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« inserito:: Febbraio 14, 2009, 12:08:17 pm » |
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14/2/2009 Eluana e gli stormi di avvoltoi GUIDO CERONETTI
Non permettiamo che si raffreddi. Il caso Englaro va riattizzato costantemente: che davanti a quel Golgotha arda un lume sempre. Tutti dobbiamo gratitudine a quella vittima sacrificale e alla sua famiglia: perché la passione civile non finisca in una cloaca e la passione etica e religiosa trovino altre e ben diverse, e superiori, vie.
Si sono visti stormi di avvoltoi, sulla breve agonia di Udine, scendere in picchiata a disputarsi i resti di una creatura disfatta e sfamarsi a beccate ignobili di qualcosa che già più non era e che altro non aveva da offrirgli, tetri pennuti ciechi, che carne di sventura.
Tale lo spettacolo, da iscrivere nel tragico delle cronache italiane che non avranno uno Stendhal per trascriverle. L’Italia, se qualcuno vorrà capirla sine ira et studio, non è un luogo pacifico, non è una penisola turistica, non è un animale da stabulario economico - l’Italia è, è stata sempre, una città di risse feroci, di brigantaggio, di vendette, di medioevi e di cattivi governi. Gli avvoltoi, che non si annidano soltanto sulle torri dei Parsi a Benares, hanno voliere, spalti, e più d’una cupola anche a Roma, e non c’è televisione o campo di calcio in grado di oscurarne la presenza e il volo. Qua, dunque, non si può vivere avendo per fine esclusivamente il far soldi e pensare alla salute. Qua si nasce perché l’Italia ci faccia male, ci ferisca, ci sia una madre crudele, inzuppata di sadismo. Vederlo o non vederlo: that is the question.
L’imbarbarimento di profondità, progressivo, non è da statistiche. Puoi vederlo chiaramente anche lì: nel pullulare di cure mediche di spavento, nell’ignorare i limiti sacri della vita, i diritti dei morenti e di «nostra sirocchia morte corporale» - cure di coma irreversibili criminalmente protratti, cure che la tecnomedicina, settorialista e antiolistica, sempre più andrà sperimentando sulla totalità del vivente.
L’Italia debole, che con strenuo sforzo - in cui va compreso il tributo di una risalita coscienza collettiva, di risorse d’anima e mentali inapparenti, antiavvoltoio, di pensieri silenziosi ma renitenti ai ricatti e alle violenze verbali dell’estremismo cattolico, materialista e anticristico - ha liberato dalle catene Eluana, è un resto di Italia dei giusti, di Italia che sa giudicare umanamente e cerca la libertà nella legge, che non accetta che l’impurità più grossolanamente sofistica prevalga sulla verità semplice e pura.
Dobbiamo un po’ tutti ri-imparare a morire: dunque a vivere e a trascendere la morte. Comprendere l’insignificanza della vita e dell’esistenza materiale è luce in tenebris.
Per chi, pensando, ritenga che la vera salvezza consista nel liberarsi dalla schiavitù delle rinascite in corpi mortali, Eluana col suo lungo martirio avrà meritato la tregua nirvanica, e non tornerà in mondi come questo a patire sondini e beccate di avvoltoi - condannati, per loro intrinseca natura, a commettere empietà.
Da cristiani autentici si sono comportate le Chiese evangeliche: schierate dalla parte di Eluana, hanno voluto ricordare che un essere umano non è soltanto un aggregato scimmiesco di funzioni e che è delitto tradirne l’anelito al padre ignoto al di là del finito.
Il combattimento spirituale è brutale. La meno ingiusta Italia, che assumerà Eluana per segno, non deve temere di accettarlo, di restare unita, respinto l’avvoltoio, per la pietà e la luce.
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 08, 2009, 11:17:44 am » |
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8/6/2009 Nelle urne la paura dell'Islam GUIDO CERONETTI Circa le future generazioni europee niente potrebbe importarmene di meno. Aver vissuto consapevolmente in buona parte del secolo XX vuol dire che di cucchiaiate amare se ne sono ingoiate abbastanza: tuttavia si può sempre immaginare che il prossimo futuro ne stia preparando, nella sua indecifrabile cucina, di più amare ancora. E chi vorrebbe che agli appena nati e ai nascituri nelle nostre vecchie nazioni fossero riservati cammini facili, offende scioccamente il destino umano.
Almeno, è possibile prevedere, con sollievo, che di guerre intraeuropee non se ne faranno più, e neppure di euroturche, senza per questo che il Pólemos, il Contrasto, si metta a ronfare - impensabilmente.
Scrivo questa nota in giornata ancora elettorale in Italia e altrove, e nel voto di tanti popoli diversi un significato, determinabile sotto la superficie dall’inconscio collettivo, si manifesterà nel suo profilo d’ombra, e «ivi trarrem gli auspici» se vorremo scrutarne i visceri.
La coincidenza: elezioni europee e discorso del Cairo di Obama è la prova che Pólemos non si addormenta mai. Il trionfo islamico di Obama cade in un riflesso di reazione di Europa extramediatica che è di paura. L’eco trionfalista-pacifista dei giornali non è lo stesso della gente che non ha voce, ma cui è data in mano una scheda elettorale, infimo barlume di un potere sovrano che i poteri veri e prevalenti calpestano. La scheda può esclusivamente valere da spia, senza influire su niente. Ma non è poco già arrivare ad intravedere qualcosa, nella danza del Dato.
La paura, sotterraneamente risentita dopo il nobile, generoso e non generico discorso del Cairo, è di essere abbandonati dall’America di fronte all’inflessibile procedere dell’islamizzazione europea. E questa sta avvenendo con l’attiva collaborazione della Chiesa cattolica (per motivi bioetici, per orrore dell’avanzata laicista, per inaudito disperato progetto di una futura spartizione religiosa, tra monoteismi, dell’influenza sulle anime umane: cave vaticanum). Se l’Europa (singole nazioni o ectoplasma di Strasburgo che potrà addirittura un giorno farsi corpo di sostanza) pensa di contrastare l’islamizzazione appoggiandosi ai partiti di obbedienza tacita o aperta alla Chiesa cattolica, è bene sappia che sono cadute da un pezzo le mura di Vienna e spento il fuoco greco di Lepanto: la cupola di San Pietro nasconde una colonna di sabbia. In-sha-allah...
Dagli ultimi due papi viene la consapevolezza che l’Islam è vincente. (Il papa Ratzinger si è arreso subito dopo il pallone-sonda di Ratisbona). Ci sono oscillazioni in questa certezza pessimistica, ma la determinazione politica mi pare segnata dal «salvare il salvabile». Si ripresenta la scelta tragica di Pio XII: meglio Hitler che Stalin. Per Benedetto XVI è: meglio l’Islam che il controllo delle nascite, che una Europa giacobina, che i matrimoni gay, che una sfrenata (siamo appena agli inizi) libertà e rivincita matriarcale delle donne. Se è messa in dubbio la patriarchìa, la Chiesa drizza muri e l’Islam fa guerra. (La loro alleanza non è innaturale).
Tolta qualche collaborazione tra polizie nazionali, l’Europa si è voluta finora spensieratamente disarmata. Per quale protezione sovranazionale la gente vota? Dappertutto il gigantesco euromollusco si presenta senza frontiere, di terra e di mare. Le sue navi da guerra, costosissime, munitissime, contro i pirati non sparano neppure un colpo da tirassegno! A tutto quel che è uso della forza l’Europa fa obiezione di coscienza: e senza questo uso triste non si fonda né uno Stato né, tanto meno, un Sovrastato. Chissà: forse aspettano di delegare ogni difesa armata ai Turchi, non obiettori.
Se, votanti o astenuti, gli euroelettori obbediscono a un riflesso di paura che non ha nulla a che vedere con le ossessioni inoculate dai poteri economici, vuol dire che sono tutt’altre le loro motivazioni profonde, e che la paura autentica - quella eterna dell’animale debole minacciato - non è addormentabile con prediche svianti.
