di una nazione. Difendere la lingua vorrebbe un bilancino di tipo militare, perché ne vale la pena. «Madre infelice, corro a salvarti...». Sì, questo è aver coglie per una causa arcibuona!

Per porre l’insegna integralmente nella sola lingua italiana, un premiolino al negoziante intrepido non sarebbe sprecato.

Per un balletto scaligero di pura creazione (di rottura col repertorio classico allo stremo) lo Stato non sprecherebbe i soldi. Mi resta il dubbio che possa essere introdotto del veramente nuovo nell’immensità spaziale di un palcoscenico tipo Scala, occupato sempre, anche vuoto, dai residui d’anima che l’hanno arroventato in secoli di sofferenza e di ossa curvate indelebilmente ai ruoli, nella stretta schiavizzante dei pentagrammi. Le idee sovversive non prendono, nel recinto operistico, o lo snaturano. In un certo senso l’Opera è inviolabile. Il palcoscenico materiale può modernizzarlo benissimo un grande architetto, come Botta alla Scala, senza rimuovere il blocco invisibile di voci perdute, di anime affannate, di sinfonie avvinghiate alle tavole, di gesti immutabili, di forme-pensiero, che lo caratterizza illuminato o spento. Non so quanto ne sia, di un genere statico come questo, realmente riformabile. Riformare è un po’ uccidere. Conservarlo così è minotauro da soldi; chiede vittime sempre e col tempo di più.

In generale, una cultura come insieme di realtà spirituali e specchio di una lunga storia dell’incivilimento umano (che sempre, toccato lo zenit, precipita nell’imbarbarimento: e qui ci sguazziamo, però da arcipelago), se tenga ancora perché fa turismo e commercio, è morta. Puoi puntellarla quanto ti pare, i crolli ci saranno ugualmente.

Più per motivi morali che economici, l’abito di rigore nei bilanci, in un teatro-minotauro come la Scala, va imposto: anche se lo Stato traboccasse di prosperità, il minotauro non dovrebbe essere saziato. Ma è più facile guadagnarsi da vivere, che aumentare le proprie vivendi causae, che sono la vita vera.

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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 31, 2010, 05:36:58 pm »

31/12/2010

Nel 2011 sogno un'Italia di cittadini

GUIDO CERONETTI

Inalterato, intero, tutto nel medesimo sacco, il pensiero dominante si trasferisce dal vecchio al nuovo anno. Per lo più il suo linguaggio è statistico; le parole e le metafore sono le stesse; le voci dei parlanti hanno aumentato nomenclatura americana; deplorazioni ed esortazioni pie non varieranno spartito. Ceffi orribili, nell’ombra, né parlano, né scrivono, né si mostrano; siedono dappertutto, si muovono sul filo dei nostri luoghi comuni.

Le cose di cui m’importa diminuiscono ogni anno. Della riforma universitaria, di cui ho inteso parlare tutto l’anno, non me ne importa niente. Della politica parlamentare m’importerebbe se mai le capitasse di scalfire in qualche cosa l’onnipotenza del luogo comune. Mi fa orrore pensare che potrebbe essere votata l’infame legge della vecchia (oggi fluttuante) maggioranza sul testamento biologico, voluta dai vescovi dopo il caso Englaro (sia sulla povera piccola vittima la pace). Vorrei veder sprofondare nel nulla progetti e cantieri della Expo milanese e sbarrata dagli angeli fiammeggianti, allo scempio dell’Alta Velocità, l’imboccatura della Valsusa.

Vorrei invece vedere l’ultimo verace tradizionale Dalai Lama vivente invitato a turno da tutti questi pavidi governi e presidenti europei nei loro palazzi, rivolgendo scongiuri danteschi alla funebre ottusa senile arroganza cinese, in secca risposta alla sedia vuota dove avrebbe dovuto ricevere il Nobel per la pace l’intellettuale dissidente in prigione a Pechino.

Vorrei vedere Obama riscuotersi come Gene Tunney dal K.O. di Jack Dempsey a Chicago nel 1927, e finalmente innalzarsi al rango di grande presidente degli States - vittorioso come Kennedy a Cuba, pacificatore sì, ma soltanto dopo aver vinto le sue guerre in corso e schiacciato l’idra atomica iraniana. (Dio sa come: ma si può non volerlo?).

Vorrei vedere - perché il sogno vuole la sua parte appena la ragione gratta l’enigma di un archetipo - il Messia stendere il suo ombrello bianco anche su questo non messianico Israele, riportarlo all’incirca all’epoca asmonea e alla grotta di Qûmran, la stessa che ci ha restituito, evento degli eventi del secolo XX, i rotoli della setta del Mar Morto. (Ancora qualche generazione nella tormenta - tormentata e tormentatrice).

Vorrei che quando, nei sondaggi che si ripetono con esiti sempre uguali, gli italiani confessano che cosa più li preoccupi, una maggioranza strenua, indubitabile, l’ottanta per cento almeno, rispondesse che è l’ambiente, il massacro d’ambiente, l’abitabilità, non i soldi, no, no, no... E subito dopo, o meglio ex aequo, l’estendersi dei poteri criminali nell’impotenza crescente della legge. Questo significherebbe essere dei cittadini, e non un gregge di pecore da macello, che si lascia rassicurare dalla vicinanza di un gigantesco Supermercato.

Disponessi di un attestato ufficiale (ma in ogni caso ne scrivo uno manualmente, non elettronico) lo darei di «donna dell’anno» ad Emma Bonino, per la sua intrepida incessante mondiale sfida contro lo schifoso, ripugnante costume delle mutilazioni genitali femminili, un pezzo di tenebra umana che qualche presagio di luce vicina lo dà.

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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:23:22 pm »

20/1/2011 - L'ANNIVERSARIO

Un'idea dell'unità d'Italia

GUIDO CERONETTI

C’è indifferenza verso il centocinquantenario dell’unità d’Italia, punito da tormentose cure generate dalla incompresa crisi economica e dallo stato di coma della politica. C’è addirittura chi si disonora calpestando e bruciando bandiere tricolori.

Io sono un vecchio a cui duole l’Italia, come la Spagna doleva a Miguel Hernández; ma a me l’Italia duole senza speranza. E all’Italia unita tengo, ma una sola configurazione politica per mantenerla tale mi pare possibile: la repubblica presidenziale all’americana in una struttura federativa senza frantumazione regionalista. E’, s’intende, un progetto ideale; ma anche questa Italia, che non cesserà mai di essere governata male, con larghe ipotesi di malgoverno progressivo, senza poter escludere che dalla tuba salti fuori (non invisa, anzi applaudita dai cardinali) una repubblica islamica - anche questa nazione di incoscienti ipnotizzati dalle televisioni è nata all’inizio del XIX, da un moto ideale, spirituale e messianico, il più potente in Europa dal tempo della Riforma: il 1789. Il più bel figlio della rivoluzione dell’Ottantanove è stato il risorgimento italiano, coi suoi martiri sacri, con le sue passioni tramontate.

Ma se vogliamo che una entità italiana (e italofona) abbia ancora un senso nel tempo, nella inesorabile cadenza di frenesia del Divenire, bisogna stringere fortemente i bischeri del presidenzialismo, e federare per centralizzarne confini e interdipendenze, centralizzare perché nell’ipotesi federativa libertà e diritti siano preservati dappertutto, federare per affinità etniche e spirituali (salto forte che mai ebbe attenzione durante il periodo monarchico fino alla diarchia mussoliniana da parte dei Savoia o degli Aosta) e federare limitatamente (per estesi Länder), non per regioni-pollaio dove qualsiasi volpe-Lega irromperebbe attraverso ogni smagliatura: pessima influenza la sua, né unitiva né separativa, mera anestesia in vista di chirurgie devastatrici.

Mi astengo dalle celebrazioni perché, inevitabilmente, non vedono in nessun processo, illuminabile storicamente, che tracce e intrecci piattamente materialistici, calpestando a loro volta il tricolore perché ne rinnegano l’origine e il significato scandalosamente spirituali. Manzoni, il grande illuminista-illuminatore, riconobbe perfettamente l’immensa portata delle campagne del Bonaparte. Ne vide lo stupro generatore, ma Hölderlin ne comprese meravigliosamente la sapienza sottile, la forza del sigillo puramente spirituale - estendendoli a tutta Europa ma dando fortissima connotazione emblematica all’Italia, ricordata esemplare (vedi a p. 220 tomo I, dell’edizione Adelphi, e la mia versione a p. 366 della raccolta La Distanza, BUR, riediz. 2010: «Sopiti, inerti, i popoli tacevano...»). E’ «dal Reno azzurro al Tevere» che il fatale impulso napoleonico si manifesta con più grassa e rovinante potenza. Il tricolore blu dilata ostetricamente la prescritta futura Italia nella sua letargia formicolante di passaporti interni.

Salteranno ad uno ad uno, ma l’Italia dei Sabaudi (Alpi e alpeggi smarriti, fontine e fondute cuciti insieme con la Singer, e una smisurata sequela di coste fino a minute isole che vedono l’Africa) non sarà come la Francia giacobina del suo battesimo Una e Indivisibile... In meno di un secolo la Monarchia è già alle corde e degenere...

Ma il lievito messianico, da quando il Fato (Schicksal) intraprende di giocare coi mortali «un gioco audacissimo» (Hölderlin), l’Ottantanove mirabile, guida dei Carbonari allo Spielberg, del grembiale massonico e della camicia garibaldina, dov’è finito? Perché subito naufraghi?

Quando Giulio Einaudi mi incoraggiò a imbarcarmi sul Trenino Fantasma che diventò il mio Viaggio in Italia, non avevo nessuna idea su che cosa avrei potuto osservare e scrivere. In un quadernetto inedito di note preparatorie appare l’idea di fondamento del mettere in luce, col pretesto di un’autobiografia pellegrinante, l’essenza italiana, e l’aura che - oggi incurabilmente malata - l’avvolge. Pensavo di andare alla scoperta della sostanza puramente ideale italoparlante, che dalla sponda ellenica ricevette il nome pregnante, esoterico, di Esperia.

Esperia, per cui l’Italia è la Terra della Sera, la nazione crepuscolare, e niente affatto «il Paese del sole» dello stupidario turistico; la grande rete da pesca Italia di un interminabile tramonto. Tutto si copre ben presto d’ombra, in Italia: qui in verità è la peculiarità italiana, il bisogno di abbeverarsi d’arte per restare vivi nell’incalzare della morte, il viaggio dantesco nei regni d’Oltretomba, repubbliche e signorie ossessionate dal proprio estinguersi, che Machiavelli si sforzava di far durare, con spietatezza di stile, sulle tracce della Prima Deca di Livio.

Il Machia era un sognatore: tutto il suo genio era impotente a rifare la congenita fragilità ossea dell’Italia, fino e ben oltre i suoi malgoverni repubblicani, che significativamente finiscono sempre prima, partiti che si dissolvono in passerelle d’ombre. E’ Esperia, l’ombra della Sera, che a sua volta ironicamente governa i governi italiani, ne prescrive la durata, li spinge nel vuoto. L’Essenza italiana rifiuta ciò che è pratico, è dialogo amaro con la Finitudine, partita a scacchi di perdente con l’angelo sterminatore...