In verità, gli eventi incalzano talmente, s’intrecciano così bizzarramente, che le anime tramortite o morte che andranno ad occupare quei seggi d’aria difficilmente avranno il tempo di trasformarsi in uomini e donne veri, di far sorgere in mezzo a loro un capitano Mac Whirr, l'antipatico di Tifone di Josef Conrad. da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 17, 2009, 06:00:01 pm » |
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15/7/2009 (7:56) - LO STUZZICAVENTI
Quante bugie sui vecchi La vita si è allungata molto, ma la solitudine non dà scampo Allontanare la morte a ogni costo è un miraggio. E che la vita si sia allungata non è una fortuna
GUIDO CERONETTI
Va considerato oltraggioso un avverbio che viene inesorabilmente interposto nella ripetutissima frase, quando si tratta vecchiaia e vecchi come «problema sociale» - eccola: «La vita, fortunatamente, si è allungata molto». Al suo posto, sarebbe adeguato un purtroppo, ma il coraggio, l’energia vitale della verità manca talmente al linguaggio comune da non far sperare che si ficchi una volta tanto nell’uso. Per me, che non ho voglia di mentire, vale il purtroppo.
Si cerca di tamponare la faccenda, quanto al problema sociale, moltiplicando le attenzioni dello Stato assistenziale; quel che le vanifica in buona parte è la quantità enorme di vecchi che con poche varianti d’anni entrano a far parte dello stuolo dei predestinati ad invecchiare, ignari spesso, per altre distorsioni prodotte dal linguaggio traditore, di quel che li aspetta. Allontanare la morte ad ogni costo è il miraggio unico di questo sprofondamento nel sottosuolo della menzogna.
La demografia scientifica contiene una falsificazione basilare, oltre al fluttuare delle statistiche: non tiene conto che i vecchi consumano di più di ogni cosa, acqua specialmente, risorse alimentari (la tristezza senile rende mangioni), medicinali di ogni specie, energia di riscaldamento, trasporti, denaro pubblico. Aggiungi, incalcolabile, eco-non compatibile, il consumo di affetto, dato ai vecchi per pietà, dovere, tolleranza, avarizia, una nuvolaglia di vapori neri gravanti sulla vita associata peggio delle emissioni di anidride. L’affetto va risparmiato, perché se lo diamo a rubinetti aperti la terra ne resta asciutta: lo si lesina ai vecchi, d’istinto, perché ne resti un po’ di più ai bambini.
Nelle antiche comunità perdute (tra cui Atlantide) i vecchi si sacrificavano per la tribù e andavano incontro alla morte nelle foreste - ma l’Io non era ancora apparso, e non ci sono più abbastanza foreste, specie incantate, per assorbire tante vecchiaie. E nelle giungle d’asfalto ci ritrovano subito e ci danno del disertore. A Tolstoj riuscì il colpo, ma il filo del Telegrafo lo riacchiappò a Ostapovo. Inoltre, socialmente, una quantità di vecchi non sono ancora affatto inutili e il Mercato dell’a-buon-prezzo li spia.
È psicologicamente e individualmente che la grande Pandemia di sopravvivenza, cominciata all’incirca alla metà del XX secolo, s’impagina con inedita crudeltà nei moderni contesti del Tragico. La sua maschera dolente si scontra con una feroce inaccettabilità che la nega: sempre più zittiti, ai vecchi viene imposta un’anagrafe falsificata, un’identità non corrispondente, un volto da lifting interiore, che piace al cretino («Ma che bella faccia! Va là che stai bene! Dai dei punti ai giovani!»); i pugnali congiurati del Luogo Comune trafiggono il tuo autentico esserci di persona umana, che non può e non vuole essere Quello che si vuole lei sia, e che pretende l’inquisizione degli ottimisti, una irrealtà di costruzione medica e di finta premura sociale, un raccapricciante «diversamente giovane», ma semplicemente e umilmente un corpo vecchio, che vive arretrando, come sa, come ci riesce, e in cui il pensiero della morte non osa più dirsi, per la brutalità della repressione linguistica, liberatorio e di speranza.
La vecchiaia per antonomasia, la realtà senile che ha più parentela col Tragico è la maschile; non ci sono due condizioni uguali: le donne sono favorite dalla diversità sessuale e mentale. La donna vecchia ha ancora forze sufficienti per consolare la vecchiaia dell’uomo vecchio.
Non sono paragonabili le due solitudini. Chi ha avuto e perso una compagna amata è infelice allo stato puro. Portagli pure a casa la zuppa calda: potrebbe venire dallo Chef Premio Nobel più ispirato, non ne scalfirebbe l’infelicità neppure per un minuto. Fin che può la vecchia signora allontana la pena occupandosi della casa e di attività sociali; il vecchio gentleman mangia pane di ghiaccio solido. Se è colto, gli restano i libri; certamente non la televisione (vedi il romanzo breve di Simenon, Il Presidente, perfetta radiografia di una vecchiaia molto ricca e molto bene assistita). Osservate nelle case di riposo le facce degli uomini e quelle delle donne, quando non siano spente dalla malattia mentale: nelle donne sopravvive sempre qualcosa di ilare, di facilmente appagabile, un’onesta rassegnazione che per pudore non si manifesta; l’uomo nel suo avvilimento è senza misura, nei suoi tratti si esprime uno stato di desolazione indeterminato, senza confini. In genere socializzano poco, sono dei manichini, dei tubi digerenti orbi di digestione. L’uomo vecchio sente sempre che il suo incontro con l’esserci è stato un fallimento, che è mancato all’appuntamento con quel che è più alto. E rimane muto, davanti a tanta sciagura, mentre gli altri chiacchierano e chiacchierano, impotenti a capire.
L’essenza del Tragico maschile è la privazione di appagamento. Con molta cautela Sofocle ne fa intravedere un modo al termine dell’Edipo a Colono, Victor Hugo lo vede nella morte del Giusto che è Jean Valjean. Nelle tremende solitudini sovraffollate di vecchiaie in eccesso delle nostre giungle metropolitane, però, restano all’esterno le redenzioni trasmesse dalle nostre carte esemplari.
Anche la maialità senile è enigma e dramma maschile. Ricordo un filosofo di cui ammiravo la dottrina: seppi che, da pensionato, restò fino alla morte tuffato nell’Osceno. Alle donne niente di simile potrà mai accadere. Ma la maialità dei vecchi che perdono il controllo (così si dice) non ha spiegazioni facili. Il vecchio perde il ritegno più per disperazione che per vizio, in specie dopo una vita irreprensibile, non può far conto di corteggiamenti, sbatte nell’impotenza. La perdita totale di rapporti con gli accessi ad altri mondi e con il Dio Ignoto, fracassa le dighe frollite dal cumulo d’anni.
E la moltiplicazione dei vecchi dissemina fortemente, coperto o manifesto, maialismo senile. Le innumerevoli ipertensioni domate non fanno precipitare in una pornofilia indomabile? Il geriatra allungando (altro non può fare) la vita, prescrivendo farmaci sgattiglianti, perché non dorma «il garrulo eremita», e nello stesso tempo antidepressivi e sonniferi, non allunga anche la torturante altalena degli affanni sessuali maschili al di là del segno di un decente traguardo? Volete che le carrozzine dei centenari, davanti ai sexshop dei più disumani paesaggi urbani, facciano la fila? Non sarebbe il diavolo a sospingerle là dentro?
La némesis-natura risponde colpo su colpo a tutti, nessuno escluso, gli oltrepassamenti di limiti, che diventano, in un granello di filosofia, altrettanti modi predestinati delle oscure espiazioni metafisiche da cui si origina la vita (Volontà schopenhaueriana o qualsiasi altra forza emanata dai boccaporti dell’Essere). La politica, cieca come uno squalo, balbetta i suoi «fortunatamente» e lo strafalcione delle sue «problematiche», e un famoso pugno-di-mosche è sempre tutto quanto, alla fine, ci resta in mano.
Io, qui, non ho pensato che ad emendare al minimo, di qualche impurità e falsificazione, il linguaggio della tribù.
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 21, 2009, 11:21:08 am » |
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21/8/2009 Oggi mi duole l'Italia GUIDO CERONETTI
Mi duole l’Italia, certamente. Ma non si tratta di un sentimento estremo, gli manca il fuoco della giovinezza. Tuttavia sì - pensare Italia provoca una trafittura strana. Eppure non è in stato di guerra civile, come la Spagna che tanto doleva a Miguel Hernández nel 1938: e lui, il poeta della repubblica agonizzante, la chiama «Madre» - madre España.