Forse non sono riuscito a comunicare questo, e i libri spariscono presto; ma credo averla intravista e sperimentata questa realtà simbolica soggiacente, questo perpetuo, immancabile purgatorio di tramonti chiamato Italia, che si è unita per più soffrire di sé, per essere via via meno viva tra le presenze europee. I tre versi di Salvatore Quasimodo che culminano in «Ed è subito sera» rischiarano bene questa verità sublime che quando puntualmente si mostra nessuno vede.

All’inno trionfalista risorgimentale dovrebbe seguire il Silenzio militare, delle bare onorate che ritornano dagli incubi asiatici spaventosi. Il secondo è la verità del primo.

Qualcosa di concreto si può fare per ricordare il perduto Risorgimento... Leggere, rileggere, far leggere e commentare nelle scuole, nelle università e nei teatri le ultime lettere di condannati a morte della Resistenza, qualche testamento di caduti e martiri della Grande (troppo grande) Guerra (Giosuè Borsi, Nazario Sauro, Cesare Battisti...) e specialmente l’ultima lettera-testamento di Tito Speri, prima dell’impiccagione a Belfiore.

Vittorie amare, luci da ritrovare, sconfitte da meditare. Ed è subito sera.

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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 06, 2011, 09:50:50 am »

6/2/2011

La speranza che viene dall'Egitto

GUIDO CERONETTI

In termini di filosofia politica, nei moti tunisini e egiziani si può intravedere il sorgere di una forma nuova di associazione cittadina che anela a istituzionalizzarsi in modo autonomo secondo il modello generico delle democrazie laiche. Questi processi faticheranno certamente a concludersi: in verità è vera democrazia il mai finito. Le convulsioni della nazione più potente - scardinando necessariamente il sistema di potere religioso islamico, che reagirebbe alla minima scalfittura - potrebbero durare a lungo, e costare botte, furori, sangue.

Noi non sappiamo far altro che deplorare sempre, ogni momento, ipocritamente, la violenza. Eppure la Convenzione, in Francia, svaginò la democrazia tagliando indegnamente teste; De Gaulle la salvò tra le bombe; la creazione di una autentica democrazia nella Spagna schiacciata dalla Chiesa cominciò entre ríos de sangre nel 1936, e durò quarant’anni; l’incompiuto risorgimento italiano ebbe bisogno di un tempo analogo, interamente costellato di violenze. Quel che oggi complica tutto è una verità tra le più allarmanti, questa: «La perdita di patria sta diventando un destino mondiale» (Heidegger, Lettera sull’umanesimo; e la data è significativa: 1946). Nessuna democrazia moderna (e neppure quella ateniese) è nata senza il terreno solido di una patria, surrogato della religione perdente, in fuga dalla tolleranza.
Dovunque, globalizzazione e consumi sono perdita di patria, diaspora d’esilio; il loro esito, e lo vediamo, se vogliamo vederlo, è disperazione economica, guerra mercantile tra entità statali prive di nome.

Un trapianto d’industrie è la celebre fuga a Samarcanda del vizir che incontra la Morte nel suk di Baghdad: non sfuggirà alla fatalità.
Una crisi come quella che si è aperta al Cairo non può essere fermata con la semplice cacciata dal potere dell’uomo che si illudeva di fondare una dinastia di regime, sia pure stato a lungo quel che chiamiamo un «fattore di stabilità», per il pavido Occidente.

Se in Italia c’è chi pensa che togliendo di mezzo secondo regole da inventare Berlusconi si fa il bucato a una democrazia in condizioni di agonia (sebbene affondata nella globalità più sbandante) come questa in cui perdiamo tutti il rispetto di noi stessi - dire che è di vista corta è misericordia. Gli anni di Berlusconi hanno il merito di aver fatto emergere dalla babele delle parole l’immangiabile verità di una forma democratica in sfacelo, come la casa degli Usher di Poe. Andate a leggervi quel racconto e vedrete qualcosa di simile alla democrazia italiana di questi Tristi Duemila.

Se da noi l’illegalità-chiave sono i partiti occupatori, ridotti a fazioni ruffiane di potere - come anomalmente predicano Pannella e i radicali - la nazione ha il dovere di non più tollerarli. Se le illegalità sono milioni, una sola grossissima può purgarle tutte, come un immane clistere: una rivolta popolare che sommerga letteralmente sedi e palazzi governativi e parlamentari, una marcia su Roma non di lugubri teschi ma di tricolori-multicolori persuasi del vento che li spinge, di cittadini vedovati di identità patria, un risveglio del Colosso di Goya fatto di uno, due, tre, quattro milioni di teste - la resurrezione di Bruto!

Intorno al 1880, il marchese Cesare Alfieri di Sostegno raccomandava: «Chiudete quelle fogne amministrative di Palermo e di Napoli!»: benissimo, ottimo consiglio - via le fogne, via le infezioni mafiose, la restituzione all’aria della sua respirabilità. A cosa può servire fare un processo dopo l’altro (in verità: minacciarlo, coitus reservatus) contro persone singole, quando una intera classe dirigente è imputabile di fellonia, di tradimento, di sbranamento dell’unità patria?