L’Italia è, anche per noi, una madre? Può l’uomo vivere senza una Entità materna spirituale, come lo sarebbe una patria? Può restare indifferente al continuo stupro di tale Entità materna e vederla presa d’assalto da ondate successive di violente presenze d’ombra? (Non trovo una definizione meglio precisante, perché nello spirituale non valgono le categorie della nostra inaridita logica politica, invasive di tutto il campo). Però vorrei fosse oggi, questo, un articolo definibile come «politico», adatto a pagine politiche.
E la politica, togliendo di mezzo l’insulso slogan «torniamo alla politica», è un colossale imbuto dove si rovescia di tutto, meno ciò che conta, essenzialmente.
Io ci scopro grandissimi vuoti di eventi, ma l’indigestione degli insignificanti è evidente dai sintomi. Se ti domandi a chi appartenga il potere effettuale in Italia, l’elenco contiene quantità di voci da Pagine Gialle. Alle alte cariche dello Stato? Al Parlamento, disarticolato per servilità verso l’Esecutivo? Ma l’Esecutivo a sua volta è un coagulo di passività verso decine di altri poteri. Alle banche? Alla Chiesa? All’Opus Dei? Alle occulte regìe internazionali della globalizzazione? Allo spionaggio elettronico-satellitare integrale? Alla Confindustria? Ai governatori di regioni? Ai sindacati? Agli antiambientalisti? Ai partiti più votati? Ai narcotrafficanti? Alle incontrollabili multinazionali che determinano dovunque tutto quel che mangiamo? Metterei un sì in ciascuna casella, tenendo conto che il sì è riferito, per ciascuna voce, a una parte soltanto di una spropositata frammentazione. L’imbuto dei poteri si svuota in una immensa discarica attossicante, priva di consistenza purificabile. Come mettere le mani là dentro? Chi se ne incarica? Sarebbe questo il potere del popolo, garantito da una costituzione intoccabile, però spogliata di ogni funzione etica e di presa sulla realtà attuale?
Mi domando se si possa di una tale Italia fare il confronto con la Firenze della Cronica di Dino, giungletta medievale sanguinosa e accessibile da ogni uscio alla Pesta Nera... No, il confronto non regge. In quelle feroci risse civili la città non perdeva il suo sorriso né la sua vivibilità, e le fogne all’aperto dappertutto non ne imbrattavano l’anima. Le città italiane d’oggi invece sono tutte più o meno sotto il segno funesto dell’invivibilità.
Enigmatico è l’Invivibile. Se pensiamo soltanto smog, ingorghi, posteggi, o motociclette e sirene di ambulanze che non cessano mai o ladri nelle case o periferie e quartieri pericolosi, restiamo al di sotto. Queste cose le sa ogni sindaco... L’Invivibile è in realtà immidollato nelle coscienze come nell’inconscio degli abitanti, impipistrella le scale e gli ascensori dei condominii, e provoca (al 90% su per giù) frane di autentica cittadinità, senza rimedio. Il nostro specifico Invivibile è Alzheimer urbanizzato.
L’abitante - meno cittadino che residente - non torna a casa: nel suo entrarci è come un animale braccato che si rintana, un tale che rientra per farsi accogliere da cagnolini ignari e da gatti castrati: pur non dormendo solo è una scheggia sperduta di solitudine. Cosa può fargli un romanzo nero o una digitale a colori, o una famiglia ubriaca di Rete? E’ nella vivibilità dell’insieme e della coppia, è nella prossimità degli alberi, è nella vivibilità metafisica che oltrepassa le barriere immonde del finito e della morte il rubinetto dell’Aperto e della speranza!
POLITICA - sordità e cecità croniche, barili vuoti, da cui non possiamo ricavare più niente, neppure psicofarmaci overdose di parole, perché nei suoi linguaggi le parole non corrispondono a nulla. Politica, miseranda politica, che cosa ne sai di questi tuoi elettori ovviamente fatti per essere traditi, figli in angustie di una Italia disonorata? E se sono contrario a fare nomi di responsabili, è perché sento profondamente che la responsabilità è di tutti.
La fama di Paese festoso e allegro non è giustificata: da sempre questa è l’Esperia, la terra musicale della Sera. La vera Italia non è un dépliant turistico per attirare denaro. L’Italia si è arricchita senza regole e per restarlo ancora un po’ dovrà sottostare ad antiregole che verranno, sempre più, da altrove, imponendoci una dittatura eteronomica inesorabile nelle scelte politiche, economiche, culturali e perfino religiose. Lo Stato è debole e, sciaguratamente, comprabile. Per farci recuperare autonomia ci vorrebbe una classe politica armata di una spada tre volte fatata e di consenso popolare non fatto di schiene curvate e mani rivolte a frugare nei soldi - un consenso, cioè, impensabile di mezzosanti.
E la stadiolatria nazionale calcistica di tali effetti non ne produce!! Una minoranza di refrattari giovani e di adulti consapevoli non basta, ma già sarebbe da benedire.
L’Italia io la vivo, dicevo, come una Entità materna spirituale che duole a chi è in grado di provare generosità di lacerazioni per qualche cosa che valga davvero: quasi una anomala passione, disperata e sopramischia, da nuovo Risorgimento. Rileggete I Sepolcri e l’Ortis! Rileggiamo l’ultima lettera di Tito Speri!
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 25, 2009, 07:45:44 pm » |
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25/8/2009
Non da oggi l'Italia mi duole GUIDO CERONETTI
Caro Direttore,
sarei lieto di collaborare ogni tanto a questo interessante spazioaperto del nostro giornale, avendone l’occasione. Eccone una: venerdì 21 agosto il mio articolo su l’Italia che «mi duole» esce col titolo inspiegabile «Oggi l’Italia mi duole». Chiunque lavori per i giornali lo sa: da parecchi decenni i titoli, al 99 per cento non sono dell’autore, ma della redazione o della direzione. Ormai la cosa mi è indifferente; stavolta però la modifica, con l’aggiunta Oggi, m’incuriosisce. Oggi vuol dire che ieri l’Italia non mi faceva affatto soffrire e che domani non me ne importerà più niente?
In verità a me l’Italia duole da circa il settembre 1943 (avevo sedici anni) a sì, certo, il 21 agosto, e sono certo che, trattandosi di una ferita metafisica, ben fondata su conoscenza ed esperienza pratica, l’Italia seguiterà a dolermi usque dum vivam, come un disperato amore... E non è per ideologia di destra, o baggianate simili, ma perché è così, per italianità errante, per orfanità di patria politica, per moralità in contrasto, per cuore offeso, per impossibilità di accettare l’incurabilità dei mali di una patria che non c’è (l’insoluta, forse congenita, patologia del tuttora sconosciuto «Risorgimento» del XIX secolo). Il titolo «Oggi» mi ha sottratto tutto questo retroterra e ha reso l’articolo ballerino sul Cronos, fissandolo su una odiernità artificiale, nel mio pensiero del tutto inesistente. Oggi come ieri come domani a me l’Italia duole... Permettimi, amico Direttore, di ribadirlo adesso, e grazie per l’ospitalità.
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:21:39 pm » |
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5/9/2009
Per non fare "tutti gli spergiuri" GUIDO CERONETTI
Caro Direttore, giorni fa, da una simpatica Radio, una gentile voce voleva consigliare agli ascoltatori di «fare tutti gli scongiuri» per non so quale pericolo scongiurabile. Normale; però la poverina ha consigliato di «fare gli spergiuri», cosa per niente encomiabile.
Direi, leggendo e ascoltando dovunque stravolgimenti di ogni genere della lingua comune, che Berlusconi farebbe meglio, invece di trapiantare ad ogni costo Inglese in questo popolo di malparlanti neolatini, di ri-insegnare a tutti l’Italiano, prima che (insieme a molteplici sventure del parlato, come «i più estremi», «le parti più intime», l’attimino di luogo, «e quant’altro», «piuttosto che» nel senso di oppure, «a gratis»...), nel dilagare dell’improprio, gli scongiuri spergiuranti diventino oxiuri, idrocarburi, paguri, e altri simili atti impuri.
Leggevo l’articolo di Mimmo Cándito sulla crisi dei giornali e pensavo che - più che puntare a sostenersi con la pubblicità - bisognerebbe tentare la riconquista del lettore abituale deluso dai giornali o troppo appagato dall’invasione mediatica, e catturare giovani in caduta di alfabetizzazione, proponendogli, in lingua ripulita da anglismi e da sequele di espressioni al limite del confusionale, un ventaglio tematico più interessante, cosa ben diversa dal facile e dalla prevalenza dell’immagine, e lontana dall’attenzione ossessiva per quella triste miseria che è la politica nazionale, ormai fissa al buco della serratura o incatenata alla galera delle percentuali... E in tale ventaglio non trascurerei di comprendere un intervento quotidiano salvalingua, filologico, semantologico, di ricerca, e sempre in stretto contatto coi lettori (ce ne sono a milioni che desiderano parlare e scrivere meglio). La lingua, ritengo, è importante quanto l’ecologia, e più la perdiamo meno morde sulle cose e sulle questioni capitali, nazionali e mondiali, e senza presa di lingua non rischiari né impugni nulla, e si accrescono le angosce senza un immediato perché, oggi attanaglianti tutto e tutti.
Proporrei anche di dare da svolgere temi, di proporre concorsi a premio, di attirare pubblico in ogni modo, di far pensare e far lavorare i lettori. Ahimè, caro Direttore, io sono troppo vecchio e stanco per avanzare il mio nome e dire lo farei io stesso; ma i nomi giusti si trovano, si troverebbero. Difendere - ma subito, con urgenza - la lingua italiana autentica e vivente è difendere la sopravvivenza stessa dei quotidiani che amiamo.
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:36:36 am » |
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19/9/2009
Afghanistan amaro GUIDO CERONETTI
Dopo l’ esperienza di ambasciatore in Russia, Ottone di Bismarck si era fatto incidere in un anello: «La Russia è il Nulla». Proviamoci a dibattere appassionatamente: Afghanistan dice qualcosa? Muove emozioni collettive condivise? Volendone parlare ne stringo tanto poco da non poter premettere che questo: Afghanistan è il Nulla. Ci sono altri Nulla, nel mondo, ma isoliamo questo.
Tutti lo nominano o ne hanno sentito dire, ma l’intrepido giornalista che ancora va e viene tra Kabul e Pakistan, o il militare che conosce il terreno e quel che ci sta sopra, richiesti di definirlo, immagino risponderebbero Caos, per significare Nulla - perché il caos non è, in logica, qualcosa. Bello è geopolitizzare da Milano, da Roma, da qualche Saxa Rubra, ma l’Informazione non è Conoscenza. Qualche sensibilità di un pericolo vago, di un’America che non trova una via d’uscita, di una Nato nella gabbia di vetro celebre di Marcel Marceau... la materia del commento non ne sconfina. Si può con giustizia dire, soltanto, come il vecchio canto toscano della Maremma, che è un Afghanistan amaro, dove nessuno di noi andrebbe ad abitare. E neppure a cercarvi il combattimento perché il combattere classico é morto da un pezzo. Resta aperta la possibilità di morirci senza aver sparato un colpo. Così i militari, nel nulla afghano, si perdono nell'indistinto delle vittime civili. Mi fisso dunque un tema di cui non so dire, certo che la verità sia questa, per tutti, quando si affrontano i guazzabugli insolubili.
La situazione: cosa ci dicono le Agenzie? Oggi trenta, cento morti in attentati suicidi (ormai fuori da ogni connotazione morale). Donne che smettono il burqa o tentano di imparare a scrivere, ripudiate, torturate, massacrate «per religione». La grande America e un campionario di quelli che furono i più temuti eserciti del mondo tenuti in scacco dai fanatici che credevano di avere battuto in una rapida gesta di guerra elettronica: otto anni così. Otto, finora - e poi? Soldati che muoiono miserabilmente, senza poter combattere, su mine, per colpi di mano, cecchinaggio. L’unica offensiva di cui sono capaci «i nostri» sono le bombe dal cielo: un modo certo per andare in perdizione, il nemico sfugge acquattandosi, i civili fuggono terrorizzati e tornano per contare i loro morti, creazione dell’abbominevole Fuoco Amico.
Le scuse diplomatiche e addirittura alle famiglie degli uccisi da parte dei Fuochi Amici quando la strage maldestra è grossa sono un intollerabile obbrobrio - ma su queste sponde sicure l’effetto, generalmente, è di un delizioso farmaco contro l’insonnia. Afghanistan amaro. Anche come porto d’imbarco della Morte, che punta a Occidente. Sono le sterminate e invincibili coltivazioni del papavero dei cui derivati si vedono gli effetti sulle panchine dei giardini e nei posti di Pronto Soccorso, dentro le famiglie e nelle celle. Da parte dei coltivatori locali, è innocenza criminale, concorso inconsapevole a un abbrutimento di indifferenti. Loro ci càmpano; a noi la paura.
Obama ha capito che Afgha viene prima del resto, ma credeva di persuadere a un Iran senza finestre di rinunciare ai suoi ossessivi pruriti nucleari di potenza islamica antisraele. Obama, fortunatamente, lo può tacitamente aiutare una Russia non simpatizzante per i Talebanski, dai quali ha già ricevuto una famosa batosta. Tutto poco gradevole da rimestare.
La storia intera, forse, è il Nulla. Ma per noi che ci riteniamo missionari dovunque e, imprudenti ma umani, seguiamo lo yes, we can obamico, il Nulla è ben lontano dalle nostre ferie di massa: per esempio, il Nulla é a Kabul e dintorni, nei passi pakistani, nei nidi qaedisti, nelle supreme sovranità tribali. Là si abita in modi incompresi, si mangia e si prega secondo riti che non amiamo, la vita è troppo dura e la ferocia negli odi è illimitata. Questo si può immaginarlo, ma non avvicina.
Mi domando... se al posto di questo Karzai su cui non arrischio giudizi, ci fosse il molto più simpatico e consistente Massud, uomo di vera guerra, di giusto combattimento, probabilmente anche vera guida per quei popoli, l’Afghanistan diventerebbe forse Qualcosa? Sarebbe, per tutti, meno, molto meno, un Afgha amaro? Un’idea geniale, tempo fa, delle Poste francesi: hanno ricordato il comandante Massud con un francobollo bellissimo.
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 15, 2009, 09:51:22 am » |
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15/10/2009
Libertà di stampa ai depressi GUIDO CERONETTI
Caro Direttore, ... non m’invoglia a trattarne, il problema, che pure è avvertibile e oggetto di contesa, della libertà di stampa e di comunicazione.
Le mie antenne mentali captano molto più estesamente e profondamente le sensibilità della gente che ci legge e ascolta: perciò trovo errata buona parte della materia che contengono i nostri giornali, abbiano minima o potente tiratura. Errata... Intendo fuori centro rispetto a quanto lacera e agguanta l’animo del pubblico, insignificante per i bisogni che tormentano le folle cittadine...
Titoli e approfondimenti indicano preoccupazioni e si sforzano di proporre rimedi a mali secondari, a dubbi che si dichiarano senza persuasione intima agli sconosciuti intervistati.
E quando poi si tratta di sondaggi, quale verità nascosta può uscirne fuori? Azzeccano una risposta vera come una slot-machine il punto di caduta del denaro dalla perfida pancia!
Il lettore-compratore del giornale quotidiano non è una categoria, non è una frangia di provenienti da altrove, e neppure si tratta di famiglie. Il giornale lo comprano individui. E l’individuo oggi è una ferita aperta. Parliamo di questo, se vogliamo servirlo. Su mille che vanno all’edicola, ottocento almeno soffrono di forme varie, e una più micidiale dell’altra, di Depressioni. Mi mescolo anch’io a questa anonima radunata di vittime di un grande male dei due secoli ultimi, XX e XXI - a partire dalla seconda metà del Diciannovesimo. A chi è depresso, angosciato, preso dal panico, non gli servono cifre di economia e neppure denunce di pessime politiche governative o di crimini di mafia: abbiamo o no la mano leggera nel trattarne, per chi è depresso tutto questo è da pattumiera. Bisogna arrivare fin là, heart of Darkness e non sgattigliare, ma colpire il mostro nel cuore.