A Ercole occorrerebbero milioni di braccia per ripulire le stalle d’Augìa di questa famosa Penisola!
E dopo il purgone bisognerebbe rifare tutto senza un solo batterio di quel che è stato, eleggere una Costituente repubblicana di facce nuove, senza più destra-sinistra, vuote occhiaie - una Costituente presidenziale capace di stanare un uomo giovane, incontaminato, un Kemal Ataturk libertario, figlio di qualche sobborgo disperato, e di farne un Primo Console. L’ossessione dell’economia globale, dell’investimento a oltranza, con le sue triviali predicazioni sulla crescita del prodotto e del suo forsennato consumo, spinge a capofitto nel baratro, fa crescere essenzialmente la sete di denaro, perché il Pensiero Unico è padre di crimine, alimenta cronaca criminale... Ma finalmente ridiamo un po’ di ossigeno a questo linguaggio asfissiato!

Fino a un coma tragico me l’hanno addormentata, questa parassitosa nazione di divisioni perpetue, che ha avuto dei Machiavelli ammutoliti, ma non un De Gaulle capace di dirci che ci ha capiti.

Non si vede, dappertutto stendiamo lo sguardo, che passività incurabile, torpore, inebetimento... (Così bene lo previde, nel suo romanzo postumo, Guido Piovene).
La piazza egiziana ha acceso un barlume di speranza: il suo messaggio ancora sigillato viaggerà lontano. Un Egitto che immagina qualcos’altro, per sé e per tutti, è una pietra preziosa che irradia una luce insolita di fresca aurora.

da lastampa.it/_web/cmst
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 22, 2011, 03:49:12 pm »

22/3/2011

Le lattughe di Cernobil

GUIDO CERONETTI


Fukushima adesso, che mai vedremo: lo spettro di Cernòbil ha i suoi appuntamenti ignoti.

Chi ha ricordi ricorda. Fummo rassicurati subito.
Il prof. Colombo che dirigeva l’Ente nucleare, dichiarò subito che l’Italia, certo per i suoi meriti angelici, non sarebbe stata toccata dalla nube radioattiva. Così annunciavano le testate. Poi sì, sarebbe stata toccata, ma appena con deflorazione evangelica, qualche minima ricaduta in Veneto, guardarsi dai funghi sarebbe stato uno scrupolo sufficiente.

La fortunata penisola fu invece trattata con rudezza dalla celebre nube, che generò leucemie e tumori e provocò nella gente una violenta rivolta contro il piano perfettamente delirante del prof. Felice Ippolito, che avrebbe disseminato centrali nucleari come gustose noccioline un po’ dovunque. (L’atomo, in verità, non fu mai popolare in Italia).

Le diete subirono variazioni travolgenti. Il nostro ministero di allora della Sanità dettò regole drastiche. Comparvero sui banchi dei piccoli e grandi mercati ortofrutticoli soltanto ortaggi cresciuti sottoterra, indubitabili: non vedevi che mucchi di carote, cipolle, patate, rape. Una barba! Ma lo spettro del reattore quattro di Cernobil era là, guatava ogni nostro movimento e boccone. Il Giappone ufficiale e quello macrobiotico proposero il consumo abbondante di alghe di un certo tipo (mi pare la più venduta fosse la Kombu), che quasi non trovavi più, e il riso biologico integrale. Correva questa leggenda, nel Sol Levante: che in un ospedale nei pressi di Hiroshima dove c’erano abbondanti scorte di riso, tamari (salsa di soia) e alghe, nonostante la fortissima contaminazione radioattiva, medici e infermieri che avevano cura di quei poveri appestati, furono protetti dalla dieta a lunghezza di giorni. Da noi, scomparsi latte fresco e latticini, rimasero in commercio soltanto formaggi di pasta dura, il Parmigiano-reggiano seguitò a regnare sulla tavola italiana. Svizzera e Francia invece non osarono frenare l’industria nazionale casearia e lasciarono i loro amati cittadini deliziarsi con celebrità formaggesche su cui la Nube aveva lacrimato come un’Addolorata.

A Torino, una signora molto vicina al proprietario di allora della casa dei Gelati Pepino, mi diceva molti anni dopo, anzi neppure tanti, che i soli gelati dove non era contenuta radioattività erano i Pepino, perché il latte di base proveniva tutto da pascoli garantiti, mentre su tutti gli altri non c’era da giurarci, e i peggiori erano i provenienti dall’Est, controllati allora alla sovietica, quantunque a Mosca ci fosse il buon Gorby con le sue ali tese. Il quale, del resto, lasciò i suoi piloti immolarsi eroi sorvolando a bassa quota il reattore per soffocarlo coi sacchetti di sabbia; uno solo di quei ragazzi sopravvisse, Anatolij, e dopo anni di cure incessanti Cernobil lo disfece come Fukushima disferà i volontari di terra e d’aria, autentici kamikaze («vento divino») che si stanno provando a spegnere il drago da vicino.

Il bisogno di eroi cresce a misura che crescono, si moltiplicano, s’ingrandiscono le catastrofi d’ambiente del pianeta.

Le lattughe e tutte le verdure verdi a foglia larga ci mancavano come ai detenuti l’amore, mentre i piselli surgelati sovrabbondavano. Altra leggenda consolatrice fu la banana, le si vendeva perfino marce. Autorevoli medici proclamavano Anticernobil questo meraviglioso ma non onnipotente frutto dei tristi tropici, che forse non colpì la nube. Credo le mangiassimo perfino marcette, per un riflesso di cultura arcaica, benemerita sempre, che nella curva banana annerita, impoverita di sostanza zuccherina, ritrovava l’archetipo della strega dai poteri magici, della sciamana curandera, capace di far vivere e morire.