La Depressione va tolta dalle rubriche mediche o psicologiche di Routine! Va medicata, per quanto si può, a parte. Perché non la collochiamo in prima pagina? Perché non dedicarle una pagina intera di cronaca - confessionale - col titolo beckettiano «Tutti quelli che cadono»? Perché non l’anteponiamo a tutto il resto che il giornale contiene di solito?
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 23, 2009, 10:07:31 am » |
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23/10/2009 - LE IDEE
Se a scuola ci fosse l'ora pagana GUIDO CERONETTI
Aleggerne sulle cronache, non pare che l’ora di islamismodepuratosia prossima sul quadrante della scuola italiana.
La lentezza dell’Italia ufficiale è Oriente, il suo tempo non conosceorario, tra la frenesia informatico- telematica s’intravvede il beduino che guarda le capre, la mula di mastro Don Gesualdo, la guerra di Troia... Basta pensare ai processi civili: passano generazioni... Però neppure l’Islam ha fretta. L’idea di convertire l’Europa cristiana in dissolvimento religioso,dopo lemuradi Vienna e le lance di Poitiers, e il lungo sonno prima di Lawrence e l’apparizione come dal nulla di Israele, èsognoislamico,certamente.
Ma forse nella diaspora delle moschee vecchie e nuove si pensa di arrivarci (Ramadan puntualmente osservato da almeno metà delle famiglie italiane oggi tiepidamente cattoliche) non prima del 2101.
Quel che sarà - sarà.
La prospettiva più vicina impone due verità: a) l’Islam non è assimilabile né modificabile. Quel che è avvenuto nel tremendo dogmatismo cristiano medievale rotto dalla Riforma e inoltre dopo tre secoli di miracolosa filologia critica biblica incessante non ha neppure sfiorato la grande Muraglia coranica, e adesso abbiamo anche il confronto radicale con una guerra santa senza frontiere. b) il moltiplicarsi delle moschee non è segno di integrazione né di estensione della libertà di coscienza (che subordina tutti i dogmi alla legge di ogni vera Repubblica) ma di occupazione, che per noi è politica e data per concessione, per loro si tratta invece di spazi e spazietti urbani assunti dalla fede coranica e sottratti legalmente, in senso religioso illimitato, alla sovranità della maggioranza non mussulmana.
Islam non è buddismo né chiesa evangelica o altro. Islam è Islam. E’ sciocchino chiedergli di essere diverso. All’Opus Dei puoi chiedergli di essere liberale? Bene.Aciascuno il suo.
L’ora scolastica cattolica brucia un tempo dello Stato uguale per tutte le religioni (che in Italia sono, grandi e piccole, circa settecento); l’ora scolastica islamica azzererebbe (o renderebbe relativa) la sovranità statale assoluta su tanti frammentini di territorio pubblico quante sono le aule destinate a ospitarla. Nell’idea coranica di comunità religiosa - se non erro -, la umma, il popolo dei credenti, come ogni asfalto o tappeto di preghiera, a maggior ragione ogni aula dove s’impartiscano a un pezzetto di umma lezioni di Libro Sacro (il Kitàb) diventerebbe dar-al-islam, Casa di Islam (tradotto solitamente terra d’Islam, ma nel fondo rimane sempre il senso primario di casa propria, porzione, porziuncola del popolo credente).
Esaminandola in base al diritto religioso islamico la faccenda potrà, credo, essere chiarita meglio, e suggerisco di consultarlo prima di compiere passi incauti per incantamento dell’inafferrabile fantasma dell’integrazione per tutti e concessa a tutti. Se l’ora fosse, utopisticamente, catto-mussulmana e addirittura maschile-femminile, la lezione di tolleranza sarebbe esemplare; ma dubito che la Chiesa e gli imam, giubilanti, la riceverebbero dal nostro Stato come una grazia.
La bio-diversità religiosa è una realtà umana come tutto ciò che è vivente, e ne va tenuto conto. L’esistenza delle balene (non esclusa Moby Dick) importa ai condominii della Bovisa o di Mirafiori, dei Parioli o di Firenze, ma per applicare alle religioni questa grande e povera verità non si può dare filosoficamente il mondo alle concezioni monoteiste: ci vuole una filosofia naturale, un pensiero dai monoteismi rigettato e perseguitato.
Un’ora scolastica e extrascolare diversa, allora? Di paganesimo puro e rigoroso? Di pitagorismo? Di stoicismo? Con letture virgiliane? Il sesto dell’Eneide come iniziazione ai regni per dove passerà Dante il cristiano? Dante frater templarius, amico di ebrei e di mussulmani, e grande condor in volo al di sopra di tutti?
Sarebbe una bella finestra, da cui potrebbero apparirci, forse, le luci remote dell’Amore infinito.
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:51:28 am » |
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3/11/2009
Terrificanti orienti nucleari GUIDO CERONETTI
TEMA DI CRUCCIO e cruciale (e, purtroppo, anche mondiale; notte senza fine): l’IRAN atomico.
E il rosario di fesserie emesse dai grandi e medi sanzionisti (giustamente, e frivolmente, preoccupati che quei bravi e un poco sanguinari teologi sciiti forzino la porta senza chiave dell’arsenale nucleare), francamente ci annoia, perché tra chi ne ascolta le dichiarazioni - qualche miliardo di persone, forse - di così ingenui da prenderli sul serio è difficile trovarne qualcuno.
Si può anche non sapere in quale Oriente senza luce si collochino Teheran o Qom o i famosi pozzi di petrolio iraniani - ma tutti sappiamo che:
a/quel regime vuole avere la Bomba e non pensa ad altro che a farsene una ghiotta cantina. b/In questo non ha oppositori interni. Tutti, sembra, in Asia la vogliano, la sognino - una vera union sacrée. È stato così in India: tutti beati. Idem in Pakistan - un fierone popolare dell’Esultanza. c/Il regime è certo si tratti di una farsa e fa un fico in faccia a tutte quelle minacce col ditino alzato. Teme soltanto Israele, perché potrebbe muoversi sul serio. (Stupisce non l’abbia, finora, fatto). d/Nessuno dei sanzionisti (in realtà per niente sanzionatori) vuol rompere con quel regime. C’è il petrolio, c’è il commercio, c’è la pace ad ogni costo - ci sono, per non rompere, mille buone ragioni di opportunità immediata. C’è in fondo anche la speranza cieca e accecatrice che quella bomba resterà nei depositi.
C’era una volta anche la speranza che Hitler non avrebbe mai scatenato un guerrone, finito, spaventosamente, dopo cinque anni di Distruttività attiva.
Obama, avendo teso la mano ad Ahmadinejad, pur vedendosela prontamente respingere, si è guadagnato il Nobel per la pace. Congratulazioni. Ma l’Iran nucleare è là, fisso come la stella del Nord, e sogghignando premurosamente, con la mano sul cuore gli Ayatollah promettono che, in quanto a pacifismo, loro sono imbattibili.
Li inquieterebbe, forse, di più il silenzio. Un glaciale silenzio dell’America e degli altri. Del mondo.
E allora? L’impressione è che il rivolo retorico fatto di «attenti che se non ci convincerete che... se non smantellate qua e là certi impianti...», ec. ec. sia destinato a noi per far vedere che i capi potentissimi stanno sulla torre di guardia e ci proteggono dai (per carità, soltanto supposti) cattivi di turno, coi dentini da latte atomici, e la grinta trista dei loquentes mendacium sempre gentilmente disposti a trattare.
Ne diffiderebbe perfino un bambino. Ma i di tutto informati dell’Occidente si accontentano e rimandano alla prossima verifica che nulla è cambiato e che tutto procede nel senso voluto dai cattivelli da zero in condotta.
Terrificante Asia: è impotente a frenare una demografia suicida, ma guarda con perfetta apatia calcolatrice a quei suoi spazi metropolitani irrespirabili - dove una perdita di popolazione in eccesso, tra fungo bianco e pioggia nera, fosse pure la più tremenda, a malapena sarebbe risentita dai capi come una sciagura. Ricordo la celebre intervista di Mao a Edgar Snow: un miliardo di uomini sacrificati «per il trionfo del socialismo», mediante la Bomba, non era per lui un disturbo, mentre sorridente si sventagliava.
L’Asia non segue né l’Europa né l’America nel panico di fronte alla morte. Ignora il nostro male delle vecchiaie protratte oltre i limiti; il pranzo festivo di una famiglia italiana basterebbe a nutrire un villaggio del Bangladesh. La Bomba, tra gli islamici, è un dono misterioso di Dio. Per tutti è il segno di un traguardo raggiunto. Le nostre ragioni, infettate da esclusive paure di rinunce e diminuzioni d’essere, possono, al più, accoglierle ironicamente.
Ormai la Bomba, agli iraniani devoti e bramosi di far sparire da un poco di terra la stella di Davide, gliel’avete lasciata fare. Senza averne l’intenzione, ma con pessima coscienza per motivi d’interesse e di profitto. Fateli venire e poi disertate i famosi Tavoli delle trattative atomiche. Lasciateli soli con le loro immutabili bugie. Sarebbe almeno un gesto.
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 24, 2009, 06:13:04 pm » |
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24/11/2009
Obama un Messia fallibile GUIDO CERONETTI
Siamo più soli quando al vertice di un grande potere - oggi in un mondo mondializzato - si sente mancare la personalità adeguatamente carismatica, il magnetismo che, invece di perdere, salva. Non si può restare sempre chiusi nella meschinità cronica dei fatti propri, quando si è attaccati al pensiero; perciò si guarda a quel che accade fuori della finestra, si soffre, si spera, si sogna. Obama è parso, via via che lo depuravano e lo manifestavano le primarie, l’uomo che doveva venire. Obama era l’uomo da eleggere: l’America era pronta a seguirlo. Obama è stato portato là dov’è ora da un’ondata messianica... Il messianismo è un vizio, se non si crede nell’impossibile si è morti.
Il viaggio in Asia lo ha mostrato, è crudele dirlo, Messia fallibile, fallituro, addirittura Messia that failed, che ha fallito. La sua immagine (lui solo, sullo stretto valico, nell’impassibilità beffarda della Grande Muraglia) non è quella di un vincitore. E’ andato, ha giocato, ha perso. Presunzione o ingenuità punite. Grandi muraglie dappertutto, nessun varco. Gli Stati Uniti non possono perdere, neppure quando il loro ambasciatore abbandona Saigon con la bandiera arrotolata sotto il braccio (una delle immagini del tragico del secolo); possono però non vincere, né aiutare a vincere le buone cause, che è la loro missione predestinata.
Possono tuttavia perdere le vivendi causas, i motivi etici che giustificano e illuminano il nostro, altrimenti, vivere da bruti. La creatività obamiana, divine surprise, ha srotolato la bandiera americana, chiamando a raccolta figli dei fiori e credenti dell’Età dell’Acquario, agricoltori biologici, medici olistici, terrofili oscurati, nonviolenti, batesoniani sfiduciati, eretici cristiani, musulmani nauseati dalle stragi, frequentatori in crescita di pensiero assassinato, riproponendola al mondo lavata in qualche niagara non inquinato, con impressa la leggenda stupefacente di giusto mezzo secolo fa: L’IMMAGINAZIONE AL POTERE.
Pochi passi di questo neopotere conferito addirittura all’Immaginazione (come ne sarebbe stato rallegrato nel suo pessimismo rilucente Cornelius Castoriadis!) ed ecco, dopo cento e più giorni, la testa mozza dell’Immaginazione spenzolante dalla Grande Muraglia, surrogata sollecitamente da quella della politica realistica, del soccorso agli affamati di libertà illusorio, della resa completa decorata di fiorellini di plastica da tumulo davanti alla grata conventuale spietata, implacabile, sprezzante, dei geronti totalitari cinesi.
Ahimè, Robespierre non sbagliava: «La Virtù, senza il Terrore, è impotente» (una spada a due tagli, stiamo attenti con quel che è troppo geometrico). Sempre verde anche la massima di La Fontaine: «Bisogna fare ai malvagi guerra continua». La forza non diventerà mai diritto, ammoniva Manzoni, però un diritto sventolato senza, a sostenerlo, la forza (fosse pure una dirompente forza spirituale sfondatutto, dinamite nicciana orientata bene) finisce sotto i piedi di chi i diritti ignobilmente li schiaccia.
La grande America non è uscita alla pari dal Vertice di Pechino: ci abbiamo visto specchiata, attraverso la nuvolaglia di smog perpetuo, un’America senza immaginazione, trafitta dalle sue stesse banche, tenagliata dal debito con l’impero cinese - ci abbiamo letto lo smarrimento di un Messia that failed, che si piega ai compromessi, che non è libero neppure di abbracciare l’intrepido messaggero del Tibet in sempiterno vagabondaggio d’esilio, e abbiamo ascoltato ancora una volta la forbita oratoria di un distinto signore seduto su un impressionante arsenale nucleare, che col diploma incongruo di Premio Nobel per la Pace appeso al chiodo non sa fare né la pace né la guerra, si rimette in fretta a scuola di realismo pratico, rinuncia a combattere la urgentissima crociata ambientalista, concede che il Dollaro venga sodomizzato senza fine dall’Euro (che per parte sua è in fatto di potere d’acquisto sempre più povero), non sa neppure chiudere quella galera cubana che non riusciamo più a digerire. Da due mesi esita a prendere una decisione strategica sulla guerra afghana. Se John Kennedy avesse esitato così nella tremenda crisi cubana del 1962, l’Urss avrebbe fatto dell’isola una murata Città d’Acciaio alla Jules Verne, segnale di morte per le tre Americhe.
Caro Barack, perché tanta fretta di togliere dal tuo arredo la vernice messianica, e scoprire la calce nuda della inevitabile Fregatura? Non potevi lasciarci ancora una fessura aperta sul sogno? Viene in mente un famoso titolo di romanzo del Trenta, lo scrittore era Hans Fallada: E adesso, pover’uomo?
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 21, 2009, 09:57:03 pm » |
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21/12/2009
L'estinzione del pensiero GUIDO CERONETTI
Da un fisico, Luigi Sertorio, viene - anche su questa superflua e nodale parata ecologica di Copenaghen - una luce. Se trovi un pensiero che vale férmati, ricordati che non sei un bruto!
Il libretto di Sertorio da cercare e da meditare, se si abbia qualche inclinazione a riflettere, s’intitola La Natura e le macchine, l’editore (SEB 27) non è certo tra i noti. L’autore è torinese e ha anche insegnato a Torino.
Ne stralcio qualche punto luminoso: «Da bambino, la notte, Torino era buia e guardavo dalla finestra le stelle e le Alpi lontane.
Ora dalla casa in collina guardo laggiù Torino tutta illuminata di lampadine, ci saranno molti megawatt di fotoni spediti nel cosmo, e non mi danno nessun senso di benessere». Quanto a me, mi domando a quale ingordo Moloch sacrifichino le città tanti inferociti megawatt e tanti torrenti di denaro per inondare di accecanti illuminazioni artificiali un flusso ormai quasi ininterrotto di partite notturne! Attenzione, quello spreco insensato di energia, non cessa di far male col fischio finale dell’arbitro: va a nutrire un oscuro cannibale che un giorno, ad un segnale, sgranocchierà i vostri figli. Come il minotauro di Creta e il lupo di Perrault - evocabili con profitto anche in un dopocena danese decembrino.
Il libretto è tutto aureo. Nella prefazione, Nanni Salio ricorda la profezia gandhiana: che se l’India (che allora contava trecento milioni: oggi, col Pakistan, tocca il miliardo e mezzo) si fosse industrializzata al modo dell’Occidente «avrebbe denudato il mondo come le locuste».