Temevamo la pioggia, che si dava in fragorosi diluvi primaverili e di cumuli gravidi di Cernobil, temevamo ci bagnasse la capelluta, e ricomparvero le provvide galoches, in estinzione: separavano meglio il piede dall’asfalto e dal marciapiede, messaggi in codice di gocce dell’angelo radioattivoforo. Poi, appena sulla soglia di casa, via galoche le scarpe accanto alla porta, la pantofola a rassicurarci col suo tepore di sorella. I medici raccomandavano di non far toccare alle suole i pavimenti di casa, in specie tappeti e moquettes (che io eviterei sempre, detestandoli). Sconsigliavano inoltre pollini e pappe reali, per sospette provenienze dall’Est, ogni tipo di fungo, i tartufi, nei quali tuttora si riscopre il Cesio 37.

In pochi anni l’Europa dall’Atlantico agli Urali si era ricoperta di centrali, riempiendosi di scorie da scaricare possibilmente (anche criminalmente) altrove - tra la contrarietà isolata dei movimenti verdi, che mai riuscirono ad impedirne una.

Fui tuttavia sempre dalla loro parte, fuori da ogni contenuto politico; l’indifferenza ambientalista in genere degli scrittori e degli intellettuali italiani era però famosa.

Dell’atomo-colomba-bianca, delle centrali adulate come pulite e soprattutto pacifiche, non fui mai persuaso. Ormai sono parecchie centinaia (con una Italia che maledice il suo «essere rimasta indietro») e certamente non furono fatte senza motivi di profondità che non riguardano né risparmio né convenienza, e restano dovunque un mistero da indagare e un dramma escatologico. Resta un altro mistero la quantità impressionante di centrali fatte in Giappone (più di cinquanta dove ancora fa vittime il Dopo Nagasaki-Hiroshima). Disciplinati troppo, passivi troppo, uguali troppo, questi sconosciuti giapponesi, oggi attanagliati tra Fukushima e tsunami.

Che vogliano, per la seconda volta, lanciare al mondo un avvertimento?

Quanti occhi aprirà il rogo appestato di Fukushima?


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« Risposta #26 inserito:: Aprile 05, 2011, 11:26:39 am »

5/4/2011

Dal mare il pericolo senza nome

GUIDO CERONETTI

Tento di dare un’opinione-pirata.
Non ho prove provabili, ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali. Uno di questi è la talpa di un celebre racconto di Kafka. «Si crede di essere in casa propria, in realtà si è nella loro». Esempio strategico pregnante: la linea Maginot aggirata, nel 1940; in quel momento i tedeschi erano già a Parigi. Ebbe inizio una convivenza tragica, finché la talpa si riscoprì uomo.

Un elementare senso del pericolo (territoriale, identitario, genericamente nazionale, e in questo caso anche religioso) dovrebbe suggerire la semplice idea che, quando gli sbarchi sulle coste italiane diventano di migliaia, si pone un problema di difesa militare. Quello che è strano, in questo dramma dell’assurdo, è che si invochino aiuti e scatti di alleanze per prenderne sempre di più, per predisporre modi di accoglienza e non per stabilire e proteggere - umanamente ma fermamente - un confine militarmente invarcabile. Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro. Non si danno vuoti disoccupati, né occupazioni innocenti o neutre. Gli stessi Stati Uniti temono e sempre più, inesorabilmente, temeranno, l’occupazione ispanica, che ha messo l’Arizona (immensa Lampedusa) in legittima fibrillazione.

Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?

L’orecchio nella pulce è che questa cadenzata partenza tunisina di una flotta da sbarco squisitamente islamica (compresi eritrei e somali), sia stata pianificata, per l’occasione prevista della rivolta tunisina, resa magnifica dalle imprevedibili rivoluzioni che scuotono il Magreb e tutta l’Arabia, e hanno schiodato Israele dal suo ruolo fisso di centro di una «questione mediorientale» stanca di essere diventata uno sgangherato luogo comune.

Pianificata: non si sa da chi, ma abbiamo, credo, dei servizi segreti con antenne riceventi mondo, in grado di saperlo, se le cose stessero così. Il mio non è che un sospetto fondato.

Il popolo che sbarca è di uomini validi, tra i diciotto e i quaranta, che pagano un esoso biglietto. Le donne sono rare ed è facilissimo metterne qualcuna per la commozione, possibilmente incinta, in Paesi dove né le donne né i bambini contano troppo. In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano... Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco. Allora, c’è un plausibile scopo? Portare scompiglio politico e sociale in una Italia afflitta da sgoverno cronico? Saldarsi ad una comunità religiosa islamica preesistente già forte di voce, e da tempo? Azione in vista di un sogno, che potrebbe prendere corpo, di califfato europeo in cui l’europeo autoctono diventerebbe dhimmi (cristiano o ebreo tollerato, pagante tassa)? Italia come prima e più fragile preda?

Insediamenti destinati a fissarsi, di cui una o più mafie sarebbero pronte ad approfittare? Rendere incontrollabile (del resto, già lo è) la spesa assistenziale di uno Stato ad economia sbaraccante? Puoi pensarle tutte. La verità, nelle predicazioni unanimemente buoniste, è certamente impossibile trovarla.

Un pescatore di Lampedusa ha detto, all’inviata di una radio, un lapidario «siamo in guerra» (senza il come) che riassume bene la situazione. I danni alle barche e le aggressioni per rapina non invogliano la gente ad offrire il pane e il sale. E la soluzione del governo, dominato dai vantoni celoduristi della Lega, e promossa dal loro stesso ministro dell’Interno, è sconcertante: lo sparpagliamento lungo tutta la penisola della promettente piena umana in arrivo mediante una flotta di mezzi navali. L’identificazione delle singole persone essendo impossibile e scarso all’estremo il giubilo degli italiani, le isole concentrazionarie previste si possono fin da adesso configurare come disastri di una guerra senza combattimenti, inaudita finora nella storia del Centocinquantenario. Un paragone classicissimo è la faccenda del cavallo di legno che sorprese l’eccessiva credulità dei poveri Troiani, che per metterselo in casa avevano addirittura squarciato le mura.

Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.

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« Risposta #27 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:40:29 pm »

29/5/2011

La parola politica specchio del nulla

GUIDO CERONETTI

Parlare non è emettere parole. Se si pensa quel che si dice, c’è da ammutolire.
Il politico, avendo perso quasi dappertutto il rapporto tradizionale con l’azione, emette parole, ed è questo il principio e la fine del suo agire. Il mondo viene modellato e organizzato a partire da enormi enfiature di parole che surrogano l’azione - che non compiamo più - e che il capo politico ha compiuto talvolta prima di esercitare un potere fatto esclusivamente di parole il cui fondamento è meramente grammaticale. Mussolini, dopo la Marcia - in verità, non avendola materialmente fatta, fin da prima, dal 1919, diventato lui stesso gigantesco silos di parole, organizza il mondo emettendo dei battaglieri, cadenzati e a loro modo efficaci reggimenti di fonemi.

Il caso Berlusconi è straordinariamente emblematico. Dietro di sé non ha mai avuto un agire: fin da subito organizza il mondo aziendale attorno a sé adoperando esclusivamente lo strumento parola, di cui non conserva neppure la superficie semantica - gli basta la pura struttura sintattica-grammaticale. Attraverso la macchina dell’industria di trasformazione televisiva, dal mondo aziendale passa, con estrema facilità, ad organizzare il mondo di una nazione come l’Italia, già resa frolla da migliaia di trasmissioni, e in brevissimo tempo, con una campagna elettorale compiuta a passo di corsa, l’Italia violentata magicamente e resa madre di nulla, madre delle stesse parole che in giudizi e pensieri saranno state emesse dai teleschermi.

Si spiega l’indifferenza berlusconiana per i significati, il contenuto magmatico delle sue parole di difesa, d’attacco e di smentita del tutto privo di sostanza e di valore morale. Semanticamente, le sue parole non vogliono significare nulla, come non vogliono significare nulla quelle di chi rimprovera a lui il nulla del suo significare. Tutti possono dire qualsiasi cosa: la forza delle parole sta tutta, terribilmente, nel loro scorrere e affluire alle menti, anche le più intelligenti (nota bene!), e persuaderle di qualche verità inesistente, in quanto mondi di parole, architetture di franamenti silenziosi.

Nella realtà inesistente delle parole che non hanno peso né significato, sebbene possano seriamente essere captate, discusse, proposte come se ne avessero, Berlusconi non è affatto un’anomalia. Giudicare che lo sia è un’obiezione simmetrica di un contrasto che patisce della stessa privazione di significato. In questo senso, Berlusconi non ha (né potrà mai avere) vera opposizione. Vivrà politicamente ben al di là del suo stesso tramonto.

Un parallelismo estremamente indicativo ce lo dà oggi lo stesso presidente degli Stati Uniti. Se misuriamo il discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln a un qualsiasi intervento oratorio di Obama, intravediamo l’abisso tra la parola che significa e crea mondo reale, e quella che propaga messaggi che colpiscono, attraggono voti, capitali, ovazioni, commenti mondiali, analisi critiche, senza mordere realtà gravida di strati, senza organizzare il mondo come a Gettysburg, rivoltarlo de profundis, o anche, semplicemente, mantenere una promessa elettorale. Obama è il primo presidente degli Stati Uniti in cui l’azione appare completamente svincolata dal Dire ed è tutta eterodiretta rispetto a colui che parla.

Un esempio recentissimo: Obama riprende l’utopia adulatrice e triviale dei Due Stati (il Gòlem-Palestina e l’eternamente in guerra Israele) e sorprendentemente rilancia la stessa retorica dell’ultimo Arafat: il ritorno dei confini israeliani al 1967. L’avesse detto Berlusconi si sarebbe detto: va beh, è Berlusconi... Ma Berlusconi sarebbe stato meno imprudente! Non c’è parola in grado di risolvere un nodo così stregato: né patto tra le parti, né interventi di altri a cui non preme che dire senza significare: perciò abbiamo ben più da temere che da sperare. La proposta ventosa di Obama, se fosse obbedita, porterebbe drittamente al suicidio di Israele e al reimbarco sull’Exodus dei superstiti. Perché farla, buon uomo?

Una lingua senza più ormeggi, senza misura né controllo etico serrato sfocia, nell’agorà politica, giudiziaria, scolastica, in un bacino d’incontinenza verbale, in fradice sequele di dichiarazioni insensate, di propositi assurdi, di smentite e rinnegamenti a ruota di qualsiasi cosa sia detta o pronunciata pubblicamente.

L’insignificanza non è innocua; quella di cui soffre il dire non è episodica; sono colpi di scure ripetuti ai piedi dell’albero Ragione. Quando non prevale che il luogo comune e il sermone corre su binari che sembrano rassicuranti perché privi di novità, allora si affaccia il Pensiero Unico e ci manetta tutti, dai capi dello Stato e del Governo al cancelliere di Tribunale, dal padrone onnipotente della televisione al rincoglionito d’ospizio, dal sindaco al barbone, dal cardinale al famelico sbarcato.

Nei reni del Pensiero Unico si annida una violenza totalitaria metastasica, impaziente di qualsiasi ostacolo (legale, tradizionale, nazionale, ecologico), adattabile ad ogni tipo di regime, che bene o male spacciandosi per neoliberalismo economico trova il suo micidiale strumento pervasivo nel linguaggio politico e di relazione che, ripeto, non ha fondamento reale e non significa che se stesso - figlio di Beliàl, dice la parola scritturale, cioè del Nulla come entità maligna.
L’unica buona regola è diffidare sempre, non credere a nessuno, rigettare ogni predica, il consenso autorevole, l’assoluzione dissolvente...

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« Risposta #28 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:09:45 am »

2/11/2011
 
Per ben celebrare la festa dei morti
 
GUIDO CERONETTI
 
D’istinto le folle celebrano la Festa dei Morti il primo di novembre, invece del 2 di novembre prescritto dalla Chiesa, oggi specialmente col ritorno inaspettato di Halloween, via America e New Age, la festa celtica druidica dei Morti, per tenerli legati in vista di catturarne energie benefiche, e propiziarseli tanto da impedirgli di spruzzare sui vivi le malefiche non raggirabili. La Chiesa ha dedicato a tutti i Santi (Ognissanti) il giorno della festa pagana, senza riuscire a separarla dalla data che la segue, per l’eccessiva, credo, vicinanza di giorno. Ma è alla vigilia dell’Ognissanti, che il commercio floreale destinato esclusivamente a marcire nei cimiteri raggiunge il suo acme. Io ho ricordi d’invincibile malinconia infantile delle sere di primo novembre nei Trenta, in cui ero obbligato a recitare il rosario in un latino storpiato come un cavallo zoppo insieme a sette/otto persone di famiglia e ad un cugino maleamato, mentre la città era avvolta nel nebbione. In realtà non capivo bene che cosa fossero i Defunti, salvo che i nostri, della famiglia, per lo più durante l’anno commemorati con squisite maldicenze, da farteli detestare ad uno ad uno, erano tutti finiti tra le braccia di Gesù, probabile abitatore della luna o di astri anche più vasti per contenerli tutti, i Defunti della terra tolemaica, che i migliori di terza elementare a malapena concepivano gonfiata da Copernico. Seguiva una cena, autentico banchetto funebre da bassorilievi arcaici, dove alla fine apparivano i dolci più indigesti, più devastanti, del repertorio dolciario nazionale: i Marrons Glacés. Dopo aver degustato una buona manciata di Terra dei Morti, il Marron Glacé ci indicava la strada per arrivarci prima del tempo.

I nati oggi adolescenti celebrano come uno scoppio di pura festosità Halloween, la vigilia di Ognissanti, senza capire perché sia di precetto la Messa, e poi tutta quella mestizia cimiteriale. Il milanese l’è l dì di mort, alégher! non è ironia esorcistica, ma esortazione a contagiarsi con reciprocità di allegria, come nella tradizione sudamericana, introduttiva dell’estate.

Ma bisogna liberare dalla tradizione cimiteriale il meraviglioso e annunciatore di vita fiore del crisantemo, il fiore aureo degli intelligenti (a quel tempo) Greci. Il crisantemo a corolla grande (se la corolla è piccola ne calano significato e prezzo) è ornamento delle case e calamita di felicità sui vivi e offrirlo nelle sue varianti di bellezza alle persone amate, e dono da accogliere obbligatamente con gioia e con gratitudine.

E bisogna anche ficcarsi in testa che non esistono fiori dei morti: sono fiori dei morti quelli del 6 agosto 1945 che a Hiroshima e dintorni stavano ostinatamente fiorendo, sono fiori dei morti i fiori che le nostre immani devastazioni bloccano nei terreni contaminati e desertificati.

Flores para los muertos ripete la vecchia fiorista ambulante nel Tram di Tennessee Williams: ma quella figura che passa è la Morte stessa e tutto quel che smercia ha lo stesso significato, vendesse pure conchiglie, tinche, conserve o, peggio, uova: è consigliabile da lei non comprare niente, e se cerca di vendervi crisantemi da portare ai morti è per oltraggiare le tombe che ha inventato e dappertutto sparso. Le Messe che si celebrano il 2 novembre «per i morti» le sopprimerei volentieri, fossi Papa, perché mal collocate e superflue. I Mani, come infallibile recita la quarta di Properzio, sono qualcosa , ma al di là delle sepolture i riti non li aiutano: sono già aiutati, e il troppo ricordarli gli nuoce nei loro cammini. «Io non sono qui» si è fatta iscrivere una grande voce sul suo sepolcro mantovano - l’attrice Nella Bonora: non essere più là , anzi mai stati là non equivale a non essere più.

Tuttavia, come i Mani, anche le tombe sono qualcosa. E le terragne, sgombre di monumento, Dante dice che «solo a’ pii dan ne le calcagne» e nel carme foscoliano Dei sepolcri c’è ancora di più. Le tombe hanno una vita propria e certi grandi nomi gli conferiscono più anima. Credo a loro convenga sempre, in ogni stagione una solinga rosa. Lo sfregio, l’oltraggio, la vergogna dei nostri cimiteri sono i fiori di plastica! Se i morti sputassero gli sputerebbero dentro, furiosi e ostili. Sulla tomba col nome di Baudelaire, nel cimitero di Montparnasse, una volta all’anno, io portavo una rosa.
 