Conclude Sertorio (per forza ne limito le citazioni): «Ciò che scarseggia non è l’energia ma il pensiero, la futura vittima non è la Terra, ma è la mente umana, il consumo produce denaro, ma genera povertà (aggiungo: mentale) nelle nazioni». Sottolineo: la mente umana, con lacrime e rabbia. Nient’altro che pensiero atrofico o non-pensiero leggi nelle ceneri anche di questa eco-adunata mondiale. Ripiglio dall’India, tritagonista di questa scena tragica smisurata, insieme a Cina e America (le Americhe, bisogna dire: un unico personaggio policefalo). Ma la Russia, l’Europa, l’Iran, dove li metti? Tuttavia la demografia miliardaria è la più incosciente nel delirio industrialista, e ha uno specifico accecamento arrivistico - mostruosità psicologica che su scala di impero demografico (raggiungere-imitare-superare in potere-che-dà-potenza) oggi non culmina in traguardi stolti, ma in miserabile, scellerata distruttività del vivente, vicino e lontano, presente e futuro. La via dello Sviluppo è la via della morte.
Paradosso dei paradossi: la sovrapopolazione planetaria, che affligge gli enormi spazi del sud-est asiatico, Cina e India in testa, e anche gli Stati Uniti - le regioni più responsabili dell’Inquinamento - e che altresì affligge l’Africa e Gaza e il Cairo... neppure stavolta la si è vista nell’agenda dei lavori!! Magicamente rimossa...
Misteriosamente tenuta fuori... Perché manca il gradimento del Papa? Dei paesi islamici? Per paura dell’Insolubile? Ma se non osiamo confessare la nostra impotenza, allora perché stendere relazioni e fingere di avere a cuore un problema di essere o non essere, di vita e di morte? Perché incontrarsi e tenere discorsi su soluzioni possibili la cui caratteristica essenziale è l’impossibilità a coagularsi in una catena antincendio di severe e punibili concordanze?
Non ci sono percentuali in meno o in più che valgano. Esiste soltanto il convergere di tutte le strade verso la distruttività crescente, nella folle idea fissa del tempo lineare e della sua conseguente Crescita illimitata, col suo sterminio di risorse per contrastare le grandi povertà che vengono, le catastrofi finali che nessuna filosofia politica è in grado di fermare.
Perché la storia umana è iscritta in un ciclo sansarico, è parte di una ruota che la fa, nella luce e nell’ombra, ora essere ora non essere; perché nel Divenire in perpetuo qualsiasi vivere perde il suo stesso nome.
Come misura di Ragione Pratica puoi fare la raccolta differenziata e l’orticello biologico in Piazza Navona o alla Casa Bianca: una condotta etica è bene per chi la tenga - ma non commuoverà mai la maschera di pietra di quel che è predestinato, di quel che è, da sempre e per sempre, Destino.
E anche il Destino abbiamo visto tenuto fuori, malvisto cane sciolto, da questa conferenza di percentuali tristi e di egoismi irriducibili. Il clima out of joint può aiutare, per quanto cosa ahi molto dura, a capire. Può essere una freccia per andare, a occhi aperti almeno, incontro allo sguardo della testa inguardabile di Medusa.
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 03, 2010, 04:25:44 pm » |
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3/1/2010 (8:4) - RETROSCENA
2010: ci salveranno Cechov e Tolstoj
Lo scrittore e drammaturgo russo Lev Nikolaeviè Tolstoj L'anno che si apre è sotto il segno dei due grandi consolatori del genere umano
GUIDO CERONETTI
Per il Duemiladieci, due date fauste. Per la vita e la strenua, da tenere per le gavigne, sopravvivenza del pensiero, introduciamoci nel ricordo di due formidabili consolatori del genere umano. La prima data, poco dopo il giro d’anno: centocinquantanni dalla nascita, il 17 gennaio 1860, di Anton Pavlovic Cechov; la seconda, cento anni dalla morte di Lev Nicolaevic Tolstoj, il 7 novembre 1910. Gloria a loro, figli della più fraterna Russie éternelle, e non perdiamo la mirabile occasione per riviverne qualcosa. Ripercorrerne la traiettoria di cometa, e nella bisettrice stregata del loro mondo interiore pensare che è a spiriti di questa apertura e forza che dobbiamo le rare tregue di riscatto dalla miseria e dal male fondamentale dell’esistenza, i rari istanti in cui ci imbattiamo come per caso grazie a una indicibile serata a teatro, alla lettura di un romanzo o di un libro di memorie.
Non per nulla raggiava sull’epoca la luce soffusa dei lampioni a gas della filosofia di Arthur Schopenhauer, che avvolse di penombra refrattaria a ogni violenza entrambi: e Schopenhauer è paralume di metafisica dolente, è tenda di rifugio di tutta l’Arte, di tutti gli artisti, degli strateghi del teatro, dei Napoleoni ad Austerlitz scoronati e battuti alla Beresina, dei saltimbanchi tristi ed eroici, dei bodhisattvas sparsi e falliti, vittime della propria generosità e compassione, dei registi del Teatro d’Arte di Mosca, dei pittori alla Böcklin e alla Roerich, dei musici che compongono le note di lutto per l’Infanta o del Pomeriggio di un fauno - e dei Cézanne, dei Zola...
Ogni messinscena cechoviana richiede di ripercorrerlo, dramma per dramma, tutto. Cechov è un bodhisattva sofferente, in incognito, che ha il successo del penare per tutti, e col suo soffio lascia dietro di sé uno stuolo di presenze e di vibrazioni nirvaniche, mentre il suo realismo, il suo aderire ai luoghi, al tempo, al vivente, all’istante transitivo, sono tributi di mera apparenza. Gli va ridato il segreto che fu suo proprio: portare in scena l’invisibile, il legame silenzioso, come di slitta sulla neve, col trascendente. Bisogna iscrivere tra i suoi personaggi anche la corda che si spezza e i colpi di scure che abbattono i ciliegi che compaiono solitari alla fine del Giardino, i singhiozzi di Maša Prozorova e il «Riposeremo, zio Vanja, riposeremo» di Sonja Aleksandrovna, il «qualcuno che sembra pianga» nel teatrino vuoto in giardino nel Gabbiano, gli accenni di balalàika - la presenza in scena di tutto quel che ne è, didascalicamente, tenuto fuori. Si possono vedere i sei drammi principali di Cechov come l’unità profonda di una esalogìa - un unico dramma in tristitia hilarus, pendolo mobile sui crateri della condizione umana. Le prossime regìe russe ed europee, invece di tendere principalmente a violentare il testo, potrebbero, chissà, tener conto di questo: l’unità musicale di tutta l’esalogia cechoviana.
Lo schopenaurismo tolstoiano è ben rappresentato, biograficamente, dalle sue fughe mentali di vecchiaia, di sempre, fino all’ultima, la finalmente compiuta, allorché il treno lo lascerà, libero di morire, alla stazione di Ostàpovo. Schopenhauer non addita nessun futuro - Tolstoj neppure. Vuole fuggire soltanto: dal desiderio, dagli attaccamenti, dalla famiglia, dalla fama, con le irresolutezze tipiche del suo segno astrologico (Vergine, 28 agosto), da tutte le sofferenze implicite nell’illusionismo della Volontà. (Sarà, immagino sfarzosamente, celebrato nel 2010: ma non sia preso Tolstoj come palina con freccia verso il futuro).
Imbarcare sia l’uno che l’altro sulla nave del 2010 può fare rinsavire - ahimè di poco - l’odierno baccanale di impazziti e di oscurati. Non sono assumibili nella sfera globalizzatrice-crescitista-ripresista dove ci vogliono incatenare, felice, come sulle galere del re cattolico. Sono dei renitenti a questa leva di morti che camminano. Sono sorrisi della bellezza e della compassione sorti a medicare le ferite dell’umanità e della terra. Schopenhauer insegna la falsità di ogni esistere e di ogni consistere reale: e per solo scampo da questa voragine, che come il sole non può essere guardata direttamente in faccia, ci confida le arti magistrali del Teatro, e gli urti immani delle grandi armate di Guerra e Pace, la passione di Anna Karenina, il canto dei deportati di Resurrezione.