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 25, 2011, 10:47:18 pm »

25/11/2011

Istantanea di un mostro: spread

GUIDO CERONETTI

Più vorticoso del gorgo di Lofoden di Edgar Poe, più schiacciante dell’Incubo di Füssli: SPREAD

Questa parola di una lingua che sta a poco a poco prepotentemente scacciando la nostra (e pagheremo caro il rifiuto di difenderla dallo stupro), nel suo idioma d’origine significa innocentemente diffusione , espansione e altre cose. A stravolgerla è stato il gergo della Borsa americana: e qui il mio rifiuto di tuffarmi in questo ignoto dalla brutta grinta mi impedisce di inseguirla nei suoi significati, che inquietano e spaventano la povera e pulita gente alla quale desidero fino all’ultimo appartenere. Non mi occupo di Spread, ma di destino umano.

La vecchiaia non è una meringa. È più indigesta dell’olio di merluzzo. Ma, come l’olio di merluzzo contiene una vitamina delle più preziose e rare: ti toglie una quantità di preoccupazioni del domani, ti fa sorgere spontanea l’adesione alla massima evangelica: «Basti a ogni giorno il suo male». Il male di ogni giorno ride di quel che sarà lo Spread del giorno dopo e di quel che sarà in un inesistente domani il futuro pensionistico di figli spesso ancora in mostra sul passeggino. Sciaguratamente, l’ossessione di una Economia che non ha il minimo aggancio col significato della sua origine greca («legge della casa»), che non entra nelle case, che è una mera astrazione, una ipotesi contraddittoria e sposta capitali enormi attraverso onde improbabili immaginate al di là dell’orbita - capitali che sono vuoto su vuoto, pur facendo impazzire gli Stati, le più potenti come le più franose nazioni. Ma i calcoli sono fatti da macchine onnipotenti, che danno vita a statistiche che pochi soltanto ritengono di saper interpretare. Ma le percentuali, che ci vengono presentate inoppugnabili, che oracoli sono? Non sono povere Pizie senza il Dio, Pizie da marciapiedi?

Mi capita di ascoltare, a tavola, tra mezzogiorno e l’una, la trasmissione dell’ottima Radio Ventiquattro Salvadanaio , che mentre annaspo in un convito di solitudine, mi procura la viva felicità di sperimentare come tutto, dico tutto, senza residui, di quella trasmissione, che tratta temi economici ravvicinati all’odierno modo di esistere, mi sia meravigliosamente indifferente. La conduttrice Debora Rosciani domina le materie astruse di cui si occupa con una fantastica disinvoltura di competente che non ne lascia fuori neppure una briciola. Non l’ho mai vista, ma la sua voce m’incanta, mi calma anche quando riflette violente perturbazioni al di là degli spiccioli. Per lei Spread non ha segreti, lo srotola come un tappeto davanti a chissà quanti ascolti, e io non ci leggo che lo Havèl havalìm del mio vecchio amico biblico Qohélet: «fumo di fumi, tutto non è che fumo e vento che ha fame».

Mi appassionano le voci ansiose del pubblico telefonante e mailizzante: «Devo investire in Australia o in Uzbekistan?» - «Ho una casa a Berlino: la scambio a Milano con un garage?». Il cuore delle ansie sono le banche, ma Debora distribuisce i suoi salvagenti da tutte le sponde: viaggi a basso costo, riscaldamenti, liti di condominio (il più tristo modo di abitare: l’inferno sono gli altri: fuggite il condominio e gli amministratori - nota mia), supermercati, saldi stagionali, rimborsi, tasse. Dalle domande assente cronico è la perplessità circa pezzi della terra che ci nutre, passaggi di poderi, uso e abuso dell’agro, dove chi ci sta ignora se il successore sarà un figlio o un costruttore-distruttore della vita. Anche questo è significativo: il denaro non ha altro fine che il denaro: le ricette Rosciani, o di ogni altro esperto, si fermano lì, dove l’infinito Nulla ti agguanta.

Immune dal comprendere Spread (meglio un etologo di un filologo) devo tuttavia confessare che un certo allarme mi serpeggia per l’euro. Incoraggerei chiunque lavori per il suo mantenimento, ma non ne ignoro l’intrinseca debolezza, l’esposizione ai raggiri, alle truffe mondiali, e la sinistra inclinazione a gonfiarsi. Ricordo la prima percezione di imbroglio rassodabile nell’Italia (1999? 2000?) appena entrata nella Zona Euro, ascoltando un imbonitore che il giorno prima svendeva tutto a mille lire, battere la sua merce a un euro soltanto uno! uno! uno! e la gente cascarci, felice di spendere uno invece di mille... Già, ma un euro non corrispondeva a mille - ma a quasi duemila. Il gioco era fatto.

Oggi l’euro è forte a Babilonia e a Samarcanda, e addirittura a Washington, a Wall Street: ma quanto vale a Roma, a Parigi? Quanti ne devi tirar fuori per un kg di cavolfiore o una tariffa medica non mutuata? Nell’esistenza minuta e sminuzzabile, l’euro è debole. Con un euro fai l’elemosina minima a un suonatore benemerito di strada, ma se vuoi vederlo sorriderti torci il collo alla tirchieria e con delicatezza deponi un cinque nel cappello.

L’euro è debole nel cavolfiore perché l’Europa unionista è partita dalla fine (la moneta) e non dal principio classico, l’urgenza strategica. Dall’ano e non dalla testa. Era il buon momento quando il progetto di una comunità di difesa andò in frantumi per refrattarietà idiote nazionali: la CED sarebbe stata una buona partenza. Cesare non romanizzò le Gallie con i sesterzi ma con le legioni; né gli Stati Uniti cominciano col dollaro, né i cantoni svizzeri furono tenuti a battesimo dai banchieri ginevrini.

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