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:07:55 pm » |
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23/1/2010
Crisi, un'oscena ossessione GUIDO CERONETTI
Eh, sì; c’è qualcosa di osceno (nel duplice senso di vergognoso-malauguroso) ingenerato per sazietà e disgusto da certe parole. Pensate a patria, tra 1914 e 1945. Nobilissima ai tempi del Foscolo, al termine della parabola non si poteva che vomitarla. Oggi è tornata nuova, ed è ricacciata indietro. Ma fino a quando durerà l’oscenità universale di crisi nel riferimento economico? (Se si trattasse di «crisi del gatto» non ci sarebbe niente di male). Quanto a «emergenza» siamo bene avviati a doverla trattare con fazzoletti igienici. Pronte, mature per il vomito - sia per la ripetizione meccanica che per il loro contenuto ideologico, vero Aids mentale - ci sono adesso ripresa, uscita dalla crisi, crescita, tornare a crescere, riprendere slancio, tornare a produrre, a consumare, a fare impresa, a essere competitivi, allo sviluppo (nazional-globale), a investire capitale - tutto secondo ragionamenti a senso unico, da nevrosi ossessiva, da incapacità cronica a vedere, ad immaginare altro.
E innanzitutto a concepire il meno, dato che il sempre di più semina danni irreparabili e svuota d’ideale la vita. Una speciale oscenità nel predicare crescita è nell’inerzia della ripetizione: perchè la verità che guarisce è impronunciabile e non risiede in una pioggia da slot machine. Famiglie pie chiedono di censurare a scuola il diario di Anna Frank nei punti dove fa l’arcana scoperta del suo corpicino di adolescente reclusa; ma una coppia ben più scandalosa, e calata in tutte le sfrenatezze, Sviluppo e Ripresa (che da sempre lo segue) si esibisce sfacciatamente davanti a tutte le folle del mondo, mandandole in estasi, tra le Autorità (i Poteri) plaudenti, purché non smettano mai. Mestiere duro mettersi di traverso, e negare con forza quel che è imposto a tutti di affermare e di credere come l’unica verità possibile, guadagnandoci le ritorsioni di sprezzo e di oscuramento da parte dell’irrefrenabile uniformità totalizzante. Non siamo in pochi su questo fronte; però possiamo pochissimo. Il margine di libertà è strettissimo: il dogma unico vigila dal panottico perché nessuno evada.
Ricordo quel che disse una volta, in una esemplificazione per dissuadere dal marxismo dilagante in Italia nel postguerra, il cardinal Siri: «Volete che sia per voi il vostro soprabito, o essere voi per il vostro soprabito?». E’ la gran questione evangelica: il Sabato in vista dell’uomo o l’uomo in vista del Sabato? Ma altro che marxisti al servizio del soprabito! Il dogma assoluto, senza smagliature, inesorabile, che fonda e sostiene questo smisurato mostro di Economia, che fin dall’alba dei telai meccanici tacitamente ambiva ad essere globale, ha trionfato di tutti i traguardi, sbaragliato tutte le renitenze. L’uomo è, dappertutto, per il Sabato della vacanza, per il Soprabito del Consumo Illimitato, della Medicina (e il virus è in vista del Vaccino, fatto per la vendita, non per necessità), e il tumore è per la chemio, la sterilità per la provetta, l’organo umano per il Trapianto. L’Università promuove conoscenza in vista della Produzione, che seleziona i suoi laureati per i propri fini. I soldi che hai guadagnato sono per la Banca, che li impiegherà domani per appesantire lo smog di Pechino o di New Delhi, e per trapiantare dopodomani in Moldavia una fabbrica lombarda, che viene chiusa dove dà lavoro per dare cattiva salute a un popolo già malsano. La vera uscita dalla crisi (del lume di ragione) comincia dalla sfiducia nel futuro. Da un esteso far riposare la mente sconvolta. Un segno autentico, invece, di ripresa della ragione, è la sfiducia nel futuro. Si potrebbero distinguere i saggi iniziati della resipiscenza mediante stole bianche templarie.
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 09, 2010, 09:33:50 am » |
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9/2/2010
Sotto il burqa niente GUIDO CERONETTI
Non so a che punto sia la faccenda, ma se la Francia lasciasse passare il burqa non sarebbe un atto di tolleranza, ma di resa e rinnegamento dei principii. Tollerare l’intolleranza fa vacillare le istituzioni repubblicane. Portare burqa è come mostrarsi in giro con manette ai polsi e un bavaglio sulla bocca.
-Ma io lo porto volontariamente! nessuno in famiglia me lo impone.
Sono io a volerlo. Perfino Chiesa cattolica è d’accordo, vescovi, professori... E’ atto di libertà individuale: lasciami girare in burqa!-
No. Io, legge repubblicana, nego. La legge vuole che tu la faccia la porti scoperta. Ma non basta: la legge che alla fine del XVIII sfondava le porte dei conventi di clausura e diceva alle monachine implacabilmente costrette nelle Regole delle fondatrici: «Uscite, e invece di ali angeliche indossate il paracadute della Nazione» sebbene nata nel profilo sinistro della ghigliottina, sventola ancora, e nei suoi tre oggi incruenti colori ammonitori veglia a salvaguardia del diritto delle donne di disporre di se stesse e ordina - necessariamente cogente - che il loro corpo sia libero di esporsi agli sguardi nei limiti da tutti accettati del pudore e della decenza. Se è proprio volere tuo puoi ingabbiarti nel burqa tra le mura di casa, ma in qualsiasi luogo pubblico la legge ugualitaria ti obbliga a deporlo.
O legge repubblicana che libera e scopre, o burqa che copre e opprime, burqa figura di antropologia antiuomo. Vero in eterno il pensiero dell’Arthashastra indiano (III sec. a. C.), il classico sanscrito di economia: «Senza il danda, i forti arrostirebbero i deboli come pesciolini infilzati» - dove danda vale esplicitamente castigo perché senza castigo la legge svanisce. Il dono immenso che le due rivoluzioni del XVIII ci hanno portato è una legislazione che in buona parte del pianeta, con moto di risacca ai confini, contrasta senza ambiguità l’opposta libertà familiare, tribale, settaria, religiosa, etnocentrica, sadistica generalmente, di comprimere, tarpare, occultare, schiacciare, controllare, spiare interiormente il singolo essere umano in tutto il suo arco di vita, spesso arrogandosi un potere infame di condannarlo a morte. Mettiamo il secolo XVIII al Pantheon, scrisse Saint-Just.
Dove a un malfermo diritto laico si contrappone la legge ugualmente valida della sha’arìa, tutti sono esposti all’arbitrio teocratico, e c’è burqa occludente per tutti. La legge autenticamente laica (quella che ci rimprovera il Papa) è là per sbarrare il passo a chi alla sua apatìa ateologica serenatrice sostituisce il tumulto teologico, la violenza di un principio avverso che perseguiti la libertà di peccare e di propagare eresia. Israele non esisterebbe come Stato moderno, vivibile in un mare di nazioni in cui prevale violenza teocratica, se si fosse data una legislazione di tipo deuteronomico-talmudico, da ghetto preilluministico, invece di prendere il diritto dall’Europa occidentale e dalla costituzione americana.
Ateologia giuridica non è ateismo, certamente. La legge repubblicana (preferisco dirla a questo modo anziché laica, che si presta ad equivoci) non è ideologica né totalitaria: il suo albero di Giona protegge l’ateo e il neo pagano insieme al Giusto che non pone confini a Dio, il suo occhio veglia sulla moschea come sull’intangibilità di San Petronio, sulle riunioni di filosofi nel nome di Giordano Bruno come su ermetisti, rosicruciani, pentecostali, e perfino satanisti: gli concede di adorare il celebre Caprone a patto di non far male a una mosca, di non spiaccicare un ragnetto, di non sfiorare con una mala intenzione la fronte di un bambino...
La legge repubblicana non è indifferente. Si prende cura. Cancella dalle strade il burqa perché offensivo della verità umana, perché manifesta un controllo sadistico di altro sulla vita. Kemal l’Atatùrk non era un tenerino ma fu un redentore della Turchia, per aver imposto militarmente una legge repubblicana neogiacobina, liberatrice dalla legge islamica e dalle tonache dei preti, e sollevando le donne dalla tristezza luttuosa di ogni variante di velo. Adesso in Turchia c’è un regime che scende a compromessi con gli islamisti: e questo rischia di perderla, e di impedirne l’entrata in Europa.
(Ma poi, in fondo, non è «la stessa illusione mondo e mente» come canta un bel verso di Ungaretti?).
da lastampa.it
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